Capitolo 4
Viaggi in utopia (Liberté et patrie; Éloge de l’amour; Film socialisme; Adieu au langage)
p. 177-241
Texte intégral
Vedere e/o immaginare
1In occasione della celebrazione del centenario del cinema, Godard saluta il ventesimo secolo con un rimpianto, che è anche un impietoso j’accuse: «Il cinema ha guardato il mondo meno di quanto non abbia guardato il mondo che lo guardava»1.
2Il cinema insomma, che l’autore considera a tutti gli effetti uno strumento di pensiero al pari della filosofia2, avrebbe rinunciato alla sua vocazione di finestra sul mondo, e dunque sulla Storia, per ripiegarsi a raccontare solamente delle storie, e poco importa se a queste storie si accordassero – come suggeriva la citazione di Michel Mourlet all’inizio di Il disprezzo – anche i nostri desideri.
3All’alba del nuovo millennio Godard vuole invece continuare a guardare il mondo – ovvero un presente fatto di guerra (Forever Mozart) e di memoria della guerra (Éloge de l’amour) – e allo stesso tempo non smette di guardare se stesso, filmando il proprio cinema (penso alle numerose autocitazioni in Dans le noir du temps) ma anche il proprio corpo: si veda il ruolo di “conferenziere” interpretato dal regista nel Purgatorio di Notre musique.
4Il nuovo secolo dunque comincia così come era iniziata la terza stagione, quella degli anni Ottanta, ovvero con l’alternanza tra la forma-racconto in 35mm – dove in(de)finite storie secondarie gravitano attorno a una storia principale – e la forma breve del videosaggio, concepito ancora una volta come schermo di rifrazione per le onde narrative, vecchie o nuove, del lungometraggio che esso anticipa o segue. Tra Éloge de l’amour e Notre musique, per esempio, gravitano Dans le noir du temps e Liberté et Patrie, due collage di frammenti atti a introdurre una delle questioni più attuali nel pensiero godardiano, ovvero la dialettica tra l’atto del vedere (voir) e quello di immaginare (se représenter).
5Andiamo con ordine. Primo lungometraggio del nuovo millennio, Éloge de l’amour racconta il tormento di un regista che non cerca juste des visages, ma i volti giusti per rappresentare i quattro momenti di ogni discorso amoroso, dalla passione iniziale alla crisi e quindi alla ricomposizione della coppia. Questo regista ha inquietudini molto simili a quelle del reporter di Le petit soldat. Come Bruno Forestier, infatti, non riesce a trovare una relazione tra ciò che vede o ascolta e ciò che immagina. I casting, come vedremo, lo lasciano deluso perché il reale – per esempio il timbro di voce di un aspirante attore – contrasta con l’immaginario, vale a dire con l’idea del personaggio che egli vede dentro di sé. Ma il crinale tra visione e immaginazione è una zona abitata anche e soprattutto dall’autore. A quasi vent’anni di distanza dalla sua pubblicazione, infatti, il lavoro di decostruzione e rimodellamento dei frammenti nell’archivio delle Histoire(s), altro non appare che la messa in pratica di quell’imperativo di Claude Monet citato, oggi, sia nel press book che nel tessuto sonoro di Adieu au langage: «Non dipingere ciò che vedi, poiché non si vede nulla; dipingere ciò che non si vede». Riprodurre il visibile, insomma, non significa necessariamente riuscire a fermarlo e dunque a guardarlo, al contrario. Solo il montaggio, «dolce affanno», può “salvare la vita” di queste immagini, elaborando il lutto della cecità e permettendo il passaggio dall’invisibile al visibile, dal nulla all’immagine.
6A partire dagli anni Sessanta, in fondo, Godard non cerca che questo: filmare una nuca (Questa è la mia vita), un’auto (Il bandito delle ore undici), una mano (Una donna sposata), una parola (La donna è donna) o il fotogramma di un film (Histoire[s] du cinéma) in modo tale che suddetto oggetto sveli, per mezzo della messa in quadro e della sua posizione nel découpage, un volto in qualche modo inedito, nuovo, inatteso allo spettatore, il quale è invitato a chiudere gli occhi per superare, mediante l’immaginazione, i limiti della visione. Sull’ambiguità del visibile riflettono le due voci over – Elle e Lui – di Liberté et Patrie, biografia di un pittore immaginario (Aimé Pache) commissionata dall’Exposition Nationale Suisse:
Elle: «Domanda a una persona di gettare uno sguardo di dubbio o di piacere- e poi nascondi il suo volto lasciando liberi solo gli occhi».
Lui: «Vedo delle emozioni ma… noia, tristezza, gioia segreta, non si può capire».
Elle: «Non è il cambiamento di aspetto che si verifica, ma il cambiamento di interpretazione».
7Cinquant’anni dopo la sua «difesa e illustrazione» sui «Cahiers», dunque, Godard mette in evidenza i limiti del découpage classico, ovvero la sintassi di un cinema che, per mezzo dell’economia mimica dell’attore, coinvolgeva lo spettatore in una catena narrativa di azione e reazione dove era possibile guardare ma non (sempre) immaginare, perché il senso era ovvio e non (sempre) ottuso. Quella che traspare da questo dialogo è invece una sorta di “difesa e illustrazione” dell’effetto Kulešov. Il contenuto dell’immagine – in particolar modo se codesta immagine contiene un volto – non è dentro il quadro, ma fuori di esso, tra le giunture del montaggio.
8«Rappresentazione, e non immagine» dice la voce over maschile nel primo capitolo di Liberté et patrie (1. En ce temps là): «Guarda questa figura e poi cerca di rappresentarti questa figura». Ma per “rappresentarsi” qualcosa è necessario fare come la montatrice che abbiamo visto agire in JLG/JLG, ovvero tenere gli occhi chiusi. Viene in mente un passaggio di Toutes les histoires e più esattamente le parole con cui, parafrasando un celebre passo del Diario di un curato di campagna (cfr. Capitolo 3), l’autore commenta la dissolvenza incrociata che fonde, in un fulmineo abbraccio, un cadavere in un lager nazista, un dettaglio della Maria Maddalena di Giotto e il corpo bagnato di Liz Taylor (Un posto al sole): «Che meraviglia poter guardare ciò che non si vede. O dolce miracolo dei nostri occhi ciechi».
9Per questo, negli esterni del suo autoritratto (JLG/JLG), Godard ci aveva portato in paesaggi invernali vuoti di suoni e di corpi, «strade che non portano da nessuna parte» e soprattutto bianche come quella pagina che – recita una delle didascalie – è «il vero specchio dell’uomo». Come il Monet di Adieu au langage, il pittore di questo autoritratto chiudeva gli occhi e lasciava che la vista errasse tra il buio degli interni e la luce evanescente dell’inverno svizzero, in modo tale da offrirci non il proprio ritratto, ma quello che cercava anche il Bruno di Le petit soldat, ovvero il paesaggio interiore del modello (che in questo caso coincide con il pittore). Allo stesso modo, il successivo Forever Mozart si offriva come un film su Sarajevo senza che noi potessimo vedere alcuna immagine della guerra, già riprodotta all’infinito dalla televisione e resa dunque ormai invisibile. Per vederla è necessario immaginarla e coglierne quello che Godard ha definito il «senso». A tal fine sono sufficienti alcuni suoni fuori campo (rumore di mitragliatrice, esplosioni) e qualche immagini eidetica, come quell’inquadratura di due carri armati tedeschi incongrua dal punto di vista storico-narrativo ma finalizzata «a far sentire la pesantezza dell’acciaio»3.
Tra linea e colore
10Torniamo a ragionare su Liberté et Patrie. Raccontare la storia di Aimé Pache, personaggio nato dalla fantasia del romanziere svizzero Charles-Ferdinand Ramuz, è occasione per evocare una Storia più grande, quella del cinema. E così le vicende di Aimé bambino sono illustrate con i volti di personaggi finzionali quanto lui, come il bambino di Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948) o il ragazzino di Persona, che contempla i quadri nel corridoio con lo stesso stupore con cui Aimé ammirava il corpo femminile: «Non credo che fosse già la donna – dice la voce over femminile –, ma la pittura». Guardare il corpo attraverso la sua riproduzione pittorica significa già passare dalla visione (un corpo femminile) all’immaginazione (il corpo femminile).
11Il padre di Pache – si dice nel commento – non credeva nel potere delle immagini, ma solo in quello delle parole. Il figlio invece – al pari di Godard (autore di alcuni dei quadri mostrati nel video) – preferisce guardare le cose senza dare loro un nome e soprattutto dipingerle senza dare loro dei contorni. E così il succo d’arancia che scorre sul tavolo (Fig. 60) – un’inquadratura che ritornerà uguale e identica in Adieu au langage – è al contempo il succo di un’arancia e il «sangue della patria». Parlare di Pache insomma, pittore in fuga dalla figurazione e teso a cercare nel colore la verità della pittura, significa per l’autore parlare di se stesso, come del resto aveva già fatto in una delle storie secondarie di Passion, mettendo in bocca a uno dei membri della troupe una riflessione di Gregory Bateson sulla questione dei contorni delle cose (cfr. Capitolo 2).
12Prima di dire addio al linguaggio, insomma, Godard cerca di dire addio ai contorni, in modo tale da facilitare allo spettatore la transizione dalla visione all’immaginazione. Per questo tra le decine di dipinti che, frammentati a tal punto da essere quasi irriconoscibili, si susseguono in Liberté et patrie, ricorrono due opere di Nicolas De Staël, icona della pittura “esistenzialista” del dopoguerra evocato successivamente anche in Adieu au langage: Mr. Davidson, l’uomo seduto nei pressi di L’usine à Gaz4, sfoglierà, citandone a voce alta alcuni passi, La Mesure de Nicolas de Staël5, viaggio analitico e poetico nell’universo di un artista che, al pari di Godard, ha coniugato la sperimentazione con lo sguardo verso il passato6.
13«Per la madre di Pache – dice la voce over femminile – l’immagine era mistero». Ebbene tutta la ricerca di De Staël, partito da griglie di colori scuri (Ressentiment, 1948) e approdato, attraverso un sofferto itinerario interiore, all’esplosione di colori chiari e saturi (Le grand concert, 1955), è volta ad affermare, mediante un gesto pittorico al contempo fisico e metafisico, l’indecifrabilità del reale.
14Si è parlato ampiamente, nei capitoli precedenti, del fascino di Godard per la dimensione del tra, ovvero di quella zona di intervallo che abita l’occhio indeciso tra la finzione e il documentario, tra costruzione e decostruzione, tra immagine e nulla. L’orizzonte teorico della pittura di De Staël è molto simile a questo. Rifiutandosi di contraddire completamente le leggi del figurativo e lasciando invece all’osservatore il compito di disegnare nella sua mente i contorni di ciò che il colore ha dissolto, De Staël non ha fatto altro che inseguire l’utopia di una conciliazione tra astratto e figurativo e dunque tra linea e colore, definito e indefinito. Come dimostrano le due opere citate in Liberté et Patrie, la realtà non è imitata, ma nemmeno rifiutata; è piuttosto reinventata. La prima citazione riguarda Nu allongé au bras gauche (1955: fig. 61), una delle opere più emblematiche del ricerca dell’artista sulla figura umana e in particolare sul nudo femminile, non a caso oggetto di riflessione e rappresentazione in Adieu au langage. Se Godard, filmando il corpo nudo di Zoé Bruneau nell’atto di scendere una scala (fig. 62), si divertirà a parodiare il modello astratto di Duchamp (Nudo che scende le scale n. 2, 1912), qui il nudo di De Staël esprime null’altro che uno stato di tensione. Staccata dall’ambiente per mezzo di contorni così voluminosi da apparire essi stessi frammenti di spazio, questa figura appare al contempo inumana – un blocco di colore blu accostato a una superficie rossa – e umana, come attestano le macchie nere in corrispondenza del viso (i capelli scompigliati) e la gradazione di azzurro che illumina, conferendo dinamismo, le gambe. Perché Godard sceglie questo e non altri nudi di De Staël? Forse perché la palette tricolore impiegata – bianco (lenzuolo), blu (corpo), rosso (muro) – è la stessa che egli adotta da sempre? Il fatto è che nemmeno la riproduzione sfugge alla pratica della decostruzione, attuata nelle Histoire(s) du cinéma per tutte le riproduzioni pittoriche citate. Innanzitutto, il taglio di inquadratura sacrifica i bordi del dipinto, esaltando il peso occupato dalla figura umana in uno spazio che appare meno vuoto di quello creato da De Staël. In secondo luogo, è evidente come l’intento di Godard non sia quello di offrirci una copia originale di De Staël, ma filmare la verità della sua pittura.
15Se l’immagine cinematografica deve essere un «incontro»7, l’unico modo per restituire la tensione di cui sopra, allora, è accostare l’immagine di questo poster al particolare di un’opera lontanissima da questa per contenuto e linguaggio, Il bagno a Asnières di Georges Seurat (1884). Da questo paesaggio – una spiaggia brulicante di corpi bagnati da una luce al contempo materica e astratta – Godard ritaglia il profilo del volto di un ragazzo, il cui corpo, immerso nell’acqua, resta fuori campo. Quasi evocato dal gesto del bagnante, che porta le mani alla bocca come per rafforzare la direzione del suo grido, il nudo di De Staël prende vita, lampeggiando ripetutamente sullo schermo sino a sovrapporsi, per qualche istante, con la pelle puntinista di Seurat (fig. 63).
16La libertà a cui allude il titolo, allora, non è solo l’icona evocata da Delacroix (si veda la citazione di La libertà che guida il popolo, 1830) o la parola stampata sullo stemma di Vaud, il cantone svizzero dove è vissuto Pache e dove vive Godard, ma anche la possibilità, che questo montaggio ci offre, di rappresentarci un’immagine nuova e dinamica a partire dalla messa in relazione di due immagini fisse. Basta fare ciò che suggerisce la voce over, ovvero non limitarsi a guardare «fino a lì», ma chiudere gli occhi.
17La pittura, secondo De Staël, è al contempo muro (astrazione) e rappresentazione di uno spazio (figurazione), allo stesso modo in cui il cinema, per Godard, è contemporaneamente svelamento del dispositivo ed effetto di reale. Verso la fine di questa biografia immaginaria, quando il narratore racconta la dipartita della moglie di Pache, Godard accosta agli esterni naturali della Romandia uno dei tanti paesaggi marini del pittore espressionista, che nelle sue lettere ha sempre confessato amore per l’infinito del mare aperto. Il narratore sta raccontando la triste fine della moglie di Aimé, partita per mare per un viaggio senza ritorno dopo la morte della figlioletta, quando sullo schermo appare, incorniciata da due semplici stacchi, una riproduzione di Bateaux (1954: fig. 64). Questa volta nulla contamina l’immagine trovata: nessuna dissolvenza incrociata, nessuna riscrittura grafica o cromatica. La sola variazione rispetto al modello è la consueta amputazione dei bordi del quadro, scelta che non impedisce di cogliere quella che è forse la caratteristica più affascinante delle vedute di De Staël, ovvero la “messa in scena” di una continuità tra gli elementi disposti in primo piano e l’orizzonte. In particolare nelle opere degli anni Cinquanta, il blu del cielo si confonde con il mare, allo stesso modo in cui in questo cinema le storie principali sfumano in quelle secondarie e le parole si mescolano con i rumori d’ambiente. Non (solo) un soggetto dunque Godard ci mostra – un soggetto, il mare, del resto ricorrente in questa terza stagione – ma un’idea di messa in scena che la pittura suggerisce al cinema. Ed è stato lo stesso cineasta, nel corso di un’intervista concessa di recente alla CPN (Canon Europe), a ricordare come la tensione verso gli spazi vuoti – evidente anche in Adieu au langage – sia in realtà qualcosa che la pittura aveva già fatto. E per pittura in questo caso Godard intende Velásquez, o meglio il Velásquez che dipinge quello che c’è tra le cose (Il bandito delle ore undici: Cfr. Capitolo 1).
18«È mai possibile produrre un concetto di Africa?», domanda due volte una voce off femminile in Adieu au langage. Dieci anni prima, Liberté et patrie suggerisce un percorso contrario: dal concetto alla parola e quindi alla cosa. Limitati alla loro espressione verbale o grafica – questo forse vuol dirci Godard – Liberté e patrie restano segni vuoti, utili solo per contrassegnare lo stemma di un cantone. Le immagini – lo abbiamo visto – pensano, ma un concetto è filmabile quando diventa cosa o ancor meglio colore. Ciò accade solo nel Grand tableau finale, quello che Aimé Pache avrebbe dipinto alla fine della sua vita, quello che in realtà Godard dipinge e mostra nell’ultima inquadratura del video. Si tratta di un paesaggio di campagna. Nascosti nell’erba alta, due bambini, forse due fratelli, guardano un cielo multicolore all’orizzonte. Commentando il dipinto, il narratore non ci dice ciò che vede, ma solo ciò che si rappresenta: «I due bambini hanno i piedi nella Patria e gli occhi nella Libertà».
Elogio dell’impersonale
19Tra i paesaggi abitati da questo pittore immaginario compare anche Parigi8, una Parigi notturna che lo spettatore però ha già visto tre anni prima in Éloge de l’amour, ennesima variazione sul tema del cinema nel cinema. Fase finale di un progetto antico, nato con il titolo Voulez vous faire du cinéma?, Éloge de l’amour presenta almeno una storia principale – la medesima di Passion, ovvero un regista in cerca di storie – e un numero indefinito di storie secondarie, tra cui spiccano quella di una coppia di partigiani (Storia/Memoria) e quella di una donna suicida (storia/solitudine). La struttura duale della dialettica regola non solo lo sviluppo narrativo del racconto, ambientato per metà a Parigi e per metà in campagna, ma anche la testura stessa del dispositivo. Se la prima parte, quella che documenta la recherche di Edgar, è girata in pellicola b/n, la seconda, collocata in un tempo diegetico precedente alla prima, è filmata in video digitale e a colori. Quello che Edgar ha in mente è una cantata per Simone Weil, incarnazione mistica di quel frammento di Storia, la resistenza partigiana, che Hollywood vorrebbe comprare e che invece Edgar cerca di proteggere. E per proteggere la Storia è indispensabile far sì che essa non diventi leggenda. L’omaggio a Simone Weil conferma l’ipotesi, esposta in sede di Introduzione, di Éloge de l’amour come prima tappa di un ritorno ai grandi temi degli anni Ottanta, ovvero la riflessione sull’origine della creazione artistica e l’interrogazione sull’Origine del mondo. Ogni creazione, in quanto tale, è movimento, passaggio da uno stato all’altro, valico di quella soglia – molto familiare che separa l’invisibile dal visibile9. E allora ragionare sul mistero di Dio equivale a indagare il mistero dell’immagine filmica, perché in fondo «il cinema è ciò che non si vede. E questa ipotesi è ancorata in un cristianesimo onesto e laico»10. Laico, in certo senso, era anche il cristianesimo vissuto da Simone Weil, punto di confluenza tra il pensiero ebraico e quello cristiano e dunque incarnazione perfetta della dimensione prediletta da Godard, quella del tra. Si pensi solamente alla nozione di «amore velato», quell’«amore di Dio prima che Dio si manifesti», uno stato di sofferenza che si pone tra attesa e redenzione, tra amore e potenza11. Non è un caso che, per aiutarla a immedesimarsi nella parte della vergine operaia, Godard avesse consigliato a Isabelle Huppert di leggere La pesanteur et la grâce; l’aspetto ascetico (i capelli corti alla Renée Falconetti) e l’attitudine sacrificale (penso alla recita dell’Agnus Dei durante l’amplesso con Jerzy) facevano di Isabelle una sorta di Simone Weil postmoderna, più vicina al modello di quanto non lo fosse l’eroina di Europa ’51 (Roberto Rossellini, 1952).
20Tra l’omaggio alla pensatrice/mistica e l’elogio dell’amor cortese, nessuna soluzione di continuità. Perché Edgar/Godard riflette sulla creazione parlando dell’amore e la Creazione è, per Simone Weil, la più alta forma d’amore che Dio – un Dio non onnipotente – offre agli uomini. «Dio, perché mi hai abbandonato?» sussurrava Isabelle nella stanza di Jerzy. L’assenza di Dio è secondo Simone Weil conditio sine qua non dell’esistenza dell’uomo sulla terra, luogo da cui il creatore si è ritirato lasciando campo libero al Male e alla Necessità. Uno degli aforismi più commentati di Adieu au langage, inserito anche nel trailer promozionale, rimanda esattamente alla disillusione di colui che vede nel silenzio di Dio la prova della sua esistenza: «Dio non ha potuto, non ha saputo, non ha voluto fare di noi degli umili. Ha fatto di noi degli umiliati».
21Com’è noto, la portata rivoluzionaria del pensiero weiliano consiste in particolare nella critica del concetto di persona come entità giuridica sacra. Sacro, per Simone Weil, è tutto ciò che ogni individuo ha di impersonale, ovvero di potenziale, possibile, probabile12. Ebbene: al pari di Jerzy, che nella grazia muta delle figuranti inseguiva la potenzialità del sacro e nella passione delle amanti la luce della Passione, Edgar vuole raccontare non l’amore individuale di tre coppie, ma la possibilità che l’amore ha di incarnarsi in una determinata coppia, nascere, evolvere e morire. Non elogio di un amore dunque, ma elogio dell’Amore, allo stesso modo in cui non tanto la storia interessa, ma la Storia.
22Una volta scelto il volto per interpretare Eglantine, partner femminile della coppia giovane, Edgar si assicura che la ragazza abbia ben chiaro ciò che egli si attende da questa perfomance: «Ha capito che non è la storia di Eglantine, ma un momento della Storia, della grande Storia che passa attraverso Eglantine. Il momento della giovinezza».
23L’idea che passa attraverso i corpi: si tratta di un orizzonte di pensiero non distante dalle tesi di Simone Weil, secondo cui solo l’impersonale, ovvero ciò che «passa attraverso» persone di estrazione sociale differente, permette di riscattare l’individuo dall’oppressione del potere. Il concetto weiliano di impersonale si avvicina a ciò che Godard, in una delle didascalie iniziali, definisce con il pronome «qualcosa» (Éloge de quelque chose). Ciò che è impersonale, infatti, non ha contorni e soprattutto, come voleva Bresson, non è definito, ma trascende corpi e destini individuali. Non a caso qualcuno13 ha azzardato un suggestivo parallelismo tra il concetto weiliano di «dé-création» e l’estetica bressoniana della spoliazione. Se per Bresson l’automatismo del non-attore consente, sia al cineasta che allo spettatore, l’incontro mistico con qualcosa di inatteso e di non duplicabile, per Simone Weil la Verità e il Bene e la Bellezza possono penetrare l’individuo solo se egli si spoglia della sua persona ed effettua il passaggio nell’impersonale: «La verità e la bellezza abitano questo ambito delle cose impersonali e anonime»14.
24Ma questo passaggio «non è possibile se non nella solitudine. Non solo nella solitudine di fatto, ma anche solitudine morale. Non si compie mai in colui che pensa se stesso come membro di una collettività»15. Quella di Berthe, la ragazza senza volto che migra dalla prima alla seconda parte del film, non è altro che la storia di una solitudine, oltre che exemplum della solitudine della Storia. Edgar vuole filmare dei momenti dell’amore. Berthe incarna alla perfezione quel momento in cui, per dirla con Simone Weil, «l’essere umano si eleva al di sopra del personale» e cerca di «radicarsi nel bene impersonale». La donna è costretta a fare le pulizie sui treni per sopravvivere e mantenere il figlio di tre anni. Nella desolazione dei binari vuoti, non-luogo mai penetrato prima dall’occhio di Godard, l’anima di questo personaggio è, direbbe Simone Weil, «al freddo, nell’afflizione, nell’abbandono». Di lei Edgar non conosce nemmeno il nome. Quando gli annunciano la morte, forse per tubercolosi, egli ricorda a mala pena il tono di voce. Non leggiamo nessuna emozione sul volto anche perché la conversazione con lo zio della donna è interrotta da continue ellissi di schermo nero, metafora del buio che divora il tempo del ricordo. Assieme a una copia di Le voyage d’Edgar, classico per l’infanzia di Édouard Peisson, l’eco della voce sarà tutto ciò che di questo breve incontro resterà nella memoria dell’uomo, il quale, nell’ultima inquadratura, si congeda dal film leggendo un frammento delle Memorie dell’oltretomba di Chateaubriand: «Ecco come tutto svanisce nella mia storia, come non mi restano che delle immagini di ciò che è passato cosi velocemente. Scenderò ai Campi Elisi con tante ombre come nessun uomo ha mai portato con sé».
25Alcuni fili dunque uniscono, in una sorta di montaggio verticale, il pensiero di Simone Weil a quello di Godard e lo fanno, se così si può dire, attraverso la “mediazione” di Maurice Merleau-Ponty, la cui fenomenologia ha percorso sentieri in realtà già battuti dieci anni prima dalla filosofa anglo-francese16. Secondo Simone Weil tutto, in primis la sventura, passa nella carne dell’uomo, non pensabile come soggetto separato dalle cose. Una visione così materialistica e in un certo senso disperata dell’Essere, trasformato fisicamente (e non solo spiritualmente) dal pathos, non poteva che trovare terreno fertile nel pensiero per immagini di Godard, il quale, come abbiamo visto (cfr. Capitolo 1), non ha esitato a far proprie alcune tesi della fenomenologia di Merleau-Ponty, e in particolare la concezione dell’individuo come corpo calato nel mondo e in rapporto con altro da sé. Al pari dell’Essere, esposto ontologicamente a sventura (Weil) o violenza (Merleau-Ponty), l’immagine cinematografica non è un’entità astratta, ma il prodotto di una lacerazione, di una ferita, di una tortura. Non un’immagine giusta dunque, ma giusto un’immagine, violentata – e in questo modo resa visibile – dal montaggio.
26Fermiamoci un momento. Abbiamo detto che il cinema di Godard pensa. Più che di pensiero, in realtà, sarebbe opportuno parlare di produzione di idee a partire da estratti di idee altrui o ancora meglio, come ha suggerito Alain Bergala, di «meditazione»:
Quando guardiamo Éloge de l’amour ascoltiamo delle meditazioni, ma non siamo portati a chiederci se siamo d’accordo o meno. Non è questo il problema. Il fatto è che qualcuno medita sullo schermo e anche lo spettatore è invitato a meditare a partire da ciò che Godard cita17.
27Questo cinema dunque non ci interroga, ma – sotto traccia, direi quasi silenziosamente – suggerisce alla nostra coscienza echi, rifrazioni, accostamenti di immagini e/o idee apparentemente lontane tra loro. Tra Godard e Simone Weil, per esempio, si intravede l’ombra di Bresson. Non è questa la sede per indagare le affinità tra il concetto di Grazia teorizzato dalla filosofa anglo-francese e quello espresso da Bernanos nel Diario di un curato di campagna, testo adattato da Bresson e amato da Simone Weil. Di certo è curioso che proprio al personaggio di Berthe Godard assegni il compito di leggere alcune delle Note sul cinematografo, e in particolare due inviti a praticare una scrittura della sottrazione: «Sii certo di aver esaurito tutto ciò che si comunica attraverso l’immobilità e il silenzio»18 e «Devono essere i sentimenti a introdurre gli eventi. Non l’inverso»19. Éloge de l’amour, per dirla con Bresson, è un «film di cinematografo». Il montaggio ellittico accosta storie e Storia senza spiegare nulla, ma limitandosi a ricomporre i frammenti in modo tale che essi ricevano potere dalla loro interrelazione. Nessun sentimento è introdotto. È invece il sentimento di Edgar, quel desiderio di salvare la Memoria inserendola in una cornice audiovisiva dai contorni non definiti, a muovere l’azione, o meglio l’inazione che ritma questo film.
28Ma è soprattutto la nozione di impersonale, vertice di un pensiero fatto sempre seguire dall’azione (l’impegno nella Resistenza per esempio), che conferisce alla filosofia di Simone Weil quel carattere decostruttivo che, come ha dimostrato Paolo Bertetto20, possiedono anche le immagini pensanti di Godard, volto a distruggere non solo la struttura classica del racconto, ma anche la figura umana intesa come intero.
29Schierandosi, in perfetta solitudine, contro la dottrina del personalismo di Emmanuel Mounier – la quale era invece perfettamente in linea con il sentimento anti-totalitario dell’immediato dopoguerra – Simone Weil non ha fatto altro che seguire la strada intrapresa dall’arte contemporanea, ovvero decostruire la nozione di soggetto, separando il concetto di persona da quello di individuo. Molti anni prima di Godard, anche la filosofa-attivista ha detto in un certo senso addio al linguaggio, denudando in particolar modo i limiti che il linguaggio dimostra nella ricerca della verità:
Il linguaggio enuncia relazioni. Tuttavia ne enuncia poche, perché si svolge nel tempo. […]. Se si rivolge a uno spirito capace, una volta concepito un pensiero, di tenerlo presente mentre ne concepisce un altro, di tenere poi entrambi presenti mentre ne concepisce un terzo e cosi via; in tal caso il linguaggio può essere relativamente ricco di relazioni.[…]. Anche nella migliore delle ipotesi, uno spirito rinchiuso nel linguaggio è in prigione21.
Due cose che so di lei
30«Quando penso a qualcosa, non posso che pensare a un’altra cosa»: la mente di Edgar, che ripete due volte quest’affermazione nel corso del film, non sembra imprigionata nel linguaggio, ma libera, come abbiamo visto, di errare tra la Storia e le storie, tra presente e passato, tra il linguaggio della cantata e quello del romanzo.
31Mentre progetta un film di finzione, Edgar pensa a un documentario, perché non sa esattamente cosa fare. Non sa e proprio per questo i suoi occhi sono al contempo aperti, pronto a studiare le increspature dei volti durante il casting, e chiusi, ovvero rivolti dentro, verso un desiderio che si fa con il passare del tempo sempre più fragile. L’amore decantato dal titolo, quel momento della storia che il regista insegue perlustrando i territori della Storia (le memoria della Resistenza cattolica), forse è nascosto tra gli interstizi che separano le due sezioni dell’opera, lì dove, come sostiene Bresson, la poesia penetra da sola.
32«Cercare di vedere – diceva il narratore di Liberté et patrie – significa guardare fino a lì». Come il suo creatore, Edgar non parte dalla parola, ovvero da una sceneggiatura, ma dallo sguardo. Per questo le pagine dello script sfogliate all’inizio del film sono bianche: il suo film avrà una genesi identica a quella che l’autore ha descritto in merito a Adieu au langage:
Le idee vengono poco a poco. Non c’è sceneggiatura. All’inizio pensavo di dover scrivere una sceneggiatura. Poi ho capito che la sceneggiatura viene non solo dopo le riprese, ma addirittura dopo il montaggio. Ovvero a uno stadio del lavoro in cui è possibile riassumere a parole ciò che vuol dire l’immagine22.
33Anche per Edgar, insomma, l’arte è ricerca di qualcosa che non esiste prima, è ricerca di verità. Ma la verità, insegna Weil, può nascere solo da uno spirito libero e per questo capace di «tenere presenti più pensieri», pensieri «inesprimibili a causa della moltitudine di rapporti che vi si combinano»23. Godard dice che l’immagine ha bisogno del nulla per esistere, che per vedere è necessario chiudere gli occhi; per Simone Weil «non si entra nella verità senza essere passati attraverso il proprio annientamento».
34Quando penso a qualcosa, ripete Edgar, penso a qualcos’altro. Per argomentare questa tesi l’uomo prende per esempio un paesaggio: «Vedo un paesaggio nuovo per me, ma è nuovo per me perché lo paragono, col pensiero, a un altro paesaggio, che invece è antico, e che io conosco».
35Edgar non pensa (a) Parigi, ma si limita ad abitarla, a guardarla, ad ascoltarla, come faceva venticinque anni prima Marina Vlady (Due o tre cose che so di lei). Si lamenta del fatto che tutti abbiano il coraggio di vivere la loro vita, ma non di immaginarla: «Come posso farlo io al posto loro?». Osservare come un flâneur la folla urbana sugli Champs-Elysées, forse, può aiutare l’immaginazione, ma l’obiettivo è irraggiungibile: «Vorrei qualcuno come Simone Weil o Hannah Arendt». Berthe sembra la persona giusta, ma all’inizio rifiuta perché non ama la notorietà e l’ambiente del cinema. Noi ascoltiamo qualcosa (la conversazione tra Edgar e Berthe) e al contempo guardiamo qualcos’altro: Parigi.
36Il paesaggio che ci è dato da vedere in questo film è dunque anche per noi al contempo nuovo e antico. Antico perché abitato dagli antieroi degli anni Sessanta e nuovo perché filmato con modalità completamente diverse. Assente è la deambulazione dei corpi. La cinepresa filma i personaggi quando sono fermi, sulla balaustra di un ponte per esempio, e abitano già lo spazio. Fermi come l’uomo senza fissa dimora che dorme sulla panchina di Place de la Madeleine, catturato in uno dei flash urbani che scorrono sullo schermo durante il casting della coppia anziana. Come avrebbe voluto Bresson, il cinematografo di Godard non illustra il contesto della scena, ma si limita a cogliere attimi e frammenti: le mani dei volontari che distribuiscono viveri ai sans papiers, i corpi di due vagabondi stretti dentro le loro coperte sul pavimento di un locale vuoto.
37Su un’anonima panchina, del resto, troviamo seduto anche Godard, che ascolta la conversazione di due giovani fingendo di leggere un libro (fig. 65). Non ci sono più onde da cavalcare né mete da raggiungere, ma solo una memoria da preservare e opere d’arte da recuperare. La stasi, che nelle opere degli anni Ottanta caratterizzava soprattutto le cose (le auto in particolare), coinvolge ora direttamente i corpi. L’inquadratura più eloquente di questo stato delle cose è il campo medio che documenta una lunga conversazione tra Edgar e Berthe in una zona periferica della città (fig. 66). Immobili e inquadrati di spalle, in una sorta di rivisitazione postomoderna dell’incipit di Questa è la mia vita, i due parlano senza guardarsi, perché il loro sguardo è diretto verso il fondo del quadro. Ma in questo quadro non c’è nulla da vedere, se non un edificio abbandonato e muri imbrattati da graffiti. L’orizzonte è escluso. Se vedere è «cercare di guardare fino a lì», Edgar e Berthe non vedono nulla, ma forse fanno di più. Si rappresentano qualche cosa, qualcosa di indistinto e indefinito come l’età adulta, che del resto entrambi incarnano. E soprattutto parlano, parlano come non hanno mai fatto prima, dando la sensazione che la parola possa davvero permettere di entrare in comunicazione con l’altro. La conversazione si sposta dalla vita, che solo nella solitudine «comincia a prendere senso», all’arte, che al pari della vita si compone di cose che cominciano e di cose che terminano.
38Su una cosa i due sono d’accordo. Al pari della vita, che non prende senso se non nel momento della morte (topos ricorrente negli scritti di Simone Weil), «l’immagine non dice mai niente; è il nulla che parla accanto ad essa». Naturalmente qui non è Edgar a parlare e nemmeno Godard, ma il Blanchot de L’amicizia (1971), uno dei testi che, assieme al Museo immaginario di Malraux, a mio avviso più hanno influito sull’ideazione e sulla composizione delle Histoire(s) du cinéma:
L’immagine, lo sentiamo, è felicità, perché è un limite vicino all’indefinito, possibilità di fermarsi nel seno del movimento. Attraverso l’immagine ci crediamo padroni dell’assenza divenuta forma, e anche la notte densa sembra dischiudersi allo splendore di una chiarezza assoluta. Sì, l’immagine è felicità, ma al suo fianco dimora il nulla, appare al suo limitare e tutta la potenza dell’immagine, estratta dall’abisso nel quale si fonda, non può esprimersi che facendogli appello24.
39Queste sono le parole di Blanchot. Ma, come vedremo anche più avanti, nel passaggio dal testo al film le parole mutano e spesso perdono frammenti. E così in Notre musique JLG, invitato a tenere una conferenza sul rapporto tra immagine e parola al Salone del libro di Sarajevo, sfoggia una citazione non integrale di questo frammento di Blanchot: «Oui, l’image est bonheur, mais près d’elle le néant séjourne. Et la toute puissance de l’image ne peut s’exprimer qu’en lui faisant appel». Come un amanuense medievale, Godard trascrive il testo originale commettendo appositamente un’evidente svista ovvero amputandolo di una parte non secondaria: la definizione del nulla come fondamento ontologico dell’immagine («estratta dall’abisso nel quale si fonda»). Se il linguaggio, come vedremo, altro non è che alleanza tra parola e immagine, è opportuno non trascurare l’influenza che sull’ascolto di queste parole ha l’immagine mostrata da Godard al pubblico della sua conferenza: una fotografia in bianco e nero ritraente un teschio con tanto di occhiali da sole e maschera sorridente. L’immagine (la maschera di cartapesta) si offre come un fragile involucro del nulla (il teschio).
40Attraverso l’immagine, sostiene Blanchot, l’uomo si sente padrone dell’«assenza divenuta forma», ma la presenza stessa della traccia è segno che il referente, ovvero ciò di cui l’immagine è immagine, è perduto, inghiottito da un nulla inteso come non-visibile, buio, oblio.
41Questa citazione, con cui si chiude quella che resta l’inquadratura più lunga di tutto il film, è disturbata proprio a metà dal rumore del traffico fuori campo. Rumore di qualcosa che non si vede, ma che, adiacente al visibile esattamente come il nulla è adiacente all’immagine, ha il potere di frammentare il tessuto sonoro e cancellarne alcuni elementi. Se riascoltiamo il dialogo originale, ci accorgiamo che l’eco del traffico nella galleria impedisce di capire l’aggettivo relativo all’immagine: «Une image ne dit jamais rien, elle devraît être (parola incomprensibile), mais c’est le néant qui parle à coté d’elle». Che sia visiva (lo schermo nero) o sonora, dunque, la cesura resta una componente ontologica dell’immagine godardiana, che, come ha giustamente osservato Jean-Claude Rousseau, «esiste proprio perché non è ridotta a segno di scrittura»25. Insistendo accanto all’immagine, il nulla la preserva esattamente come l’immagine – quella slegata dai legami narrativi del cinema hollywoodiano – preserva la Memoria. In questo caso il nulla che «parla» accanto all’immagine altro non è che il suono inteso come materia: «Per quanto poco il suono venga diminuito dal dire, se non lo si sente più a causa dell’intelligenza di ciò che viene detto, allora bisogna rompere il dire»26. A volte, però, più che «rotto» il dire è semplicemente annullato, svuotato di ogni peso sonoro all’interno del quadro. Penso a quel momento in cui, davanti alla Senna, Berthe si avvicina a Edgar e gli parla per alcuni secondi senza che noi possiamo udire una sola sillaba. Al movimento delle labbra della donna si sovrappone, in una sorta di montaggio interno, Le chant des mariniers, ovvero un frammento del tessuto sonoro di L’Atalante27, frammento di quella storia del cinema che Godard non ha mai finito di archiviare. Quando guardiamo qualcosa, insomma, ascoltiamo qualcos’altro.
42Ritorniamo a Parigi. Edgar e Berthe si fermano a guardare la Senna. L’immagine della periferia, in questo cinema, non è nuova. Abbastanza inedita è invece l’attenzione per i monumenti del ventre urbano, segno quasi didascalico di questa estetica dell’immobilità. La prima inquadratura, che introduce i titoli di testa, ci offre un dettaglio della fontana di Place de la Concorde, mentre nei tableaux parisiens che accompagnano il dialogo del regista con il suo produttore si intravede la facciata della Madeleine. Come sempre in Godard l’immagine non è rappresentazione ma relazione tra rappresentazioni. Ecco che allora accanto a questi luoghi dell’immaginario, corrispondenti all’immagine che Hollywood ha esportato della città, convivono luoghi della memoria (la fabbrica abbandonata della Renault) e non-luoghi del presente, come la stazione della SCNF dove lavora Berthe.
43Elogio di qualcosa, dunque. E Parigi è esattamente “qualcosa”, ovvero un ibrido tra un volto e un paesaggio, una zona morta della memoria dove il passato convive con il futuro28 e si incrociano le traiettorie di due corpi che poi non si incontreranno più. Edgar guarda il Bois de Boulogne e non può non pensare a qualcos’altro, ovvero alla sterminata foresta del I secolo a.C. di cui il parco è solo una traccia. Così come traccia, ma di un orrore ben più disumano, è il cartello ferroviario con la scritta “Drancy Avenir” che intravediamo nel momento in cui Edgar si accinge a salire su un treno. Il comune di Drancy, infatti, è tristemente noto per aver ospitato il più grande campo di concentramento francese durante la Seconda guerra mondiale. Da qui i prigionieri venivano prelevati per essere deportati ad Auschwitz. Per una sorta di scherzo del destino, su cui ironizza lo stesso Edgar, Drancy, ovvero la Memoria, è accostato a Avenir, ovvero il futuro. Non ci poteva essere ossimoro più caro a Godard.
44Parigi, però, è anche il luogo dell’Origine. Qui è nata la Nouvelle Vague ma soprattutto il cinema, come conferma quell’omaggio a Lumière con cui termina la sequenza del colloquio con Berthe alla stazione. Mentre Edgar insiste per organizzare un casting, convinto che la donna sia l’interprete ideale per la coppia adulta, la cinepresa ignora i volti dei personaggi e documenta l’ingresso di un treno nell’hangar della stazione (Fig. 67). Solo il taglio di inquadratura è identico a quello delle vedute Lumière. Per il resto tutto è mutato. In vece del riflesso del sole sulle pareti delle carrozze, lo sfarfallio delle luci al neon nel silenzio del binario vuoto. Nessun passeggero, perché il viaggio è già finito. Questo è un treno vuoto in una stazione vuota. La Parigi di Éloge de l’amour è una Parigi del dopo-storia.
L’immagine povera
45Tra i topoi che dalla stagione degli anni Ottanta migrano in Éloge de l’amour c’è anche la pittura. Collezionare quadri, come fa Mr. Rosenthal, il produttore del progetto di Edgar, significa illudersi di possedere il tempo del ricordo. Un tempo che – mi riferisco alla prima parte del film – rimane congelato nelle tele sequestrate durante l’occupazione nazista e ora restituite al legittimo proprietario. Ma nessuno, nemmeno Edgar, guarda questi quadri, i quali sono detti e non mostrati, se non frettolosamente. Il produttore parla di «due Corot, un Lichtenstein e un Bruegel», mentre si intravede a mala pena un’opera di Matisse, confusa dallo stesso Rosenthal con un Delacroix.
46Come il suo personaggio, che cerca di raccontare qualcosa dell’amore in età adulta, Godard insegue quello che c’è tra l’infanzia e la vecchiaia dell’immagine. Lo insegue e dunque non può mostrarcelo, in quanto come tutti i suoi lavori anche Éloge de l’amour è un film del dopo, o meglio: il film è il risultato stesso di questa recherche. Un risultato che restituisce, nella testura dell’immagine, la medesima dualità vecchiaia-infanzia attorno a cui ruota il progetto di Edgar. Se il bianco e nero lucido della prima parte evoca un’immagine “vecchia”, o quanto meno già vista (i chiaroscuri notturni e l’illuminazione dei volti ricordano l’ultimo Garrel), la seconda parte – quella ambientata in campagna – è invece filmata con un’immagine “infantile” o, per utilizzare un aggettivo impiegato dall’autore a proposito di Adieu au langage, un’immagine «giovane»29. Non giusto un’immagine, ma l’immagine giusta per raccontare il «margine di indefinito» (Bresson) che minaccia e al contempo feconda ogni progetto creativo.
47Il supporto scelto è quello del Digital Video, che, alterato in sede di rendering, restituisce però un’immagine in bassa definizione. I colori sono sgranati e saturi, i contorni non definiti, l’esposizione insufficiente e spesso controluce. Ma ancora più indefinito è il soggetto di queste immagini, ovvero il mare agitato della costa bretone dove vive la coppia di partigiani intenzionata a vendere le proprie memorie a Hollywood. Prima del cartello che introduce la seconda parte (Deux ans auparavant), l’inquadratura è riempita da un tramonto marino che provoca un’insorgenza di arancione, rafforzata dal contrasto con lo schermo nero che la precede e la segue (Fig. 68). Il modello, ancora una volta, non è tanto il fauvismo30 quanto l’espressionismo astratto di De Staël e soprattutto la fisicità del suo tocco. Se il pittore “esistenzialista”, di cui Mr. Rosenthal conserva alcuni disegni (si tratta del medesimo Nudo mostrato in Liberté et Patrie), stendeva il colore sulla tela con il coltello, al fine di far percepire la tattilità materica del segno, Godard, mediante la bassa definizione dei suoi pixel, mette a nudo la materia di un dispositivo che, anziché imitare la realtà, la reinventa secondo una nuova gamma luministica e cromatica. Il regista di Passion si chiedeva dove andasse e soprattutto da dove venisse la luce. Come nei paesaggi di De Staël, la luce qui proviene dall’“interno” dell’inquadratura, i cui elementi – mare, scogli, prato, cielo – sembrano sul punto di perdere, da un momento all’altro, la propria definizione. I contorni sono divorati da un colore che, senza chiaroscuri, invade ogni porzione dello spazio e si afferma come forza autonoma, in grado non tanto di assorbire quanto di produrre la luce. Parafrasando il celebre aforisma relativo a Il disprezzo (cfr. Capitolo 1), potremmo affermare che quello ritratto in questo esterno non è un sole e neppure un cielo, ma semplicemente dell’arancione.
48Accarezzando i suoi quadri, Mr. Rosenthal ironizzava sul fatto che un’opera d’arte avesse bisogno di un nome per essere catalogata, esattamente come un individuo in una società capitalistica. Quello che Godard dipinge con la camera DV sono invece paesaggi senza titolo. Senza titolo perché l’occhio del (cine)pittore non traduce i segni della natura in un altro codice, ma li trascrive liberamente, facendo emergere in primis la materia del significante.
49Tra aria e acqua nessun contrasto, se non una linea rossa come la decorazione di una delle due barche che, in omaggio a un altro grande “genere” frequentato da De Staël, ondeggiano vicino allo scoglio in un’inquadratura successiva. A bordo di quella barca, striata dei colori della tricromia, il partigiano Jean Bayard ritornò in Francia dopo la liberazione.
50La natura, insomma, non è più imitazione di un Bello scolpito dalla memoria (Nouvelle Vague) o da un’intelligenza superiore (Je vous salue, Marie), ma si offre, direbbe Bresson, come reale ritoccato dal reale31. Accanto al reale filmato, infatti, emerge il reale di un dispositivo, il Digital Video, che non reagisce alla luce allo stesso modo in cui lo fa la pellicola32. Dietro la superficie dei pixel agiscono impulsi elettrici che, come ha osservato Vincent Heristchi33, il cinema d’autore ha spesso impiegato come metafora di evasione dal reale e ingresso in un universo sconosciuto, non-familiare e dunque perturbante (penso agli universi paralleli esplorati da David Lynch o David Cronenberg). Il partito preso da Godard è diametralmente opposto. La bassa definizione (Low-Definition) della sua immagine non significa allontanamento dal vero, ma messa in discussione della riproducibilità tecnica di questo vero. Come ha osservato Christin Uva, «l’uso estetico della LD, fondato sull’esplicitazione della pixelatura dell’icona, sembra in effetti volgersi verso l’esibizione della stessa materia del digitale»34. Il reale, insomma, irrompe e brucia i contorni delle cose con la stessa forza con cui, nella sequenza della conversazione con Berthe analizzata sopra, il rumore del traffico cancellava le parole di Edgar.
51«Cerco la povertà nel linguaggio» dirà il Godard di Adieu au langage. Ma suddetta ricerca è cominciata molti anni prima e ha coinvolto non solo la povertà ma anche la piattezza dell’immagine.
52I paesaggi en plein air di questa Bretagna sono narrativamente poveri. Non illustrano né documentano nulla, se non loro stessi: alcuni cavalli al pascolo, le luci di una barca al tramonto, la schiuma delle onde sulle rocce. Non sono abitati dai corpi, ma dai fantasmi evocati dagli stessi corpi. Penso al volto di Simone Weil, che, evocato dalle parole di Edgar, prende lentamente forma sullo schermo offrendosi come giuntura in bianco e nero tra un paesaggio di colore verde (un esterno giorno di campagna, fig. 69) e un altro a dominante blu (il mare agitato da “onde terribili”). Che cosa vuol dire filmare un ritratto fotografico, ovvero conferire una durata a quella che resta pur sempre la riproduzione di un istante? Come interagisce il tempo bloccato dell’immagine fissa – un’immagine pulita e accademica – con il tempo instabile di queste immagini “giovani” e grammaticalmente scorrette? Non è la prima volta che Godard utilizza il ritratto di un personaggio illustre del secolo morente. Lo aveva già fatto con Hannah Arendt, utilizzando una gigantografia del suo volto come scenografia per una performance attoriale in Nous sommes encore tous ici (Anne-Marie Miéville, 1997): ci torneremo tra poco. Questa volta però il fantasma non è fondale, ma al contrario è ciò che invade, con il suo funereo hic et nunc, la labilità di un paesaggio dove invece tutto si muove, dalle foglie agitate dal vento alla barca sferzata dalle onde, mentre il rumore del motore si dissolve in quello del mare. Ancora una volta, dunque, l’immagine in Godard si rivela prodotto di un processo dialettico. L’immagine fissa di Simone Weil non è solo l’interstizio tra due immagini mobili, ma è essa stessa una metafora del tra. Ogni ritratto infatti, sosteneva Roland Barthes, è soggetto colto nel momento di diventare oggetto, sostanza individuale che, per essere, non può non rimandare all’oggetto che raffigura35. Quando guardo una fotografia, direbbe Edgar, non posso non pensare all’occhio che prima di me ha guardato il soggetto riprodotto, ma soprattutto a ciò che stanno guardando gli occhi di questo soggetto.
Il visibile e l’invisibile
53Ritorneremo più avanti sulle questioni che riguardano le dinamiche di scambio tra cinema e fotografia. Per ora possiamo rilevare come Godard sembri voler contraddire il principio barthesiano secondo cui «una foto è sempre invisibile» in quanto medium finalizzato unicamente a sostituire l’assenza del referente. Le Histoire(s) du cinéma ne sono state una prova: più che rendere presente l’assente, la fotografia filmata rende presente se stessa e soprattutto i limiti del proprio orizzonte mimetico.
54Nel momento in cui si dissolve, per lasciare spazio al paesaggio marino, la fotografia di Simone Weil sembra in qualche modo contagiare l’immagine mobile che la “ospita”, se è vero che per alcuni secondi il movimento delle onde si arresta. Viene in mente il montaggio analogico che, nel museo berlinese di Allemagne 90 neuf zéro, permetteva all’occhio di Delphine di errare senza soluzione di continuità dalla pittura (Courbet) al cinema, passando per un’istantanea della propria macchina fotografica (vedi Capitolo 3). Il cinema, insomma, recupera la temporalità di un’immagine che non è né fotografia né pittura, ma qualcosa tra questi due linguaggi, qualcosa che ha il tempo della fotografia e lo spazio, granuloso e materico, della pittura.
55Tra cinema e fotografia circola soprattutto un suono: la parola. E non si tratta di una parola-testo, ma di qualcosa di più complesso.
56Si consideri la scena di conversazione tra Edgar e Jean Lacouture. Del primo vediamo il volto davanti a una finestra, del secondo ascoltiamo solo la voce. Una voce che interrompe il giovane nel momento in cui egli cerca di chiarire i motivi del suo interesse per Simone Weil: «Simone Weil diceva che i testi della Bibbia non sono una teoria di Dio, ma una teoria dell’uomo». A partire da questo momento la discussione procede per blocchi contrapposti, non tanto accostati quanto sovraimpressi l’uno sull’altro, in modo tale da dare la sensazione di una sorta di 3D sonoro. «Il cristianesimo fa parte dello spirito della Resistenza» prosegue Lacouture, che con le sue parole oscura la replica del regista: «Parlavo del Cattolicesimo, non del cristianesimo». Sovraimpressa ad altre parole o alterata da sbalzi di volume e rumori di fondo, la parola si offre ancora una volta come pura presenza plastica, materia bruta “gettata” sulla superficie del quadro senza essere levigata, esattamente come il colore sulle tele di De Staël.
57Aveva ragione Nana (Questa è la mia vita). Anziché avvicinare, la parola allontana e soprattutto, come ricorderà JLG nel Purgatorio di Notre musique, «ritaglia gli oggetti dalla realtà» e dunque li de-realizza, attribuendo loro un nome e soprattutto dei contorni. In questo caso la parola non fa nemmeno quello, ma si offre come oggetto, tanto sfuggente e indefinito quanto le immagini che a essa il montaggio sovraimprime. Godard sceglie infatti di mostrarci, come controcampo del volto parlante di Edgar, alcune fotografie di partigiani e il paesaggio marino della Bretagna. Perché il campo-controcampo, nel cinema hollywoodiano, spesso non è stato che un modo per contrapporre due volte la stessa immagine, mentre la verità – come sentiremo ripetere in Notre musique – ha due volti.
58E i due volti della verità inseguita da Edgar sono in fondo gli stessi due volti del cinema. Da un lato la traccia lasciata dai testimoni, in questo caso i partigiani della Resistenza (documentario); dall’altro la rappresentazione che, di questa testimonianza orale e visiva, il regista elabora dentro di sé (finzione).
59La dialettica è sempre la stessa: vedere versus immaginare, occhi aperti versus occhi chiusi. Ma ciò che queste immagini, così accostate le une alle altre, pensano, ci riconduce alle riflessioni fenomenologiche di stampo merleaupontiano da cui siamo partiti analizzando l‘infanzia dell’immagine (Capitolo 1). Per i personaggi di Due o tre cose che so di lei e Si salvi chi può… la vita, l’unico modo per sentire di esistere e dunque «salvarsi la vita» era ritrovare, lottando contro la ripetizione imposta dalla società dei consumi, una relazione di armonia autentica con il mondo. Questa armonia è possibile solo in virtù di quella reversibilità del sensibile teorizzata da Merleau-Ponty e citata in un passaggio di JLG/JLG Autoportrait de décembre. Mi riferisco all’incontro, a cui abbiamo in parte accennato anche sopra (Capitolo 3), tra Godard e la sua montatrice. Mentre la ragazza, cieca, sfiorava con le dita la pellicola di Hélas pour moi, la voce off riprendeva un celebre passo di Il visibile e l’invisibile, dove in questione è proprio la relazione tra soggetto vedente e oggetto visto, concepiti come poli intercambiabili:
Se la mia mano sinistra può toccare la mia mano destra mentre tocca le cose, perché io toccando la mano di un altro non potrei toccare in lei lo stesso potere di sposare le cose che ho toccato nella mia mano? Ora, l’orizzonte è illimitato […] se c’è un rapporto del visibile con se stesso che mi attraversa e mi costituisce come vedente questo cerchio che io non faccio ma che mi fa, questo arrotolamento del visibile sul visibile può attraversare e animare altri corpi come il mio36.
60Edgar cerca di vedere, o meglio di portare alla luce qualcosa. Questo qualcosa è prima un passato privato che sta per diventare leggenda, poi uno dei momenti dell’Amore. Non sa bene come riprodurre quello che vedrà, ma ha fiducia nei suoi occhi e dunque nell’immagine che essi potranno restituire. È Berthe che, nel momento in cui egli sta per abbandonare la Bretagna, mette alla prova questa sua fiducia, ricordandogli, come diceva Blanchot, che «l’immagine, la sola capace di negare il nulla, è anche lo sguardo del nulla su di noi». Come spesso accade nell’ultimo Godard, una frase – in questo caso il frammento di Blanchot – ritorna a più riprese di film in film o all’interno dello stesso film, ma mai perfettamente identica. Piccole variazioni lessicali o sintattiche ci restituiscono la citazione come qualcosa di vivo, di mobile, di instabile, come se Godard fosse sempre alla ricerca di una Verità nascosta dietro il segno della parola scritta.
61Quando dice che «il nulla ci guarda», Berthe si riferisce forse a quella visibilità anonima che, secondo Merleau-Ponty, abita sia i corpi che gli oggetti, i quali «sono ciò che permette di passare da un soggetto all’altro» e quindi di vivere insieme nel mondo (Due o tre cose che so di lei). Edgar non è convinto di questa tesi e riparte salutando freddamente la donna, una donna di cui il controluce ci impedisce di vedere il volto: «Spero che non sia così».
62Eppure, in una sequenza che una didascalia colloca “due anni prima”, sarà lo stesso Edgar ad ammettere che le cose prendono senso solo nel momento della fine. Esterno notte. Siamo dentro l’auto di Edgar, diretta verso una destinazione a noi ignota. Mentre i tergicristalli spazzano via la pioggia, Berthe, in voce off, invita l’uomo a rompere il silenzio. E allora Edgar parla, e quello che racconta non è l’inizio ma la fine di un amore, un amore durato pochi anni, quanto l’amore che la donna ha appena vissuto con il padre di suo figlio.
63Perché le cose prendono senso solo quando finiscono?37 Perché – dice Berthe – «è in quel momento che la Storia comincia, la storia con la S maiuscola». In questo momento, invece, sta per finire la storia che Godard ci sta raccontando. Non sapremo mai dove arriverà l’auto di Edgar, non sapremo se alla fine di questo tragitto i due vivranno un momento dell’amore che l’uomo vuole raccontare. Ed è proprio questo non-finito, questo nulla presente ai bordi dell’immagine, che conferisce senso alla narrazione. Lo ha detto Jean Lacouture alla fine della sequenza precedente: «Sia il suono che l’immagine sono necessari alla storia. Ma c’è soprattutto un elemento fondamentale se si vuole raccontare una storia: non sapere come la storia finisce».
64Non solo non sappiamo come finirà questa storia. In questo momento, grazie alla focalizzazione interna del camera-car, non vediamo nulla (fig. 70). La bassa definizione del dispositivo fotodigitale potenzia l’effetto flou di un’immagine in cui le cose, proprio come in certe tele di De Staël, non hanno più contorni. Non distinguiamo né la strada né le auto che vi sfrecciano. Le luci dei fanali riflesse sul parabrezza, unitamente al riverbero della pioggia, creano un magma plastico e cromatico indistinto, un paesaggio astratto in qualche modo simile a quello forgiato dal colore nel camera-car iniziale di Il bandito delle ore undici, che abbiamo già visto essere un film seminale nell’opus godardiano. Se confrontiamo le due sequenze, ci accorgiamo infatti che la messa in scena è speculare. Qui l’occhio della cinepresa guarda il paesaggio dall’interno dell’auto, mentre in Il bandito delle ore undici era diretto sui volti degli occupanti, feriti dalle palpitazioni colorate delle luci notturne e intenti a riempire il silenzio – una sorta di nulla “sonoro” – con riflessioni sulla caducità della vita (la guerra nel Vietnam) e sulla contiguità ontologica tra visibile e invisibile. Riascoltiamo le parole di Marianne (Anna Karina):
Mi ha sempre affascinato la fotografia. Vediamo la foto di un tipo con una didascalia. Forse era un poco di buono o un vigliacco, ma nel momento in cui la fotografia è stata fatta nessuno può dire quello che era, quello a cui pensava. Pensava a sua moglie? Alla sua amante? Al passato? Al futuro?
65Che sia fissa o mobile, dunque, l’immagine dice meno di quanto nasconde e ciò che non è immediatamente visibile è esattamente ciò che ci ri-guarda, nel doppio senso del termine (un’ambiguità semantica conservata dalla lingua francese). Inteso come trama interna del visibile (Merleau-Ponty), l’invisibile ci guarda e allo stesso tempo ci riguarda. Se il cineasta non riesce a leggere completamente il volto che cattura, lo spettatore è attratto proprio dalla ferita (dallo strappo, direbbe Didi-Huberman) che lacera l’immagine dall’interno.
66In questione dunque, tanto in Il bandito delle ore undici che in Éloge de l’amour, è l’immagine come soglia tra il visibile e l’invisibile. Siamo infatti posti di fronte a un visibile (i volti da un lato, il paesaggio notturno dall’altro) che, in quanto tale, rimanda a un invisibile, ovvero al visibile nascosto fuori campo. Prima la direzione degli sguardi (Il bandito delle ore undici), poi la presenza acusmatica delle voci (Éloge de l’amour) configurano le rispettive inquadrature come finestre aperte su qualcos’altro: quando guardo qualcosa – direbbe Edgar – non posso non guardare qualcos’altro. Solo la negazione visiva del fuori campo, come dimostrerà Godard in Notre musique, permette infatti all’inquadratura di darsi come un insieme non-finito e dunque come luogo della possibilità di una storia. Queste due sequenze, però, contengono anche parole, parole che, messe in bocca ai due personaggi femminili, curiosamente delineano un orizzonte comune. Se Marianne denota l’impotenza della fotografia di fronte al mistero del visibile, Berthe cerca di convincere il regista che l’immagine offre solo l’illusione di vincere il tempo. In realtà essa, «sotto le sembianze di un bagliore abbacinante, ci offre il negativo dell’inesauribile profondità negativa»38.
67Non vediamo i volti dei personaggi di Éloge de l’amour, ma l’invisibilità di questi volti non conferisce all’inquadratura un senso più ottuso di quanto non lo faccia, in Il bandito delle ore undici, la visibilità dei volti di Karina e Belmondo, vuoti ed enigmatici come il paesaggio notturno descritto sopra. Come suggeriva Bresson, Godard configura le sue inquadrature mantenendo un evidente margine di indefinito, quel margine tra visibile e invisibile che, in fondo, forse cercava anche il Velázquez riletto da Elie Faure proprio in Il bandito delle ore undici (vedi Capitolo 1). Impossibile mostrare tutti i lati delle cose e soprattutto i contorni dell’amore, visto che l’età adulta, concluderà Edgar, non esiste. L’occhio del cineasta, che al pari del pittore «si dà con il suo corpo»39, non può allora fare altro che questo: errare attorno agli oggetti e catturare «gli scambi misteriosi che fanno penetrare le une negli altri le forme e i tempi».
L’evento e lo sguardo
68Attorno alle cose errano anche i viaggiatori di Film socialisme, saggio in forma di road movie sulla fine delle ideologie ed ennesima interrogazione sull’ambiguità della nozione di Europa. La struttura è quella dell’apologo: in modo tanto silenzioso quanto ineluttabile, il Capitalismo avrebbe realizzato il sogno del Socialismo, ovvero ottenere l’uguaglianza degli uomini di fronte al denaro. E non è un caso che l’oro sia uno dei leitmotiv visivi più ricorrenti di un film che, come l’acqua del Mediterraneo, scorre senza fermarsi né preoccuparsi di lasciarci gli strumenti per una decifrazione del narrato.
69Quando guardiamo le immagini Film socialisme, guardiamo (anche) qualcos’altro. La schiuma bianca del mare rimanda alla nostra Storia (la civilà del Mediterraneo) ma anche, come ci ricorda la prima delle numerose voci off, a una storia con la s minuscola, quella del cinema: «Algeri, la bianca, dove Mireille Balin lasciò cadere Pépé le Moko!». Non è immediatamente chiaro chi pronunci queste parole, perché molti sono i passeggeri di questa nave: una giovane donna (Constance) con compagno e figlio (Ludo) al seguito, tre intellettuali non ben identificati (un filosofo, un economista e uno scrittore), Bob Maloubier, ex agente secreto della SOE e soprattutto Richard Christmann, ex agente dell’Abwehr che, sotto il nome di Otto Goldberg, avrebbe partecipato, nel 1936, alla sottrazione di parte dell’oro spagnolo destinato all’URSS. Il condizionale è d’obbligo perché quella che Godard ci racconta non è la Storia ma, come dice il titolo, semplicemente un Film, ovvero una variazione finzionale (e in questo caso anche demistificatrice) del fatto storico. Il fatto a cui si allude corrisponde a una delle pagine più controverse della Storia recente, ovvero l’operazione di trasferimento di 500 tonnellate d’oro dalla Spagna all’Unione Sovietica alla vigilia della Guerra civile spagnola. Le riserve d’oro – una parte della quale fu dirottato a Parigi – erano depositate al Banco de España in forma di monete, per lo più americane, e proprio una collana di monete d’oro occupa il centro dell’ultima inquadratura di quello che, come ha giustamente osservato Martial Pisani40, appare una sorta di divertita riscrittura della Storia. La sosta a Odessa, che coglie di sorpresa molti dei turisti, permette di allargare la rotta oltre il bacino del Mediterraneo e inventare un reale mai accaduto, ovvero il ritorno dell’oro in Spagna. La destinazione di questo viaggio, partito da Algeri, è infatti Barcellona, porto non distante da Cartagena, sede autentica della partenza del cosiddetto “oro di Mosca”.
70Come spesso in questo cinema, anche qui Nomen est omen. Su Otto Goldberg, letteralmente montagna d’oro, ricadono i sospetti di quel furto che, nella leggenda plasmata da Godard, il carico d’oro subì alle porte di Odessa. Le associazioni tra parole, numeri e cose sono come sempre infinite e permettono non solo di legare ma anche di confondere la verità con la leggenda. Un esempio soltanto: tre furono le navi che entrarono nel porto di Odessa (realtà), tre sono le parti in cui il bottino venne spartito (finzione) e tre sono, come vedremo, le sezioni che articolano questo viaggio.
71La poetica del frammento coinvolge sia la storia (se mai di “storia” si può parlare) che la costruzione dell’immagine, affidata a una moltitudine di dispositivi elencati in sede di paratesto come Teknos: Archos 404 cam., Samsung Nv24HD, Canon 5d mk2, Sony Ex1, Sony TG1E, Panasonic snap shot, JVC Everio. Molte, e non una, sono anche le lingue parlate e vanamente tradotte dai sottotitoli inglesi: dal latino al russo, dal tedesco all’italiano, dall’arabo allo spagnolo. Tra oralità e scrittura la relazione è come sempre dialettica e come sempre la parola si rivela colore (fig. 71) e soprattutto cosa, materiale da scomporre e ricomporre. È sufficiente inserire una cesura perché HELLAS diventi HELL AS e il senso, inevitabilmente, oscilli.
72Ha ragione Jean Douchet41: più che decriptare gli enigmi (Chi parla? Che cosa vedo? Che cosa succede?), sarebbe opportuno guardare quest’opera interrogandosi sulla modalità stessa della nostra ricezione. Che cosa mi provoca la visione di Film socialisme? Quali sono le associazioni mentali che il montaggio verticale ha evocato nella mia mente di spettatore impossibilitato ad arrestare il magma narrativo?
73La prima associazione – forse la più suggestiva – è quella che collega il film al suo tempo. Impossibile, quanto meno per uno spettatore italiano, non rivedere questa Costa Concordia senza ripensare alla tragedia dell’Isola del Giglio (2012), catastrofe che Godard – non senza un pizzico di autoironia – si vanta di aver in qualche modo predetto, allo stesso modo in cui Il grande dittatore avrebbe annunciato la barbarie nazista (cfr. Capitolo 3). Ciò che interessa è il concetto di metafora (Europa = nave), parola che non a caso darà il titolo a uno dei segmenti di Adieu au langage (Nature, Métaphore). Da un’immagine a un’immagine, dunque, senza nemmeno passare per il referente. Nel deserto del reale su cui si fonda la comunicazione transmediale, l’inquadratura di Godard evoca infatti non (solo) l’evento, ma anche – direbbe Marco Dinoi42 – lo sguardo che su questo evento è stato gettato dai media e di conseguenza anche dalle centinaia di turisti che si sono recati sul luogo solamente per immortalare l’immagine del relitto. Non è escluso che su questo set così “reale” (la Costa Crociera è una vera Costa Crociera, gli attori sono mescolati a veri turisti), l’autore – alla ricerca della «povertà nel linguaggio» (Adieu au langage), abbia utilizzato per alcune inquadrature anche lo smartphone di qualche passeggero.
74Non c’è morte sulla nave di Film socialisme, ma qualcosa che in qualche modo può rievocarne la temporalità, ovvero una macchina fotografica utilizzata come videocamera e un orologio fermo, privo di lancette, indossato da un personaggio (Constance), ma proveniente dalla tomba di un faraone egiziano e indicante – come suggerisce la giornalista di France 3 – «la notte dei tempi». Abbiamo visto (Capitolo 2) quanto Godard rifletta sul rapporto tra le cose e le parole utilizzate per nominarle. Ebbene: un orologio che non segna l’ora è ancora lo stesso oggetto? Possiamo ancora nominarlo “orologio”? La perdita della funzione originaria, mi sembra, apre una sospensione del tempo e riduce questa cosa a pura immagine di qualcosa che era e non è più. Non serve più ora, ma è servito nel passato. Dunque esso è immagine di tempo, ovvero un oggetto «che si abbandona all’emergere della sua sola immagine»43.
75Dall’Africa all’Europa, sfiorando le coste dell’Egitto e della Palestina, Godard va alla ricerca delle radici dell’identità europea e lo fa sorretto dal consueto repertorio di frammenti – sonori, letterari e audiovisivi – che irrompono nel presente dall’archivio della Storia.
76Ecco, in ordine sparso, solo alcuni dei filosofi citati, in stampatello bianco su sfondo nero, nella sezione Textos: Walter Benjamin, Jacques Derrida, Hannah Arendt, Jean-Paul Sartre, Jean Tardieu, Alain Badiou, Henri Bergson. Ma il Film, scritto in collaborazione – tra gli altri – con Anne-Marie Miéville e Jean-Paul Battaggia, si avvale anche di numerosissimi inserti audiovisivi, dove il cinema d’autore si mescola con il documentario o il film di genere. Senza soluzione di continuità passiamo da Espoir – Sierre de Teruel (Espoir André Malraux, 1945) a Viaggio in Italia, da Alexander the Great (Alessandro il grande, Robert Rossen, 1956) a Lo sguardo di Michelangelo (Michelangelo Antonioni, 2004), da Devil’s Tomb (A caccia del diavolo, Jason Connery, 2009) a Méditerranée (1963), capolavoro dimenticato di Jean-Daniel Pollet su cui torneremo. Più esiguo il corpus delle fonti musicali, come sempre eterogenee; accanto a Beethoven, Giya Kancheli, Chet Baker e Paco Ibáñez.
77Come hanno sottolineato anche Martial Pisani e Arthur Mas44, difficile non è solo interpretare ma anche semplicemente descrivere Film socialisme, che all’ennesima visione lascia sempre l’impressione di un’opera aperta, indefinita o quanto meno non-finita. Più che di un racconto, si tratta – lo ha suggerito l’autore stesso – di una «sinfonia in tre movimenti». Tre movimenti da intendere però non come successivi, ma piuttosto concentrici: una crociera sul Mediterrano con partenza da Algeri e destinazione Barcellona (Des choses comme ça), un dialogo tra genitori e figli sui valori della bandiera francese (Quo vadis Europa) e infine, articolato da un montaggio tanto anarchico quanto ermetico, un libero flusso di immagini e parole che ricorda molto il primo canto di Notre musique (L’enfer) e non pone “fine” al Film, ma al contrario lo apre a una molteplicità quasi infinita di significati (Nos humanités).
Dialogo con i volti
78Curiosamente, i nomi di queste tre sezioni non sono riportati in sede di sceneggiatura, pubblicata come sempre dai tipi di P.O.L45 nel rispetto dell’estetica crossmediale dell’autore. All’interno di (quasi) ogni pagina le parole, scritte in diverse lingue e contro le regole grammaticali e sintattiche, si incontrano e si scontrano con una quantità corposa di immagini in b/n, prive di didascalia e distinte sostanzialmente in due tipologie: volti e parole (le stesse visualizzate nei cartelli che punteggiano il film). Le parole “parlate” si alternano alle parole “mostrate”, senza che quest’ultime abbiano necessariamente qualcosa in comune con la consequenzialità narrativa dello script. Più dei cartelli, ci interessano però i volti o meglio le riproduzioni di fotografie, per lo più note, di narratori (Hemingway, Faulkner, Genet), filosofi (Benjamin, Arendt, Husserl), cantanti (Barbara, Mina, Patti Smith) o uomini politici (Clemenceau), uniti sulla superficie della filigrana come in una sorta di cimitero della memoria. Dialogue avec visages auteurs è infatti il sottotitolo di un’opera, il Film socialisme di carta, che si situa tra la sceneggiatura e gli appunti di lavorazione, resistendo a qualunque tentativo di classificazione. Impossibile, sfogliando le 99 pagine del testo, distinguere tra i dialoghi attribuiti ai personaggi e gli infiniti frammenti di frasi di cui è intessuto lo spazio sonoro (brani di conversazione dei turisti, parole di canzoni alla radio, massime pronunciate da indeterminate voci off). Se il narratore cerca di «dialogare con i volti» è perché la parola – come suggerirà anche Adieu au langage – pare aver perso ogni collegamento non solo con la cosa, ma anche con la sua fonte di emissione: «Ciò che esce dalla bocca potrebbe avere rapporti con il linguaggio, ma spesso non è così. Il linguaggio è una questione di rapporti tra cervello, bocca e parola»46.
79Su questa postmoderna Crociera della Memoria, che non a caso evoca due dei colori della tricromia (il giallo e il blu), vagano senza peso fantasmi di creature scespiriane («I do not have my heart in my mouth»)47, echi di citazioni già citate («Le rêve de l’État c’est d’être seul, le rêve de l’individu c’est d’être deux»: Notre musique)48 e soprattutto riflessioni sui rapporti tra le parole e le cose: «Pauvres choses elles n’ont à elles que le nom qu’on leur impose». Ma dare un nome alle cose significa ricorrere al linguaggio e dunque superare quello iato tra pensiero, bocca e parola che angosciava non solo Nana (Questa è la mia vita), ma anche Marie, incapace, la notte dell’Annunciazione, di trovare la sua via/voie e soprattutto la sua voce/voix (Je vous salue, Marie).
80Non esiste personaggio, in questo cinema, che non si senta in qualche modo guardato dalle immagini e “parlato” dalla parole, proprio come accade al protagonista di L’innominabile (Samuel Beckett): «Toute parole me quitte et en même temps elle est dans l’attente de moi même que j’ai quitté en parlant»49.
81Non è questa la sede per un approfondimento dell’influenza di Beckett sul pensiero di Godard, ma la constatazione della disconnessione tra pensiero e parola – tema cardine anche di Adieu au langage – non può non evocare le atmosfere narrativamente rarefatte del Becket della Trilogia. Sessant’anni prima di Godard, Beckett aveva in un certo senso detto “addio al linguaggio” narrativo prolungando, per esempio in L’image, una frase per dieci pagine consacrate tutte alla descrizione dell’impotenza descrittiva della parola. Non è un caso, allora, che a pagina 58 di Film socialisme campeggi non solo un ritratto del drammaturgo, ma anche un estratto di L’image: «Ma langue ressort et va dans la boue je reste comme ça plus soif la langue Rentre dans La bouche se referme elle doit faire une ligne droite maintenant à présent c’est fait j’ai fait l’image»50.
82Come quella “forgiata” dall’alter ego di Beckett, l’immagine audiovisiva di Godard è liquida, informe e instabile. E questo perché il narratore, ovvero colui che «compone»51 le immagini, non ha più alcun potere su di esse. Ne è al contrario posseduto. Si riveda l’incipit di Scénario du film Passion, con l’autore che agita le braccia proiettando il suo riflesso sulla tela bianca dello schermo: «Tu veux pas écrire, tu veux voir, tu veux re-ce-voir. Tu es en face d’une page blanche, d’un plage blanche»52 (cfr. Capitolo 1). Che esista una dinamica di scambio tra creatore e creatura ce lo conferma anche Lo sguardo di Michelangelo (2004), il piccolo capolavoro di Michelangelo Antonioni citato nell’ultima parte del film. Mano a mano che il regista esplora con lo sguardo la tattilità del Mosé, il vedente si fa veduto e lo sguardo diventa tatto. E questo non è solo un «dolce miracolo degli occhi ciechi», ma la conferma di quanto nella microfilosofia di Jean-Luc Godard sia radicata la rivoluzione fenomenologica di Merleau-Ponty: «Circolarità parlare-ascoltare, vedere-essere visto, percepire-essere percepito (grazie a essa ci sembra che la percezione si faccia nelle cose stesse)»53. La variazione più surreale su questo tema resta indubbiamente quella offerta, sul finire di Quo vadis Europa, dalla gag del bambino che (ri)dipinge un Renoir affermando: «J’accueille un paysage d’autrefois»54 (fig. 72). Creare significa ricevere e dunque – poiché in recevoir è contenuto voir – vedere una creazione altrui.
83Come dimostrò lo stesso Beckett in Film (1965), esse est percipi e allora l’unico modo per sfuggire alla reificazione dello sguardo è quello suggerito dal brano di Giya Kancheli che “accompagna” alcuni frammenti di Des choses comme ça55: ABII NE VIDEREM, ovvero «mi sono allontanato per non vedere». Se il reale dunque è invisibile agli occhi aperti e in quanto tale non può essere “inserito” nella creazione artistica («Nous n’avons que des livres à mettre dans les Livres»)56, l’immaginario non è da meno. Raccontare una storia è al contempo raccontare la Storia, la quale però contiene al suo interno anche la storia di colui che la racconta. Evidente, ancora una volta, è la lezione fenomenologica di Merleau-Ponty: non ci può essere né visione né narrazione se il soggetto rifiuta la sua «fondamentale unità» con l’oggetto.
84Tornando all’analisi della sceneggiatura, possiamo notare come Godard si diverta a creare, mediante l’impaginazione, effetti retorici e stilistici poi assenti nella trasposizione filmica. Si prenda per esempio l’intervallo tra pagina 26 e pagina 27. Preceduto da un ritratto del suo autore, il motto to be or not to be chiude pagina 26 senza suggerire alcun enjembement con le parole che aprono la pagina accanto (Une juive / oui on me l’a dit), parole invece pronunciate da uno dei personaggi – Rebecca, passeggera della nave – senza alcun “rispetto” della cesura. Se la pista sonora costituisce un film parlato “altro” rispetto a quello prodotto dal flusso di immagini, la sceneggiatura non fa che rafforzare la polisemia, invitando il lettore a sfruttare la forza iconogenica della parola scritta e guardare il film dentro di sé, con gli stessi occhi ciechi della montatrice di JLG/JLG.
85Gli spazi bianchi e la mancanza di segni di interpunzione suggeriscono dunque la dissoluzione della forma-sceneggiatura. Come se non bastasse, la disposizione delle immagini nel corpo del testo obbedisce più a suggestioni musicali che logiche. Si pensi per esempio al volto di Gabriella Ferri (fig. 73), montato accanto a quello di Mina in una pagina dedicata alla tappa italiana di questa crociera, ovvero lo scalo a Napoli. L’operazione è ricchissima di sfumature intertestuali. La foto al centro della pagina in questione rinvia alla carriera attoriale dell’artista romana e più esattamente al ruolo della Lupa interpretato in Remo e Romolo – Storia di due figli di una lupa (Castellano e Pipolo, 1976). Le due parole stampate a fianco (Niente tutto), invece, oltre che reiterare in senso ossimorico il tema del nulla («Une fois en 1942 j’ai rencontré le néant»)57 evocano forse l’hit più noto dell’artista, ovvero Sempre, contenuto nell’album da cui Godard trae l’immagine di copertina per la seconda apparizione “visiva” della cantante, quella collocata a pagina 91: «Ognuno è un cantastoria/tante facce nella memoria/tanto di tutto/tanto di niente». Il volto di Mina, la cui voce nel film risuona su fondo nero, altro non è allora che una delle tante facce nella memoria della Storia (Napoli-Italia-Mediterraneo) sui cui si affaccia Nadège Beausson-Diagne, l’attrice che interpreta Constance. Nessuna traccia però, sulla pagina della sceneggiatura, del lavoro di decostruzione che Godard chiede alla sua performer, la quale prima pronuncia senza timbro una lamentatio sull’Europa58 e poi rompe il velo della finzione guardando negli occhi l’obiettivo della videocamera (fig. 74). Ma non è finita. Perché qualche secondo dopo l’attrice, sul modello della semantica dell’indice59 vista in tanta pittura occidentale, solleva la mano destra e indica qualcosa fuori campo, invitando lo spettatore (o un passeggero della nave?) a immaginare: «Immagina un deserto».
86La polverizzazione del senso raggiunge qui un punto di non ritorno. Il gesto espressivo dell’indice, che Leonardo Da Vinci impiegava per conferire «inconfutabile verità» ai suoi personaggi, è svuotato da Godard di ogni carica drammatica ma soprattutto – penso alla mano dell’Angelo in La vergine delle Rocce – di ogni tensione teofanica: nessuna Vergine fuori campo, solo un mare agitato dalle onde.
87Qual è, inoltre, il nesso tra una riflessione sull’agonia dell’Europa e una canzone di Mina, innestata over nel già ricchissimo tessuto sonoro del film? Con «deserto», naturalmente, il paroliere non intendeva certo un frammento di Mediterraneo, ma il correlativo oggettivo di un cuore abbandonato («Immagina un deserto/immagina un concerto/non è stato scritto/immagina la luce/sono io senza te»). Godard, naturalmente, finge di fuggire il senso letterale di queste parole per poi invece aderirvi eideticamente, mediante un montaggio che restituisce la fisicità di questo cuore lacerato. Mentre Mina paragona il deserto al suo cuore, davanti ai nostri occhi scorrono, nell’ordine, un particolare di La calunnia (Sandro Botticelli: il Rimorso che guarda la Verità), un fotogramma in cui sono visibili due navi militari, il dettaglio del ritrovamento di un cadavere e di nuovo l’immagine di una battaglia navale. Inutile se non sterile decifrare la provenienza di questi frammenti, che Godard ci invita a percepire non come racconti (parole) ma come cose. Delle cose così, con la loro pesantezza, il loro colore e il loro ritmo, dettato dagli intervalli neri che sembrano visualizzare la respirazione e le palpitazioni del cuore.
Mediterraneo
88Più che emozioni, interrotte sul nascere da un montaggio che rifiuta il bello per attingere il Bello60, a Godard interessa restituire sensazioni, come quella del vento che scuote il microfono sulla prua della nave impedendoci di ascoltare la conversazione tra Melissa, la giovane nipote di Goldberg, e Ludovic, il ragazzino che scambia la superficie della Costa per un campo da basket. Il vento, lo sciabordio delle onde, l’eco del karaoke in coperta e tutti gli altri suoni che costellano questo viaggio lungo le coste del Mediterraneo non rinviano a null’altro che alla loro dimensione di cose sonore, frammenti non narrativi di un reale che invece sembra non interessare ai turisti, intenti a fotografare unicamente se stessi. Se il cinema è il cinema, il rumore è rumore e nulla più. Eppure, all’orecchio anestetizzato dello spettatore del terzo millennio, questi effetti sonori di reale possono apparire perturbanti tanto quanto lo furono, per gli spettatori del 1895, i riflessi cangianti delle ombre nelle vedute Lumière, definite non a caso da Godard «straordinario nell’ordinario».
89Non credo, come sostiene qualcuno, che con il sempre più frequente utilizzo di dispositivi LD Godard voglia denunciare la degradazione dell’immagine; al contrario. Uno dei fili che uniscono le opere qui analizzate è proprio la riflessione sull’immagine quale simulacro di quell’unità tra io e mondo a cui aspirano tutti i personaggi di questo cinema, da Juliette Jeanson (Due o tre cose che so di lei) a Lemmy Caution (Allemagne 90 neuf zéro) sino alla mère di Film socialisme. La tecnologia digitale, in questo senso, non fa che rafforzare suddetta illusione. Da un lato offre a tutti la possibilità di verificare tecnicamente il proprio esser-ci («(mi) filmo dunque sono»), dall’altro, per mezzo della sua testura numerica, ci ricorda che essa potrebbe anche esistere senza di noi, senza la nostra presenza fisica davanti all’obiettivo61.
90Presenza di cui ha invece ancora bisogno la televisione, come conferma la surreale indagine di France 3 Région a cui è dedicato il secondo movimento di questa sinfonia, Quo vadis Europa. Al pari delle cose, anche i corpi sono al contempo se stessi e qualcos’altro, in quanto sintesi di libertà e di nulla62. Composta da père, mère, Florence e Lucien, la famiglia Martin è una famiglia tipo scelta per un’inchiesta giornalistica, ma il suo nome evoca la “Famille Martin”, una cellula della Resistenza francese incaricata di far passare la frontiera svizzera ai prigionieri di guerra63. Davanti alla telecamera, père e mère dovrebbero discutere di égalité e liberté, visto che di fraternité dibatteranno i due figli. Ma, ancora una volta, parlare della Storia (della Francia, dell’Europa, dei suoi valori) è impossibile senza raccontare la propria storia, senza dire “Io”. Se il padre chiede ripetutamente al figlio perché egli non li ami, la madre esprime un disagio tutto privato, riconducibile a quel sentimento di essere-per-la-morte di cui sopra: «Oui, pour les garder intacts, l’espace et le temps, j’ai menti. Je néglige de les vivre... C’est un peu injuste… […] J’estime toujours que je suis ailleurs»64.
91Altrove – un altrove tanto spaziale che temporale – è l’orizzonte toccato nell’ultimo segmento dell’opera, dal titolo tanto enigmatico quanto affascinante (Nos humanités). Tra i programmi per il futuro elencati da Florine alla madre, oltre quello di «avere ragione», c’è anche il seguente: «Imparare a vedere, prima di imparare a scrivere». Ebbene: gli ultimi quindici minuti di Film socialisme rappresentano una sorta di viaggio ai confini del visibile, confini che ora non sono più solo spaziali – la Costa Crociera fa scalo a Odessa – ma temporali. La risposta sulla futura destinazione dell’Europa può venire, infatti, solo dalle tracce di chi nel passato ha guardato e filmato queste terre, come Thédore Monod, prozio dell’autore e autore di numerosi documentari sui deserti africani, e naturalmente lo stesso Ejzenštejn, che Godard omaggia facendo collidere alcune inquadradure di La corazzata Potëmkin con le immagini di una lezione di storia impartita ad alcuni bambini proprio sulla celebre scalinata. Dove veleggiavano le barche cariche di viveri per gli ammutinati, ora sosta la Costa Crociera. Ma lo sguardo più caro all’autore è senza dubbio quello di Jean-Daniel Pollet, il cui Méditerranée resta il modello di riferimento principale di questo progetto:
Che sappiamo noi della Grecia oggi… Che sappiamo dei piedi agili di Atlante, dei discorsi di Pericle […], che sappiamo noi di noi stessi, oltre al fatto che siamo nati là migliaia di anni fa… Che sappiamo dunque di quell’istante superbo in cui alcuni uomini […] invece di ricondurre il mondo a loro come un qualunque Dario o Gengis Kahn, si sono sentiti solidali ad esso, solidali alla luce non inviata dagli Dei ma da loro stessa riflessa?65
92Con questo interrogativo, riproposto oggi in forma di film, Godard esprimeva, nel 1967, la sua ammirazione per l’opera di Pollet, esempio di cine-poema a metà strada tra Dziga Vertov e Chris Marker, influenzato sia dalle sperimentazioni del Nouveau Roman che dal montaggio del primo Resnais. L’etichetta di «materialismo poetico», imposta dalla critica, è riduttiva ma rende conto della matrice dialettica su cui si fonda la scrittura di Pollet, che applica il partito preso delle cose senza escludere, tuttavia, la possibilità di un’utopistica unione di soggetto e oggetto e soprattutto di mondo e linguaggio. Se davvero, come sostiene Derrida, il linguaggio non rinvia ad altro che a se stesso poiché nulla lo fonda, forse il cinema, in quanto configurazione simulacrale del mondo66, può lenire la coscienza del Dasein e dare l’illusione di poter trasformare lo spazio in tempo perduto. «Sta a noi – scrive il Godard spettatore di Pollet – trovare questo spazio», che Philippe Sollers, autore del contrappunto verbale alle immagini di Méditerranée, ha non a caso definito «cubico»67.
93La frequentazione con il gruppo di «Tel Quel» è fondamentale nell’evoluzione del percorso di Pollet, che risente, inevitabilmente, anche della lezione di Francis Ponge. Se il linguaggio, prigioniero di idealismo e soggettivismo, non può più “dire” le cose, l’unico modo per ritornare a esse con la parola è indagare aspetti inediti del loro peso, della loro superficie, della loro testura: «Oh pauvres choses, elles n’ont à elles que le nom qu’on leur impose»68, lamenta una voce off femminile nella prima parte di Des choses comme ça. Partire dalle cose, del resto, era anche l’imperativo di Edgar in Éloge de l’amour: «Parlons de quoi, c’est fait / parlons des choses / mais / ne parlons pas sur les choses parlons /à partir des choses»69.
94Pollet seleziona alcune cose del paesaggio mediterraneo (una statuetta del dio Horus, le rovine di Palmira, il tempio di Apollo a Bassae, l’erba incolta che invade le pietre, il mare visto dall’alto) e fa interagire il loro silenzio con immagini provienienti da un altrove indefinito, come il lettino di una sala operatoria, un quadro di Jacopo Bellini, il volto di una ragazza dormiente e la carcassa agonizzante di un toro. Da un lato l’asprezza reale della cosa, dall’altro la fluidità virtuale del simbolo. Di tutte queste cose – alcune piatte, altre profonde – due attraggono l’attenzione di Godard: il simulacro di Horus, il dio Egizio ipostatizzato in falco, e quel fotogramma che è forse l’immagine eidetica di tutta l’operazione, ovvero il mare visto attraverso un filo spinato (fig. 75). Né mare, né terraferma dunque, ma una soglia che introduce la visione e al contempo, come suggerisce un cartello in Des choses comme ça, nega l’accesso (ACCES DENIED). Facile è leggere questa inquadratura come una metafora spaziale di quella dimensione del tra a cui tende l’immagine godardiana, ovvero «l’immagine fatta di due»70, sospesa tra la luce di un’inquadratura e il buio di quella successiva. La parola Mediterraneo, del resto, non indica una terra, ma un intervallo tra due o più terre.
95Vengono in mente, ancora una volta, le riflessioni di Merleau-Ponty sulla inscindibilità tra carne e sguardo nell’esperienza della visione, teorizzata mediante il celebre esempio della piscina: «Quando vedo attraverso lo spessore dell’acqua le piastrelle sul fondo della piscina, non le vedo malgrado l’acqua e i riflessi, le vedo proprio attraverso essi, mediante essi»71. Allo stesso modo, il filo spinato accarezzato dal travelling di Pollet – e innestato da Godard accanto a un’immagine documentaria (un prigioniero di guerra scortato da soldati) – è quel limen che consente al vedente di vedere e al contempo di vedersi come essere errante tra immagine e nulla. Il gioco di parole enunciato in Scénario du film Passion («Voir… recevoir») si arricchisce, da un punto di vista fonetico, di un’ulteriore sfumatura di senso. Il frammento -cevoir è infatti omofono al modo riflessivo del verbo vedere (se voir). Vedere, pertanto, è anche vedersi.
96«Tutto si fa orizzonte, tutto si avvicina, tutto diventa stregato», recita in Méditerranée il testo di Sollers, che Godard però espunge dalle immagini preferendogli frammenti di una canzone pacifista (Where Have All the Flowers Gone, tradotta in tedesco), riflessioni sulla differenza tra verbo essere e verbo avere72 e soprattutto un ammonimento di Jean Genet, pronunciato da una delle voci off che “recitano” in questa sezione: «Mettere al riparo tutte le immagini dal linguaggio e servirsi di esse perché esse sono nel deserto dove bisogna andare a cercarle».
97Addio, dunque, al linguaggio?
Khan Khanne
98«Non faccio più parte della distribuzione, e dunque non sono più laddove voi pensate che io sia. In realtà seguo altre piste… ed ecco alcuni luoghi dove io risiedo, qualche volta per molti anni, qualche volta per alcuni secondi». Con queste parole, pronuciate in voce over su frammenti di film tratti dal proprio archivio vhs, Jean-Luc Godard ringrazia il direttivo del Festival di Cannes per aver accolto Adieu au langage nella competizione ufficiale. E lo fa con una videolettera, Khan Khanne (2014), che appare come l’ennesima occasione per giocare con i generi e soprattutto con le parole. Se sotto il logo della Palma d’oro appare la scritta «Sélection Naturelle», la ripetizione del suono Cannes rinvia all’omofona danza (il Can can), fondata su un principio, quello della ripetizione, che abbiamo visto essere fondatore dell’estetica di questo cinema: penso alla struttura del Bolero in Prénom Carmen o alla pratica, molto frequente negli ultimi dieci anni, di far migrare di film in film una determinata citazione o inquadratura modificandola in modo quasi impercettibile.
99Nell’incipit di quello che l’autore ha definito «non un film, un semplice valzer», l’immagine “ripete” la parola, connotandola di una sfumatura che tende ironicamente verso il dispregiativo. Mentre l’autore afferma di non appartenere più al gregge che sale gli angusti ventiquattro scalini del Palais, sullo schermo si muove una mandria di buoi, o meglio la riproduzione in bassa definizione di un vecchio western in bianco e nero.
100Godard ci dice di essere altrove, dove è «sempre stato e sarà ancora per molti anni», ovvero nello spazio della memoria in cui è confinato anche Lemmy Caution, il primo dei fantasmi che, preceduti da un cartello su fondo nero, ci vengono incontro durante la visione. Non contento di citare la propria opera – e mi riferisco ai brevi estratti da Allemagne 90 neuf-zéro, Re Lear e Adieu au langage – l’autore cita anche se stesso, riproponendo un frammento di Nous sommes tous encore ici (1997), il cortometraggio diretto dalla moglie a cui abbiamo accenato all’inizio di questo Capitolo.
101«Non è il contenuto delle ideologie, ma la logica con cui i dirigenti degli stati totalitari le utilizzano, che produce questo suolo familiare»: davanti alle poltrone vuote di un teatro, truccato come nella vita (giacca, occhiali e barba incolta), Godard recita un brano da La natura del totalitarismo, un testo per nulla adatto a una rappresentazione scenica ma proprio per questo funzionale all’operazione. Godard, dunque, mostra se stesso nell’atto di “dire” un testo. Abbiamo parlato poco fa di ripetizione. Quella a cui assistiamo non è una recita, ma la riproduzione di una répétition (prova) che a sua volta ripete una delle parole chiave dell’ultima stagione creativa del regista: solitudine. «Il rischio nella solitudine è di perdere se stessi», dice Hannah Arendt, riprodotta in una fotografia che funge da scenografia, attraverso la voce di questo attore senza nome. Solitudes, un état et ses variations era il sottotitolo di Allemagne 90 neuf-zéro, mentre infinite nelle Histoire(s) du cinéma erano le variazioni sulla parola “solitudine”, da solitude de l’histoire a une histoire seule sino a seul le cinéma. Lo ha osservato forse per primo Jacques Aumont: ciò che torna, in questo cinema, non torna sempre alla stessa maniera73.
102Il volto stesso di Hannah Arendt è una metafora di questa pratica di “differenza nella ripetizione” che l’autore poi applica anche a Shakespeare, riproponendoci, dal Re Lear, proprio quella battuta di Cordelia rivisitata («I don’t have my heart in my mouth») appena parafrasata in Film Socialisme74. Nel Film socialisme cartaceo un ritratto giovanile della Arendt occupava la metà inferiore di pagina 10, preceduto da una breve citazione da una celebre lettera della stessa filosofa a Gershom Scholem sui concetti di indipendenza politica e isonomia75.
103Qual è il nesso tra le tesi sulla banalità del Male e una video-missiva in calce a un film in 3D? La risposta, forse, arriva dalle parole stesse, che Godard prende alla lettera prima di coinvolgerle nel consueto gioco di associazioni. Quando illustra l’ontologia del Male, Arendt adotta, come unità di misura, l’opposizione profondità-superficialità. Il male sarebbe infatti «banale» in quanto non profondo, non radicato in un determinato popolo, ma così “superficiale” da poter invadere qualunque mente, qualunque nazione, qualunque epoca. È proprio la sua “bidimensionalità”, insomma, che assicura la sua forza. Non è forse un caso allora che la dialettica tra il superficiale e il profondo sia uno degli orizzonti di riflessione aperti in Adieu au langage, seconda esperienza di Godard con il 3D dopo The Three Disasters, episodio del film collettivo 3x3D (Greenaway, Godard, Pêra, 2013). «Il 3D è un desiderio antico – ha dichiarato di recente l’autore – lo aveva anche Welles. Fare il 3D è facile, difficile è fare entrare il profondo nel piatto»76.
104Che cosa vuol dire «fare entrare il profondo nel piatto»? Godard dà la paternità di questo aforisma a Céline, ovvero a un artista che lavora con le parole e non con le immagini. Al di là dei continui rimandi a linguaggi apparentemente estranei al cinema, come la letteratura o la filosofia, è evidente che una riflessione sullo statuto linguistico del cinema non può prescindere da un’indagine sulla testura stessa dell’immagine, la quale, per diventare linguaggio, sembra avere comunque bisogno della parola:
Oggi i talk show e la comunicazione quotidiana non sono linguaggio, sono lingua. Il linguaggio viene da più lontano, è una specie di alleanza della parola e dell’immagine, di cui il neonato conosce un breve momento, perché al contempo è meravigliato e grida. Solo in seguito arriva la comunicazione. Ma la comunicazione per me e per alcuni filosofi non ha alcun rapporto con il linguaggio77.
105«Perché nemmeno io ho più il cuore nella bocca», ripete due volte il simulacro di JLG riprodotto in Khan Khanne. Questo, forse, voleva dire Nana quando esprimeva davanti a Brice Parain (Questa è la mia vita) la sua difficoltà a comunicare con le parole, troppo “lontane” dalla bocca e non in grado di restituire con esattezza il pensiero.
106E mentre JLG annuncia di andarsene, «portato via dal vento cattivo assieme alle foglie morte», sullo schermo scorrono alcune fotografie in bianco e nero, tra cui un ritratto di François Truffaut. Perché il cinema è forse il riparo del tempo, ma nessun’immagine può “riparare” dal vuoto della perdita.
107Cannes, 2014: Godard monta delle immagini e dei suoni per supplire all’assenza del suo corpo e parlare di sé, della sua vita di rifugiato sull’isola dei morti. Ma finisce col dire qualcos’altro.
Ah Dieux, oh langage!
108Il titolo, innanzitutto. Più che il titolo di un film, Adieu au langage appare l’intestazione ideale per un saggio sulla poetica di un autore da sempre proccupato più di rompere che di costruire. «La possibilità di spiegare è la sola scusa all’esistenza della parola», dice Godard in Khan Khanne. Eppure il sintagma Adieu au langage non spiega, ma confonde. Come ha confessato lo stesso Godard, Adieu, nel gergo del Cantone del Vaud – residenza scelta come set anche per quest’ultimo film – significa esattamente il contrario rispetto al senso comune, ovvero “buongiorno”. Nessun abbandono, dunque, ma piuttosto un’interrogazione sull’accezione stessa della parola “linguaggio”, che oggi avrebbe perso la sua connotazione originale di «alleanza tra parola e immagine».
109Ma che cosa si intende per “parola”? In un’intervista concessa a «Le Monde», Godard è ritornato sulla questione specifica che per “parola” non intende «la parola, la voce o la parola di Dio, bensì qualcosa che non può vivere senza l’immagine»78.
110La contrapposizione tra lingua e linguaggio evoca, invece, la celebre diatriba tra cineasti e storici della lingua nell’era del cinema di poesia, ma non è forse lì che Godard vuole tornare. Quando dice che il linguaggio è «alleanza di parola e immagine», l’autore non parla necessariamente del linguaggio cinematografico, visto che anche le sue ultime sceneggiature, come abbiamo visto, prevedono esattamente questo: una combinazione di immagini in b/n e parole sulla medesima superficie cartacea, senza che le regole della lingua scelta (il francese) debbano in qualche modo condizionare la ricezione del lettore. Costui, infatti, deve porsi davanti al testo – non importa se scritto o audiovisivo – in maniera attiva, concentrandosi soprattutto su quel margine di indefinito che, sul modello di Bresson, Godard mantiene sempre in ogni sua creazione. «Je voulais aller à côté», ha dichiarato a proposito di Adieu au langage. Ovvero, «volevo andare accanto»: accanto al 3D del cinema spettacolare, accanto al film-saggio, accanto alla storia di un amore che nasce, muore e forse rinasce. Di che cosa “parla” Adieu au langage? Il plot, secondo Godard, è semplice:
Una donna sposata e un uomo libero si incontrano. Si amano, litigano, si picchiano. Un cane erra tra città e campagna. Le stagioni passano. L’uomo e la donna si ritrovano. Il cane si trova tra i due. L’altro è nell’uno, l’uno è nell’altro. E sono le tre persone. L’ex marito fa esplodere tutto. Un secondo film comincia. Lo stesso del primo. Eppure no. Dalla specie umana si passa alla metafora. Tutto finisce con l’abbaiare di un cane. E con il pianto di un neonato79.
111Leggendo questa breve sinossi, un nucleo tematico emerge, quello del passaggio, dello scivolamento silenzioso delle cose, delle stagioni, dell’amore verso il nulla. In apparenza, la dispositio ricalca la struttura aristotelica in tre atti: una situazione iniziale (l’incontro), un conflitto interno alla coppia, una soluzione finale che prevede il ricongiungimento amoroso. In realtà, però, la storia così come qui è scritta nel film non si vede. Anziché raccontarla, Godard si limita a mostrarne gli elementi e i materiali, senza nemmeno suggerire le modalità della loro interazione. In ordine sparso percepiamo voci maschili e femminili, estratti di una canzone di protesta80, suoni indistinti, brani di cinegiornali, volti di donne senza trucco, un cane, due corpi nudi, un torrente, un lago, un ferry-boat, un televisore acceso e così via. Anziché illustrare le immagini, le voci fuori campo sembrano provenire da un altro film81 o comunque alludere a una storia altra rispetto a quella mostrata. Si prenda per esempio il primo protagonista elencato, ovvero “una donna sposata”, ennesima divertita autocitazione. Ebbene, non è semplice comprendere immediatamente chi, tra le due attrici che si susseguono (e si mescolano) sullo schermo, effettivamente incarni questa “donna sposata”. Si tratta di Zoé Bruneau (Ivitch) o di Héloise Godet (Josette)? E ancora: Ivitch è Josette o le assomiglia soltanto? Al pari del linguaggio – sembra suggerirci Godard – anche l’identità è soggetta alla lenta erosione del tempo, macro-tema familiare all’autore (si pensi solamente a Dans le noir du temps) e qui evocato mediante il motivo del passaggio. I numerosi esterni del film e in particolare il bosco attraversato dal cane Roxy – al cui pedinamento sono dedicati i dieci minuti conclusivi – confermano l’attenzione – già vista in Nouvelle Vague – per il mutamento delle stagioni. Oltre alle stagioni, però, sotto lo sguardo della videocamera “passano” anche i volti, le parole, i nomi.
112All’interno di questo caleidoscopio è tuttavia possibile individuare una divisione in quattro parti, incorniciate da un prologo e da un epilogo. Le sezioni si alternano secondo un ritmo binario che prevede due serie: 1-2 e 1-2. I capitoli “1” hanno come titolo La nature, i capitoli “2” invece sono racchiusi sotto il segno di La métaphore. Nella prima serie, dove si muovono Héloise Godet (Josette) e Kamel Abdelli (Gédéon), abbondano le citazioni letterarie, mentre nella seconda, interpretata da Richard Chevallier (Marcus) e Zoé Bruneau (Ivitch), prevale il riferimento a discipline come la pittura e la matematica.
113Tale suddivisione è ovviamente più che aleatoria poiché tutto, in Adieu au langage è al contempo natura e metafora. Potremmo anzi affermare che il soggetto del film – se mai è possibile parlare di soggetto – è esattamente ciò che si situa tra la natura e la metafora o, come ci ha suggerito lo stesso autore, «accanto» a esse. Come ogni racconto, dunque, anche questo ha un prologo, costituito da tre tipologie di immagini assolutamente eterogenee tra loro: un frammento di storia del cinema (il finale di Only Angels Have Wings [Avventurieri dell’aria, Howard Hawks, 1939]), un dettaglio del muso di Roxy e un indistinto magma nero, forse il particolare di una tela di un quadro in lavorazione. La storia, dunque, comincia con la fine di un’altra storia – quella narrata da Hawks – che non ha nulla in comune con la nostra se non, appunto, la riconciliazione finale. L’estratto ci mostra la gioia di Bonnie (Jean Arthur) nel momento in cui scopre la prova d’amore del pilota amato Geoffrey (Cary Grant). Quanto all’ordine sintattico del montaggio – cinema, cane, pittura –, la metafora è evidente: il cane è filmato come chi, invece di comunicare, «mette in comune»82 il cinema e la pittura, la parola e il linguaggio, l’uomo e la donna.
La natura?
114Di natura propriamente detta, in questo prima sezione, nemmeno l’ombra. Gli occhi del cane Roxy fungono infatti solo da introduzione a una scena di conversazione urbana che sembra rievocare l’estetica degli anni Karina: esterno giorno, rumore di traffico e studenti che allestiscono un banchetto di libri (fig. 76). Nessuna frontalità però nello sguardo “narrante”, che, al contrario, si mantiene inclinato in modo tale da far emergere ancor di più l’insistenza del fuori campo. Le lettere “NEAGAZ” ci consentono a mala pena di intuire la location (il centro culturale L’Usine à Gaz di Nyon), mentre dei primi personaggi (gli studenti, il filosofo Mr. Davidson e Isabelle) non vediamo che frammenti, come mani che sfogliano pagine di libri o dita sullo schermo di un iPhone.
115«Se non avessi scelto il 3D non avrei fatto questo film», ha detto Godard, e l’organizzazione dello spazio lo conferma. La prima conversazione, incentrata su Arcipelago Gulag di Alexandr Solženicyn (controcanto perfetto a Film Socialisme), avviene infatti lungo la linea longitudinale dello spazio, che la compresenza stereoscopica di due sguardi restituisce come cubico. Da questa scena si evince immediatamente la volontà di decostruire la funzione del 3D, artificio che invece di aumentare gli effetti di reale potenzia quelli del falso83.
116La disposizione degli attori nello spazio, la direzione dei loro sguardi e le linee dei loro movimenti sono infatti sufficienti a offrire l’illusione di uno spazio prospettico. Ma c’è di più. Nel momento in cui Mr. Davidson (Christian Grégory) si rivolge a Isabelle84, costei è quasi invisibile in quanto nascosta dalla massa del corpo dell’uomo in primo piano (fig. 77). Un paradosso, quello della terza dimensione, già evidenziato però cinquant’anni fa da Merleau-Ponty:
La profondità ha qualcosa di paradossale: vedo degli oggetti che si nascondono a vicenda e quindi non vedo, dato che sono uno dietro l’altro. Vedo la terza dimensione, ed essa non è visibile perché va verso le cose a partire dal mio corpo, al quale sono incollato… Ma si tratta di un falso mistero, io non la vedo realmente, oppure, se la vedo, è un’altra larghezza85.
117«Un falso mistero»: questo è esattamente ciò che l’immagine audiovisiva di Godard “pensa” dell’illusione 3D. Più che da un dispositivo ottico, la profondità è infatti assicurata dal suono e in particolare dagli inserti vocali di Zoé Bruneau, attrice di formazione teatrale esordiente in questo cinema. Molto spesso, la parola interviene in sostituzione dell’immagine, accecata da uno schermo nero che sembra in qualche modo voler favorire l’attenzione uditiva dello spettatore. È il caso, per esempio, della citazione di un articolo di Jacques Ellul, Victoire d’Hitler?, letto in voce off da Héloise Godet all’inizio del capitolo 186. Qual è il nesso tra la Storia e una storia, o meglio tra l’evocazione dell’ascesa al potere di Hitler e una riflessione sul linguaggio? Una data, il 1933. L’anno in cui Hitler sale al potere è anche l’anno in cui, dice una voce maschile, «un russo, Zvorkin, inventa la televisione». Qualche minuto dopo la parola, l’immagine dice la stessa cosa. Frammenti di un documentario su Hitler si “scontrano” infatti con la riproduzione televisiva di una tappa del Tour de France.
118Ma torniamo al suono. Nel diario di lavorazione pubblicato di recente, Zoé Bruneau racconta dell’attenzione maniacale che l’autore ha rivolto alla registrazione dei cosiddetti «son-seuls», ovvero i suoni raccolti senza la “loro” immagine. Dall’“alleanza” di questi suoni e di altre immagini sarebbe nato il racconto. La parola che ascoltiamo, dunque, è frutto di una serie di letture, effettuate a partire da testi che l’attrice stessa ha definito «incomprensibili»:
Mercoledì 12 giugno 2013
Godard attende che noi registriamo dei suoni-soli, un testo intero senza punteggiatura, legando tra di loro le parole affinché lo spettatore si perda nelle voci. Ha lavorato a questo testo molte volte. La prima versione era comprensibile, scritta in modo normale. Per la seconda, ha invece unito tra loro tutte le parole e tolto i punti e le virgole. Nella terza versione infine ha eliminato le linee che univano le parole affinché le parole siano mescolate. Questo testo lo conosciamo a memoria da molti mesi, ma lui non sa in quale modo vuole registrarlo87.
119L’intento è chiaro: fare in modo che l’attore assuma l’automatismo anaffettivo del modello bressoniano affinché possa (re)citare le battute senza favorire in alcun modo la comprensione o tanto meno l’identificazione emotiva dello spettatore, il quale deve, lo abbiamo visto, semplicemente «perdersi». A questo smarrimento percettivo è funzionale anche la somiglianza fisica degli interpreti, due coppie che sembrano l’una il riflesso deformato dell’altra. Costumi e focali attenuano infatti solo in parte le differenze morfologiche tra Héloise Godet, di corporatura gracile e minuta, e Zoé Bruneau, a cui Godard chiede di truccare solo una parte del corpo, ovvero il sesso. Il personaggio di Ivitch avrebbe infatti dovuto esibire un pelo pubico folto, come si conviene al Femminino godardiano (si pensi ai nudi di Marushka Detmers, Isabelle Huppert o Myriem Roussel). Le scene di nudo frontale, girate tutte nella penombra dell’abitazione dell’autore a Rolle, sono infatti funzionali a instaurare l’alleanza tra natura e metafora rispetto all’ennesima variazione sul tema dell’origine del mondo: «Gli indiani della tribù dei Chikaws chiamavano il mondo la foresta», dice Gédéon nella seconda delle due sezioni, che andiamo ora ad analizzare.
«J’ai fait l’image»
120L’esordio del capitolo 2 è speculare all’incipit del film: prima un’immagine giusta, poi giusto un’immagine. L’immagine giusta, questa volta, non quella di Hawks ma quella, levigata e traslucida, di un altro autore prediletto, il Melville di Les enfants terribles (I ragazzi terribili, 1950), adattamento dal romanzo di Jean Cocteau. Quanto al fotogramma seguente, altro non è che una delle tante immagini di Roxy che punteggiano, quali refrain Low-Fi, la il tessuto visivo del plot. Impossibile stabilire chi guarda che cosa e poco ci aiuta anche il frammento del film citato, ovvero il monologo in primo piano in cui Elisabeth (Nicole Stéphane, fig. 78), sorella mossa da pulsioni incestuose, guarda verso la cinepresa promettendo di «resistere fino alla fine»: «la fine ritarda e io devo viverla. E non è facile». Perché Cocteau? L’incesto, evidentemente, è un falsa pista, come falsa è la profondità assicurata dal 3D. L’apparizione di Nicole Stéphane non ha alcun valore narrativo ma rientra piuttosto nell’ordine del simbolico, che del resto è il codice adottato per rafforzare l’alleanza, quella tra parola e immagine. Ebrea arruolata nell’esercito durante la Seconda guerra mondiale, Nicole Stéphane non è solo femme d’un seul film, quello di Melville, ma anche produttrice di film sperimentali come Détruire dit-elle (Marguerite Duras 1969) e soprattutto autrice di En attendant Godot à Sarajevo (1993), un piccolo capolavoro che non può non aver influenzato il Godard di Forever Mozart. Se Stéphane documenta la messa in scena del testo di Godot firmata da Susan Sontag, Godard racconta il tentativo di allestire una pièce di De Musset (On ne badine pas avec l’amour) proprio a Sarajevo.
121Attraverso il volto di Elisabeth/Nicole, dunque, passiamo da Cocteau a Beckett, di cui riascoltiamo il frammento di L’image citato nella sceneggiatura di Film socialisme (vedi sopra). Secondo l’ormai nota pratica della variatio, il testo non è riportato nella sua integralità, ma è espunto di una parte, quella in cui il narratore indica la fuoriuscita della lingua dalla bocca. Inoltre, a differenza del protagonista di L’image («plus soif»), la voce acusmatica di Héloise Godet afferma di aver sete: «J’ai soif. La langue rentre dans la bouche se referme elle doit faire une ligne droite maintenant C’est fait j’ai fait l’image». Come è possibile notare durante la visione della sequenza, l’attrice conferisce ritmo e senso a questo periodo, non rispettando così l’assenza di punteggiatura prevista da Beckett. Ciò che muove Godard è dunque sempre uno spirito di contraddizione. Dove la norma esiste, essa viene negata ma dove, come in questo caso, non esiste, l’autore si diverte a trasformare il caos in narrazione. La voce off enuncia infatti due sintagmi dotati di soggetto («la bocca», «io»), verbo («si chiude», «ho fatto») e complemento oggetto («l’immagine»), legando tra di loro parole che invece, da un punto di vista ortografico, legate non sono. Con quali immagini si alleano queste parole off? Con due cartelli su fondo nero, rispettivamente «OH» e «LANGAGE». Dunque la parola detta («J’ai fait l’image») si relaziona con una parola mostrata (LANGAGE). Ciò che cambia è solamente l’organo di senso che lo spettatore deve attivare, anche se questa operazione non sarà sufficiente per evitare di perdersi.
122Qualche secondo dopo, infatti, sulle rive del lago Lemano, ritroviamo il personaggio del filosofo e anche la donna sposata di cui sopra, intenta a respingere l’aggressione del marito geloso. Tutto sembra ricominciare, eppure tutto è cambiato. Se la donna ha un altro corpo (quello di Zoé Bruneau) e un altro nome (Ivitch), Mr. Davidson non legge più Solženicyn ma – come abbiamo anticipato all’inizio di questo capitolo – un saggio su Nicolas De Staël88, che si conferma il modello figurativo di riferimento per quest’ultimo Godard. Le tesi di Jean-Pierre Jouffroy, volte soprattutto a evidenziare nell’opera dell’artista un’instabile armonia tra concreto e astratto, non sono però lette a voce alta da Christian Grégory, che invece preferisce citare a memoria Alain Badiou (l’incipit di Il risveglio della storia) o Platone («La bellezza è lo splendore della verità»). Al pari del protagonista di Éloge de l’amour, dunque, quando guardiamo questa sequenza ascoltiamo qualcos’altro. E forse è proprio questo “qualcos’altro” che sancisce l’annunciata costruzione dell’immagine («J’ai fait l’image») In quanto «momento d’incontro»89, l’immagine si dà infatti come rapporto tra elementi eterogenei e spesso contrastanti. In questo caso la funzione iconogenica è un compito esclusivo dell’attore, che guarda (e forse legge) delle parole (lo studio su Nicolas De Staël), ma ne pronuncia altre.
123Eppure è proprio nelle osservazioni di Jean Pierre Jouffroy che si nascondono alcune chiavi interpretative utili per decodificare questo pensiero per immagini, che, per dirla con le parole di De Staël, «come la pittura vera tende a tutti gli aspetti, ovvero all’impossibile addizione dell’istante presente, del passato e del futuro»90:
In Nicolas de Staël più la materia è lavorata, […] più il quadro si costituisce come oggetto solido e più esso è proposizione mentale, come se l’insistenza materiale non potesse essere che metafora dello spirituale91.
124Non è un caso, allora, che il secondo capitolo di questo Addio si intitoli proprio La métaphore, figura retorica che si fonda sulla distanza semantica tra due termini scelti come poli del trasferimento di un determinato significato. A differenza di altre figure retoriche, inoltre, la metafora associa tra loro non due concetti, ma due cose, come il pelo pubico femminile e una foresta (L’origine du monde). Ma il concetto di distanza non può non evocare quella “lontananza” in cui l’autore, come abbiamo visto, individua il fondamento ontologico dell’immagine cinematografica, se è vero che «l’immagine sono due cose lontane che avviciniamo»92. Fare cinema significa allora, come dice Mr. Davidson, «métaphorer», ovvero, seguendo l’etimo greco, trasportare un’idea o un concetto da un luogo a un altro, da un suono all’altro, da un’inquadratura a quella successiva93.
125Non c’è dunque produzione di immagine senza distanza tra soggetto e oggetto, quella giusta distanza che separava l’occhio di Bruno dalla sua modella (Le petit soldat), Maria dal Verbo (Je vous salue, Marie) o la contessa Torlato Favrini dal suo amato (Nouvelle Vague). I frammenti astratti di materia nera che ritmano Adieu au langage, impossibili da ricondurre a un universo diegetico definito94, mi sembrano allora voler evidenziare la fisicità di un gesto, quello del pittore, che mentre riproduce un soggetto non fa che affermare anche la propria presenza nello spazio abitato dal soggetto.
126Ciò che di De Staël Godard coglie – e imita – è esattamente la fisicità del gesto, il segno tattile che la mano del pittore, servendosi di un coltello in luogo del pennello, lascia sulla tela. Vengono in mente le mani della montatrice cieca di JLG/JLG o quelle di Isabelle alla catena di montaggio (Passion). Il lavoro è innanzitutto gesto e i gesti del lavoro sono uguali non solo a quelli dell’amore, ma anche a quelli dell’arte.
127Quando, come racconta Zoé Bruneau, Godard carica gli attori sulla sua auto e li costringe a registrare le battute nel rumore del traffico o nel silenzio di un ruscello, l’intento è quello di incidere la presenza del loro (e del suo) corpo senziente nello spazio tridimensionale del quadro; un quadro dove l’ottuso ha la meglio sull’ovvio, dove la bassa risoluzione dell’immagine impedisce di distinguere le forme (fig. 79), dove il succo di arancia nel lavabo si confonde con il sangue in una fontana. Come la pittura di De Staël, allora, Adieu au langage è un film al contempo mentale e materiale, carico di idee (da Sartre a Platone, da Otto Rank a Alain Badiou), di numeri (1, 2, 0, infinito) e soprattutto di cose, resistenti non solo alla configurazione visiva dell’immagine, ma anche alle rete di significati intessuta, sul piano sonoro, dalle voci off. Gli slip gettati in lavatrice da Josette, le zampe di Roxy nel fango o il vaso di fiori in rilievo sul tavolo della cucina non esprimono altro, per dirla con Merleau-Ponty, che «l’incomprensibile solidarietà» di colui che le filma con esse.
128«Ho fatto l’immagine», diceva Beckett. Per fare l’immagine è dunque necessario passare da un interno (la bocca) a un esterno (il fango), dalla natura alla metafora, dalla profondità alla superficie. Perché la profondità «non è niente, oppure è la partecipazione a un Essere senza limiti, e innanzitutto all’Essere dello spazio, al di là di ogni punto di vista»95.
Fantasmi del reale
129«L’uno è nell’altro, l’altro è nell’uno». Così l’autore descrive il sentimento di unità patito dalla coppia protagonista, coppia che anziché fondersi, però, si sdoppia in due coppie vicine e lontane: Marcus-Ivitch e Gédéon-Josette. Tutto o quasi accade ma soprattutto viene detto due volte in questo film. Due volte l’amante dice alla donna sposata «sono ai vostri ordini», due volte costei dice di non amarlo più, due volte ci si chiede se è possibile produrre un concetto di Africa ecc. Non è un caso, allora, se il televisore a cui Josette e Gédéon danno le spalle trasmetta Dr. Jekyll and Mr. Hyde (Dottor Jekyll e Mr. Hyde, Rouben Mamoulian, 1931: fig. 80) o se, mentre sullo schermo scorrono le immagini del lago Lemano, la voce off evochi Otto Rank e in particolare il suo studio delle analogie tra i sogni di nascita nell’acqua e i miti relativi alla nascita degli Dei. Tutto ritorna anche nella casa dell’amante, ma mai alla stessa maniera. Con due inquadrature dal basso verso l’alto, pressoché identiche nell’organizzazione dello spazio, Godard ci mostra prima la coppia A (Gédéon/Josette) davanti alle immagini di Mamoulian e poi la coppia B (Marcus/Ivitch) davanti a una sequenza di У самого синего моря (Vicino al mare più azzurro, Boris Barnet, 1936)96.
130Il tema del doppio, che da Der Student von Prag (Lo studente di Praga, Stellan Rye, 1913) a oggi ha nutrito a più riprese l’immaginario cinematografico, è però qui slegato dalla problematica del sosia. Al contrario, la dualità è detta e mostrata come differenza nella ripetizione. Quando l’amante ripete per la seconda volta: «Sono ai vostri ordini», la donna sposata – che nel frattempo ha acquisito il volto di Zoé Bruneau – non è più seduta su una panchina, ma inginocchiata davanti alla videocamera, la mano appoggiata alla griglia di una ringhiera e un cappello nero sul capo (fig. 81).
131Il numero due, insomma, non è inteso (solo) come sdoppiamento dell’uno nell’altro quanto come conflitto di due opposti, come ben evidenzia una conversazione in campo-controcampo tra Gédéon e Josette. Siamo a metà del racconto. Contro il volere dell’uomo, la donna ha deciso di tenere con sé il cane trovato nei pressi di una stazione di servizio. I due sono davanti allo specchio: la donna di fronte alla videocamera, l’uomo di spalle (fig. 82). Mentre la donna rievoca l’orrore dell’Olocausto97, l’uomo cita la definizione di una curva algebrica e afferma che le due grandi invenzioni sono state infinito e zero. Parafrasando la nozione di osceno nella teoria ontologica di André Bazin98, Josette ribatte che le due più grandi invenzioni sono state il sesso e la morte. Il conflitto di caratteri e temi (Storia vs Scienza) si amplia a livello visivo grazie all’alternanza del fuoco, che oppone netto e flou senza soluzioni di continuità. Ma la più ardita metafora del doppio è indubbiamente – come hanno notato anche i primi recensori del film99 – quella garantita dalla sovrapposizione di due inquadrature 3D che mostrano eventi diegeticamente contigui, come per esempio, nella sezione La métaphore, l’arrivo del secondo marito della donna durante la lettura del saggio su De Staël da parte di Mr. Davidson. Le due videocamere, qui, non sono puntate sul medesimo campo visivo ma filmano cose diverse. Se vediamo il film in 2D, la percezione è quella di una dissolvenza incrociata. Il corpo in mezza figura frontale di Mr. Davidson si “fonde” con quelli dei due coniugi, inquadrati in piano americano (l’uomo punta una pistola contro la donna). La visione stereoscopica, invece, rende impossibile la visione, a meno che lo spettatore non effettui da solo il proprio montaggio, chiudendo a turno gli occhi in modo da vedere distintamente prima l’una (occhio sinistro) e poi l’altra inquadratura (occhio destro).
132Facile rinvenire in questo divertimento ottico un’allusione a quella critica del découpage classico espressa da JLG nel corso della lezione al Salone del libro di Sarajevo (Notre musique), quando il regista, nelle vesti di conferenziere, contrappone due fotogrammi di His Girl Friday (La signora del venerdì, Howard Hawks 1940) – Cary Grant e Rosalind Russel in campo-controcampo – affermando che si tratta, in realtà, della medesima inquadratura.
133Addio, dunque, al linguaggio del cinema classico? Se Hawks sostituiva un’inquadratura (Cary Grant) con un’altra identica per organizzazione dello spazio e angolazione (Rosalind Russell), Godard mostra giusto un’inquadratura e non un’inquadratura giusta, costringendo lo spettatore a effettuare da solo, coprendo per esempio un occhio con la mano, il passaggio dal campo al controcampo.
134Solo un essere sfugge alla dimensione del duale: il cane. Quella di filmare l’animale è una pratica antica quanto il cinema anche se raramente l’animale è stato rappresentato come natura100 e molto più spesso, invece, come metafora. Dalle bestie hollywoodiane (King-Kong, Godzilla, i Piraña)101 all’asino di Bresson (Au hasard Balthazar, 1966), l’animale è infatti sempre stato oggetto di uno sguardo antropocentrico, finalizzato a eleggere la feritas a metafora di innocenza (Pasolini, De Sica, Griffith) o di martirio (Bresson). Al pari di Ferreri o Buñuel, invece, Godard cerca di filmare l’animale rispettandone non solo la solitudine, ma anche la «datità»102 ontologica, vale a dire la sua estraneità ai codici del nostro comportamento e del nostro linguaggio. Su una coppia di pappagalli si apriva Film socialisme, opera in cui però l’animale – penso al lama che staziona accanto al distributore di benzina – è mostrato ma non detto né commentato. Qui invece, forse mosso anche da ragioni affettive103, Godard non esita ad accompagnare le corse del suo Roxy non solo con le note di Beethoven (Sinfonia n. 7 op. 92), ma anche con citazioni da Darwin («Il cane è il solo animale che vi ama più di quanto non ami se stesso») e Rilke: «Gli uomini non vedono mai il mondo come esso è, poiché la ragione glielo impedisce. Solo il cane vede il mondo come è».
135Come recita la sinossi, Roxy erra tra città e campagna, ma soprattutto guarda (fig. 83). Reinventando a distanza di settant’anni i codici del pedinamento neorealista, Godard segue l’animale nei suoi spostamenti facendo attenzione a coglierne esitazioni e reazioni, per poi spiarlo davanti al binario di una stazione, dietro un cespuglio del bosco o ai margini di uno specchio d’acqua. Abbandonata o quasi la fiducia nella parola, l’autore sembra rendersi conto che nemmeno il linguaggio dei numeri, evocato più volte soprattutto dai personaggi maschili (l’allusione alla funzione Zeta di Riemann, per esempio), permettere di risolvere le opposizioni che ostacolano la comunicazione, come quella tra realtà e immaginazione, tra uomo e donna, tra Io e Altro. Esterno tanto all’universo delle scienze umane quanto ai codici delle scienze matematiche, il linguaggio animale può rappresentare forse l’ultima utopia per l’uomo, quello del terzo millennio, che non riesce a guardare il Mondo – e dunque se stesso – senza interrogarsi sull’Origine («Commençons par le commençement», ripete Marcus).
136L’intento non è riprodurre lo sguardo dell’animale, perché ciò è impossibile, come impossibile, per il Rossellini neorealista, era restituire la verginità dello sguardo del bambino. Quello che l’autore ci mostra, quando filma il cane nell’atto di guardare, è invece proprio l’inquadratura come scarto, come «immagine-strappo»104, oscillazione incolmabile tra visione (l’animale) e rappresentazione (l’uomo), tra non-pensiero e pensiero, tra nulla e immagine. Anziché darci a vedere il reale, le immagini del cane errante nella natura ripropongono continuamente il non tutto a vedere del reale.
137In virtù della bassa definizione (LD) di alcune inquadrature, volutamente oscure o sovraesposte, il reale riprodotto in Adieu au langage chiede allo spettatore una partecipazione in un certo senso tattile, come se gli occhi non fossero più sufficienti a garantire l’esperienza di un reale che appare, per dirla con Baudrillard, meno reale del reale105.
138Se non si può comunicare con l’animale, è perché l’animale non potrà mai entrare con noi in un rapporto “faccia a faccia” come quello parodiato nella scena di conversazione tra Gédéon e Josette analizzata sopra (fig. 83). E non è un caso che, mentre l’occhio cerca di seguirne le tracce delle zampe nella neve, la voce di Godard ricordi come «è difficile restare soli». Quando si è soli, tuttavia, e si esce dall’opposizione binaria reale-immaginario, la realtà perde la sua accezione di documento e assume una connotazione in qualche modo fantastica, la stessa che probabilmente ha rivestito il paesaggio del lago Lemano agli occhi di Mary Shelley nella primavera del 1816. Provenienti da Les trois desastres, i corpi di Mary Shelley e Lord Byron si materializzano nel finale su quella stessa erba calpestata dal cane e sorprendono con il loro effetto di reale, confermando come Adieu au langage, e in generale tutto l’ultimo Godard, possa essere decriptato alla luce di una nuova idea di realtà, dove reale non è ciò che imita il vero (e penso al 3D), ma ciò che «punge» (Barthes) l’occhio del vedente. Si tratta di un’idea di realtà intesa come monstrum, qualcosa di “mai visto” che, in quanto tale, si oppone agli schemi della percezione comune106 e – al pari di Frankenstein al cospetto del suo creatore – si ribella a una società che sembra ormai negare la possibilità di un’«esperienza interiore»107. In questo senso si comprende la scelta della canzone di Baldelli, La violenza, come cornice del racconto. Quello dell’autore appare infatti un atto di resistenza, tanto divertito quanto rivoluzionario, contro i “padroni” del totalitarismo mediatico.
139«Tutti quelli che mancano di immaginazione si rifugiano nella realtà», dice il cartello che precede i titoli di testa. Alla ricerca della povertà del linguaggio, Godard si rifugia nella realtà e lascia che i fantasmi gli vengano incontro. Mary Shelley e Lord Byron, in questo senso, non sono che tracce audiovisive del tempo perduto, immagini limitate dal nulla.
140In ossequio al succitato comandamento di Monet – «non dipingere quello che si vede perché non si vede nulla, ma dipingi quello che non vedi» – Godard filma quello che non vede. Perché l’invisibile non è la negazione del visibile, ma solo il suo riflesso segreto108.
Notes de bas de page
1 Jean-Luc Godard, Discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Adorno a Francoforte il 17 settembre 1995, in Roberto Turigliatto, Passion Godard, cit., p. 138.
2 «Il cinema è fatto di immagini che si susseguono una dopo l’altra, e questo “tra il prima e il dopo” è quasi uno dei fondamenti della filosofia. Solo che il cinema ci restituisce questo in modo spettacolare» (Jean-Luc Godard in Godard est là. Entretien à Rolle, 2002 https://http://www.youtube.com/watch?v=snmiLJhLUa4).
3 Jean-Luc Godard in Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, cit., p. 233.
4 L’Usine à Gaz è il centro culturale di Nyon che Godard ha utilizzato sia come scenografia che come camerino per gli attori di Adieu au langage (http://www.usineagaz.ch).
5 Jean-Pierre Jouffroy, La mesure de Nicholas De Staël, Éditions Ides et Calendes, Neuchatel, 1981.
6 Penetrare il mondo di De Staël – questa è la tesi di Jouffroy – significa interrogare non solo il tempo in cui l’artista ha lavorato e vissuto, ma anche e soprattutto il passato, con il quale egli non ha mai smesso di confrontarsi: da Braque a Velásquez, da Chardin a Cézanne, la pittura di De Staël è ricca di fantasmi.
7 «L’immagine non è rassicurante, non è ne pro né contro. È un momento di incontro, è una stazione dove due treni passano. Non è nulla più di questo». (Jean-Luc Godard, Propos rompus, «Cahiers du cinéma», 316, 1980). Sul concetto di immagine in Godard si veda Michael Witt, L’image selon Godard: théorie et pratique de l’image dans l’oeuvre de Godard des années 70 à 90, in Gilles Delavaud, Pierre Esquenazi, Marie-Françoise Grange (sous la direction de), Godard et le métier d’artiste, cit., pp. 19-32.
8 Il narratore dice che Pache abitò in rue du Cherche Midi, ovvero uno degli indirizzi parigini di De Staël. La Parigi immaginaria di Aimé Pache corrisponde a quella reale di Nicolas De Staël.
9 Sulla questione dell’invisibile e sulla teologia dell’immagine godardiana si vedano Vincent Berne, Identité et invisibilité du cinéma. Le vide constitutif de l’image dans Hélas pour moi de Jean-Luc Godard, Chromatika, Marsennay-la-Côte, 2010 e Anouk Schoellkopf, Jean-Luc Godard, philosophe du langage; le cinéma comme passage entre éclosion de l’invisible et expression de l’indicible (Thèse de Doctorat, Université de Strasbourg, 2001).
10 Jean-Luc Godard in Godard par Godard, Éditions Cahiers du cinéma, Paris, 2006, Tome 2, p. 429
11 Cfr. Simone Weil, L’amore di Dio, tr. it. Borla, Torino, 1968; Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013.
12 Cfr. Simone Weil, La persona e il sacro (1957), tr. it. Adelphi, Milano, 2012, p. 12.
13 Cfr. Lisbeth During, What Does It Matter? All Is Grace. Robert Bresson and Simone Weil, «Angelaki. Journal of Theoretical Humanities», XVII, 4, pp. 157-177.
14 Simone Weil, La persona e il sacro, cit., p. 13.
15 Ivi, p. 14.
16 Per un’analisi delle componenti fenomenologiche nel pensiero di Simone Weil e delle su relazioni con le tesi di Merleau-Ponty si veda Lissa McCullough, Simone Weil’s Phenomenology of the Body, «Comparative and Continental Philosophy», II, 4, 2012, pp. 195-218.
17 Alain Bergala, La figure de l’ange. Entretien avec Alain Bergala, in AA.VV., Où en est le God-Art?, sous la direction de René Prédal, «Cinémaction», 109, 2003, p. 87.
18 Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 32.
19 Ivi, p. 38.
20 Cfr. Paolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, cit., pp. 45-58.
21 Simone Weil, La persona e il sacro, cit., pp. 37-38.
22 Jean-Luc Godard, Entretien avec Jean-Luc Godard, http://cpn.canon-europe.com/content/Jean-Luc_Godard.do
23 Simone Weil, La persona e il sacro, cit., p. 37.
24 Maurice Blanchot, L’amicizia (1971), tr. it. a cura di Riccardo Panattoni e Gianluca Solla, Marietti, Milano, 2010, p. 64.
25 Jean-Claude Rousseau, L’uomo vergine. Conversazione di Roberto Turigliatto con Jean-Claude Rousseau, in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard, cit., p. 129.
26 Ivi, pp. 126-127.
27 Ha ragione Bergala quando individua nella citazione di L’Atalante un conferma di quell’attenzione alla composizione del quadro che invece l’autore spesso nega. Al pari di Vigo, Godard focalizza la sua attenzione non sul montaggio e neppure sulla storia, ma sull’organizzazione plastica dell’inquadratura. (Alain Bergala, La figure de l’ange. Entretien avec Alain Bergala, cit., p. 87.
28 Sul fondo di un’inquadratura si intravede il manifesto di Pickpocket (Id., Robert Bresson, 1959) accanto a quello di The Matrix (Matrix, Andy Wachowski, Larry Wachowski 1999).
29 «Guardate i premi di Cannes: hanno riunito un vecchio regista che ha fatto un film giovane e un giovane regista che ha fatto un film vecchio». Jean-Luc Godard, Entretien avec Philippe Dagen et Franck Nouchi, «Le Monde», 11 Juin 2014.
30 La purezza e la solarità di questo colore rinviano indubbiamente alla tecnica di Henri Matisse, di cui Godard sembra imitare però soprattutto la ricerca del cosiddetto à plat.
31 «Ritoccare il reale con il reale». (Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 51).
32 Sulla “fragilità” dell’immagine digitale si veda Denis Brotto, Trame digitali. Cinema e nuove tecnologie, Marsilio, Venezia, 2012.
33 Cfr. Vincent Heristchi, La vidéo contre le cinéma. Neige électronique, Tome 1, L’Harmattan, Paris, 2012.
34 Christian Uva, L’immagine tra calco e calcolo, «Fata Morgana», Reale, VII, 21, settembre-dicembre 2013, p. 45.
35 «Si direbbe che la fotografia porti sempre il suo referente con sé, tutti e due contrassegnati dalla medesima immobilità amorosa e funebre, in seno al movimento; essi sono appiccicati l’uno all’altra». (Roland Barthes, La camera chiara, cit., p. 7).
36 Sull’influenza del pensiero di Merleau-Ponty sul cinema di Godard, si veda Stefan Kristensen, L’oeil et l’esprit de Jean-Luc Godard, «Chiasmi International», 12, 2010, pp. 129-143. Analizzando alcune sequenze di Passion, Ici et ailleurs e Due o tre cose che so di lei, Kristensen dimostra che l’opera di Godard si offre al contempo come cinema e filosofia del cinema, una filosofia non troppo lontana da quella elaborata da Merleau-Ponty in L’occhio e lo spirito, tr. it. Gallimard, Milano, 1964; SE, Milano, 1989.
37 Si avvertono in questa battuta, ancora una volta, echi del pensiero di Walter Benjamin, che in Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov (Opere complete, vol. 6, scritti 1934-1937, Einaudi, Torino, 2004) riflette sulla connotazione malinconica di cui investiamo un oggetto a noi caro nel momento in cui ce ne liberiamo.
38 Maurice Blanchot, L’amicizia, cit., p. 64.
39 «Il pittore “si dà con il suo corpo”, dice Valéry. E in effetti non si vede come uno Spirito potrebbe dipingere. È prestando il suo corpo al mondo che il pittore trasforma il mondo in pittura». (Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 17).
40 Martial Pisani, Arthur Mas, Elementi per una critica di Film socialisme, in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard, cit., pp. 209-220.
41 Cfr. Jean Douchet, Fernando Ganzo, Jean-Luc movimiento Godard, Conversación en torno a Film socialisme, «Lumière», 2014.
42 Cfr. Marco Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze, 2008.
43 Cfr. Riccardo Panattoni, Blackout dell’immagine, cit., p. 12.
44 Martial Pisani, Arthur Mas, Elementi per una critica di Film socialisme, in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard, cit. Per un’analisi approfondita dell’opera si veda però Francisco Algarín Navarro, Fernando Ganzo (a cura di), Internacional Godard, «Lumière», 2014. Il dossier contiene, tra gli altri, saggi di Nicole Brenez, Gonzalo de Lucas e Jean Douchet.
45 Jean-Luc Godard, Film socialisme, P.O.L., Paris, 2010.
46 Jean-Luc Godard in Patrick Cohen, Le 7/9. Entretien avec Jean-Luc Godard, «France-Inter» 21 maggio 2014: https://www.franceinter.fr/emissions/le-7-9/le-7-9-21-mai-2014
47 Jean-Luc Godard, Film socialisme, cit., p. 56. La frase rievoca il dialogo tra Lear e Cordelia nella scena 1 dell’atto I: «Unhappy that I am, I cannot heave / My heart into my mouth. I love your majesty / According to my bond, no more nor less».
48 «Il sogno dello stato è di essere solo, il sogno dell’individuo è di essere due». Questa frase, già citata da Eddie Constantine nel finale di Allemagne 90 neuf-zéro, è attribuita da Godard a Sophie Schöll, nonostante non compaia in questa precisa formulazione in nessuno dei sei volantini stampati dalla Rosa bianca.
49 «Ogni parola mi abbandona e allo stesso tempo essa è nell’attesa di me stesso che io ho lasciato parlando» (Samuel Beckett, L’innomable, Les Éditions de Minuit, Paris, 1953, p. 97).
50 «La mia lingua esce va nel fango io resto così più sete la lingua Rientra nella bocca si richiude deve fare una linea dritta ora adesso ci siamo ho fatto l’immagine» (Samuel Beckett, L’image, Les Éditions de Minuit, Paris, 1988, p. 18).
51 Ricordiamo la modalità con cui l’autore firma Si salvi chi può… la vita nei titoli di testa: «Un film composé par Jean-Luc Godard«.
52 «Tu non vuoi scrivere, tu vuoi vedere, tu vuoi ricevere. Sei davanti a una pagina bianca, a una spiaggia bianca».
53 Maurice Merleau-Ponty, La filosofia del sensibile come letteratura, ora in Il visibile e l’invisibile, cit., pp. 275-276.
54 Da questa battuta l’artista fiamminga Joke van den Heuvel ha preso spunto per un’installazione composta di carta, fotografie e uno schermo televisivo esposta ad Anversa nel 2013 e intitolata proprio J’accueille un paysage d’autrefois.
55 Gli accordi dissonanti di Giya Kancheli, fatti di intervalli lunghi tra una nota e quella successiva, musicano in particolare i tempi morti del viaggio sulla Costa Crociera, i momenti in cui i passeggeri guardano, silenziosi, il mare all’orizzonte.
56 «Non abbiamo che libri da mettere nei / Libri ma quando bisogna in un libro mettere della/ realtà e in secondo grado quando bisogna / Nella realtà mettere della realtà» (Jean-Luc Godard, Film socialisme, cit., p. 28). La citazione, presente anche nelle Histoire(s) du cinéma, è tratta da Clio (1917) di Charles Péguy, la cui sperimentazione sintattica e narrativa ha anticipato di cinquant’anni la rivoluzione del Nouveau Roman.
57 Jean-Luc Godard, Film Socialisme, cit., p. 26. Questa frase è pronunciata da Bob Maloubier, ex agente segreto francese che, al pari dell’attore Mathias Domahidy, nel film interpreta se stesso.
58 «Cette pauvre Europe, non pas purifiée mais corrompue par la souffrance, non pas exaltée mais humiliée par la liberté reconquise» (Questa povera Europa, non purificata ma corrotta dalla sofferenza, non esaltata ma umiliata dalla libertà riconquistata).
59 Sulla semantica dell’indice si veda in particolare André Chastel, Il gesto nell’arte, tr. it. Laterza, Bari, 2008.
60 Condivido in pieno la tesi di Alain Bergala, secondo cui Godard «aggredisce [lo spettatore] perché coltiva il Bello ma detesta il carino, l’amabile, e naturalmente ciò che è seducente». Alain Bergala, La figure de l’ange. Entretien avec Alain Bergala, in AA.VV., Où en est le God-Art?, cit. p. 98.
61 Sull’ambiguità dell’immagine digitale si veda ancora Christian Uva, L’immagine tra calco e calcolo, cit., p. 46.
62 Per una lettura delle suggestioni heideggeriane presenti nel primo Godard si veda Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., pp. 173-179.
63 Come ha osservato Martial Pisani, Godard con il nome “Martin” fonde due reti di Resistenza senza legame l’una con l’altra: la Famiglia Martin e “Libérer et Fédérer”, creata nel 1942 da Silvio Trentin, un intellettuale socialista sostenitore degli Stati uniti d’Europa.
64 «Sì, per conservare intatti lo spazio e il tempo ho mentito. Mi rifiuto di viverli. Penso sempre di essere altrove».
65 Jean-Luc Godard, Impressioni antiche, in Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, cit., p. 170.
66 Cfr. Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit.
67 Cfr. Philippe Sollers, Une autre logique, «Cahiers du cinéma», 195, 1967 (dossier La mer intérieure).
68 «O povere cose, non posseggono che il nome che viene loro imposto!».
69 «Parliamo di cosa va bene / parliamo delle cose / ma / non parliamo sulle cose parliamo / a partire dalle cose» (Jean-Luc Godard, Éloge de l’amour, cit., p. 15).
70 «Due immagini anziché una, è questo che io chiamo immagine, l’immagine fatta di due». (Jean-Luc Godard, Youssef Ishaghpour, Archéologie du cinéma et mémoire du siécle, Farago, Tours, 2000, pp. 26-27.
71 Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 50.
72 «Voyez-vous avec le verbe être le manque de réalité / Devient flagrant» (Vedete con il verbo essere la mancanza di realtà / Diventa flagrante). Non a caso, davanti ai giornalisti di France 3, la giovane Florine rifiuta di usare il verbo essere, invitando anche loro a fare altrettanto.
73 Cfr. Jacques Aumont, Amnésies. Fictions du cinéma d’après Jean-Luc Godard, P.O.L., Paris, 1999.
74 L’ossessione per la ripetizione fa pensare a Charles Péguy e in particolare alla sua concezione intensiva della Storia intesa come ripetizione ininterrotta di un evento originale. Cfr. Buno Latour, Les raisons profondes du style répétitif de Péguy, in AA.VV., Péguy écrivain, Colloque du centenaire, Éditions Klincksieck, Paris, 1973, pp. 78-102.
75 «Avete ragione non amo nessun Popolo / Né quello francese né quello americano né quello tedesco / Né il popolo ebreo né il popolo africano / Amo solo i miei amici». Si veda anche Hannah Arendt e Gershom Scholem, Due lettere sulla banalità del male, tr. it. Nottetempo, Roma, 2007.
76 Jean-Luc Godard in Patrick Cohen, Le 7/9. Entretien avec Jean-Luc Godard, «France-Inter», 21 Mai 2014: https://www.franceinter.fr/emissions/le-7-9/le-7-9-21-mai-2014
77 Ibidem.
78 «Al cinema mi piace non l’immagine contro il testo, ma questo qualcosa che precede il testo e che è la parola. Nell’immagine cinematografica c’è un’altra cosa, una specie di riproduzione della realtà, una prima emozione. La macchina da presa è uno strumento che funziona come il telescopio o il microscopio per uno scienziato». (Le cinéma c’est un oubli de la réalité. Entretien avec Jean-Luc Godard, «Le Monde», 10 Juin 2014).
79 Dal press book di Adieu au langage.
80 Si tratta di alcune strofe di La violenza (La caccia alle streghe), canto di protesta scritto da Alfredo Bandelli nel 1968. Godard si diverte a interrompere la canzone a metà di una frase o addirittura di una parola. Esempio: «Viva la rivoluzione» diventa «Viva la rivo», «Ho visto le autoblindo» diventa «Ho visto le»).
81 È il caso di una frase pronunciata fuori campo da Zoé Bruneau: «L’ombra di Dio non lo è forse la donna per l’uomo che la ama?». Si tratta, naturalmente, di una citazione da Je vous salue, Marie.
82 «Il cane è un personaggio fondamentale del film. Non comunica, mette in comune. Non gli si può parlare, ma si può entrare in comunione con lui». (Jean-Luc Godard in Pardonnez moi: l’interview de Jean-Luc Godard, RTS, Radio Télévision Suisse, maggio 2014).
83 Sul realismo dell’immagine 3D si veda Andrea Mariani, Sinergie e sinestesie. La stereoscopia tra convergenza e nuovo realismo (2005-2012), «Cinergie», 2, 2012, pp. 23-31.
84 Non è chiaro quale sia l’identità di questo personaggio, né il tipo di relazione che instaura con Mr. Davidson.
85 Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 34.
86 «Tutto ciò che Hitler ha detto, lo ha fatto. Possiamo noi allora prendere alla leggera questi ordini del giorno dove, mentre sapeva benissimo che i suoi eserciti sarebbero stati sconfitti, ancora affermava la sua vittoria?». (Jacques Ellul, Victoire d’Hitler, «Réforme», 23 juin 1945).
87 Zoé Bruneau, En attendant Godard. Chapitre I, Chapitre II, Éditions Maurice Nadeau, Paris, 2014, p. 114.
88 Jean Pierre Jouffroy, La mesure de Nicolas De Staël, cit.
89 «L’immagine è un momento di incontro, è una stazione dove due treni passano». (Jean-Luc Godard in Godard par Godard, cit., p. 463).
90 Nicolas De Staël, Lettre à Douglas Cooper, Janvier 1955, in Jean Pierre Jouffroy, La mesure de Nicolas de Staël, cit., p. 13.
91 Jean Pierre Jouffroy, La mesure de Nicolas de Staël, cit., p. 16. Il corsivo è nostro.
92 Jean-Luc Godard in Jean-Louis Comolli, Jouer à la Russie. Le corps projeté de Godard, «Trafic», 18, printemps 1996, p. 44.
93 Al motivo del trasporto rinvia anche l’immagine del ferry-boat che conduce i turisti da una riva all’altra del lago Lemano, un vero e proprio innesto di realtà nella finzione. Nessuno dei personaggi, infatti, si serve di questo mezzo o vi fa alcun cenno.
94 Solo nel finale scorgiamo Jean-Luc Godard e la moglie Anne-Marie intenti nella pratica della pittura ad acquarello.
95 Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 34.
96 Per un’analisi dettagliata delle associazioni iconiche di cui il film è intessuto si veda David Bordwell: http://www.davidbordwell.net/blog/2014/09/07/adieu-au-langage-2-2-x-3d/
97 «Un bambino che stava per entrare nella camera a gas ha chiesto: “Perché?”. Una sentinella SS ha risposto: “Nessun perché!”».
98 André Bazin, Che cosa è il cinema (1958), tr. it. Garzanti, Milano, 1973; 1986, p. 32.
99 Nel momento in cui scriviamo il film non è ancora disponibile in Blue-Ray o DVD. Tra i critici che si sono avventurati nell’analisi, solo David Bordwell ha individuato con precisione alcune di queste sperimentali dissolvenze (http://www.davidbordwell.net/blog/2014/09/07/adieu-au-langage-2-2-x-3d/).
100 Sul concetto di animalità nel cinema e sulla messa in scena dell’animale si veda «Fata Morgana», Animalità, V, 14, maggio-agosto 2011.
101 Tra i frammenti di cinema citati in Adieu au langage compare anche un fotogramma di Piranha 3D (Aja, 2010), che mostra i capelli di una donna avvolti nell’elica di uno scafo.
102 Cfr. Massimo Donà, Cinema e animalità, «Fata Morgana», Animalità, cit., p. 33.
103 Nel suo diario Zoé Bruneau sottolinea in più occasioni l’ansia del regista durante i giorni che precedevano le riprese con Roxy: il timore era quello di turbare, con le dinamiche del set, la quiete e l’intimità dell’animale.
104 Cfr. Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit., p. 106.
105 Sul concetto di “iporeale” e sulla fascinazione estetica dell’immagine Low-Definition si veda Eleonora De Conciliis, Jean Baudrillard, o la dissimulazione del reale, Mimesis, Milano, 2009.
106 Sul concetto di realtà come atto di resistenza contro le ideologie del postmoderno si veda Alessia Cervini, Daniele Dottorini (a cura di), L’inganno della realtà. Conversazione con Walter Siti, «Fata Morgana», Reale, VII, 21, settembre-dicembre 2013, pp. 7-18.
107 Quando Ivitch chiede a Mr. Davidson quale sia la differenza tra un’idea e una metafora, l’uomo divaga: «L’esperienza interiore è ormai proibita dalla società e in particolare dallo spettacolo. Ciò che chiamano immagini diventa l’assassinio del presente».
108 «L’essenza propria del visibile – ha scritto Merleau-Ponty – è di avere un doppio di invisibile in senso stretto, che il visibile manifesta sotto forma di una certa assenza». (Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., pp. 58-59).
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L'immagine e il nulla: l'ultimo Godard
Ce livre est cité par
- Surace, Bruno. (2019) Il destino impresso. DOI: 10.4000/books.edizionikaplan.2115
L'immagine e il nulla: l'ultimo Godard
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