Violenza
Una discussione ancora aperta. Una risposta “à plusieurs”
p. 273-299
Résumés
Il presente lavoro si presenta come sintesi della sezione dell’opera dedicata al tema della violenza. Il nostro testo inizia con una riflessione storiografica sul tema della violenza – e non solo nel Medioevo – ma più in generale sotto il profilo storico, sociologico, psicologico e filosofico – per giungere a un sunto sulle principali direttive che – nell’ambito della medievistica – sono state sviluppate recentemente. Trattata come soggetto di studio in sé, il tema della violenza può essere declinato in diversi modi all’interno di ricerche che promuovano lo studio delle società medievali. Quello che ci proponiamo in questa sede è l’inquadramento della violenza dal punto di vista delle scritture giudiziarie. In modo particolare la sua elaborazione in sede giudiziaria dai detentori dell’auctoritas preoccupati del suo trattamento come fatto giudiziario. Al fine di sviluppare il nostro tema abbiamo scelto come nucleo documentario l’insieme degli atti giudiziari di natura inquisitoria che s’incontrano negli archivi di Creta veneziana. Il nostro intento è quindi quello di portare nuova luce su un territorio poco conosciuto, e di mostrare le vie attraverso le quali la violenza fu recepita e corretta alla fine del Trecento in uno spazio sociopolitico aperto a diverse tradizioni politiche.
This article is focusing on the concept of violence. We start introducing our subject form the point of view of sociology, history, psychology and philosophy in order to develop some considerations about the problem of violence in a long perspective. Then, our contribution focuses around historiography and finally around the history of justice and its social relations in the fourteenth century Venetian colony of Crete. In particular, the aim is to focus on the differences between the practical behavior of justice and the expectations of the people involved in the judicial trials. Taking as a starting point my researches about the politics of justice in Venetian Crete – with particular attention to the situation in Candia, the island’ s capital city – I would like to explore the themes of the civil trial and particularly the cases of debt with all its judicial and social implications, such as the construction of the political identity and the articulation of the institutional structures in Venetian Crete.
Entrées d’index
Keywords : Violence, Justice, Venice, Venetian Crete, history mediterranean, post-byzantine studies, libri malleficiorum
Parole chiave : Violenza, giustizia, Venezia, Creta veneziana, Mediterraneo, studi pos-bizantini, libri malleficiorum
Texte intégral
Nota introduttiva
1Nella logica del presente lavoro, ci è stato assegnato il compito di presentare una sintesi sul tema della violenza. Si tratta di un soggetto che – per noi medievisti – sebbene non sia nuovo, si è imposto all’attenzione in modo critico solo in tempi relativamente recenti. Sarebbe tuttavia un’ambizione troppo grande cercare di riassumere un tema così vasto e profondo senza scegliere un aspetto principale che ne possa guidare un percorso. Pertanto, il tema che abbiamo scelto è strettamente legato alle nostre ricerche in materia giudiziaria. Scelta peraltro obbligata, in quanto il nostro incontro ha un oggetto ben specifico, cioè i Libri Malleficiorum e gli atti dei processi civili – ma soprattutto criminali – prodotti dalle curie dei comuni italiani, dei regni transalpini e dagli Stati territoriali tra il XIII e il XIV secolo.
2Il problema, da un punto di vista giuridico, è lungi dall’aver trovato una soluzione ancora oggi. Il nostro lavoro – non potendo ripercorrere la grande messe di studi sulla violenza condotti dagli alto medievisti e dai modernisti –, seguirà un cammino storiografico incentrato sui secoli finali del Medioevo (secoli XIII-XV). In modo più specifico, cercheremo di concentrarci sui nessi tra diritto e amministrazione della giustizia, mettendo in rilievo come la violenza sia stata interpretata e quali aspettative lo storico medievista può oggi aspettarsi partendo, nella propria ricerca sulla violenza, dall’analisi dei Libri Malleficiorum.
3Il nostro contributo si articolerà in tre sezioni: la prima inquadrerà il fenomeno della violenza come oggetto di studio in sé, riassumendo alcune posizioni propedeutiche a ogni indagine euristica sul concetto di violenza. Successivamente vedremo come tali questioni si siano declinate negli studi principali dedicati alla violenza e alla sua repressione in ambito penale. Infine ripercorreremo alcune delle nostre ricerche più recenti sulla realtà di Creta veneziana e con uno sguardo verso Bisanzio, ossia quel Medioevo greco che Évelyne Patlagean ha definito, con molto acume, «L’Altro del Medioevo occidentale».1
4Nel solco di quanto esposto nella cornice del nostro convegno da Massimo Vallerani – che invita a non trascurare lo studio della procedura, vero veicolo d’informazioni sulle posizioni degli attori sociali in tribunale –2 cercherò di mostrare come il dato emozionale rappresenti, in realtà, un punto di semi-impossibilità nella ricostruzione degli aspetti violenti testimoniati dai Libri Malleficiorum. Definisco semi-impossibile la facoltà di estrapolare dalle fonti giudiziarie la traccia di reale depositata nella memoria storica. Se poi passiamo a considerare la memoria degli attori storici coinvolti, è impossibile arrivare a cogliere il dato emozionale. Nei Libri Malleficiorum si può davvero parlare solo di traccia per indicare fenomeni ascrivibili alle motivazioni di un atto violento. Questo non toglie che in alcuni casi, e proprio paradossalmente grazie alla struttura stessa della procedura, si possa ricostruire il fatto alla base di un agire. Ogni elemento emozionale era filtrato dalla griglia interpretativa imposta dal discorso politico che orientava le scritture processuali e assai sovente, come scrive Jacques Chiffoleau nel suo contributo sulla violenza quotidiana, si ha l’impressione che «i violenti e i violentati, le vittime e gli aggressori siano interscambiabili».3 Soprattutto nei casi di processi che potremmo definire ordinari4, i problemi alla base dei conflitti erano gelosia, concorrenza, promiscuità e vicinato. Questo si riesce a ricostruire; il dato emozionale dietro il lessico che lo denota resta invece allo stato di traccia e tale occorre lasciarlo. Con questo non vogliamo negare la possibilità di ricostituire il quadro relativo alla violenza e ai soggetti che questa violenza subivano o compivano; tuttavia, occorre tenere presente la procedura, altrimenti il discorso perde ogni riferimento alla realtà storica di cui vuole rendere testimonianza.
5Sebbene farò un rapido riferimento ad alcuni elementi desunti da contributi che possono provenire da alcune discipline ausiliarie (quali ad esempio sociologia, psicoanalisi e filosofia, per limitarci ai contributi che hanno guidato il nostro percorso teorico), e che sono spesso invocate dagli storici delle emozioni per l’epoca premoderna, l’oggetto principale dell’intervento resta la violenza così come appare presentata nei Libri Malleficiorum. Vedremo quindi quali lessici vi si riferiscano, a quali criteri e fattispecie giuridiche essi possano essere ricondotti, e in che modo il diritto avesse guardato all’eventuale codifica nei testi normativi di elementi che rinviano al concetto di violenza.
6La risposta “à plusieurs” del nostro titolo intende proporre un modo di guardare alle fonti che sia plurale, che non esiti a cogliere – nei lessici giudiziari – delle sfumature di senso, degli effetti di significazione, senza perdere la bussola dei dati procedurali che strutturano i registri stessi e che soprattutto orientavano, all’epoca, le pratiche e le politiche giudiziarie.
7In un lavoro come quello che proponiamo, tuttavia, non è affatto scontato o banale riprendere una domanda fondamentale: cosa intendiamo con violenza quando parliamo di storia medievale? Per articolare la risposta – che resta e che deve rimanere una risposta aperta – occorre soffermarci brevemente sull’importanza euristica del concetto stesso di violenza.
Interrogarsi sulla violenza
8Non solo a causa delle recenti stragi, ma a più livelli, la società contemporanea si trova a interrogarsi circa la violenza e la sua ricaduta a livello sociale, la quale ingenera e attraversa in modo trasversale l’intera società. Il problema dell’esclusione, dell’essere stranieri di fronte a un potere a sua volta percepito come un’alterità, la questione dell’identità e dell’appartenenza religiosa o l’intolleranza hanno radici profonde nella storia e nella cultura occidentale5. Se il disagio della civiltà – sia esso riferito a ogni singolo individuo o a una collettività – dimostra l’impossibilità nell’estirpare il conflitto, è parimenti necessaria un’azione sociale che si ponga l’obiettivo di contenere le forme di violenza all’interno di un quadro di ricomposizione e rispetto delle diversità o delle alterità radicali con cui gli individui convivono o con cui sono invitati a misurarsi.
9Oggigiorno, di fronte all’estendersi dei conflitti, la domanda che viene posta sovente allo storico concerne l’esistenza nel passato di forme alternative di gestione della conflittualità violenta. Il risultato delle analisi condotte ha mostrato che esistevano certamente dei sistemi di risoluzione del conflitto, ma che la violenza appartenga alla natura umana – lo scrittore israeliano Amos Oz parla di “gene perverso” impossibile da sradicare6 –, e lo sia strutturalmente. Per citare il titolo di un volume molto importante apparso recentemente – e che ha coinvolto diversi filosofi, giuristi, avvocati e psicoanalisti di Milano – si può affermare che “col crimine nasce l’uomo”7.
10Il dibattito e tale interpretazione sono eredi della filosofia antica (platonica, aristotelica e scettica principalmente), nonché del pensiero illuminista e ottocentesco (Kant e Hegel su tutti). Su tali aspetti, per evidenti questioni di spazio, non ci soffermeremo a lungo. Ci limiteremo però a indicare alcuni passaggi – a nostro modo di vedere fondamentali – i quali riflettono sul rapporto tra male, responsabilità e animo umano e su come solo la giustizia – in quanto attributo specifico delle società umane – possa porvi rimedio. Ingiustizia e violenza appaiono come una coppia pressoché indissolubile. Nella Repubblica, Platone afferma che «nessuno è giusto di propria volontà, ma solo per forza, non perché ritenga la giustizia vantaggiosa di per sé: infatti ognuno, quando ritiene di poter commettere ingiustizia, la commette».8 Aristotele, nell’Etica Nicomachea, corregge Platone e prende una posizione che mette invece in primo piano la responsabilità degli individui nell’azione violenta:
11Il dire che nessuno è volontariamente malvagio, né involontariamente felice sembra essere in parte falso e in parte vero: infatti nessuno è infelice involontariamente, ma la malvagità è volontaria […] Ma le azioni e le disposizioni non sono volontarie allo stesso modo: infatti, siamo padroni delle azioni dal principio alla fine, in quanto ne conosciamo le singole circostanze; delle disposizioni invece siamo padroni solo dell’inizio in quanto non ci è noto il loro graduale accrescimento, come nel caso delle malattie. Ma poiché dipende da noi farne questo o quest’altro uso, per questa ragione sono volontarie.9
12Come permette di cogliere bene il filosofo e storico della filosofia Mario Vegetti, l’aver concentrato le passioni nel campo semantico neutro dell’orexis – cioè le tendenze non razionali – «consente ad Aristotele di porre le premesse psicologiche per la rappresentazione di un io pacificato, riconciliato, che non ignora i protagonisti della conflittualità platonica ma ne depotenzia la turbolenza, l’opposizione al comando razionale».10 Il pensiero filosofico antico aveva quindi ben chiaro il rapporto tra gesto violento e psicologia individuale sebbene il discrimine apparisse nella scelta dell’uomo di soggiacere alla natura più o meno ferina che lo contraddistingue o prendere posizione attraverso un atto. Nel corso dei secoli, molto è stato studiato, scritto e riflettuto a riguardo e non è possibile in questa sede soffermarsi sul concetto di natura e in modo particolare di natura umana. Ciononostante, ci sembra importante porre all’attenzione del lettore che il nodo tra natura e scelta sia fondamentale in qualsiasi studio voglia accostarsi al tema della violenza.
13Il Novecento segna una svolta. Secondo Max Weber ed Emile Durkheim la violenza è l’espressione di un potere coercitivo, forte e debole al tempo stesso.11 Nel 1929, Sigmund Freud sostiene che la violenza è il motore trasformativo della civiltà che si appropria del monopolio della violenza allo scopo di «prevenire i peggiori eccessi della forza bruta conferendo a se stessa il diritto di impiegare la violenza contro i criminali, ma la legge non può mettere le mani sulle manifestazioni più discrete e sottili dell’aggressività umana.»12 Per il filosofo Slavoj ŽiŽek, la violenza è sistematicamente necessaria al funzionamento dell’economia e della politica globalizzante; costringe alla perdita di riflessività, alimentando le emozioni più irrazionali.13
14Un’osservazione dello psicoanalista Jacques Lacan è particolarmente utile al medievista impegnato nello studio delle fonti giudiziarie. Egli, parlando dell’atto di punizione della violenza da parte della pubblica autorità, afferma come quest’atto sia «sottoposto a un giudizio fondato in astratto su dei criteri formali nei quali si riflette la struttura del potere istituito» e che «sia l’etnografia sia la storia ci dimostrano che le categorie del crimine sono del tutto relative ai costumi alle leggi esistenti […] e che [per la psicoanalisi] la determinazione maggiore del crimine è precisamente la concezione della responsabilità che il soggetto riceve dalla cultura in cui vive»14.
15Il rilievo di questa citazione di Lacan per il medievista assume tutta la sua portata se ricondotta alla dimensione del fatto giudiziario (così come appare definito dalle scritture degli atti) e delle sue corrispondenze con quanto realmente avvenuto.
16La violenza si presenta quindi come prodotto della società, ma in quanto trova il proprio nucleo d’origine all’interno dell’uomo stesso. Da qui, è importante ai nostri scopi ricordare come il discorso sulla violenza abbia condotto ad affrontare il tema dell’autorità e dell’obbedienza; questioni fondamentali per il medievista impegnato nella ricostruzione dell’amministrazione giudiziaria. Per Hannah Arendt, se l’autorità richiede l’obbedienza, questa si specifica nell’escludere l’uso di modalità coercitive esteriori, pur non servendosi di persuasione mediante argomenti. Secondo Alfredo Zenoni – che ne ripercorre il pensiero in un saggio importante – «non bisogna confondere l’auctoritas con la potestas».15 Qui il ruolo del medievista è fondamentale: la potestas è un concetto che mette in gioco l’auctoritas inglobandola in un discorso di legittimità politica e di manifestazioni del potere.
17A questo punto è nostra intenzione affermare che il problema sembri connettersi con quanto è emerso nel dibattito medievistico degli ultimi anni sul tema foucaultiano della governamentalità, che assomma in sé i concetti di sovranità e governo degli uomini. Essa – nella brillante lettura che dà Jacques Dalarun nel suo Gouverner c’est servir – «starebbe allo Stato, così come le tecniche e le discipline stanno al sistema penale».16 Eccoci dunque tronati alla questione dell’intreccio tra sovranità, obbedienza e tecniche di potere. Queste tecniche riconducono il nostro discorso al pensiero del sociologo Pierre Bourdieu, il quale sottolinea come esse poggino su un atto di fondazione nel quale l’istituzione politica trova la sua legittimazione giuridica e la sua identità. Secondo Bourdieu, «istituire significa sanzionare uno stato di cose […] fondare un ordine che diventa conseguentemente una costituzione nel senso giuridico del termine».17 In questo quadro variabile, la violenza fa sempre capolino quale elemento strutturante i sistemi di governo e il concetto stesso di giurisdizione.
18In ambito prettamente medievistico, l’importante lavoro consacrato da Jacques Chiffoleau ai nessi tra segreto, ordine giuridico e obbedienza, e il volume Tecniche di potere nel basso medioevo, curato da Massimo Vallerani, sono – a nostro avviso – tra gli studi che meglio riescono a connettere il tema dell’uso della violenza legittima nella trama della legittimazione dei poteri pubblici, contribuendo a misurare l’ampiezza e il significato del concetto di autorità nel basso Medioevo, così come appare dalle analisi condotte sulla documentazione giuridica e giudiziaria.
19Per finire con questa prima parte del nostro intervento, al fine d’inquadrare tali fenomeni nel loro contesto e trarne utili strumenti di analisi, ci sembra ancora indispensabile raccogliere il suggerimento di Michel Foucault che, in Sorvegliare e punire, invitava a porre la questione della violenza e della sua punizione in un «campo di funzionamento dove la sanzione dei crimini non (sia) l’unico elemento»18.
Cenni storiografici
20Dopo aver passato in rassegna queste nozioni, torniamo alla domanda di partenza. Cosa intendiamo per violenza nel Medioevo? Se oggi la violenza è intesa come un gesto aggressivo che colpisce il simile a livelli diversi, nel privato come nel pubblico, nel Medioevo – quando la violenza era endemica19 – il fenomeno si presentava assai più complesso di quanto possa apparire a una lettura che si limiti a registrare i fenomeni violenti da un punto di vista diacronico, evoluzionista e fattuale. L’esigenza di sanzionare un evento violento e delittuoso, in quanto rappresentava un momento di rottura di un ordine, in quanto colpiva direttamente la civilitas – per usare un termine caro ai giuristi dell’epoca – non era estraneo al mondo medievale.
21Tuttavia, nonostante il diritto riflettesse sulla necessità di punire i trasgressori, il concetto di violenza per come lo intendiamo oggi è assente nelle fonti normative medievali. La riflessione filosofica e teologica sulla presenza del male nell’uomo non era assente nella tradizione tardo antica e medievale, ma essa fu declinata secondo criteri che non corrispondono affatto a quelli di oggi. La violenza medievale – secondo le parole di Lauro Martines, curatore di un volume intitolato Violence and Civil Disorder in Italian Cities del 197220 –, definiva da subito la violenza medievale come una nozione «troppo generica ed elusiva»21. Ciononostante, egli esortava gli storici a prendere le distanze da un approccio impressionistico e narrativo, non interessandosi troppo agli elementi esteriori delle descrizioni degli atti violenti presenti nelle fonti giudiziarie, per esaminare piuttosto quelle che egli chiama “public policies” e “political conditions” dell’agire violento e della sua sanzione in tribunale. Martines indica quindi una direzione, la quale muova in senso contrario rispetto all’atteggiamento dello scrittore per giungere alla ricostruzione delle politiche istituzionali partendo dal dato qualitativo – presentato come tale – dalle fonti processuali. Certamente questa è una task; un incarico da prendere sul serio per muovere lontano dalle descrizioni. Per cogliere quanto in un Liber Malleficiorum rinvii al concetto di violenza, egli invita a comprendere il mainstream del periodo storico, intendendo con questo lemma le idee e le attitudini che pervadevano un’epoca.
22Come abbiamo più volte ripetuto, la violenza medievale non si presentava con le caratteristiche di sanzione morale o etica che abbiamo reperito negli studi di filosofi, sociologi e psicoanalisti. Quando l’elemento prettamente morale si presenta nelle fonti, la violenza si connota come un eccesso disumanizzante, e non come un reato in sé per sé. Nel medioevo, come osserva molto acutamente Claude Gauvard, «la violenza non era un “disvalore”, sebbene sarebbe ugualmente sbagliato definire il Medioevo come «il tempo della violenza per eccellenza».22
23Secondo un’affermazione ampiamente condivisibile, Claude Gauvard invita a considerare anacronistica qualsiasi interpretazione del Medioevo come periodo nel quale la violenza era “deliberata” o “latente”. Infatti, descrivere la violenza in questi termini tradirebbe la preoccupazione – tutta contemporanea – per un postulato secondo cui la vita umana dev’essere “salvaguardata a ogni costo”. La società medievale non poneva i propri valori in questo sistema, considerando il comportamento violento come una necessità rivolta alla salvaguardia dell’onore e al mantenimento della reputazione individuale. La violenza quindi, si configurava come un «mezzo per provare la perfezione di un’identità». Su quest’aspetto, Jacques Chiffoleau aggiunge che «non è affatto certo che tutti gli atti violenti avessero avuto questo carattere un po’ ‘selvaggio’, ‘irrazionale’ così come pretenderebbero gli storici e talvolta gli uomini del XIV secolo stessi.»23 Il termine violentia compare nelle fonti giudiziarie assai raramente, e quando ciò accade, connota fondamentalmente lo stupro. La violenza fondamentale, secondo le parole di Claude Gauvard indicherebbe un atteggiamento denigratorio e antisociale verso le leggi della procreazione, ritenute tabù, sacre e intoccabili.
24L’oggetto delle condanne è piuttosto l’eccesso nell’uso della violenza, e non il comportamento in sé per sé. Rispondere a un’ingiuria replicando con un secondo insulto, apparteneva al campo del “possibile”, del “necessario”, ma modificare le regole dell’alterco e del conflitto con una grammatica che ne alterasse i valori, rendeva il reo “inumano”, fuori dal codice interpretativo del vivere civile dell’epoca. L’oscenità, secondo Chiffoleau, segnalava l’aggravamento di una posizione colpevole, fin quanto nel gesto osceno la minaccia si precisava, si concretizzava facendo irrompere comportamenti prettamente violenti.
25Le regole interne di tale codice si colgono molto bene se prestiamo attenzione alla struttura delle vendette e delle faide che Andrea Zorzi insegna a posizionare all’interno di una griglia comportamentale rituale che fa della violenza un passaggio obbligato cui attendere al fine di ristabilire la fama di una famiglia. Un passaggio che portava con sé un messaggio in cui si può vedere «l’organizzazione di un conflitto ai fini di una sua risoluzione, che alternasse momenti di scontro violento a lunghe fasi di negoziazione».24 La violenza in scena era quella di opposti schieramenti familiari che si fronteggiavano secondo «solidarietà sviluppate da forme di organizzazione sociale che potevano evolvere in forme di competizione politica».25 I poteri pubblici tardo medievali italiani comprendevano i significati di questa violenza ritualizzata e intervennero sempre di più al fine di coordinarli, controllarli. Un esempio è offerto dalle vendette che gli statuti urbani delle città italiane cominciarono ben presto a proibire o a regolare26. Si stabilirono e si delimitarono gli spazi deputati allo scontro e si disciplinò ugualmente lo spettro di coloro che potevano parteciparvi. Le degenerazioni violente potevano assumere un senso in altri casi. Sempre Zorzi, ci ricorda come nei rituali pubblici legati alle condanne a morte, o nei tumulti che portavano alla deposizione di “tiranni” si consumassero scene di violenza inaudita, tra cui spiccano i riti tanatologici perpetrati da bambini e adolescenti. Con sempre maggiore impegno, tali riti di giustizia divennero appannaggio delle amministrazioni politiche, incanalando la violenza in forme cerimoniali codificate.
26La partecipazione dell’infanzia alla violenza pubblica oggi fa inorridire. Tuttavia, proprio la polisemantica della violenza medievale permette di comprenderne il significato. In altre fonti (non giudiziarie), l’infanzia indicava ugualmente una condizione di purezza e innocenza che – sulla scia di alcuni passi di Matteo (Mt 18, 2-5), Marco (10,15) e Luca (10, 21) – permetteva mimeticamente la purificazione delle membra del corpo civico attraverso lo strazio del corpo del reo, del tiranno o dell’eretico. Estirpare la violenza era quindi compito precipuo delle autorità politiche27.
27La sanzione della violenza risponderebbe dunque a una logica interna ai fatti ricostruiti in giudizio. Si tratta di fatti capaci di costruire veramente il profilo infamante del colpevole. Stiamo parlando di un concetto noto a noi tutti, cioè della fama pubblica cui sono dedicati lavori importanti di Massimo Migliorino, Claude Gauvard, Massimo Vallerani e di Julien Théry28, il quale, ricostruendo la nozione di fama, afferma come quest’ultima, sebbene fosse mai giunta «a ottenere lo statuto di nomen iuris, divenne un tema privilegiato del diritto e delle procedure tribunalizie».29 Massimo Vallerani ricorda inoltre come la fama si faceva prova semipiena proprio in virtù del privilegio accordatole dalla riflessione giuridica e in sede pratica.30 Francesco Migliorino, studioso che al concetto di fama come prova ha dedicato un’ampia ricerca, ha messo in rilievo un’assimilazione alla categoria di publicum che definiva una conoscenza diffusa di un evento o di uno status, diventano così principio di diritto31. La fama, secondo un’espressione efficace offerta da Laure Verdon, «intaccava lo statuto di un individuo»32, al punto da renderlo estraneo al mondo degli uomini e quindi passibile di reificazione e disumanizzazione. Tale profilo non era sempre dato a priori, lo vedremo negli esempi cretesi di cui si dirà oltre, e si costruiva attraverso i passaggi della procedura inquisitoria o accusatoria che definivano il sistema probatorio del processo pubblico. La fama pubblica offriva quindi lo strumento dottrinale e pratico per connotare violentemente il comportamento di una persona violenta. Questo paradosso quasi tautologico rende conto, a mio parere, di quanto ciò che oggi noi chiamiamo violenza fosse declinabile in modi diversi e polisemici.
28Il concetto d’infamia definiva quindi lo statuto “soggettivo” di un individuo criminale, il quale, secondo le parole di Giacomo Todeschini, «non meritava alcuna misericordia. Era la sua insensibilità al ‘bene comune’ a collocarlo fuori dalla sfera dei riguardi e dei rispetti umani, a renderlo simile a una animale feroce da cui, tramite la persona del giudice, la comunità doveva difendersi e di cui doveva diffidare».33 La parola crudelis veniva quindi a identificare gli effetti più nefasti dell’essere umano che aveva scelto l’adesione al male allontanandosi dal gregge cristiano, diventando di fatto infidelis, eretico (nel senso che tale parola assunse nel corso del Medioevo e non dell’αιρεσις greca che significava invece una scelta). Sempre secondo Todeschini, la ferocità degli uomini di mala fama si manifestava nella condotta scandalosa che offrivano alla società senza vergogna. Scandalo indicava quindi l’elemento propriamente perturbante di queste persone, le quali offrivano uno spettacolo indecoroso e animale che poteva indurre altri in errore. Arnaud Fossier che ha dedicato al concetto di scandalum il suo importante lavoro di tesi, procede oltre e mostra come in effetti, lo scandalo era uno stato ancora più evidente della fama strictu sensu, in quanto la notorietà da sola bastava a produrre il carattere “notorio” di un crimine. Stiamo parlando naturalmente di un crimine palesemente disobbediente, quindi, violento.34
29Possiamo ben dire, leggendo con attenzione questi studi, che proprio la condotta malevola e infame di chi si veniva configurando come tale nel corso di un processo, o a causa di una vita condotta ai margini dei valori cristiani, commetteva violenza. Si tratta, a mio parere, di uno degli aspetti salienti della violenza medievale, poiché ascrive qualsiasi opposizione a una condotta violenta, crudelis. Tale crudeltà si manifestava nell’accaparrarsi con la forza qualcosa, nel forzare qualcuno, farlo cedere nella dignità. Forzare un codice di comportamento ritenuto giusto e inviolabile significava quindi qualificarsi agli occhi del giudice come un individuo “violento”.
30Nei Libri Malleficiorum, è proprio attraverso locuzioni quali per vim, scienter et apensate, diabolico animo spiratus che la violenza entrava in scena nei tribunali come modalità connotante il reo e il crimine stesso. Va poi aggiunto che il linguaggio tipicamente analogico delle scritture medievali ripeteva, nel contesto giudiziario, quello delle fonti normative e, per i secoli oggetto del nostro intervento, soprattutto degli statuti cittadini. L’osmosi che si provocò va dunque interpretata come uno dei limiti più consistenti per giungere a una comprensione realistica del fenomeno violento in età medievale.
31Grazie agli studi sulla violenza nelle città, sulle pene, sui rituali di punizione e sulla lesa maestà, oggi è noto che l’Occidente medievale, a partire dal secolo XIII, cominciò a pensare categorie giuridiche nuove in cui inserire i comportamenti lesivi dell’ordine sociale35. Si tratta di un momento delicato in cui nuove forme procedurali si affiancarono alla tradizionale e triadica struttura accusatoria. La nascita dell’inquisitio ex officio se non cancella affatto il sistema accusatorio, pone la questione di una verità assoluta da ricercare in giudizio ne crimina remaneant impunita, per impiegare il celebre adagio innocenziano sul tema e ripreso da molti giuristi dell’epoca.
32La sfera pubblica ha dominato la scena del nostro percorso storiografico e tematico. Va però ricordato come l’ambiente domestico fa capolino nei Libri Malleficiorum prodotti dalle curie cittadine europee dei secoli finali del Medioevo. La violenza che queste testimonianze apportano fanno luce sui rapporti tra i coniugi, tra membri della stessa famiglia e tra persone che esercitavano lo stesso mestiere. Spesso i conflitti, quasi sempre orizzontali, che scaturivano tra questi gruppi sociali mostrano delle peculiarità riguardo all’elemento “violenza”. Gli studi di Martine Charageat dimostrano come anche le donne potessero rivalersi in giudizio facendo leva su elementi di violenza36. Negli atti di Creta veneziana, ad esempio, non è affatto raro vedere una donna indennizzata per via dei maltrattamenti subiti dal marito e ottenere un vitalizio. Sarebbe certamente anacronistico pensare a un’uguaglianza di diritti tra uomini e donne e la sanzione della violenza sulle donne non aveva certo le caratteristiche che ha oggi, tuttavia mi pare interessante indicare nello studio delle dispute coniugali un campo di lavoro ancora parzialmente inedito.
Bisanzio. L’altra tradizione
33L’Oriente greco ripudiava la violenza come espressione legittima di uno status. In modo particolare dopo le perdite territoriali causate dall’invasione araba nel VI secolo, si era sviluppato a Bisanzio un concetto molto forte di rifiuto della violenza, e finanche della guerra. Nonostante l’opinione di alcuni storici circa un pensiero “di crociata” riferito agli interventi militari dell’imperatore Eraclio, studi più attenti alle pratiche di governo dimostrano una vera e propria avversione ideologica alla guerra37. Per quanto riguarda Bisanzio, vorrei ricordare ancora un elemento fondamentale. Il primo: in tutta la sua storia, Bisanzio non pervenne mai all’elaborazione di nessuna procedura ex officio iudicis. La ripresa degli studi di diritto, o “purificazione delle antiche leggi” (ανακάθαρσις των παλαιών νόμον38) del secolo IX non portò a nulla di paragonabile alla procedura inquisitoria. A Bisanzio, i processi proseguivano sempre per la via della dialettica accusatoria e la dilatazione dell’arbitrium del giudice nella procedura inquisitoria, o di eccezione, è assente nella riflessione greco-bizantina39. Ricordiamo a tal proposito l’estrema difficoltà che manifestò apertamente l’imperatore Alessio I Comneno allorché si trovò costretto a dovere mandare a morte sul rogo (caso eccezionale a Bisanzio), il bogomilo Basilio40. Proprio per la sua unicità, nonostante la folla invasata chiedesse la stessa sorte per i seguaci dell’eretico, Alessio fece erigere nell’ippodromo di Costantinopoli una grande croce accanto alla pira. Chiunque avesse abiurato sarebbe stato immediatamente rilasciato. Invece chi si fosse diretto verso la croce avrebbe scelto comunque una punizione, ma una sanzione definita “ortodossa”, la quale consisteva in un temporaneo incarceramento (durante il quale i rei avrebbero frequentato obbligatoriamente l’imperatore e uomini di Chiesa). A chi non si pentiva, il carcere a vita avrebbe chiuso i loro giorni. Il rogo, destinato al solo capo per l’enormità del crimine, non era una pena diffusa. Il termine che qui impiego, “enormità” non è da ricollegarsi affatto alla fattispecie giuridica dell’enormitas studiata da Julien Théry41, la quale definiva un principio aggravante da far emergere nel corso della procedura inquisitoria.
34Atti violenti e sollevazioni hanno dunque un peso molto serio anche a Bisanzio, ma sia la procedura sia la reazione dell’autorità furono diverse da quelle note per l’Occidente. Una certa logica totalizzante (implicita ad esempio nell’idea di Crociata) trova a Bisanzio limiti certi. La demonizzazione dell’avversario e un clero dichiaratamente non combattente sono elementi che non vanno separati dalle prassi ordinarie di amministrazione della giustizia. Nel passo riportato, l’imperatore Alessio appare sì come una figura “ideale”, ma reca in sé un carattere, quello della φιλανθρωπία, che fu tipico del pensiero politico bizantino. La φιλανθρωπία indicava il dovere del principe di intervenire con generosa umanità a favore dei sudditi42. A Bisanzio – così come teorizzato da Agapeto Diacono e dall’imperatore Maurizio – l’imperatore è certamente il detentore della violenza legittima, ma mai gratuitamente inflitta43. Tale concezione resterà inalterata e fu sempre ribadita dagli imperatori e dagli intellettuali bizantini fino alla caduta dell’impero. Appare quindi evidente come non esistesse a Bisanzio una connessione di tale monopolio con una procedura giudiziaria capace di estendersi capillarmente a molti aspetti della vita sociale degli individui e di legittimare la maestà del potere.
La violenza dagli atti processuali di Creta veneziana
35Da un punto di vista documentario occorre fare qualche precisazione preliminare. Le fonti di cui ci siamo serviti per questa ricerca sono le sentenze del tribunale candiota e i Memoriali e sono conservati presso l’Archivio di Stato di Venezia44. I Memoriali sono registri a “vacchetta”, in cui sono riassunte senza un ordine particolare, sia le sentenze sia le fasi principali dei processi, i fatti al centro delle inchieste, il nome degli individui implicati (attori, convenuti, imputati e testimoni) e l’eventuale condono. Non si tratta quindi di Libri Malleficiorum in senso stretto, ma di fonti ad esse strettamente imparentate; essi testimoniano delle fasi salienti della procedura e furono conservati con cura dagli uffici giudiziari veneziani anche dopo il loro trasferimento a Venezia in seguito all’invasione turca del XVII secolo45.
36I Memoriali raccolgono prevalentemente atti di natura accusatoria, sebbene – come nei casi di cui parleremo nel dettaglio – non mancano le inquisizioni. Si suppone che la maggior parte di esse siano andate perdute. Presso l’Archivio di Stato di Venezia sono conservate anche le Sentenze del duca di Candia. Tuttavia, visto che in esse abbonda unicamente la materia civile, non sono state impiegate per questo lavoro. Da un punto di vista quantitativo gli atti processuali sono numerosi: tra il 1341 e il 1399, i Memoriali assommano 1119 atti. Le inquisizioni, testimonianza preziosa per ricostruire la violenza, sono assai scarse. Questo è certamente un segno della maggiore importanza che la conservazione degli atti di natura civile – soprattutto inerenti la proprietà e il possesso di beni mobili e immobili – rivestiva per la società veneziana. Tuttavia, anche se poco numerosi, gli atti criminali ci sono e permettono un’analisi di notevole interesse.
37Nelle fonti candiote la violenza è attestata a più livelli interconnessi l’uno con l’altro. Lungi da offrire alcuna distinzione categoriale fissa, vorrei mettere in luce tre sfumature diverse che abbiamo tratto dalla nostra esegesi documentaria e che riteniamo siano capaci di approcciare in modo diverso e originale il tema della violenza così come essa si presenta nelle fonti giudiziarie di questa isola che riflette nella sua struttura e nella sua amministrazione giuridica, l’ordinamento della madrepatria46.
L’eccesso della violenza. La bestialità del reo
38Per indagare questa dimensione della violenza, prenderemo come esempio il processo istruito nel 1410 per lo stupro e l’omicidio di Calli, una bambina greca di dieci anni, contro Marco, schiavo di origine russa. Il processo, iniziato in seguito alla denuncia del padre della vittima e inizialmente istruito dal castellano di Malvasino presso Candia, fu proseguita (dietro richiesta ufficiale del castellano), dalla corte ducale. Assieme al principale indagato, furono inviate a Candia le carte – redatte in volgare – inerenti le indagini preliminari del castellano (che riassumevano i fatti), e i referti dei medici che avevano eseguito una parziale autopsia della vittima, ritrovata il giorno successivo la sua scomparsa. Come possiamo vedere da questi brani tratti dal testo della lettera del castellano47, dalle testimonianze sulla qualità della persona48 e dal lessico impiegato nell’inquisitio, è proprio la violenza a presentarsi come la chiave di volta dell’intero processo. Si insiste sui caratteri esteriori delle violenze subite e in modo particolare sui tratti alterati del viso della piccola, morta per strangolamento. L’inquisizione del duca – condotta velocemente in due giorni –, dopo aver impiegato tutti i mezzi per giungere alla confessione dell’imputato (tra cui la tortura), consegnò l’assassino a una morte infamante49.
39Alla violenza infame, efferata ed enorme si rispose con una violenza legittima, appannaggio della giustizia pubblica. Il mezzo attraverso il quale la violenza assunse il suo valore processuale fu certamente la procedura. Attraverso le scritture che ricostruirono i fatti, la procedura permise infatti di definire il profilo dell’assassino e perseguibile pro sua qualitate. In questo caso, la violenza perpetrata ai danni della giovanissima vittima era di per sé gravissima e intollerabile; per questo il lavoro della scrittura giudiziaria si limitò a mettere in ordine tutti gli elementi più raccapriccianti e penosi dell’evento, permettendo così di costruire la griglia operativa del sistema probatorio. Un sistema che poggiava sia sulle testimonianze sia su prove materiali, tra cui i fazzoletti con i quali l’assassino aveva perpetrato il suo delitto, e che furono ritrovati su indicazioni del reo, nel corso dell’interrogatorio. Si tratta di un campionario di prove bastato principalmente sul ritrovamento dell’arma del delitto e sulla ricostruzione del profilo violento dell’imputato. Le testimonianze erano perfettamente concordi nell’indicare anche di avere visto Marco provenire trafelato dal luogo del ritrovamento del cadavere.
Violenza percepita
40Scendiamo adesso su un terreno più complesso; si tratta infatti di cogliere quella violenza che possiamo ricostruire partendo dall’esame delle testimonianze e delle deposizioni. Occorre ricordare che le scritture forniscono un dato tecnico, il quale rinvia al carattere strumentale di tali percezioni50. Una strategia di accusa poteva insistere sugli elementi più drammatici di un evento e rischia di fare deviare da una valutazione attenta del linguaggio delle fonti. Tuttavia, i nostri processi lasciano intravedere una percezione della violenza non scontata sia nelle scritture sia nei contenuti. A fare da sfondo a questa percezione è la paura o il dolore a essere presentato volontariamente nei dettagli negli atti dei processi.
41É il contesto fornito dalla scrittura degli interrogatori a suggerirci la percezione della violenza, vi sono casi che – seppure in modo piuttosto elementare – si possono ricondurre a questo tema in modo più diretto. Nel 1407 Nicola Naptopoulo denunciò Costas Catacallo per la violenza carnale di cui fu vittima sei anni prima, quando aveva appena sette anni51. Due i principi aggravanti: 1) in primo luogo si trattava di un actum sodomiticum, 2) che l’atto in questione fosse stato perpetrato per vim. A fornirci il materiale per la percezione dell’atto violento, questa volta, sono il dolore fisico e i segni sul corpo della vittima su cui la procedura lavorò per costruire un’accusa fondata sotto il profilo giudiziario52. Peraltro fu proprio la vittima a insistere su questo dolore, comprovandolo con il resoconto di una visita cui fu sottoposto53. Purtroppo anche questo processo si arresta all’escussione dell’accusato che negò ogni implicazione nello stupro di Nicola, cui non fecit […] aliquam violentiam. E forse non è un caso che si tratti di un crimine sessuale contro natura, ossia quel reato che era violento in quanto separava il reo dalla rete sociale, rendendolo “socialmente pericoloso” (diremmo oggi con una terminologia non meno segregativa). Occorre tuttavia non ingannarsi troppo. Queste spie relative alla percezione fisica della violenza sono sempre da intendersi – per quanto espressione di un qualcosa di autentico – come veri e propri elementi di prova costruiti per dar corpo a una sola verità, quella processuale.
Violenza legittima contro la «violenza dell’opposizione»
42A percepire la violenza erano naturalmente anche (e soprattutto) le autorità pubbliche. In questo caso, il terzo aspetto del tema sul quale vorrei soffermarmi è come la percezione delle autorità producesse una realtà processuale, la quale rimandava direttamente all’ambito della salvaguardia dell’ordine pubblico. Quest’ultimo aspetto della violenza è naturalmente presente anche nelle altre due categorie di cui abbiamo parlato sinora. Denomineremo Violenza “ricostruita” quanto emergeva per dare corpo a una verità processuale, la quale sottolineava la liceità dell’intervento del Regimen quale detentore del monopolio legittimo della violenza. “La spada della giustizia” sul cui significato simbolico e reale riflette Guido Ruggiero54, ampiamente ricordata nelle cronache veneziane come portatrice di pace, qui si fa particolarmente sensibile a questioni di carattere schiettamente politico. Il principale attributo del fatto escusso dal processo, si presenta come la risposta a una violazione anche solo presupposta dell’ordine costituito. In altre parole, come un mezzo atto a risolvere o giustificare l’intervento delle autorità in questioni che venivano percepite come dannose per la stabilità sociale.
43Nel 1420, il notaio pubblico d’origine greca Giovanni Cataclon – di cui si conservano presso l’Archivio di Stato di Venezia le imbreviature – fu inquisito per eresia dal Vicario Generale della Santa Sede a Creta, Giovanni da Pisa55. L’accusa era fondata sull’assidua frequentazione che Giovanni intrattenne con un dotto membro della comunità ebraica candiota. Tale frequentazione avrebbe avuto conseguenze nefaste sull’identità cristiana dell’intera società veneto-cretese.
44Dopo l’incarcerazione del notaio in seguito a una denuncia su delazione, prese avvio il processo inquisitorio. Le carte a nostra disposizione riportano unicamente il testo dei tre interrogatori dell’imputato e non quello delle testimonianze, le quali sappiamo che furono numerose. Agli interrogatori seguì una sentenza piuttosto articolata. Al fine di cogliere meglio le caratteristiche di quest’articolazione, ci concentreremo sul contenuto degli interrogatori del nostro notaio.
45Interrogato «super suis erroribus […] de qua publice fuerat diffamatus» – Giovanni negò ogni capo d’accusa, dichiarando unicamente l’acquisto di una bibbia «in greco sermone, cuius textum bene non intelligebat»: era dunque da attribuirsi “semplicemente” a questo il fatto che egli avesse domandato l’aiuto dell’ebreo Spathael, il quale gli avrebbe spiegato l’esegesi dei passaggi che non capiva e certe espressioni. Il giudice, considerando tale risposta non consonante e pro anime sue salute, et ipso nichil aliud dicente, confermò il carcere per Giovanni. Più articolato il contenuto del secondo interrogatorio, nel quale l’imputato confessò di non aver mai dubitato de fide Christi, quanto piuttosto de intellectu Sancte Scripture e del fatto che l’antico e il nuovo testamento non concordassero in molti punti. Siccome sapeva che i due avrebbero invece dovuto concordare, si rivolse alla conoscenza del dotto Spathael. Dopo questa confessione così eclatante, il giudice interrogò una terza volta Giovanni al fine di chiarire la verità sine ulla palliatione minacciandolo dei tormenti. Come possiamo vedere dalla confessione ultima dell’imputato56, la strategia di difesa rientrò già nel quadro della confessione e verté di fatto sul linguaggio tipico della misericordia e della grazia. Egli confessò infatti che fu a causa della sua ignorancia et negligencia ch’egli aveva deviato dalla dottrina cristiana e che di conseguenza e necessariamente – ex necessitate – aveva perseverato nell’errore. Attraverso una supplica ben strutturata, egli ottenne alla fine la grazia, sottolineando l’intenzione di subiacere mandatis Sancte Romane Ecclesie, obbedendo d’ora in avanti alla fede cattolica57. Una volta ottenuta la remissione, egli fu ugualmente condannato a due anni di reclusione nel carcere di Candia, dal quale avrebbe potuto uscire solo per recarsi alla messa in cattedrale la domenica. Gli fu interdetto anche qualsiasi contatto con la comunità ebraica di Candia. Questo tratto della pena riguardò soprattutto la redazione di instrumenta. Nel caso di una violazione dell’interdetto, egli sarebbe stato sospettato di eresia recidiva. In una società quale fu quella candiota, così mista e dinamica nonostante questi momenti di frizione, la sentenza limitava con violenza le relazioni sociali del soggetto. Relazioni che gli avevano perfino valso il ruolo di mediatore ufficiale tra alcuni membri dell’aristocrazia veneziana indebitatisi con il grande prestatore ebreo Aba de Medico nel 141458.
46Questo processo dimostra come la rivendicazione della violenza intesa come strumento legittimante rappresentasse per una società come quella di Creta – vissuta nel segno del pensiero bizantino – qualcosa di eccezionale. L’istruzione della procedura inquisitoria incarnava questa legittimazione del monopolio della violenza e rappresentava l’elemento più dirompente connaturato all’esercizio della giustizia veneziana sull’isola. Il tratto più originale (e violento) della procedura fu senza dubbio l’estorsione di quella parola che permetteva la qualificazione del reo come individuo perseguibile. La parola che permetteva di delineare un profilo, una fama. Si tratta di un elemento che tuttavia penetrò nella mentalità dei soggetti alla dominazione veneziana, i quali seppero adattarvisi con una certa elasticità, come dimostrano i casi analizzati. Nonostante la diversità che aveva caratterizzato il pensiero bizantino, le strategie intraprese dalle parti vi fecero leva, i rei la difesero e le autorità la produssero.
Nota conclusiva
47Per concludere, la questione del monopolio della violenza legittima fa ancora discutere gli storici, soprattutto sulle modalità attraverso cui si riuscì a imporre una concezione tale per cui esiste la possibilità per un uomo di essere privato del diritto alla vita. Adriano Prosperi, con grande profondità di analisi, restituisce la struttura ideologica sottostante alla giustificazione offerta dal Cristianesimo – in linea di principio ostile alla violenza – nei confronti della giusta morte. L’autore tratteggia con efficacia il modo in cui Tommaso D’Aquino (per restare in ambito occidentale) distinse i precetti cristiani dalle norme del diritto di natura: in base a questa distinzione si possono uccidere gli animali per nutrirsi, i nemici per difendersi, i malfattori per garantire la salute della società. Il suo argomento fu che la parte è subordinata al tutto, l’imperfetto al perfetto, il singolo alla comunità.59
48La domanda sulla violenza, se pensiamo a quanto ci circonda, è ancora aperta, e la risposta non può che essere plurale, per l’appunto, à plusieurs.
Bibliographie
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Notes de bas de page
1 Patlagean 2005, p. 723.
2 Cfr. l’intervento di M. Vallerani La documentazione giudiziaria al crocevia: conflitti reali o riflessi “emozionali”? Per una critica dei paradigmi post moderni in questo stesso volume.
3 «Le lecteur a l’impression que violents et violentés, victimes et agresseurs sont interchangeables», Chiffoleau 1980, p. 355.
4 In opposizione ai processi extra-ordinari e che poggiavano – come vedremo nel corso del nostro lavoro – su procedura di eccezione. Per un primo riferimento generale in proposito, Vallerani 2009.
5 Si veda, a riguardo Marquard 2016. Il bel volume si articola in diversi contributi di studiosi (pedagogisti e filosofi) che – commentando il testo del grande filosofo tedesco Odo Marquard Il Manifesto pluralista? – analizzano da svariati punti di vista epistemologici dieci concetti che si oppongono all’idea di pluralismo. Si tratta, come afferma la curatrice Giancarla Sola nella quarta di copertina, di proporre un senso antinomico, opporre di volta in volta un versus, «un termine con cui rendere esplicite le posizioni di contrasto, di confronto e dibattito tra chi sostiene il diritto alla pluralità (delle idee, dei linguaggi, degli stili, dei modi di essere e di vivere) e chi lo nega in nome dei suoi contrari.» Ecco quindi opporre a Pluralismo concetti ad esso opposti, come Fondamentalismo, Occidentalismo, Xenofobia, Razzismo, Intolleranza, Dogmatismo, Fanatismo e Totalitarismo. Tanti ‘–ismi’ che nella società contemporanea s’impongono con sempre maggiore forza tra le pieghe dei comportamenti, in contrasto con un’etica che sempre di più appare, a nostro modo di vedere, come un velo di cui si possa fare a meno.
6 Oz 2015, p. 34.
7 Bonazzi 2014.
8 Platone, Repubblica, libro II, paragrafo IV, p. 103.
9 Aristotele, Etica Nicomachea, libro III, paragrafo V, p. 127-129.
10 Vegetti 2000, p. 178.
11 Mandrussan 2005, p. 125. A tal proposito si rinvia anche al quinto capitolo del manuale di Bgnasco – Barbagli – Cavalli 1997, p. 131-156.
12 Freud 2012, p. 247. Ad ogni modo, anche in Totem e Tabù, Freud sostiene in modo assai convincente come la violenza si manifesti e si produca come il «motore trasformativo della civiltà» (Mandrussan 2005, p. 125).
13 Žižek 2007.
14 Lacan 2013, p. 124-125.
15 Zenoni 2016, p. 251. L’autore ripercorre il saggio di Hannah Arendt, da cui estrae quest’importante considerazione: «si tratta della possibilità che ha un agente di agire sugli altri (o su un altro), senza che questi reagiscano su di lui, pur essendo capaci di farlo». L’autorità costituisce nondimeno «un fenomeno di non reciprocità e di dissimmetria nella relazione umana, diverso da un rapporto di forza fisica o economica». Naturalmente, si veda con attenzione l’intero saggio di Arendt 2001, ma anche Arendt 2004.
16 Dalarun 2012, p. 287.
17 Bourdieu 2001, p. 178.
18 Foucault 1975, p. 29.
19 Per un inquadramento del tema, Contamine – Guyotjeannin 1996; Settia 2002.
20 Martines 1972.
21 Ibid., p. 3.
22 Gauvard 2005, p. 11-16. Traduzione nostra.
23 Chiffoleau 1980, p. 325-371.
24 Zorzi 1994a, p. 614.
25 Ibid., p. 616.
26 Sull’argomento, vista la centralità che assumerà la città di Venezia nella quarta sezione del presente lavoro, cfr. Crouzet-Pavan 1984.
27 Zorzi 1994b, p. 395-425. Sul tema dello strazio del corpo della vittima come rituale pubblico, Mathieu 2011.
28 Tra i lavori più significativi sull’argomento cfr. Migliorino1985; Gauvard 1993, p. 5-13; Wickham 2003, p. 15-26; Kuehn 2003; M. Vallerani 2007, p. 93-112; Vallerani 2011, p. 44-49. Sul tema anche Todeschini 2007.
29 Théry 2003, p. 121. Traduzione nostra.
30 Vallerani 2005, p. 100.
31 Migliorino 1985, p. 47.
32 Verdon 2007, p.15. Traduzione nostra.
33 Todeschini 2007, p. 15.
34 Fossier 2009, p. 331.
35 Sbriccoli 1998, p. 231-268; Zorzi 2001; Vallerani 2005, p. 19-74; Chiffoleau 2009, p. 321-347; Zorzi 2014.
36 Cfr. Charageat 2005, p. 342-373; Charageat 2009, p. 2-11.
37 Sull’argomento cfr. Patlagean 1984, p. 405-427; Gallina 2008a, p. 45-71.
38 A proposito della grande rielaborazione del diritto bizantino, nota come “purificazione delle leggi”, o ανακάθαρσις των παλαιών νόμον del secolo IX, cfr. Svoronos 1977, p. 177-231; Gallina 2008b, p. 173-175; Troianos 2015, p. 138-141.
39 Per una visione d’insieme della giustizia e del diritto a Bisanzio, Laiou – Simon 1994; Macrides 1999.
40 Cfr. Patlagean 1986, p. 245-246.
41 Cfr. Théry 2009, p. 329-375.
42 Cfr. Gallina 2016, p. 52-58.
43 Ibid., p. 46-52; p. 143-149.
44 Sul tema dell’amministrazione della giustizia a Creta Élisabeth Santschi tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta ha lavorato a lungo. Nel solco di quegli studi – e in dialettica costante con essi – chi scrive ha approfondito alcuni aspetti del tema. A tal proposito, cfr. Santschi 1972, p. 294-324; Santschi 1974, p. 89-127; Santschi 1975a, p. 82-96; Santschi 1975b, p. 14-34; Magnani 2013a, p. 131-165; Magnani 2013b, p. 59-75; Magnani 2015; Magnani 2018a, p. 223-242; Magnani 2018b, p. 367-390; Magnani 2019, p. 351-390. Sull’argomento, si veda anche l’importante contributo di Viggiano 1998, p. 107-149. Sul tema più generale della storia del dominio veneziano a Creta, cfr. Jegerlehner 1903, p. 78-125; Thiriet, 1959; Maltezou 1991; Maltezou 1994; Maltezou 1995; Maltezou 1998; McKee 2000, soprattutto alle p. 133-168; Borsari 1963, Gallina 1989; Gasparis 1997. Archivio di Stato di Venezia (d’ora in avanti ASVe), Archivio del Duca di Candia (d’ora in avanti ADC).
45 Sulla documentazione di Creta è sempre di grande importanza i contributi di Tiepolo 1973, p. 88-100; Tiepolo 1998, p. 43-71. Si vedano con attenzione anche i regesti curati da Santschi nel 1976. Si tratta di una guida molto importante per orientarsi nel fondo archivistico dei Memoriali per la seconda metà del secolo XIV. A tal proposito cfr. Santschi 1976.
46 Per una maggiore conoscenza della storia della legislazione veneziana medievale si rinvia in questa sede ai principali contributi bibliografici: Cracco 1976; Cozzi 1982, p. 217-261; Crescenzi 1997, p. 409-474; Crescenzi 2001; Orlando 2008, p. 231-356.
47 «[…] e si trovi la dita Calli (…) morta e strancollada cum una zimossa ligata streta ben al collo, inflada al viso e al naxo, morta desconsa et enormamanente […] et si fo vezuda et zercada per Filippa Sopatu, comare dello casal Moni, e si la trova esser desponcellada e fo tutta sangonada […]» (ASVe, ADC, b.30 bis, Memoriali, fol. 36v).
48 Testimonianza di Pietro Rosso: «Piero Rosso domandado per sagramento, disse che ancor scampando lo dito schiavo corsse fina apresso in lo dito casal Calessia, e lo dito Piero crida ad alcune ovre che zapava over lavorava apresso in lo dito casal che lo dovesse piar lo dito schiavo perche haveva morto un hom […] lo dito portava uno cortello grando e tirato esi se defendeva cum quello cortelo». Testimonianza di Costa Meritara: «Et algune ovre che lavorava appresso al casal Calessia, aldando la voxe, de presente laga lo servixio e corse dreido al dito schiavo, e lo dito trasse over tigniva uno cortello grando. E diseva che ningun non li acostasse dapresso, che darave morte a calchesia […]» (ASVe, ADC, b. 30 bis, Memoriali, fol. 37v).
49 Interrogatus si violavit eam carnaliter, respondit quod bene temptabat sed non poterat iste violare eam; et quando Marcus non dicebat veritatem totam completam istius facinoris, de mandato dominii fuit expoliatus et positus ad torturam et interrogatus, cur nihil aliud diceret preter suprascripta, fuit tractus sursum. […] et depositus plane, dixit quod iste Marcus supposuit violenter et carnaliter dictam Calli taliter quod exivit sanguinis de vulva eius, et iste Marcus timuit quod ipsa puella istum accusaret de tali excessu, et postquam habuit parvam suam voluntatem cum ea, iste Marcus cum fatiolo ipsius puelle ligavit collum eius fortiter et suffocavit eam taliter quod mortua fuit (ASVe, ADC., b.30 bis, Memoriali, fol. 38r); Marco fu condannato ad essere trascinato in cauda unius equi a porta mollis usque ad berlinam, vocantibus preconibus culpam eius. Ibique dictus Marcus debeat occidi et postea scartari et dividi quarteria sua. Le parti del cadavere furono poste attorno alle porte della città e sul luogo del delitto. Inoltre, esse fuorno apposte in pallis qui erunt ibi fixi et inde non possint moveri sine licentia dominationis (ASVe., ADC, b.30 bis, Memoriali, fol. 38v).
50 Sulla struttura delle fonti giudiziarie, cfr. P. Cammarosano 1991, p. 166-173. Sul tema dei nessi tra scrittura e rappresentazione, si veda anche Vallerani 2005, p. 75-11 in cui l’autore delinea i legami e le trasformazioni tra il fatto giudiziario e la sua scrittura. Si veda inoltre Grévin 2013, p. 270 e il recente Lett 2016.
51 A.S.V., A.D.C., B.30 bis, Memoriali, i fogli non sono numerati.
52 […] quadam nocte circa terciam horam noctis, dictus Nicolaus dum dormivit in quadam caliva seu fraschata que erat in dicta vinea, sensit in somno suo quod molestabatur, et excitatus a somno, sensit dolorem in postirono suo et vidit quod dictus Costas Catacallo qui erat custos vinearum, erat supra dictum Nicolaum et habebat virgam suam instus foramen culli dicti Nicolai (Ibidem).
53 Et subito iste Nicolaus pro timore recessit de dicta vinea, ivit ad domum patris sui et dixit matri sui quod suprascriptus Costas sibi fecerat, et subito mater sua discohperuit istum Nicolaum et vidit quod de cullo suo fluebat sanguis, subito dicta mater sua fecit venire ad domum suam quamdam calogream que sciebat medicare, vidit postironum dicti Nicolai, medicavit istum Nicolaum, tenens eum in curam diebus circa XI (Ibidem).
54 Ruggiero 1995, p. 393.
55 Ad expurgandos pestiferos hereseum morbos et nocivia contagia iudaice pefidie rescindenda, Sacrosanta et Universalis Romana Ecclesia provida animadversione instituit ut pium inquisitionis negocium contra hereticos et iudaizantes christianos , non solum inquisitores pravitatis heretice per sedem apostolicam in provinciis deputati, verum etiam diocesani episcopi auctoritate ordinaria communiter et divisim de facto eodem inquirere valeant et illud fine debito ordinare. Cum itaque nobis, fratri Anthonio Guido, predicatorum ordinis, sacre pagine professorum per reverendum priorem fratrem Petrum de Rippis, olim priorem provincialem provincie Romanie, vigore litteralium seu privilegiis apostolici perbeate memorie dominum Iohannem, divina clementia olim papam XXII, indulti provincialibus eidem provincie Romanie, Inquisitori pravitatis heretice in Cretensi insula instituito […] nunc in Romana curia residentis, vicario in spiritualibus generali, tamquam diocesano huius civitatis Candide, delata fuerit ex parte magnifici Regiminis et strenui militis domini capitanei Crete quedam noticie seu denunciationis scedula contra et adversum Iohannem Catacalo, notarium publicum, habitatorem Candide, super crimine iudaice perfidie publice infamatum, quatenus contra eum nosrtrum inquisitionis officum ad honorem dei et christiane religionis confidenter atque viriliter exerceremus, iusticia mediante, offerentes nobis tamquam veri fidei zelatores et Ecclesie catholice defensores sue auxilum brachii potestatis (ASVe, ADC, b.30 ter, Memoriali, fol. 69v-70r).
56 Interrogatus de suis erroribus […] quas ipse expressit et dixit prout in actis huius negocii distincte scribuntur, ipse dubitavit et non credidit Christum esse messiam, quod incurit sibi per suam ignoranciam et negligenciam, eo quod ipse non recurrit ad doctores christianos ad habendum veram et catholicam doctrinam superinde. Item dubitavit de verginitate beate Virginis Marie, et credidit quod ipsa non permansit virgo. Item dubitavit et credidit quod Christus non esset ille de quo Isaias dixit: “et vocabiturnomen eius Hemanuel”. Item credidit quod Christus non esset Deus. Item ctedidit quod non debebant adorari sancti nec eorum imagines. Item credidit quod Messias nondum venerit. Et interrogatus si erravit in sacramentis ecclesie, dixit quod erravit ex necessitate, postquam erravit in fundamento, id est in fide Christi a qua dependent sancta sacramenta, et sic dubitavit circa omnia que pertinent ad articulos fidei (ASVe, ADC, b.30 ter, Memoriali, fol. 71r-71v).
57 Et tunc dictus Iohannes dixit se cognoscere suum errorem et penitere et petere misericordiam a deo et nobis, nam ipse revocabat et detestabatur omnes errores in quibus ipse ex sua ignorancia incidit, et credebat volebatque credere firmiter et sine hesitatione fidem christianam et quicquid sacrosanta Romana Ecclesia tenet et predicat. […] Et dato sibi sacramento, iuravit per sancta Dei evangelia sic esse verum ratificans dictam suam confessionem e petens misercirodiam a deo et nobis de suo peccato, quia ipse reconoscebat se male fecisse. Nos quamquam ipse ut pote nequicie filius divinam maiestatem Dei omnipotentis gravissime leserit, eterni patris filium et incarnacionis misterium ausu temerario abnegando sueque genitricis et sanctorum omnium honori detractando, tamen considerantes sue culpe et confessionem et conversionem eius ad fidei catholice veritatem que neminem repellit humiliter accadentem, cum pia mater Ecclesia nulli claudet gremium redeunti (ASVe, ADC, b.30 ter, Memoriali, fol.71r-72r).
58 Sul documento relativo al legame tra Giovanni Cataclon e Aba de Medico, Magnani 2014, p. 101-102. La trascrizione del documento si trova in Ibid., p. 105-107.
59 Prosperi 2013, p. 15.
Auteur
Chercheur associé UMR7303 Telemme (Aix-Marseille) - mfj.magnani@gmail.com
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