Capitolo 3
Il tempo del ritorno (Histoire[s] du cinéma; Allemagne 90 neuf zéro; Nouvelle Vague; De l’origine du XXIème siècle)
p. 120-176
Texte intégral
Dalle storie alla Storia
1Tempo e ritorno sono le parole chiave di un decennio, gli anni Novanta, che comincia con una video-lettera politica (Contre l’oubli, 1991) e termina con una riflessione su di un secolo, il ventesimo, il quale non solo ha prodotto l’Orrore ma lo ha anche filmato (De l’origine du XXIème siècle, 2000). Come ha osservato Bamchade Pourvali1, la produzione degli anni neuf zéro non è che il risultato – tutt’altro che finale – di un percorso teorico iniziato nel decennio precedente, decennio che Godard conclude sotto il segno della nostalgia. Nostalgia di un’immagine giusta, per la quale presto verrà il «tempo della resurrezione» (Re Lear, Hélas pour moi), e soprattutto nostalgia di un cinema «grande e decadente», quello di Ulmer, di Cocteau, di Renoir, per citare solo tre dei maestri omaggiati nella seconda metà degli anni Ottanta.
2La lavorazione di Je vous salue, Marie impone dei costi imprevisti e allora Godard accetta, con Détective, la prima di una lunga serie di commissioni televisive, funzionali come laboratorio per pratiche narrative poi applicate anche ai lungometraggi più personali.
3Tra queste pratiche, prediletta è quella della citazione, mai forse così esasperata prima d’ora. Nell’hotel di Détective, intreccio noir sospeso tra il kammerspiel e il fauvismo2, si agitano corpi attoriali che incarnano fantasmi di un cinema perduto. Se Jean-Pierre Léaud, nella persona del detective Isidore, evoca il protagonista di Baisers volées (Baci rubati, Truffaut 1968), la presenza di Claude Brasseur, aereo taxista in crisi coniugale, non può non rimandare alla leggerezza degli anni Karina (l’attore interpretava Arthur in Bande à part).
4Oltre a rinviare a testi filmici, questi corpi citano testi letterari oppure, come fa Johnny Hollyday (Jim Warner) con Lord Jim, li tengono in tasca senza leggerli. Scivolando da Shakespeare (La tempesta) a Flaubert (Madame Bovary) e da questi a Sciascia, Godard sembra gettare le basi per quel progetto poi realizzato con Nouvelle Vague: girare un film utilizzando unicamente frasi espunte dalla letteratura preesistente.
5Offrendosi come luogo dove proiettare desideri nascosti o addolcire, mediante l’identificazione con i personaggi, piccoli e grandi mali di vivere, la letteratura sembra insomma occupare nell’immaginario di questi antieroi uno spazio che il cinema pare aver perduto.
6Si prenda nuovamente come esempio Détective: la TV di una stanza trasmette classici come La passione di Giovanna d’Arco o Viale del tramonto,, ma nessuno li guarda. Forse perché, come ha osservato Roberto Chiesi3, si tratta di immagini di un’immagine, copie originali alterate dalla scarsa definizione dello schermo televisivo: non immagini giuste dunque, ma giusto delle immagini, deformate anche dalla modalità con cui la cinepresa le guarda, incollandosi allo schermo quasi a voler penetrare la grana del pixel. Se volessimo, come Godard, giocare con le parole, potremmo dire che nel piccolo schermo passano immagini di un cinema passato ma, grazie all’infinita riproducibilità delle sue immagini, sempre presente.
7Un anno dopo – e mi riferisco a Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma, videosaggio su un film da fare ma anche «macchina per viaggiare nel tempo»4 – un regista che si chiama Bazin (ancora Jean-Pierre Léaud) sceglie la sua attrice solo per una vaga somiglianza con Dita Parlo: la ragazza, però, non ha mai visto La grande illusion (La grande illusione, Jean Renoir, 1937)…
8Per questo l’autore porta il proprio corpo e la propria voce dentro questa storia, interrogandosi, assieme all’amico Jean-Pierre Mocky, sul perché un cineasta come Roman Polanski necessiti di due milioni di vecchi franchi per fare un film. Imbarbarimento culturale e crisi del sistema? L’unica soluzione – ci dice il maestro – è ricordare la lezione della Nouvelle Vague, ovvero rinnovare modi e forme del linguaggio. Questo vuol dire, per esempio, rinunciare alla telecamera nel momento del casting (Grandeur et décadence), oppure inventare una storia, filmarla e montarla in una sola giornata (Cura la tua destra).
9Snaturato dal pixel, ridotto a un petit commerce e asfissiato, come vedremo, dalla «moneta dell’assoluto» (Histoire[s] du cinéma), il cinema resta comunque il territorio di indagine prediletto dal pensiero godardiano. Ne sono conferma i lungometraggi in 35mm che chiudono il decennio, ovvero Re Lear e Cura la tua destra, testi sintomatici di quel piacere per la polverizzazione del racconto che caratterizzerà tutte le opere degli anni Novanta. Da un lato un (falso) adattamento scespiriano, dall’altro un omaggio al burlesque di Tati (Soigne ton gauche). Che cos’hanno in comune questi due saggi? L’immagine – firmata in entrambi i casi da Caroline Champetier, ex direttrice della fotografia per la coppia Straub-Huillet – e soprattutto quel motivo, ispiratore anche di Grandeur et décadence, che si conferma davvero il filo rosso degli anni Ottanta: il cinema nel cinema. Secondo quanto dichiarato dall’autore, Cura la tua destra segnerebbe però l’ultima variazione su questo tema:
Ho terminato con i miei film sul cinema. Ho trattato la sceneggiatura e gli attori in Il disprezzo, […] poi c’è stato Passion, e in Grandeur et décadence ho affrontato l’aspetto economico. Questa volta parlo della proiezione e mi sembra che, a parte Buster Keaton, nessuno ne abbia mai parlato5.
10Si tratta di film, quelli scritti da Shakespeare junior (Re Lear) o dall’Idiota (Cura la tua destra), interrotti, frammentati, aperti. Perché, come ci ha insegnato Passion, prima di scrivere bisogna trovare l’immagine e non si può narrare una storia senza al contempo raccontare la Storia6.
11È questa l’ultima sfida di Godard: spingere il linguaggio cinematografico oltre il territorio della narratività fino a confondere documento e finzione e raggiungere quella “zona morta” dell’espressione audiovisiva al di là della quale, come hanno osservato Alessia Cervini, Alessio Scarlato e Luca Venzi, forse «non c’è più cinema»7.
12Sul finire degli anni Ottanta – è il 1988 – escono le prime quattro sezioni (1A, 2A, 1B, 2B) delle Histoire(s) du cinéma, monumento multimediale a un secolo, il Novecento, e soprattutto a quell’arte che questo secolo avrebbe dovuto documentare e che invece forse ha solo raccontato: il cinema. Sempre più icona di una libertà sperimentale che non pregiudica prestigiosi ruoli istituzionali8 e decostruisce ogni forma di committenza pubblicitaria9, Godard scende con il montaggio “nel nero del tempo”. Il tempo in questione è il tempo del ricordo, ovvero il tempo che «c’è stato»10, ma anche il tempo inteso come ritmo, spazio nero tra le inquadrature, battito di ciglia tra i tasti della macchina da scrivere.
Tu non hai visto nulla ad Auschwitz
13Consideriamo innanzitutto il metodo utilizzato per questa recherche, incerta tra il racconto, il saggio e l’autobiografia. Godard fa come Elle, l’eroina di Hiroshima mon amour (Id., 1959), ovvero combina materia (immagini fisse, mobili, mute e sonore) e memoria (la sua).
14«Le fotografie, le fotografie, le ricostituzioni; in mancanza di altro», diceva la voce acusmatica di Emmanuelle Riva, errante nelle sale del museo di Hiroshima. A differenza di Ulysse e Michel-Ange (Les carabiniers, 1963), Godard non è un testimone diretto della Storia che racconta. Non è mai stato a Hiroshima o ad Auschwitz. Eppure, come Elle, ha «visto tutto». E non si accontenta di vedere. Cerca soprattutto di “far vedere”. Come quello di Hiroshima, questo museo audiovisivo, pur immaginario, testimonia dell’Orrore. Ma l’Orrore che interessa, l’evento a partire dal quale Godard rilegge tutta la storia del secolo, non sono le conseguenze dellaSeconda guerra mondiale (Hiroshima) quanto l’Olocausto, forse il tabù visivo per eccellenza del secolo scorso11. Contrariamente a Claude Lanzmann, che in Shoah (Id., 1985) affida solo alla parola (dei sopravvissuti) la missione testimoniale, Godard ritiene e dimostra che tutte le immagini parlano di questo Orrore, anche se non lo verbalizzano direttamente. L’unica immagine atta a riempire questo vuoto, allora, è quella che Georges Didi-Huberman ha definito «immagine-montaggio», un montaggio che «fa turbinare i documenti, le citazioni, gli estratti di altri film verso un’estensione mai coperta: montaggio centrifugo, elogio della velocità»12.
15Accanto ai corpi levigati dei divi, questo montaggio accosta quelli, umiliati e offesi, delle vittime dei campi di concentramento. Il visibile, ovvero la luminosità della finzione, è dunque contrapposto all’invisibile, ovvero all’oscurità di un reale rimosso a lungo e filmato, in ritardo, da George Stevens (Nazi Concentration Camps, 1945).
16«Tu non hai visto nulla» ad Auschwitz – sembra dirci Godard parafrasando Resnais – fino al momento in cui l’occhio della cinepresa non si è aperto sulle carcasse accatastate tra l’erba ghiacciata o sulle migliaia di scarpe e oggetti personali assembrati nei cunicoli del lager. Dove non c’è sepoltura non c’è traccia e dunque neppure memoria13.
17Come ha osservato Alessio Scarlato, «Auschwitz è l’evento nel quale il testimone è annullato»14 e per testimoniare non basta rappresentare icone già viste, come quella del bambino a mani alzate nel ghetto di Varsavia. È necessario che il montaggio, regolato dal «metodo del TRA» di cui sopra, sfondi la superficie della fotografia facendola reagire con un fotogramma lontano e al contempo vicino, in modo tale che il loro accostamento produca quella che Pierre Reverdy, già citato in Re Lear e poi in JLG/JLG15, definiva un’immagine «forte»: «L’immagine non può nascere da una comparazione ma da un accostamento tra due realtà più o meno lontane. Più i rapporti delle due realtà accostate saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà forte».
18L’immagine dei sommersi, insomma, non potrà influenzare in alcun modo il futuro dei salvati se suddetti documenti non saranno decostruiti e invitati a significare altro rispetto al fatto di cui sono testimoni, a quell’hic et nunc catturato da un obiettivo fisso o mobile: il passato ha senso solo se riattivato criticamente nel presente16.
19Seduto al suo tavolo di montaggio, Godard unisce allora per analogia due sguardi off, entrambi impietriti di paura: quello di un’anonima ragazza del ghetto e quello di una diva, la Dorothy McGuire di The Spiral Suitcase (La scala a chiocciola, 1946), capolavoro di Robert Siodmak, ebreo scampato per miracolo all’Olocausto e dunque volto a esorcizzare la Storia raccontando delle storie. Godard in questo senso va nella stessa direzione perseguita da Miró, Picasso o Fautrier, autori di montaggi funzionali a «strappare l’immagine all’impossibile descrizione di un reale»17: triturare l’irrappresentabile affinché da esso scaturisca una voce, un grido, una testimonianza.
20«Quando si crede di esprimere l’individuale, invece si dice l’universale», afferma Godard nel suo Autoportrait de Décembre. Fin dagli anni Karina, in effetti, l’autore ha sempre raccontato la Storia, mettendo in bocca ai suoi antieroi riflessioni su questioni delicate del loro presente come il Vietnam (La cinese), l’alienazione della società dei consumi (Due o tre cose che so di lei), la prostituzione (Questa è la mia vita), in ossequio alla teoria del film “po”: poetico, poliziesco e politico.
21Questa volta però il narratore dà alla cosa che racconta il suo nome (Histoire), anche se naturalmente si guarda bene dal disegnarne i contorni. Il modello, naturalmente è Bresson: «Non mostrare tutti i lati delle cose. Un margine di indefinito»18.
22Con questo ammonimento, pronunciato da una voce over sincronizzata su un fotogramma di Mr. Arkadin (Rapporto confidenziale, Orson Welles, 1955), comincia Toutes les Histoires, il primo capitolo del saggio (1A), dedicato a toutes les histoires di un’arte intesa al contempo come splendore e miseria. Il margine di indefinito è già contenuto nel titolo. Utilizzato sia per la versione video che per quella cartacea dell’opera, il titolo conserva infatti, grazie alla declinazione plurale (s), quella dualità così familiare ai personaggi degli anni Ottanta, tutti alla ricerca – lo abbiamo visto – di aperture e varchi contro la «ripetizione» e il «nulla».
23E così, per esempio, la morte di Desdemona nell’Othello di Welles (Otello, 1952), precederà solo di pochi secondi – prima di essere dissolta in un dettaglio di La battaglia di San Romano (Paolo Uccello) – la fotografia di un cadavere scarnificato nel Rwanda (3A, La monnaie de l’absolu). Un’immagine, quest’ultima, a sua volta sovrimpressa a una riproduzione della Pietà di Délacroix (1837): da una storia alla Storia, ma anche dal cinema al reale passando attraverso la pittura (Figg. 33-36).
24Se i film pensano, i documenti parlano e lasciarli parlare – ovvero inserirli nel collage audiovisivo come oggetti trovati della memoria – significa salvare il reale dall’oblio. Per farlo è necessario raccoglierne le impronte (immagini d’archivio, ma anche immagini private)19, e soprattutto i riflessi di queste impronte (immagini di finzione).
25Nel mondo dei morti abitano volti familiari (Roberto Rossellini, François Truffaut, Henri Langlois) e volti senza neanche un nome, corpi che il cinema, seppur con tragico ritardo, ci ha reso prima noti e poi, mediante la reiterazione operata dal medium televisivo, familiari. E, come il passato secondo Christa Wolf, questi corpi non sono “passati”, ma pulsano nel caleidoscopio delle Histoire(s) in ordine sparso: Auschwitz e Mostar (la Storia) accanto, quando non sovraimpressi, a Welles o Paolo Uccello (le storie). Si decifra meglio ora il senso dell’esagramma mistico di cui sopra (JLG/JLG): la Storia è fatta di proiezioni incrociate.
La solitudine plurale20
26Ritorniamo sull’immagine di apertura. Il fotogramma di Rapporto confidenziale (Fig. 37) rinvia a un’altra inquadratura dello stesso film (un primo piano di Orson Welles mascherato da Arkadin) scelta dall’autore vent’anni prima per introdurre, nell’edizione originale della rivista, il celebre articolo Montage, mon beau souci, tentativo di risolvere una delle dispute teoriche più accese nei «Cahiers» della gestione Bazin, la contrapposizione tra regia e montaggio.
27Il volto di Mr. Arkadin altro non è che il prodotto di un montaggio interno, atto a modificare la fisionomia dell’attore/regista mediante la giustapposizione della maschera sulla pelle. La prima delle histoires “raccontate” è dunque la storia del loro autore, per il quale scrivere di cinema significava già, probabilmente, scrivere la storia del cinema.
28«Il montaggio annuncia e prepara la regia nel momento in cui la nega»21, annota il giovane Godard, intenzionato a dimostrare, in ossequio alla dottrina dei Mac-Mahoniens, che il film di Welles è un modello di regia perché è un modello di montaggio.
29Si prenda in esame il testo originale dell’articolo e si consideri la modalità di impaginazione. Sopra queste parole, infatti, campeggiano non uno ma due fotogrammi: il volto di Welles di cui sopra e un frammento di Spite Marriage (Io e... l’amore, Edward Segdwig, 1929), ultimo film muto di Buster Keaton, raffigurante proprio il volto truccato del performer. Welles vs Keaton, sonoro vs muto, iperbole vs sottrazione, e potremmo continuare: tra scrivere e dirigere la differenza non esiste perché entrambe sono arti del montaggio. A differenza di Bazin, sostenitore di un’ontologia realistica fondata sul principio della continuità spazio-temporale, Godard rivela fin dai primi scritti uno sguardo più storico che critico: le histoires du cinéma cominciano sulle pagine dei «Cahiers» e non è un caso se nella versione cartacea del suo museo l’autore riprenderà tecniche di impaginazione come quella analizzata.
30Ma torniamo a Rapporto confidenziale. Il personaggio di Welles è inquadrato nell’atto di guardare qualcosa attraverso una lente: per scrivere la Storia, sembra dirci Godard, bisogna innanzitutto imparare a vedere.
31La s aggiunta alla parola Histoire conferisce al soggetto in questione una pluralità che, ha osservato Céline Scémama22, non è solamente visiva. Non una, infatti, ma infinite storie si affacciano alla mente di colui che, agitando le dita su una macchina da scrivere, cerca di sistemare il tempo del ricordo: le storie raccontate dal cinema, le storie potenziali nascoste in ogni inquadratura, ma anche le storie dei film incompiuti e quelle dei loro narratori, senza dimenticare che ogni storia si arricchisce dei contenuti che il singolo spettatore (Godard in primis) proietta sulla superficie dello schermo.
32Le Storie del cinema sono dunque infinite ma anche indefinite, ovvero confuse tra il documento e la finzione, erranti tra la testura della pellicola e la memoria del narratore, ammesso che Histoire(s) du cinéma possa essere considerata un’opera narrativa.
33Il bressoniano «margine di indefinito», allora, non ha tanto valenza spaziale quanto temporale. Scrivere la Storia significa confrontarsi con il tempo, ovvero fermarlo, guardarlo e, se possibile, raccontarlo. Non è un caso che all’inizio del primo volume (Toutes les histoires) compaia un fotogramma di Rear Window (La finestra sul cortile, Alfred Hitchcock, 1954: fig. 38) carico di suggestioni metalinguistiche. Stagliato su un inedito fondo nero, James Stewart guarda oltre il teleobiettivo della sua macchina fotografica, lo strumento che, secondo quanto si apprende in queste Histoires, ha permesso di concretizzare il sogno della pittura impressionista: catturare il reale nel suo hic et nunc.
34«È possibile raccontare il tempo, il tempo in sé stesso, come tale?», si chiede Godard nel capitolo 2B (Fatale Béauté). La risposta non tarda ed è la stessa che, qualche anno prima, si era dato anche Jerzy (Passion): il solo modo di raccontare il tempo è raccontare una storia. Magari anche una storia privata perché, come suggerisce uno dei tanti refrain visivi che punteggiano l’opera, nel cuore della parola Histoire si nasconde un intimo toi.
35E La Storia? È possibile redigerla o quanto meno raccontarla? La posizione di Godard tradisce echi del pensiero esistenzialista: il secolo del cinema è il secolo della barbarie, ovvero un secolo senza Storia intesa come evoluzione e progresso. Di fronte all’orrore dell’Olocausto il cinema sarebbe rimasto impotente: «Il cinema ha annunciato i campi di concentramento: vedi La règle du jeu (La regola del gioco, Jean Renoir, 1939) o The Great Dictator (Il grande dittatore, Charlie Chaplin, 1940). Però non li ha mostrati. È stata la letteratura a farlo. Il cinema è venuto meno al suo compito, ha fallito la sua missione»23. Per missione, naturalmente, Godard non intende semplicemente la documentazione dell’evento – ciò che hanno fatto, tra gli altri, George Stevens e Alain Resnais –, ma la critica dell’evento documentato. Le cose sono lì, ma per scrivere la Storia non è sufficiente filmarle. È necessario liberare tutte le forze e le voci nascoste nelle immagini, soprattutto se queste voci sembrano evocare altre voci, passate o future: si pensi alla dissolvenza incrociata su un’inquadratura di un film di Paul Leni (The Cat and the Canary, 1927), immagini di aerei da guerra abbattuti e la fotografia dei cadaveri insanguinati di tre africani, uccisi da chissà quale guerra in chissà quale paese (Seul le cinéma, 2A: figg. 39-41).
36Poiché è sopravvissuto, l’«occhio del Novecento» (Casetti) ora può svolgere la sua funzione di testimone: portare alla luce quei frammenti di Storia rimasti, per citare uno degli ultimi lavori del regista, nel «nero del tempo» (Dans le noir du temps). Non a caso gli unici anni menzionati nell’opera sono quelli che vanno dal 1940 al 1944, anni documentati con frammenti d’archivio spesso troppo brevi per essere identificati.
37Il tentativo di raccontare la Storia si infrange proprio contro le onde anomale delle storie private di quelli a cui la Storia non ha dato voce (i sommersi) e di quelli che invece della Storia fanno parte proprio perché hanno saputo raccontare delle storie: Flaubert, Mann, Proust, ma anche Hitchcock, Lang, Griffith. Dunque, in base a quanto affermato, cercando di scrivere la Storia ci si trova di fronte anche alla storia del cinema, arte che Godard definisce «la grande storia»24, perché, a differenza delle altre, può proiettarsi anziché ridursi. Secondo Monica Dall’Asta, però,
una storia del cinema è irrealizzabile perché il cinema è già, esso stesso, storia. Progettare (projeter) la sua storia, in altri termini, significherebbe immaginare di proiettare (projecter) la storia del cinema: la riproduzione totale delle miriadi di registrazioni incapsulate nella pellicola e in tutti gli altri differenti supporti tecnici di cui il cinema è qui l’emblema25.
38Scrivere la storia del cinema, inoltre, significa confrontarsi anche con il problema del racconto, visto che, come Godard ci ricorda nella sezione 1B (Une histoire seule), molto presto il cinema è diventato conteur: «Il cinema proiettava e gli uomini hanno visto che il mondo era là. Un mondo quasi senza storia, ma un mondo che racconta».
39Se l’impotenza narrativa è forse il filo rosso che lega tutti gli ultimi lavori del regista, non per questo egli si esclude dalla Storia del cinema, anzi: vi entra raccontando anche la sua storia. E così ai volti mummificati nei film amati – da Harriet Andersson (Sommarek med Monika [Monica e il desiderio, Ingmar Bergman, 1952]) a Kim Novak (Vertigo [La donna che visse due volte, Alfred Hitchcock 1957]) – si intrecciano quelli, altrettanto familiari, degli affetti passati e presenti. Anne-Marie Miéville, compagna d’arte e di vita dalla fine degli anni Settanta, è uno dei ritratti “musicati”, all’inizio del capitolo 4B (Le contrôle de l’univers), dal Psaume pour une voix di Paul Valéry, omaggio alla voce dolce e flebile (quella femminile) che dice «d’importantes, d’étonnantes, de profondes et justes choses»26. Sulla rappresentazione del femminile in Godard torneremo più avanti.
40Tre sono dunque i protagonisti di queste Histoire(s): il Tempo, inteso come non-luogo della memoria, il Racconto, ovvero la messa a morte di questo tempo (il film è punteggiato dal rumore dei tasti della macchina da scrivere) e il soggetto del racconto stesso, Jean-Luc Godard. In realtà, come ha scritto Céline Scémama, «Godard non ci racconta la storia del cinema, perché solo il cinema racconta. Il cineasta è onnipresente nell’opera ma non espone mai il suo nome: l’io del cinema si è sostituito all’io del cineasta»27.
41Nel dipanare i fili della propria memoria spettatoriale questo narratore senza nome – ma non senza volto: lo intravediamo più volte nella penombra del suo studio – affida alla propria voce il compito di riprodurre ciò che, come «la vera immagine del passato» secondo Benjamin28, lampeggia davanti agli occhi una volta sola. Lo spettatore perde facilmente una frase o una parola scritta, ma ha il tempo di riascoltarla o rileggerla. Perché la voce di Godard ripete, l’occhio (ri)guarda, le inquadrature dei film citati ritornano amputate secondo variazioni imprevedibili, tanto plastiche (viraggi, ingrandimenti, decolorazioni, aperture a iris) quanto temporali (ralenti, accelerazioni del montaggio). E così un celebre quadro di Fängelse (Prigione, Ingmar Bergman 1949) lampeggia a più riprese in Une histoire seule, mutando – in relazione all’immagine sulla quale è raccordato – non solo nei valori luministici, ma anche nel suo contenuto29: con le forbici di historien l’autore separa i due volti in due quadri distinti, come se partecipassero a due diverse visioni.
42Nel puzzle di fotogrammi impressi su altri fotogrammi e inquadrature “dissolte” in fotografie o dipinti, ciò che resta è la sensazione del riproducibile. Direi di più: Godard sembra suggerire che tutto sfugge proprio perché tutto è riproducibile, quanto meno tutto ciò che è stato catturato dall’obiettivo della cinepresa. Nella sua «solitudine plurale»30 il narratore si comporta allora come un demiurgo che manipola a suo piacimento ciò che ha perduto la propria aura, prolungando, mediante il flusso di immagini non create ma viste31, la forza del ricordo. Ha ragione Frédéric Hardouin: «L’atto del ricordo creato dal cinema stabilisce a priori la distanza del tempo, separando l’emergenza del fatto storico dal semplice ricordo di esso. Dietro questa operazione, però, si disegna a posteriori un’abolizione del tempo32.
43Se il tempo è abolito, saltano anche le categorie predilette dallo storicismo novecentesco, ovvero il prima e il dopo. Il viaggio delle Histoire(s) si conclude sulla superficie rugosa di due occhi, confusi da una dissolvenza incrociata: l’occhio ingrandito dalla lente di Rapporto confidenziale e quello sezionato dalla lama di Un chien andalou (Id., Luis Buñuel, 1929). Tutto finisce laddove era cominciato.
Al riparo dal tempo
44Tra i numerosi numi tutelari dell’autore – da Faure a Proust, da Foucault a Péguy: l’elenco è lunghissimo – Walter Benjamin è forse il più influente, o quanto meno quello più scomodato dalla critica33.
45Poiché la Storia, come suggeriscono le “Tesi” di Angelus Novus, non va intesa come un blocco di tempo cronologico bensì come insieme di frammenti in attesa di redenzione nel presente, l’unica soluzione per riuscire a scrivere la Storia è quella di chiudere gli occhi e attingere al proprio museo immaginario, applicando al linguaggio audiovisivo l’approccio comparatistico di André Malraux34 ma anche il metodo antistoricista proposto da Benjamin nelle suddette Tesi. Monica Dall’Asta ha ragione: come il Passagen-Werk, anche le Histoires du cinéma sono un montaggio di citazioni e la «vera immagine del passato» plasmata da Godard altro non è che un effetto di montaggio35.
46Pittura, letteratura e musica sono solo alcuni dei linguaggi che Godard fa interagire con centinaia di frammenti espunti da altrettante opere della storia del cinema, tra le quali compaiono anche film perduti (Hollywood, James Cruze, 1923) o incompiuti (The Merchant of Venice, Orson Welles). I film citati sono circa quattrocento e a essi sono mescolati poco più di cento brani estratti da opere letterarie (da Dostoevskij a Duras), testi filosofici (tra cui Albert Camus, Wittgenstein, Heidegger) e, naturalmente, saggi cinematografici. Così, oltre a quelle di Bresson, entrano nella Storia le parole confidate da Rossellini a Rivette («Le immagini sono là, perché manipolarle?») e la vis polemica del Truffaut di «Arts» (Il cinema francese muore sotto false leggende)36.
47Il risultato è un caleidoscopio di oltre quattro ore che sfida l’attenzione dello spettatore, impossibilitato a fermare l’occhio su un apparato visivo composto di parole scritte/riproduzioni di quadri/fotogrammi/fotografie e l’orecchio su un magma sonoro intessuto di voci-over, dialoghi di film “fuoricampo” e brani musicali alquanto eterogenei (un centinaio circa, da Bach a Leonard Cohen).
48Nulla a che vedere, dunque, con l’esperienza accademica dell’Introduzione alla vera storia del cinema37, tentativo di scrivere la storia del cinema sostituendo all’architettura cronologica un sistema di relazioni puramente estetiche tra film dello stesso Godard e capolavori del passato. La struttura logica che reggeva il testo scritto esplode ora in un monumento audiovisivo privo di qualsiasi ordine tematico, formale o narrativo, obbediente piuttosto – ha notato Céline Scémama – al principio bressoniano dell’«espressione per compressione»38. Se Bresson invitava a mettere in un’immagine ciò che in letteratura sarebbe diluito in dieci pagine,39 Godard inserisce in una sola inquadratura una moltitudine di elementi e registra le infinite modalità della loro reciproca combinazione, a seconda che le forze di attrazione in gioco siano cromatiche, grafiche, narrative o musicali.
49Manipolare le immagini del passato appare all’autore una delle soluzioni più efficaci per superare quel senso di vuoto tipico, secondo Benjamin, del moderno, tempo in cui l’uomo sembra aver smarrito la capacità di liberarsi dalla tirannia del continuum. Uno smarrimento, questo, che Godard tramuta in rabbia, come attesta la voce over in Les signes parmi nous:
Sì, del nostro tempo sono il nemico sfuggente. Sì, il totalitarismo del presente come lo si applica meccanicamente ogni giorno più opprimente a livello planetario, questa tirannia senza volto che cancella tutti per il profitto dell’organizzazione sistematica del tempo unificato dell’istante.
50Allo stesso modo, come leggiamo nell’intervista concessa dall’autore a Alain Bergala, il cinema contemporaneo «non cerca di vedere il mondo, ma di dominarlo»40. Essere «nemici del proprio tempo» significa pensare la Storia come successione di discontinuità dove l’istante funge da transitorio recupero del passato. Il «nostro tempo», dice Godard, vuole abolire il Tempo. Ecco che il cinema si offre come «riparo del tempo», memoria collettiva in grado di salvaguardare ciò che Benjamin intende per tradizione, ovvero l’atto di conservare nel ricordo e nell’esperienza ciò che è passato e in quanto tale minacciato di perdita. Come la vita, il cinema subisce le ferite del tempo e non è al riparo da esso: appare piuttosto il riparo del tempo.
51L’immagine cinematografica è fragile in quanto costantemente minacciata da un nulla che – sono parole di Godard – «soggiorna accanto ad essa» (Les signes parmi nous) e si pone come conditio sine qua non della sua esistenza.
52Ma che cos’è questo nulla («Néant») se non l’oblio? Non c’è Storia allora, e tanto meno storia del cinema, senza produzione di Memoria.
53Per ricordarsi di se stesso il cinema si affida a quelli che Jacques Aumont ha definito i «modi della sua memoria»41, il più efficace dei quali è forse il montaggio. In questo senso le Histoire(s) sono l’apoteosi del montaggio godardiano. Finalmente messo a nudo – penso al dettaglio della pellicola che scorre su una moviola, ripetuto più volte negli otto capitoli –, il montaggio “cinematizza” gli inserti pittorici e permette di rielaborare le sequenze dei film citati, lasciando così al cinema il compito di raccontare il cinema.
54Si consideri, per esempio, l’incipit del capitolo 1A. Mentre il narratore batte sui tasti il titolo di un film riconosciuto anche dalla storiografia accademica (La regola del gioco), sullo schermo si alternano, in un montaggio parossistico, un’inquadratura di Modern Times (Tempi moderni, Charlie Chaplin 1936), un primo piano di Chaplin tratto da un documentario di Kevin Brownlow (Unkonwn Chaplin, 1983) e un fotogramma estratto da un noir di Fritz Lang (Beyond a Reasonable Doubt [L’alibi era perfetto, 1956]): un accostamento di corpi e spazi quanto meno incongruo, per il quale inutile è cercare una logica narrativa. Più opportuno – e Godard questo fa – è rileggere le Note sul cinematografo di Bresson, laddove si invita ad accostare cose che non sono ancora state accostate e soprattutto a fare in modo che «immagini e suoni si intra-tengano da lontano e da vicino. Niente immagini, niente suoni indipendenti»42. Ognuno di questi frammenti rinvia a una storia che rimane muta, fuori campo, sommersa dall’oblio.
55«Voglio mostrare – sussurra Godard nel finale dell’ultimo capitolo – un orecchio che ascolta il tempo». La microsequenza presa in esame ci offre letteralmente la possibilità di ascoltare il rumore del tempo che scorre al ritmo delle dita su una tastiera. Vengono in mente i cine-pugni con cui Ejzenštejn riproduceva il ritmo dei colpi di cannone o il climax della violenza nelle scene di massa.
56Mi sembra, allora, che una delle chiavi interpretative delle Histoire(s) si possa rinvenire nello slancio estatico che agita il ritmo del montaggio. A Godard, infatti, interessa restituire la fisicità dell’atto mediante il quale la memoria rielabora i ricordi e li fissa sulla carta e/o sulla pellicola. Le pulsazioni di questo montaggio danno allo spettatore la sensazione di toccare con i sensi, pur spaesati43, un insieme di eventi sonori che, in virtù dell’alternanza tra continuo e discontinuo, sarebbero «identificabili come persone»44. Del resto l’autore esige che la memoria agisca come cosa viva, qui e ora.
57Che il tempo non sia una linea continua nello spazio ma, come voleva Bergson, il luogo dove la memoria si confonde con la coscienza, Godard ce lo ricorda subito, all’inizio del capitolo 1A. La voce over che accarezza il montaggio parallelo tra Fury ([Id., Brian De Palma, 1978] il dettaglio di due occhi aperti di una donna) e Faust ([Id., Friedrich Wilhelm Murnau, 1926]: l’apparizione notturna di Mefistofele appartiene a Giorgio Albertazzi, viaggiatore di nome X nel tempo perduto di Marienbad (L’année dernière à Marienbad [L’anno scorso a Marienbad, Alain Resnais, 1961]):
Voi almeno non siete cambiata, avete sempre gli stessi occhi assenti, lo stesso sorriso, la stessa risata improvvisa, lo stesso modo di tendere il braccio quando volete qualcosa. Lo stesso modo di condurre lentamente la mano nella cavità della vostra spalla. Avete anche lo stesso profumo. Provate a ricordare, era nel giardino di Frederiksbad.
58Secondo X, dunque il tempo si sarebbe fermato, o quanto meno non avrebbe corroso i lineamenti, il profumo e la luce del volto amato.
59Abbiamo detto che il volto della Memoria è il montaggio. Ebbene, scomponendo il film di Resnais in immagine (off) e suono (in), Godard ci ricorda che ogni atto di memoria necessita di un tu (il toi di His-toi-re) a cui raccontare ciò di cui si è testimoni. X è sicuro, è stanco del muro di silenzio sul quale si infrangono le sue domande ma la donna, A., non ricorda. Impossibilitata, in quanto priva di un tu, a costruire un mondo immaginario, la memoria dell’uomo scivola allora nell’oblio senza fare rumore, proprio come fanno i travelling di Resnais sui marmi lucidi della villa.
60Sovrimpressi su queste parole, il volto allucinato del personaggio di De Palma e il fuoco notturno di Murnau rafforzano la connotazione di Marienbad come viaggio fantastico nei meandri di una memoria che, per sopravvivere, ha bisogno dell’oblio. Ma questo lo sapeva bene l’eroina di Hiroshima mon amour, superstite a un trauma tanto individuale quanto cosmico: «Come te, ho provato a lottare con tutte le mie forze contro l’oblio. Come te, ho dimenticato. Come te ho desiderato di avere una memoria inconsolabile, una memoria di ombra e di pietra. Ho lottato sola, con tutte le mie forze, contro l’orrore di non capire il perché del ricordo».
61Nemmeno la memoria del cinema è fatta «d’ombra e di pietra». Anche il cinema dimentica e scriverne le storia garantisce forse l’illusione di comprendere le ragioni del ricordo. Questo però è possibile se si utilizzano non immagini memoriali, cioè immagini adempienti a una funzione celebrativa di ciò che è avvenuto (penso ai documenti d’archivio raccolti da Resnais per l’incipit di Hiroshima mon amour), ma quelle che Noël Nel ha definito «immagini-geroglifico», ovvero «immagini da fare, immagini delle quali una sola delle componenti mostrate sarà utilizzata come nucleo e messa in relazione con altre componenti derivate da altre immagini. L’insieme di queste ibridazioni è pertanto definito da un sistema di fusione e giustapposizione»45.
62Il tempo del ricordo è un tempo fratturato, lesionato, bucato. Per questo ogni immagine appare come un testo cifrato la cui chiave di lettura risiede nell’immagine precedente o in quella successiva. Un esempio: il tema di Marienbad (una donna rifiuta l’invito di un uomo il quale sostiene l’immobilità del tempo) “attrae” in un montaggio analogico uno dei duetti che punteggiano la sequenza del ballo di Il Gattopardo (Luchino Visconti, 1963), ovvero il dialogo tra la Principessa di Salina e il colonnello Pallavicino: costui invita la donna a danzare, ma lei rifiuta. Perché non si sente in grado di competere con le ragazze più giovani. Perché il tempo, come a Marienbad, è passato.
63Intanto la bocca di Rita Hayworth si scioglie nel nero (Le contrôle de l’univers) mentre il ralenti deforma gli occhi di James Stewart (Toutes les histoires). Al pari dei corpi degli amanti di Hiroshima, mostrati come frammenti anonimi di argilla e di carne, i videocorpi di questa storia del cinema abitano i territori fragili di una memoria che, forse, solo la Bellezza può consolare.
Guardare il buio
64«A film is a girl and a gun». Sono trascorsi tredici minuti dall’inizio di Toutes les histoires. Al fine di ricostruire la storia dell’ascesa di Hollywood a potenza in grado di «controllare l’universo», Godard ferma un fotogramma di An Unseen Ennemy (David W. Griffith, 1932): due giovani (Lillian e Dorothy Gish) sono minacciate da una pistola introdotta attraverso una finestra. A giudicare dall’espressione disegnata sui due volti, il terrore per il pericolo diegetico sembra confondersi con lo stupore provocato dalla visione (immaginaria) di un’immagine pornografica che Godard “introduce”, con un perverso effetto Kulešov, nella struttura sintattica griffithiana. Il fatto che le immagini riescano a “guardarsi tra loro” ne sottolinea non solo l’energia vitale, ma anche l’indipendenza dal loro creatore e dunque la loro solitudine, refrain ricorrente in uno dei numerosi giochi di parole che punteggiano l’opera: Histoire de la solitude / solitude de l’histoire.
65Nel raccontare la sua Storia, dunque, il cinema rivela quelli che secondo Godard sono stati due sistemi simbolici più utili per manipolare il sonno delle masse: il sesso e la morte.
66Sesso e morte attraversano indenni sia il tempo della Storia che quello del cinema. Tra gli inserti di reale che Godard scioglie nelle sue “immagini-trovate” spiccano fotogrammi di film pornografici e immagini di campi di concentramento, due volti di un Orrore solo che si chiama oppressione, annullamento dell’individualità, assoggettamento del corpo.
67Martiri di queste storie non sono solo i corpi anonimi, come quelli torturati nei Lager, ma anche e soprattutto i corpi delle dive, colpevoli del potere ammaliante generato dalla loro bellezza. Mentre Rita Hayworth volteggia sul trapezio (1A), in montaggio alternato con il volto di Howard Hughes, il narratore gioca con le parole e scrive un inno all’oscurità: «Obscurité / oh! Ma lumière».
68Poiché, come abbiamo visto, non c’è immagine senza un nulla che graviti attorno a essa, il buio della sala appare come la conditio sine qua non della lucentezza della star. Prodotto di una fabbrica che vende sogni nell’oscurità, Rita Hayworth si rivela fascio di luce sonora (distinguiamo le parole di «Put the Blame on Mame») pronto a fondersi in dissolvenza incrociata con uno dei corpi più martoriati della storia del cinema: la strega bruciata viva sul rogo di Vredens dag (Dies Irae, Carl Th. Dreyer, 1943). Hayworth è dunque al contempo carne e diavolo, angelo (il volteggio aereo) e strega.
69Se la voce sopravvive all’oblio, non lo stesso accade per il gesto, stilizzato mediante il solito ralenti, espediente che permette a Godard di lasciare la sua traccia sulle immagini altrui: questi frammenti di Gilda (Id., Charles Vidor, 1946) non appartengono più al film di Vidor, ma all’immaginario audiovisivo del cineasta-storico.
70La riflessione sul binomio bellezza/oppressione spiega probabilmente la scelta del succitato Salmo di Valéry (Pour une voix) all’inizio del capitolo 4B: la donna fa paura, la Storia le ha tolto la voce e Godard ora cerca di restituirgliela, proseguendo il cammino intrapreso da Édouard Manet: un «cheminement vers la parole» (3A). I ritratti femminili di La prune (1877), Nana (1877) e L’Olympia (1863) hanno la stessa capacità espressiva dei volti del muto. La frase scritta su questi dipinti, Je sais à quoi tu penses, ci riporta al monologo di Le petit soldat. Durante la seduta di fotografie, Bruno Forestier (Michel Subor) chiede alla sua modella (Anna Karina) a cosa stia pensando. La risposta, però, è nascosta nell’immagine stessa, nella copia che l’uomo trae dall’originale: «Quando si fotografa un volto, si fotografa l’anima che vi è dietro. Aveva le occhiaie, il colore degli occhi era grigio Velásquez».
71Il cinema allora altro non è che l’ultimo atto della storia dell’occhio. Un occhio che però, ha visto anche la barbarie. Per questo all’inizio del capitolo 4A Rita Hayworth si riaffaccia sulla superficie della memoria non più raggiante sotto le luci di Gilda, ma distesa a terra, pronta a dissolversi nell’ombra mortifera disegnata da Orson Welles (The Lady from Shanghai [La signora di Shanghai, 1947]). Un semplice stacco nero la unisce a un’altra martire della Storia (del cinema), la Giovanna D’Arco scritta da Claudel, diretta da Roberto Rossellini e interpretata da Ingrid Bergman.
72Tra il corpo bruciato della Bergman e le mani sporche di Henry Fonda (The Wrong Man [Il ladro, Alfred Hitchcock, 1956]), si insinua, irrimediabilmente muto, il cadavere di una deportata trascinata per le braccia e per le gambe nella polvere di un Lager non identificato.
73Anche la morte ha perso la sua aura. Il montaggio infatti altera anche il tempo di questo reale dilatando la scena per tredici lunghi secondi, quanto basta perché sulle immagini siano sincronizzate queste parole, che riportiamo nella lingua originale: «Si la pensée se refuse à penser, à violenter, elle s’expose à subir sans fruit toutes le brutalités que son absence a libérées»46.
74Denis De Rougemont invita a “pensare con le mani” (Penser avec le mains, 1936) e questo è esattamente ciò che fa l’Io narrante. Seduto nella sua sala di montaggio, Godard assembla le immagini, pensa a voce alta, ricorda. Sente che anche la sua memoria è inconsolabile, piena di spazi neri tra i lampi del ricordo. Sa che il solo modo di scrivere la Storia è «raccontare tutto ciò che è errante nella storia: la storia di tutte le erranze»47.
75Tra tutte, l’erranza della bellezza è forse la più documentata: da Manet a Goya, da Proust al cinema hollywoodiano, da Rita Hayworth a Anna Karina. Dal passato, dunque, al presente.
76Qualcuno48, recentemente, ha messo in dubbio la definizione di Godard come «cineasta della memoria», osservando giustamente come questo cinema, pur se rivolto alla Storia, conservi sempre tracce di presente, segni del momento in cui la storia e la Storia mostrano il rispettivo «farsi»: pensiamo a Allemagne 90 neuf zéro, a Les enfants jouent à la Russie o allo stesso Dans le noir du temps. Il nero, appunto. Se contemporaneo, come sostiene Agamben, è «colui che tiene fisso lo sguardo sul suo tempo per percepirne non le luci, ma il buio»49, allora Jean-Luc Godard mi sembra l’incarnazione perfetta dell’artista contemporaneo.
77Guardare (e poi mostrare) la luce della bellezza sciogliersi nell’Orrore del reale significa saper percepire il fascio di tenebra che ogni presente getta sul viso di colui che, in quanto contemporaneo, si sente vicino all’origine, al buio in cui tutto è cominciato50.
Solitudine di uno Stato, stato della solitudine
78Tracce di presente pulsano nelle immagini di Allemagne 90 neuf zéro, capolavoro che inaugura gli anni Novanta sotto il segno dell’omaggio (Germania anno zero, Roberto Rossellini, 1947) e di un’auto compiaciuta nostalgia: il corpo che si muove tra i fantasmi della Germania post-muro è infatti quello di Eddie Constantine, ex agente segreto nello spazio anaffettivo di Alphaville e ora, come recita la prima didascalia, «ultima spia» di una guerra finita51. Raccontata a due voci, entrambe fantasmatiche – un narratore e un giornalista inglese – Allemagne 90 neuf zéro non è solo una storia, come recita la didascalia (“seule une histoire)”, ma un viaggio nella Storia di un cinema e di una nazione dal volto bifronte. La Germania è infatti patria dell’orrore (il nazismo) ma anche di quella cultura che Godard tanto ama e cita: da Mozart a Goethe (di cui la cinepresa “visita” la casa), da Fritz Lang a Hegel.
79«Non si capisce mai niente finché una sera non si finisce per morirne», diceva la voce over di Lemmy Caution, smarrito di fronte alla bellezza disumana di un automa dal cuore spento (Natasha). Trent’anni dopo Alphaville non esiste più e i circuiti di Alpha 60 sono distrutti, ma la missione di Lemmy Caution continua perché il nemico è sempre lo stesso: la solitudine e le sue variazioni.
80Invitato da Antenne 2 a riflettere sul sentimento della solitudine52, Godard rispetta solo in parte il soggetto della commissione. Legge infatti la commande al contrario. Non racconta, come voleva la produzione, lo stato di una solitudine, ma la solitudine di uno Stato. E lo fa interrogandosi però non solo sulla percezione della cosa ma anche sulla declinabilità della parola: la solitudine è una sola oppure, come per le Histoire(s), esistono infinite solitudini? «È qualche anno dopo l’anno 1000 – ha glossato l’autore – che la parola “solitudine” diventa francese e significa: lo stato di un luogo deserto»53.
81Più che uno stato, in realtà, Godard filma un movimento o meglio una serie di movimenti che, assemblati dal montaggio, costituiscono un motivo: non c’è “motivo” senza movimento (motus), come ha sottolineato anche Hanns Zischler54. Si muove il corpo di Lemmy Caution, da Est verso Ovest, ma si muovono anche– su esterni umidi e deserti come i paesaggi di Brueghel o di Herzog – le parole di un narratore che riflette intorno a un tema carissimo a questo cinema, ovvero la difficoltà del narrare. Tutto comincia con una domanda, la medesima che abbiamo già ascoltato all’inizio di Fatale béauté (Histoires du cinéma 2B): «È possibile raccontare il tempo, il tempo in se stesso, come tale?».
82La risposta è sempre la stessa. Al pari della Storia, il Tempo può essere narrato solo se declinato al plurale, in relazione – direbbe Heidegger – alle «determinazioni esistenziali» dell’Esser-ci. Per argomentare la tesi di questo scacco, la voce over utilizza una metafora musicale: «Sarebbe come se si avesse l’idea di tenere per un’ora una sola identica nota o un solo accordo, e si volesse far passare tutto questo come musica».
83Molte sono le “note” di Allemagne 90 neuf zéro perché molte sono le solitudini sfiorate dall’istanza narrante: la solitudine della traduttrice di fronte al testo (Delphine), la solitudine di un ex diplomatico che si reinventa critico e traduttore (Hans, ovvero il Conte Zelten)55 e soprattutto la solitudine di Lemmy Caution, corpo intertestuale alla ricerca di un amore spezzato in due come il muro di Berlino, o come un’immagine di carta. A nulla, però, serve ricomporre i frammenti della Ragazza in verde (Tamara de Lempicka, 1930), gesto che Caution compie qualche secondo dopo la sua apparizione. Giunto a Berlino Ovest, infatti, l’uomo non troverà alcun referente reale per questa immagine: né la modella di una pubblicità di sigarette (The West), né il manichino di un centro commerciale corrisponderanno a questa “copia originale”. Perché la donna amata non esiste se non nella memoria cinematografica dell’attore. La Ragazza in verde infatti evoca, e non solo per un’associazione cromatica, il volto di Dominique Wilms, femme fatale del poliziesco francese e soprattutto partner di Constantine in La Momie vert-gris (La mummia grigio-verde, 1953), primo capitolo della serie TV Lemmy Caution.
84Ma torniamo all’inizio del viaggio. Senza proferire parola, l’uomo entra in cucina, sottrae dalle mani di Hans un libro (Max e Moritz di Wilhelm Busch) e utilizza la copertina di questo testo come tavolo di montaggio (Fig. 42). Se l’attore unisce due parti di un intero (la cartolina strappata) al fine di ricomporre una figura, l’autore agisce in senso opposto, ovvero mette in discussione l’integrità semantica di questo intero e fa esplodere il senso in una molteplicità di conflitti, inerenti in particolare alla relazione tra parola e immagine. Mentre Lemmy Caution, infatti, cita Marx («La teoria diventa una forza materiale quando si impadronisce delle masse»), Godard lascia il volto dell’uomo fuori campo e si concentra sul profilo della Ragazza in verde, riprendendo quella pratica dell’effetto-quadro frequente sin dagli esordi: penso agli inserti pittorici che spezzavano, con un forte effetto iconoclastico, i duetti Karina-Belmondo (Il bandito delle ore undici) e Belmondo-Seberg (Fino all’ultimo respiro)56.
85Lunga non più di cinque secondi, questa inquadratura è dunque configurata attorno al conflitto Marx versus Lempicka, ovvero Rivoluzione versus Restaurazione. Com’è noto Tamara De Lempicka fuggì dalla Russia rivoluzionaria al fine di salvaguardare i propri privilegi e soprattutto quelli del marito. Opporre Marx a Lempicka, però significa anche mettere in conflitto politica e arte, cinema politico e cinema poetico. L’associazione delle idee, pertanto, è perfettamente «lontana e giusta», come voleva Reverdy.
86Per raccontare la nuova Germania e soprattutto il suo nuovo zero, Godard raccoglie non pezzi di muro ma frammenti di Storia (Marx) e li assembla a frammenti di Storia dell’arte (Lempicka), indirizzando la percezione dello spettatore verso un duplice movimento: centripeto (sintesi) e centrifugo (estasi). Audio-vedere quest’immagine, infatti, impone di èk-stare, ovvero vivere al di qua dello schermo la medesima condizione del narratore («assente e presente, oscillante tra la verità del documento e quella della finzione») e soprattutto quella dell’eroe narrato, viaggiatore sospeso tra due spazi (Est e Ovest), due tempi (Passato e Futuro), due identità (Caution/Witrowski).
87Le associazioni sono infinite: basta l’immagine di un cane solitario per evocare il funerale di Mozart, così come due anni dopo saranno sufficienti i gabbiani di un lago svizzero per “suggerire” Il gabbiano di Čhecov (Les enfants jouent à la Russie, 1993). Nessuna associazione, comunque, appare più «lontana e giusta» di quella istituita nel finale da Caution, spia spiata – è il conte Zelten a guidarlo verso Ovest – e smarrita tra le luci consumistiche dell’Occidente. All’interno di un autosalone, l’uomo osserva due giovani salire su di un’auto rossa, una BMW esposta accanto a un’altra auto di colore blu (fig. 43). I due commentano le caratteristiche tecniche della vettura. La frase della ragazza, relativa a un presunto difetto nell’abitacolo («La luce resta sempre accesa»), riporta alla mente dell’osservatore il destino di un’altra ragazza, barbaramente trucidata cinquant’anni prima: Sophie Schöll, il cui simbolo, la rosa bianca, occupa in perfetta solitudine l’inquadratura successiva (Fig. 44). «Aveva incollato su tutti i muri di Berlino dei volantini che affermavano tutti la stessa cosa», dice Caution a proposito dell’eroina della Resistenza.
88Di questa storia che è diventata Storia, però, non vediamo alcuna immagine: non un filmato d’archivio, non una fotografia. Perché l’immagine è fuori ovvero tra quelle che Elie Faure definirebbe due «cose definite»: l’autosalone (l’auto rossa) e il giardino (la rosa bianca). Diverse storie si incrociano, e sono tutte storie “sole”: la storia di Sophie Schöll, la Storia del Novecento e la storia del cinema (quello di Godard). Non è un caso infatti che i colori delle due auto esposte rinnovino, accostati al bianco della rosa, il motivo della tricromia analizzato nel capitolo precedente.
89Godard dunque agisce – ancora e sempre – come Velásquez, ovvero dipinge con il montaggio quello che c’è TRA le cose: non l’immagine di un’immagine, ma l’immagine di un ricordo.
Storia dell’occhio
90I ricordi di Constantine (Dominique Wilms) si incrociano con quelli di Godard, come pagine strappate di una storia del cinema tutta privata. Camminando per le rovine di questo Stato solo, a metà strada tra la poesia (Weimar) e l’Orrore (Buchenwald), Caution pronuncia frasi estratte da altri film del suo autore. Davanti alla statua di Puskin, per esempio, l’uomo ripete ciò che Michel Ange aveva detto davanti a un autoritratto di Rembrandt, ovvero «I soldati salutano gli artisti!». Più tardi ascoltiamo dalla voce di Constantine la medesima poesia di Wilhelm Hauff recitata dal piccolo soldato Bruno Forestier alla sua amata (Le petit soldat): Morgenrot, Morgenrot / Leuchtest mir zum frühen Tod?: / Bald wird die Trompete blasen / Dann muß ich mein Leben lassen57.
91Si tratta di un’ode funebre all’aurora e la parola aurora, nell’immaginario godardiano, significa soprattutto Murnau (Sunrise [Aurora, 1927]). Come per il piccolo soldato, anche per questa “ultima spia” il tempo dell’azione è finito ed è cominciato quello della riflessione.
92Recuperando l’estetica rosselliniana del pedinamento, Godard filma il corpo del suo eroe come l’incarnazione di un Dasein tragico, esistenza stratificata dalla memoria e gettata verso un futuro inteso come possibilità: «Qu’est-ce que je dois faire?», chiede l’ex spia all’amico una volta resosi conto che la Guerra fredda è finita per sempre.
93Al pari del suo personaggio, anche Godard pensa e soprattutto ricorda. Ma, a differenza di quella dell’eroe, la memoria dell’autore non ha confini geografici e così, accanto a Ophüls (Lola Montez [Id., 1955]) e Fassbinder (Lili Marleen [Id., 1981]), appare anche il fantasma di Ejzenštejn. Nella prima parte del viaggio, infatti, un montaggio analogico permette allo spettatore di passare in un «battito di ciglia» dal cinema (il lago ghiacciato attraversato da Eddie Constantine) al cinema (la battaglia sul ghiaccio di Aleksandr Nevskij (Id., Sergej M. Ejzenštejn, 1938).
94La citazione di Ejzenštejn svela, se mai ce ne fosse stato bisogno, il rapporto di filiazione estetica con il maestro russo, la cui ricerca ha probabilmente ispirato anche affermazioni come questa, risalente agli anni Settanta: «Quello che a me piace sono due immagini insieme, in modo che poi ce ne sia una terza, che non è un’immagine ma piuttosto ciò che si ricava dalle altre due»58.
95Consideriamo ora due sequenze esemplari di questa tensione verso una dimensione “estatica” dell’immagine.
96Siamo a metà del racconto (e del viaggio). Delphine visita il ponte dove fu trucidata Rosa Luxembourg e il montaggio alterna la mezza figura dell’attrice, gli occhi bassi verso il fiume, a schegge di un passato non-morto come il celebre vampiro59: un fotogramma di Padeniye Berlina (La caduta di Berlino, Michail Chiaureli, 1949: Hitler ed Eva Braun) e un documento d’archivio (un cadavere trascinato nella polvere da un ufficiale). Poi Delphine riprende il cammino e la cinepresa, anziché seguirla, la precede, al contrario di quanto fa Roberto Rossellini con il suo Edmund (Germania anno zero), la cui camminata, seppur rallentata, emerge per qualche secondo dal nero del tempo (Figg. 45-46). Rossellini vs Godard, bianco/nero vs colore, erranza vs ricerca: due realtà, o meglio due finzioni lontane tra loro, ma giuste. Lo spettatore è indotto a uscire dal film per entrare, anche se solo per un attimo, nello spazio emotivo e diegetico di un altro film così vicino e così lontano.
97Ancora più “giusto” è l’accostamento prodotto dal montaggio qualche minuto dopo, in una sequenza di cui Daniel Morgan ha offerto un’analisi molto suggestiva60. Durante la visita al museo di Pergamo, Delphine è attratta da un dipinto di Courbet, La mer orageuse (1870). Composto di strati di colore molto densi, stesi sulla tela con un coltello da cucina, questo mare sembra produrre le medesime «onde terribili» di cui parlava Carmen all’inizio di Prénom Carmen61. Onde che la visitatrice cerca di catturare nell’obiettivo della sua Polaroid (fig. 47), fermando dunque un tempo, quello della pittura, già fermo. Ma questa inquadratura è solo il primo frammento di un’immagine che nasce solo qualche secondo dopo, quando il montaggio accosta il qui (il quadro di Courbet) a un altrove extradiegetico e soprattutto appartenente a un sistema di segni diverso: non la pittura, né la fotografia, ma il cinema.
98La voce off di Eddie Constantine («Bonjour Monsieur Courbet») funge infatti da raccordo sonoro con la riproduzione di un non precisato mare in movimento (fig. 48), un mare anonimo in bianco e nero, musicato ancora una volta (Prénom Carmen) dalle note di un quartetto di Beethoven.
99Il gioco delle associazioni non è finito, perché le frasi degli archi accompagnano anche i passi di un marinaio russo che, dopo aver salutato la compagna (violinista), abbandona il paese; anziché partecipare emotivamente a questa fuga, però, Godard si diverte con una variazione grafica sul tema: L’ART DE LA FUGUE (didascalia). Una musica, quella di Bach, che secondo Hanns Zischler sarebbe esclusa dal confronto della Storia con il cinema:
Bach è scala e modello ideale per una cinematografia verticale, capace di avvolgere il flusso continuo delle immagini in una partitura sempre più complessa, nella sovrapposizione di immagini, voci, rumori e musica62.
100Lo spirito ludico del narratore vanifica qualunque sforzo ermeneutico. Poco importa stabilire se l’inserto “mobile” del mare tempestoso rimandi a un ricordo della ragazza o invece vada letto come un gesto illustrativo del viaggiatore. Le singole inquadrature sono raccordate mediante «accordi vagabondi», tali – ha osservato Suzanne Liandrat-Guigues – da rendere le immagini stesse fragili, minacciandole dall’interno e mettendole in competizione l’una con l’altra63.
101Dopo tutto il cinema è ancora semplicemente il cinema e quello che si presenta come un viaggio nella Storia si rivela un’interrogazione sulla storia dell’occhio, storia che Jacques Aumont non a caso ha definito «interminabile»64. Come ha osservato Daniel Morgan, Godard si diverte però a modificare l’inizio di questa particolare storia, collocando la pittura a metà strada tra la fotografia (il primo piano di Delphine che guarda nell’obiettivo) e il cinema (l’inserto documentaristico del mare). Solo dopo aver appreso la lezione della pittura – suggerisce Morgan – la fotografia sembra poter aspirare a restituire il movimento e diventare cinema.
102Ma che cos’è, allora il cinema? Finestra sul mondo reale o invenzione di un mondo possibile? Registrazione o creazione? Discorso o racconto?
103Più che di racconti, forse, è opportuno parlare di novelle, o meglio di vaghe novelle.
Vaga novella
104Torniamo indietro di un anno. Nel 1990, quando i frammenti del muro di Berlino sono già in vendita, esce Nouvelle vague, forse l’opera più misteriosa e proprio per questo più affascinante di questa stagione, film-cerniera tra le inquietudini degli anni Ottanta e le sperimentazioni degli anni Novanta. Se davvero le opere prodotte dal 1988 a oggi costituiscono un «film unico»65, Nouvelle Vague è indubbiamente il segmento più seminale di questo lunghissimo film. Mentre raccoglie il materiale per le sue Histoire(s), Godard incontra i fantasmi di altre storie – cinematografiche e letterarie – e li rianima in immagini di “grande bellezza”, una bellezza che abbiamo già visto nella trilogia degli anni Ottanta e che affonda il proprio canone in una concezione «fisiognomica» della natura, in qualche modo vicina alle posizioni di Béla Balázs (a sua volta influenzato, com’è noto, dal pensiero di Georg Simmel). La natura in cui si rifugiano questi personaggi è infatti «aura visibile dell’uomo, fisionomia che si irradia oltre i confini del corpo»66, ma al contempo anche organismo vivente autonomo da colui che lo abita e quindi «fisionomia, volto che improvvisamente, in un punto di una certa zona, ci rivolge lo sguardo come muovendo dalle linee confuse di un’immagine ambigua»67.
105Sono gli stessi personaggi, del resto, a confermarci questa relazione dialettica tra corpi e natura: se Juliette Jeanson (Due o tre cose che so di lei), citando Dreyer, constatava come «un paesaggio sia identico a un volto», Carmen (Prénom Carmen) sentiva risuonare dentro di sé le «onde terribili» del mare.
106Al pari del tramonto sul cielo svizzero (Je vous Salue, Marie) o del mare mosso di Normandia (Prénom Carmen), l’erba agitata dal vento, la sagoma di un cavallo all’imbrunire o il riflesso del sole sulla chioma di Domiziana Giordano sono il prodotto di uno sguardo che delimita il visibile trasformando la natura in paesaggio e connotandolo di una Stimmung che, in questo caso, è intrisa di nostalgia. Come ha suggerito qualcuno, Nouvelle Vague può infatti essere letto anche come un viaggio a ritroso nell’infanzia dell’autore, trascorsa in un’atmosfera idilliaca nel podere dei nonni paterni sulla sponda francese del lago di Ginevra: un ambiente molto simile a quello in cui si muovono questi fantasmi, ma ancorato in un tempo lontano, quando, come ripete la voce over del narratore, «c’erano ancora dei ricchi e dei poveri, delle fortezze da conquistare, delle cose desiderabili ben protette, per conservare la loro attrazione».
107“Disconosciuto” dall’autore, che non iscrive il suo nome nei titoli di testa ma solo nei materiali pubblicitari, Nouvelle Vague comincia l’ammissione di un fallimento già visto: «Ma era un racconto che volevo fare. E lo voglio ancora».
108Un uomo in voce over – che scopriremo poi essere uno dei personaggi della storia, ovvero il giardiniere68 – dice che avrebbe voluto raccontare qualcosa, ma non c’è riuscito. Ciò significa che quello che i titoli di testa ci annunciano non sarà un racconto; tutt’al più un discorso, un’esposizione di fatti e di idee sospesa tra la narrazione, l’enunciazione, il discorso e l’argomentazione69.
109Didascalie, parole, corpi, colori, musica: i materiali saranno esposti nella loro nudità di segni e combinati secondo uno soltanto dei numerosi ordini possibili. Proviamo a mettere insieme i frammenti. Una donna ricca e sola (Elena Torlato Favrini) salva un uomo (Richard Lennox) dalla morte, si innamora di lui, ne provoca la morte e poi viene sedotta da un altro (?) uomo, che si dichiara il fratello del morto. Seppur esile, un filo narrativo dunque esiste ed è rafforzato dal fatto che la situazione finale dei personaggi è diversa rispetto alla situazione iniziale. Alla fine del film la contessa vende la villa, si congeda dalla servitù e parte insieme all’amato Roger: destinazione Italia.
110Ciò nonostante lo spettatore, continuamente distratto da parole “lontane” dalle cose, ha la sensazione di partecipare non a una narrazione, quanto al farsi di un racconto costituito da segmenti sonori e visivi indipendenti tra loro forse più di quanto avveniva nelle opere degli anni Ottanta. Viene in mente una nota di Bresson, valida per tutta l’opera di Godard e non solo per questa stagione: «Il tuo film non è compiuto. Si va facendo man mano sotto lo sguardo. Immagini e suoni in stato di attesa e di riservatezza»70.
111Il titolo non inganni. Nessun omaggio a quella stagione che – come afferma Serge Daney nelle Histoire(s) – ha assicurato all’autore la giusta distanza per scrivere la Storia del cinema senza rinunciare a farvi parte71. Non sono sicuro infatti che la scelta di questo titolo indichi necessariamente, da parte dell’ autore, una «rivendicazione del proprio statuto di artista e la conferma della propria posizione al di fuori dell’industria culturale narrativa»72. Non una nuova nouvelle vague, dunque, ma una novella vaga e confusa come il tessuto sonoro, teso a far emergere non tanto il senso quando il rumore delle parole.
112L’onda a cui si allude (non) è nuova così come (non) sono nuove tutte le onde che abbiamo visto in questo “terzo” Godard, attratto, come Velázquez, dalle palpitazioni dell’aria attorno agli oggetti (Il bandito delle ore undici) e soprattutto da ciò che si muove senza produrre senso: i riflessi dei nannuferi sull’acqua, il bagliore di un aereo nella notte o, per restare a Nouvelle Vague, le fronde di un platano in un giardino.
113Sull’erba di un prato, brucato da due cavalli mentre la terra «geme dolcemente», lo slancio cubista delle Histoire(s) si placa in favore di un ritorno a immagini depurate come quelle inseguite da Velásquez, così ordinarie da apparire straordinarie. Nel saggio su Velásquez letto da Belmondo, Elie Faure parlava di «scambi misteriosi che fanno penetrare le une negli altri le forme e i tempi». Ecco, questo “racconta” Nouvelle vague: le forme e i tempi di una storia composta di pochi elementi (un uomo, una donna, un’auto, un giardino) che però hanno già abitato altri tempi, altri spazi e soprattutto altre storie, comprese quelle di Godard.
114Si consideri per esempio la sequenza dell’incidente, che analizzeremo meglio più avanti. Amputate all’altezza del polso, le mani degli amanti che si intrecciano (fig. 49) rimandano – come una variazione sulla pratica della decostruzione – agli arti frammentati di Una donna sposata (fig. 50), un film in cui «i soggetti sono considerati degli oggetti» e «lo spettacolo della vita si confonde con la sua analisi»73. Venticinque anni dopo l’approccio etnologico è rimasto invariato. Se Una donna sposata era lo studio di una donna «in una società primitiva del 1964», Nouvelle Vague può essere considerato il ritratto di un moderno ideale di femminilità nella società alto-borghese del 1990: niente più matrimonio e ipocrisia, ma libertà di costumi e sentimento. Libertà pari a quella degli amanti di Il bandito delle ore undici, del quale Nouvelle Vague appare una sorta di remake borghese. Troviamo ancora una donna che uccide il suo uomo, un uomo dal doppio nome (Pierrot/Ferdinand, Roger/Richard), un viaggio in Italia in un’auto rossa. Le migrazioni continuano. Rossa era anche l’auto su cui moriva Camille alla fine di Il disprezzo, film nel film sull’Odissea: novello Ulisse, Roger Lennox parte e poi fa ritorno dalla donna amata, dopo aver vinto, così sembra, anche la morte.
115Ma non è finita. Nella scena dell’aeroporto viene mostrata una copia di La maya desnuda, ovvero uno dei quadri ricostruiti dal regista di Passion, film che in qualche modo si pone come vaso comunicante tra Il disprezzo e Nouvelle Vague74. L’estetica della frammentazione rinvia al Resnais di Hiroshima mon amour, il volto meduseo di Delon non può non evocare la maschera doppia di Losey (Mr. Klein [Id., 1976]), la domanda surrealista dell’autista («È mai stato punto da un’ape morta?») rimanda a To Have and Have Not (Acque del sud, Howard Hawks, 1944) e la contessa Elena evoca l’archetipo di Mankiewicz (The Barefoot Contessa [La contessa scalza, 1954]).
116OMNIA VINCIT AMOR, recita una delle ventitré didascalie. Ma di quale amore si tratta? L’amore per un altro corpo o l’amore per il cinema? Passion ci ha insegnato che il cinema è (anche) lavoro e che il lavoro ha «gli stessi gesti dell’amore». E quella tra Roger/Richard ed Elena è soprattutto una comunicazione gestuale: prima le mani intrecciate nel vuoto, poi il baciamano nel salone, quindi, durante una passeggiata nel parco, la mano dell’uomo che sfiora i capelli della donna che lo invita, invece, a parlare:
Elena: «Ce serait gentil si tu disait une fois quelque chose!».
Roger: «Je sais, mais à chaque fois je me demande quoi»75.
Elena: «Mais cherche! Lavora! Un pochino».
117Sembra di riascoltare il duetto tra Jerzy e Hanna sul set di Passion, quando l’uomo invitava la donna a cominciare delle frasi senza conoscere in anticipo la struttura del discorso, senza preoccuparsi delle regole della lingua. I ruoli si sono invertiti ma il motivo non cambia: la parola è vista non solo come strumento di comunicazione, ma come oggetto, suono atto a riempire il vuoto del silenzio, cosa. Res, non verba.
118Ricapitoliamo. Nouvelle vague “racconta” la storia di una donna che ama un uomo che vive (forse) due volte. Questo amore dunque vince, se non tutte le cose (omnia), quanto meno il nemico numero uno di ogni sentimento e cioè il tempo. Esattamente quanto accadeva nel finale di Il bandito delle ore undici, con le voci off degli amanti che riecheggiano nel cielo eterno di Rimbaud76. Da Histoire(s) du cinéma a Nouvelle Vague, dunque, il passo è breve.
119Di ricordo (mémoire) parla infatti la voce over all’inizio del film: «Dall’esterno nulla viene a distrarre la mia memoria. Sento solo, in lontananza, la terra gemere piano piano, e un’increspatura graffiare la superficie».
120Quello di Nouvelle Vague, allora, è il tempo del ricordo, «l’unico paradiso» – dice Roger citando Sartre – «dal quale non si può essere cacciati». Nella mente del narratore narrato scivolano immagini nuove (gli elementi della natura) e parole, come vedremo, vecchie, già lette, ascoltate, citate. Anche il regista di Passion voleva raccontare qualcosa, ma non trovava la luce giusta e soprattutto doveva vivere la (sua) storia prima di raccontarla. Questa volta invece la storia c’è, è stata vissuta. Si tratta di lottare contro l’oblio per ritrovarne, direbbe Elie Faure, le forme e i tempi.
121Acta est fabula, recita la didascalia che precede la sequenza dell’assassinio di Roger. Lo spettacolo è finito e dunque ora nulla è più possibile, se non riavvolgere il tempo e cristallizzarlo in una sorta di presente mitico, quello della buona novella. È lo stesso Godard a offrire una chiave di lettura “biblica” del plot:
In un primo tempo – l’Antico Testamento – un essere umano (un uomo) è salvato dalla caduta da un altro essere umano (una donna). In un secondo tempo – il Nuovo Testamento – un altro essere umano (una donna, la stessa) è salvata dalla caduta da un altro essere umano (un uomo, un altro). Ma la donna scopre che l’altro uomo è lo stesso di prima […]. È dunque una rivelazione: l’uomo ha detto il mistero, la donna ha rivelato il segreto77.
122Così articolata, quella ambientata in una villa in riva al lago sembra non tanto una nouvelle vague quanto una novella vaga, confusa e irregolare come l’estate svizzera. Perché confuse, innanzitutto, sono le decine di citazioni di cui sono infarciti i dialoghi, finalizzati non solo a dilatare a un’ora e mezza una storia di due minuti78 ma anche a evocare fantasmi di un tempo lontano e forse perduto. Da Faulkner a Denis De Rougemont, da Lamartine a Rivarol, da Schnizler a Chandler, da Mary Shelley a Dante Alighieri, molta letteratura occidentale è saccheggiata. E con essa la filosofia – da Aristotele («Il n’y a pas d’amitié») a Foucault («Les mots, non les choses») – e la pittura: la luce chiaroscurale degli interni della villa rinvia in modo spesso didascalico a certi interni di Vermeer o De La Tour79.
123Tutto questo non deve sorprendere: Nouvelle Vague è ideato e realizzato durante la lavorazione delle Histoire(s) du cinéma, quando l’ispirazione creativa dell’autore è ricca di schegge, frammenti, rovine. Sotto questo dotto cumulo di derive, però, solo una storia emerge, la stessa che l’autore ci racconta da anni, compreso Adieu au langage: la storia di un uomo e di una donna che si incontrano, si amano, si lasciano e si ritrovano.
L’incidente
124«J’ai envie d’être seule». Così, giacca rossa e guanti di pelle, si presenta la contessa Torlato Favrini, nobildonna dalle molte auto ma dai pochi amori, indubbiamente uno dei personaggi femminili più interessanti dell’ultimo Godard. Parlare di «presentazione» in realtà non è corretto, perché della donna non intravediamo che una parte del busto, in quanto tutta l’attenzione della cinepresa è volta alla fiammante Mercedes blu, ennesima variazione su un tema – l’auto ferma come metafora di un impasse narrativo – già indagato sopra. Decostruire la retorica dell’apparizione, però, non basta: Godard si diverte anche a citare, traducendola, una delle più celebri battute di Greta Garbo, pronunciata nel corso della seconda apparizione del personaggio di madame Grusinskaya, la ballerina triste di Grand Hotel (Id., Edmund Goulding, 1932): I want to be alone (J’ai envie d’être seule). La storia del cinema, dunque, continua e questa battuta potrebbe benissimo essere inserita tra i frammenti di Fatale beauté, il secondo capitolo delle Histoire(s).
125Fatale del resto, ai fini della salvezza del misterioso viandante, è anche il personaggio di questa contessa, «visiting angel» intellettuale esattamente il più celebre Gabriele (Je vous salue, Marie). Prima di compiere la sua missione salvifica, la donna fruga tra gli effetti personali dell’uomo soffermandosi qualche secondo su una copia di Les evadés des ténèbres, raccolta di racconti dell’orrore (da Edgar Allan Poe a Mary Shelley).
126Res, non verba dicevamo. Introdotta da questo prologo, la sequenza dell’incidente è costruita sull’estetica della sineddoche, la stessa che regola in fondo tutti gli incidenti automobilistici di Godard, da Fino all’ultimo respiro a Week End (Weekend – Un uomo e una donna dal sabato alla domenica, 1967). Qui però non c’è sangue, ma solo una breve insorgenza di rosso. Vediamo cose (un’auto, un camion, un uomo che cammina in campo lungo) e non udiamo parole, ma suoni che ci aiutano solo in parte a comprendere ciò che succede. Si pensi al camion rosso, presenza fantasmatica che sembra venire dal cinema più che dal nulla (Duel [Id., Steven Spielberg, 1978]). La presenza di questo elemento dell’azione – elemento a cui è possibile ricondurre la causa del malessere dell’uomo – è indicata da un rumore, il clacson, che sembra generato non tanto dall’immagine quanto dal tessuto sonoro. Nel momento in cui i due mezzi sfiorano l’incidente, infatti, l’immagine, è nera e ospita solamente la prima didascalia: INCIPIT LAMENTATIO. Nessuna lamentazione, però, ha inizio, perché, se la storia è solo il riflesso di un’onda già vista, non è nemmeno possibile parlare di inizio o di fine, ma semplicemente di ritorno.
127Tutto ciò che comincia, in Nouvelle Vague, è destinato inesorabilmente a ripetersi e non c’è bisogno di attendere lo sviluppo del racconto per verificarlo. È sufficiente osservare ciò che accade immediatamente dopo l’apparizione della didascalia. Sorpreso dal sopraggiungere del camion, Roger/Delon cerca riparo dietro a un albero. La cinepresa abbandona l’uomo ed erra nello spazio guardando verso l’alto. Ma chi guarda? Il narratore o il personaggio? Impossibile determinarlo. Questo movimento di macchina, facile metafora della vague a cui allude il titolo, termina dove tutto era cominciato: sul corpo di Delon, che ripete il gesto di cui sopra: abbraccia l’albero e riavvia, così facendo, il tempo del racconto.
128Le suggestioni simboliche fornite da questo elemento naturale sono infinite. Qualcuno ha rilevato nella porosità materica della corteccia la prova di un’attenzione della cinepresa alla plasticità delle cose anziché alla loro superficie. Altri, come Nicole Brenez, hanno persino scomodato Kant, individuando in questa struttura oggettuale una sorta di epifania del Sublime, inteso, appunto, come espressione della potenza della Natura e soglia che impone all’uomo la conoscenza del limite80.
129Come abbiamo detto in precedenza, qui non ci interessa decriptare la foresta di simboli quanto lasciare che le immagini pensino e per farlo ci accontentiamo di descriverle, ovvero di dire ciò che vediamo. Monolito agreste dalla vaga reminiscenza tarkovskiana (penso a Offret [Sacrificio, 1986), forse quest’albero altro non è che un semplice albero. Le cose sono lì, diceva Rossellini; è sufficiente filmarle.
130Rifare oggi la nouvelle vague, sembra dirci Godard, significa continuare a fare ciò che si è fatto trent’anni prima, ovvero lasciare gettare lo sguardo al di fuori degli spazi narrativi, sospendere il tempo della storia e catturare la verità, ventiquattro volte al secondo. In una sola inquadratura la cinepresa scivola dalla luce (il sole tra le fronde) al buio (il tronco in controluce), quasi a voler simulare un esercizio di bilanciamento delle dominanti cromatiche. Se gli esterni sono irrorati da una luce diffusa e spesso crepuscolare, gli interni della villa – luogo della parola, del denaro, dei rapporti sociali – sono scolpiti da un’illuminazione chiaroscurale che anticipa quella di Hélas pour moi.
131Si è detto che, se in Il disprezzo Godard ha filmato dei colori, in Nouvelle Vague sarebbe riuscito a filmare delle cose81. Ma è davvero possibile, con la tecnologia 2D, separare la cosa dalla sua determinazione cromatica?
132Solo adesso, forse, l’occhio dell’istanza narrante è pronto per catturare l’unico momento “spettacolare” della sequenza: l’auto della donna frena quanto basta per evitare il camion e soccorrere l’uomo. Il tempo dell’azione è cominciato? No, perché quello della riflessione non è ancora finito. Esattamente come l’accappatoio giallo di Prénom Carmen, infatti, anche queste oggetti (res) non hanno una funzione puramente narrativa, ma partecipano alla costruzione del senso offrendosi come semplici segni, macchie di colore sulla (solita) tela. Il rosso del camion, il blu della Mercedes e il bianco del fumo del motore: la tricromia è ricomposta. La nuova onda porta con sé tracce di un passato che non muore, tutt’al più si trasforma.
133È il caso di un motivo figurativo che, inaugurato nel finale di Fino all’ultimo respiro, è diventato una delle icone della Nouvelle Vague: la donna ai piedi di un uomo ferito, o meglio agonizzante. Su questo tema Godard si diverte ad apportare una singolare variazione. Come Belmondo, Delon è disteso a terra supino, la mano sul petto. A differenza del modello, però, questo personaggio non parla, non reagisce alle domande della donna, ma si limita ad alzare la mano sinistra intrecciandola con quella della donna sullo sfondo di un paesaggio muto. Solo in questo momento Godard sovraimprime alle cose le parole, parole estratte da un contesto al contempo lontano e vicino alla Nouvelle Vague, il Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos: «Miracle de nos mains vides»82. La voce è quella di Delon e questo potrebbe suggerire una pista ermeneutica che confermerebbe una delle costanti tematiche di questo Godard, ovvero la dialettica tra eros – l’amore come desiderio – e agape – l’amore disinteressato, spirituale, fraterno: salvando il misterioso viandante, la contessa (curiosamente lo stesso statuto nobiliare del personaggio di Bernanos) salva la propria anima.
134Simile è la dinamica di scambio che regola la direzione di Alain Delon. Godard lo sceglie per il fatto che egli «porta la propria tragedia dentro di sé» e il divo accetta perché il carisma e il talento dell’autore gli restituiscono «voglia, entusiasmo ed eccitazione»83 per il mestiere d’attore. «Non fosse stato Delon, non avrei potuto avere il tempo – cioè i soldi – per filmare un ruscello e voi non avreste notato nemmeno questo ruscello. Per vederlo ci vuole una star, una stella»84.
Una stella intertestuale
135Molto si è scritto in merito a questo casting, costruito sull’incontro/scontro tra due “stelle” dal destino opposto: una cadente (Delon) e un’altra, quella di Domiziana Giordano, appena nata ma destinata a un rapidissimo tramonto85.
136La scelta di Delon non stupisce, al contrario. Il divo è da sempre in questo cinema materiale atto a produrre tensione tra i codici, soprattutto se filmato in contre-emploi. Ha ragione Jacques Rancière:
L’attrazione per la star – a volte presente in carne e ossa (Bardot in Il disprezzo), a volte solo citata (Belmondo/Bogart in Fino all’ultimo respiro) – si inscrive nella dialettica tra due attitudini: un’esteriorità radicale rispetto al sistema e una volontà di farvi parte86.
137Interessante, in questo caso, è la dinamica che si instaura tra il corpo stratificato del divo e quello della partner, pressoché vuoto di segni. Solo pochi anni prima, infatti, Andrej Tarkovskij aveva affidato alla giovane debuttante il ruolo di Eugenia, la ragazza che assiste il poeta Gortčakov durante il suo doloroso viaggio in Italia (Nostalghia, 1983). Racchiusa in campi lunghissimi e mobili, Domiziana Giordano illuminava con la sua presenza botticelliana – braccia conserte, sguardo sospeso nel vuoto e capelli biondi sciolti sulle spalle – la nebbia di un paesaggio oscuro come la mente del protagonista, il quale contemplava la donna come una icona, senza toccarla: «Fermati, sei così bella con questa luce».
138Godard parte da qui, ma al campo lungo preferisce la figura intera e all’icona la carne, anche se si tratta di una carne cinematografica. Nel salotto della sua villa, l’ex donna angelo di Bagno Vignoni ora porta una vestaglia bianca, il rossetto sulle labbra e una sigaretta tra le dita: più che Botticelli, Rita Hayworth. Una Hayworth il cui sangue ha lo stesso motto nobiliare di quello della contessa di Mankiewicz (Qué sera sera), anche se le parole del personaggio, come abbiamo visto, rimandano al destino di un’altra contessa, quella del castello di Ambrincourt.
139Per Tarkovskij, com’è noto, il cinema è non solo scultura del tempo ma anche riflessione sullo spirituale nell’arte. La migrazione di questo corpo attoriale è dunque interessante in quanto conferma la fascinazione di Godard per tutto ciò che rimanda, anche se non direttamente, a un’interrogazione sul confine tra reale, divino e soprannaturale. Dopo l’angelo di Je vous salue, Marie, toccherà a un uomo il cui nomen è omen (Donnadieu) visitare sotto le spoglie di un Dio la donna amata (Hélas pour moi).
140Una sequenza in particolare evidenzia l’utilizzo letterale che Godard fa della “starità” di questa star. Nella villa è in corso un ricevimento: i soci sono riuniti per discutere dell’eventuale acquisizione delle quote della Warner. Più che dalle questioni economiche, però, la contessa Elena sembra attratta da un’urgenza “scenografica”: perfezionare al meglio la composizione floreale che addobba il tavolo degli ospiti, da cui Roger è escluso. La donna toglie un fiore dal mazzo, lo sposta, e inverte l’ordine della disposizione. Vengono in mente le parole con cui Jerzy (Passion) descrive il proprio lavoro di cineasta: «osservo, trasformo, trasferisco». Elena osserva, in silenzio, incurante del magma di parole che scorre sulla superficie sonora di un quadro (fig. 51) che ricorda, per struttura compositiva, molti ritratti degli anni Ottanta – in particolare Myriem Roussel in Je vous salue, Marie (fig. 52) e Isabelle Huppert in Si salvi chi può... la vita (fig. 53). Si tratta di un genere di ritratto che potremmo definire “donna con bouquet”. Che si tratti di fiori (Si salvi chi può... la vita) o di semafori (Je vous salue, Marie) non importa: una semplice variazione di fuoco scioglie la materia in colore in modo tale da creare una sorta di iride87 attorno al volto dell’attrice, il quale, isolato rispetto a un ambiente che rimane flou, si offre come puro «affetto» (Deleuze), espressione di un possibile non attualizzato. Intorno a questo volto muto, le parole degli astanti si confondono in un brusio indistinto di frasi interrotte e sospese, oscure come la luce d’ambiente. «Non ti rendi conto di quanto tu sia circondata di persone anche quando tu ti credi sola con il tuo amato» dice una voce maschile proprio mentre l’amato in questione, Mr. Lennox, si aggira tra i tavoli, smarrito e inquieto. In quanto elemento della scenografia di un rito (il pranzo sociale di un’azienda), egli non ha il diritto di toccare i fiori e dunque modificare la mise en scène della contessa, la quale, con un semplice gesto della mano, gli intima di sedersi in un posto defilato. I gesti del lavoro, questa volta, non assomigliano per nulla a quelli dell’amore.
141Ritorniamo alla sequenza dell’incidente. Mentre le mani dei due amanti si intrecciano, la voce off di Domiziana Giordano traduce in italiano le parole scritte da Bernanos e pronunciate da Delon: «Dolce miracolo!». Ma quello della traduttrice era il ruolo del personaggio di Tarkovskij… Com’è noto, l’immagine divistica di ogni attore si compone di frammenti dei ruoli precedenti e Godard non fa che prendere atto di questa ibridazione, rilanciando all’infinito il gioco delle associazioni. Basta poco per partire: un’immagine, oppure una parola. In questo caso è «morte» la parola seminale, parola che arriva nella bocca di Delon direttamente dai Quaderni di Rilke: «Le désir d’avoir une mort bien à soi devient de plus en plus rare»88.
142Come il giovane Malte nella Parigi pre-bellica, anche questo viandante riflette sulla vanità terrena dell’essere, esattamente come faceva il curato di Bernanos.
143Non solo res dunque, ma anche verba. Si tratta però di parole, utilizzate esattamente come il colore o gli attori, ovvero come materiali da tagliare, modellare e incollare a piacimento, meglio se in un contesto iconico eterogeneo al contenuto delle parole stesse. La ricorrenza di questa citazione di Bernanos, frequente nell’ultima stagione quasi quanto i colori della tricromia, ha indotto Jean Cléder a leggere, dietro la superficie del testo, una non velata dichiarazione di intenti: «La forza poetica della creazione non procede più da questo o quel dato (le mani del regista sono vuote), ma da un assemblaggio (le mani del regista lavorano)»89.
Figure e colori
144Analizzato da questo punto di vista, Nouvelle Vague è forse il film più bressoniano dell’ultimo Godard. Se immagini e suoni producono e ricevono senso soltanto dalla loro interrelazione, evidente è come questo senso sia, come voleva Bresson, «piegato ai ritmi»90. Il contrasto tra colori caldi e colori freddi, l’alternanza di movimenti di macchina e inquadrature fisse, la successione di stasi e deambulazioni dei corpi. Tutto in questo film è ritmo, come del resto suggerisce la dinamica stessa della (nuova) onda.
145I personaggi – a parte quelli interpretati da Delon – parlano senza sosta, ma le loro parole, dette più che recitate, rinviano a qualcosa che spesso non appartiene né alle immagini né al contesto narrativo della sequenza. Talora, come abbiamo visto, una frase si sovrappone a un’altra, rendendo di fatto impossibile la comprensione del dialogo e offrendosi come semplice rumore tra altri rumori o, per dirla con Michel Chion, «parola-emanazione».
146Più che far andare avanti il racconto, le parole infatti escono dal corpo dei personaggi come escrescenze misteriose ma, in qualche modo, a differenza dei corpi già strutturate, finite, composite91. A Godard non interessa “aprire” le terzine di Dante e svelarne, mediante la voce di Domiziana Giordano, nuovi significati. Gli basta «far risuonare la musica dei testi all’interno di una situazione data»92 e magari disturbarne l’ascolto sovrapponendo a queste rime la struttura di una formula algebrica: questo contrappunto di voci annuncia, a metà del racconto, l’entrata in scena del secondo Lennox, al volante di un’auto rossa come il rossetto di Elena.
147Se, come sosteneva Deleuze, il cinema ha come obiettivo quello di «operare una genesi primordiale dei corpi in funzione dei colori, di un “cominciamento di visibile che non è ancora una figura”»93, Godard sembra divertirsi a negare la purezza di questa genesi. Se l’immagine non è ancora, la parola invece è già (è la parola di Leopardi, di Shakespeare, di Denis de Rougemont) e occupa quel tempo del ricordo al cui interno tutto ha inizio: «Dall’esterno niente viene a distrarre la mia memoria», dice il giardiniere-narratore nell’incipit.
148Di che cosa si parla in Nouvelle Vague? D’amore innanzitutto. Più che riflettere sulle intermittenze del sentimento, però, Elena si limita a (re)citare aforismi impersonali («L’amore non muore, sono le persone che muoiono. L’amore se ne va»), imitata poi dall’amato («Una donna non può nuocere più di tanto a un uomo. L’uomo porta in sé la sua personale tragedia»). Elena parla, mentre Roger preferisce tacere, e guardare. Quando parla lo fa non solo per ripetere qualcosa che ha impresso dentro di sé (un aforisma o una poesia), ma anche e soprattutto per esprimere se stesso: «Lei parla, parla, parla. Ma non ha capito nulla del mio silenzio. Come può capire che ci sono degli altri, degli altri che esistono, che pensano, che soffrono, che vivono. Lei non pensa che a se stessa».
149Roger si riferisce a Elena, ma queste parole incarnano – non senza una punta di autoironia – una caratteristica congenita del femminino godardiano, quell’intreccio di cinismo, egoismo e mancanza di empatia che abbiamo osservato in Patricia (Fino all’ultimo respiro), Marianne (Il bandito delle ore undici) e soprattutto in Charlotte (Una donna sposata).
150«Dove cominci tu? E dove comincia l’immagine che mi faccio di te?» chiedeva Pierre a Charlotte nella speranza, vana, di cogliere l’anima dietro il corpo e la verità dietro la maschera. Vent’anni dopo, il polo maschile della coppia non pone più domande e nemmeno guarda più il volto della donna amata. Seduto su una panchina, si limita a constatare come «la solitudine sia il solo inferno al quale siamo condannati». Il pensiero ovviamente non appartiene a Godard, ma è una liberissima citazione di un aforisma di Jean Paul 94: «Le souvenir est le seul paradis dont nous ne pouvons être chassés [...] plus généralement, le souvenir est le seul enfer auquel nous sommes condamnés en toute innocence».
151«Per la prima volta abbiamo l’occasione di dirci delle cose», dice Elena. La parola è annunciata come comunicazione, ma quello che lo spettatore udirà nei due minuti successivi sarà solamente una sovraimpressione di voci, parole e frasi spezzate che scivolano sul tessuto sonoro con la stessa fluidità con cui la cinepresa si libra nell’aria per guardare, da una prospettiva proibita ai corpi, la misteriosa bellezza della natura.
152Il travelling si conferma come cifra stilistica del racconto, codice finalizzato non tanto a imitare un movimento dei corpi nello spazio quanto a produrre insorgenze di colore (la dominante verde qui sostituisce gli altri elementi della tricromia) o immagini eidetiche. Penso a quel mare extradiegetico, agitato come quello che apriva Prénom Carmen, innestato nel tessuto finzionale del racconto da un movimento di macchina analogo a questo durante il duetto Roger-Elena in camera da letto: l’uomo inginocchiato, la donna in posizione dominante con la sigaretta tra le dita. Scivolare dalle figure umane ai paesaggi è un modo per confondere le carte allo spettatore ma soprattutto un ottima soluzione per evitare di dare alle cose non solo un nome (“volto”, “paesaggio”), ma anche dei contorni. Uno dei codici simbolo della Nouvelle Vague, il travelling, è dunque svuotato delle sue funzioni narrative e anzi impiegato in modo quasi decostruttivo. Anziché aiutarci a pedinare i corpi, ci allontana da essi, come dimostra l’inquadratura finale della sequenza appena analizzata. Mentre Elena e Roger si allontanano verso il fondo del quadro, in direzione del bosco, la cinepresa scarta a sinistra e resta ferma al bivio del sentiero, senza prendere nessuna direzione e dunque senza collaborare alla costruzione di una delle tante storie aperte dal narratore.
153Esemplare, in questo senso, è la lunghissima carrellata laterale che, la sera del ritorno di Lennox, accarezza dall’esterno le pareti della villa e mostra il vuoto che si apre non solo attorno alla contessa, ma anche tra la coppia, i cui poli sono collocati ai margini del quadro (fig. 54). Vengono in mente i virtuosismi di Ophüls e non a caso. Pur collocato in un contesto estetico e culturale lontanissimo dai melodrammi ophulsiani, anche l’amore di Elena e Mr. Lennox è filmato come una ronde, un girotondo di frasi spezzate, discorsi interrotti e mani intrecciate sull’acqua.
154La Nouvelle Vague è lontana, sia nel tempo che nello spazio. Non ci sono più corpi da inseguire o precedere nei boulevard, anche perché non ci sono più boulevard, ma una selva oscura e umida, dove gli amanti si rifugiano nel disperato tentativo di «dirsi delle cose». Se gli amanti degli anni Sessanta fuggivano verso il mare, questi si devono accontentare delle rive di un lago. Del mare è rimasta solo la voce, ovvero lo sciabordio delle onde che dopo aver risuonato nel corpo di Carmen ora si infrangono in spazi sonori che nulla hanno a che vedere con il contenuto delle immagini. I mari assolati di Il bandito delle undici o di Il disprezzo sono sostituiti dalle acque fredde di un lago il cui orizzonte, a differenza di quanto dicono le terzine di Dante lette da Domiziana Giordano95, non intenerisce nessun cuore. Proprio nell’ora del tramonto, quando i «navicanti» di Dante si struggono di nostalgia, Elena attua infatti il suo progetto criminale, tendendo la mano all’uomo per invitarlo a un tuffo mortale.
155Ma anche la morte, come l’amore, altro non è che un’immagine, come conferma la reazione verbale del giardiniere/demiurgo, seduto sulla riva del lago assieme alla figlia:
Giardiniere: «Cécile, cosa sono queste immagini, a volte libere, a volte confinate? Questo enorme pensiero… delle figure passano mentre dei colori brillano?
Cécile: «È lo spazio».
156Mentre la ragazza recita una poesia di Lamartine (Le lac), la mente dello spettatore rievoca immagini non libere ma appunto «confinate» (enfermées) nella storia del cinema, immagini di cui queste non sono che un’ombra, anzi: l’ombra di un’ombra. Penso agli omicidi per annegamento che fungono da punte drammatiche di due celebri mélo: Leave Her to Heaven (Femmina folle, 1945, John M. Sthal) e soprattutto A Place in the Sun (Un posto al sole, George Stevens, 1951).
157Una «storia sola» evoca dunque altre storie, perché in fondo una storia, al cinema, non è nulla di più di quanto ha sintetizzato il giardiniere: «alcune figure che passano mentre i colori brillano». E così anche l’apparizione del secondo Lennox, chiosata dalla didascalia Je est un autre, altro non è che la raffigurazione di una ricorrenza di rosso (l’auto rossa occupa tutta la metà inferiore del quadro) la quale, per mezzo di un lento travelling, si dissolve in un’insorgenza di verde (fig. 55). Nella selva svizzera, più lussureggiante che oscura, la figura umana si dissolve, quasi a suggerire la conquista di quell’armonia uomo-mondo agognata non solo dalle eroine degli anni Ottanta ma anche dell’enigmatico giardiniere. «Questa terra, è dentro di me?» – si chiede l’uomo fissando l’erba sotto i suoi piedi – «È essa ancora erba quando è senza di me?».
158«Il cinema di Godard è evento visivo»96, ha scritto Marie-Françoise Grange; e Nouvelle Vague ne è la conferma. Se la presentazione del sosia di Lennox alla casta Torlato-Favrini è occasione per l’ennesima variazione sulla tricromia (un travelling laterale scopre una fila di auto disposte in modo tale da alternare i tre colori), la passione tormentata di Elena – obbligata ad amare il revenant in quanto doppio del corpo già amato («Se non fosse per il vostro volto, non sarei obbligata ad amarvi») – è dipinta come una lotta tra le forze della memoria e quelle dell’oblio. Elena non vuole guardare il volto meduseo del non-morto, il quale porta con sé tracce intertestuali di altre storie (penso al ruolo del sosia interpretato da Delon nel William Wilson [episodio di Tre passi nel delirio, 1967] di Louis Malle)97, e si rifugia in quella stessa oscurità che nella prima parte del film invece evitava di abitare. L’autore lascia che la penombra inghiotta i capelli di Domiziana Giordano in uno spazio composto non più di alberi o prati, ma di vetri, finestre, mura. Se gli alberi, come voleva il Rossellini intervistato da Godard, ci parlano della «loro bellezza di alberi»98, queste soglie raffigurano la difficoltà di comunicazione del personaggio ma anche l’impossibilità, da parte della cinepresa, di in-quadrarne il dolore, di dargli una forma, un colore, dei contorni.
159L’ultimo frammento del discorso amoroso, quello che documenta la sofferenza del personaggio femminile, è forse una delle pagine più intense di tutto il cinema di Godard. Nel tentativo di fare ciò che si era promesso fin dal 1965, ovvero filmare «la vita da sola» e ridurla ai suoi elementi fondamentali99, l’autore non espone nient’altro che la materia di cui si compone ogni immagine, non importa se fissa o mobile: il buio e la luce. Il secondo Lennox agisce come una sorta di novello Orfeo. Ritorna non dagli Inferi ma agli Inferi per riprendere la sua sposa – la quale non a caso non vuole guardarlo in faccia – e portarla dove tutti gli amanti godardiani sognano di fuggire: verso il sole, verso la luce. La sequenza della governante che spegne una a una le lampade al calar della sera, sciogliendosi nel buio assieme a ciò che resta di visibile, dimostra l’influenza determinante della pittura fiamminga nella costruzione dell’immagine, pittura che ritornerà qualche anno dopo a modellare gli interni di JLG|JLG Autoportrait de décembre, altra variazione, questa volta in chiave autobiografica, sul tempo del ritorno. La pittura fiamminga è scelta in quanto exemplum di immagine intesa come «rapporto»100, in questo caso rapporto tra chiaro e scuro, linee luminose che si muovono all’interno di masse scure. Dodici anni dopo Dans le noir du temps rinnoverà il motivo del conflitto luce-buio come metafora della caducità del tempo: alla domanda della bambina, che chiede perché la notte faccia buio, Mr. Vicky replicherà con queste parole: «Quando il cielo aveva la tua età, l’universo splendeva di luce. Poi il mondo è invecchiato, si allontana. E quando guardo il cielo tra le stelle, non posso vedere che ciò che è scomparso».
160Al pari di JLG, che in un appartamento buio come un ventre cerca di ritrovare e catturare la luce dei ricordi, Elena è scissa tra la memoria e l’oblio, tra l’amore come Immagine, riflesso narcisistico del Sé, e l’amore come nulla, annientamento di ogni volontà, desiderio, identità.
Reditus ad originem
161Come abbiamo visto, nessuna creazione è possibile – né quella della Vita (Je vous salue Marie), né quella di un film (Passion) e nemmeno quella di un archivio (Histoire[s] du cinéma) – senza un’interrogazione sull’origine. All’alba del nuovo millennio Godard si congeda dal Novecento con De l’origine du XXIème siècle, un video-omaggio di diciassette minuti al secolo che ha visto l’Orrore e che ora sta per accogliere un’altra catastrofe (l’11 Settembre). In principio non è un’immagine, ma una parola: OR-IGINE. Più che riflettere sul significato, l’autore si diverte a esporre la polisemia del significante decostruendo la struttura della parola. La parola origine contiene infatti il lemma or: parlare dell’origine significa parlare di un età dell’oro? Oppure il tema dell’oro – che ritroveremo simboleggiato dall’orologio d’oro di Film socialisme101 – rinvia alla critica del capitalismo espressa in La Monnaie de l’absolu? Come sempre, anche in questo piccolo lavoro il senso erra di suono in suono e di immagine in immagine.
162«Dell’immagine si ha paura – ha dichiarato Godard nel 1980 – perché l’immagine permette di vedere»102. Più che incutere paura, le immagini che si susseguono in questo collage “contengono” paura: la paura della morte impressa negli occhi aperti di un cadavere o la paura del dolore disegnata sul volto della vittima di una tortura.
163La fonte è spesso oscura. Archivi bellici, snuff movie, film di propaganda sono però alternati a fotogrammi tratti da film di finzione, come The Best Years of Our Lives (I migliori anni della nostra vita, William Wyler 1946) o Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975), storie di orrori all’ombra della Storia. Lo spettatore è invitato a guardare non solo gli elementi del collage ma anche e soprattutto quello che c’è tra di essi.
164Si consideri l’incipit. Che cosa “unisce” il cadavere impiccato di un dittatore (documento: fig. 56) al volto agonizzante di Marcello Pagliero in Roma città aperta ([1945, Roberto Rossellini] finzione: fig. 57), se non uno spazio nero e le note minimaliste di Hans Otte? La scelta di Otte è perfetta: sul libro di un pianoforte “deep listening” (Das Buch der Klänge) scorrono le pagine di una Storia che è al contempo quella dell’uomo e quella del cinema, e la Storia, come la musica, è composta da intervalli, assonanze e soprattutto da dissonanze.
165Partiamo dalle assonanze. Godard procede selezionando motivi figurativi tali da confondere la frontiera tra realtà e finzione e uno di questi motivi sono le gambe, ovvero ciò che resta di una frammentazione della figura umana già effettuata, tra gli altri, in Una donna sposata (incipit) e in Je vous salue, Marie (la camminata sulle strisce pedonali nel finale). Le gambe rinviano all’idea di movimento e dunque al topos, caro al cinema moderno, del corpo errante dell’attore, libero di significare solo se stesso. I movimenti compiuti dai corpi decostruiti in questi fotogrammi, però, non simboleggiano alcuna forma di libertà. Dal dettaglio dei piedi degli sposi di Salò (fig. 58) passiamo, attraverso dissolvenze in nero e una danza rituale di piedi femminili (fig. 59), ai piedi di anonimi deportati in chissà quale lager.
166Come detto, il montaggio funziona anche per dissonanze: dissonanze plastiche, grafiche, cromatiche, sonore. Senza soluzione di continuità, per esempio, il nostro sguardo scivola da un dettaglio di Masaccio (La cacciata dell’Eden) al volto di una contadina del Vietnam, per poi fermarsi sull’icona dell’origine di questo cinema, il primo piano di Jean Seberg nel finale di Fino all’ultimo respiro.
167Dato l’alto numero di immagini fisse che compongono questo video, commissionato dal Festival di Cannes per inaugurare la prima edizione del nuovo millennio, può essere interessante analizzarlo alla luce delle due modalità di ricezione coniate da Barthes per le immagini fotografiche, ovvero lo studium e il punctum103. Più che informare (studium), le immagini “trovate” che scorrono in questi diciassette minuti formano lo sguardo di uno spettatore sospeso tra la scena (i frammenti di almeno dieci lungometraggi) e ciò che invece di norma resta ob-scenam, nascosto negli archivi militari o distribuito in circuiti indipendenti. Dal punto di vista del punctum, allora, il rigor mortis del cadavere di un prigioniero acquista maggior carica emotiva se raccordato con la mobilità fluida e senza tempo del triciclo di Danny (The Shining [Shining, Stanley Kubrick, 1980]), a sua volta accompagnato da un crescendo di note fondato non a caso sul principio della ripetizione.
168Godard constata – e ci ricorda – che il passato, anziché “passare”, si ripete: nessun sorriso di bambino o di madre può, come pur l’autore avrebbe voluto, «coprire il ricordo di esplosioni o crimini». Il ricordo prende vita e si cristallizza, anche grazie alla riproducibilità tecnica dell’immagine, come eterno presente e spesso è proprio il cinema a rianimare la traccia di un evento. Si vedano le anonime immagini di guerra (paracadutisti che scendono da un elicottero) raccordate sullo sguardo, incollato sul finestrino, del bambino di Persona (Id., Ingmar Bergman, 1966). Godard non si è mai stancato di ripeterlo: non c’è montaggio senza «avvicinamento di qualcosa di lontano con qualcosa di vicino, e soprattutto nel tempo»104.
169Per cercare l’origine di un secolo «perduto», come recita una delle didascalie, Godard parte dal 1990 e procede a ritroso, punteggiando con citazioni “colte” schegge di un passato al contempo pubblico (Marilyn ritratta da Bert Stern) e privato (Jean Seberg ritratta da Godard). Come le immagini, anche le parole illustrano conflitti: conflitti tra anima e corpo, tra la Memoria e la sua rappresentazione, tra l’individuo e lo Stato. Eloquenti in questo senso le parole di Bataille scandite nella prima parte da una voce over femminile: «Vous dîtes l’amour, mais rien n’est plus contraire à l’image de l’être aimé que celle de l’État, dont la raison s’oppose à la valeur souveraine de l’amour»105.
170Ma se lo Stato (la Storia) è mostrato, quanto meno nelle sue icone più rappresentative (Kennedy, Hitler, Stalin), dell’amore per gli «esseri mortali» (la storia), invece, non c’è traccia se non quella ricostruita dal cinema. Mi riferisco al breve inserto di Viaggio in Italia (Roberto Rossellini, 1954), con i corpi degli amanti uniti in una abbraccio mortale dalla lava, o alla danza mortale di La Ronde (La Ronde – Il piacere e l’amore, Max Ophüls, 1950), che conclude il viaggio – e il secolo – sotto il segno non della trasgressione, come suggerisce la citazione di Bataille, ma della malinconia.
171Il nuovo millennio ricomincerà proprio da qui, da una riflessione in forma di film sulla fragilità e sulla bellezza dell’amore mortale.
Notes de bas de page
1 «In Histoires du cinéma 1A Godard dichiara: dire tutte le storie dei film che non si sono fatti. I titoli che enumera sono i seguenti: La condizione umana, Don Chisciotte, Umiliati e offesi, L’educazione sentimentale. Dieci anni più tardi Godard ha girato questi film. La condizione umana definisce JLG/JLG, Don Chisciotte appare in Allemagne neuf zéro e Hélas pour moi mette in scena dei liceali che leggono L’educazione sentimentale». (Bamchade Pourvali, Godard neuf zéro. Les films des années 90 de Jean-Luc Godard, Séguier, Biarritz, 2006, p. 8).
2 «Si può dire che questo film venga dagli inizi di Kandinsky, dagli inizi del fauvismo. In seguito Freddy Buache mi ha detto che proviene dal Kammerspiel tedesco. Non ci avevo pensato, ma dal momento che era girato interamente in camere d’albergo e dal momento che vi si faceva del teatro!». (Jean-Luc Godard, La guerre et la paix. Entretien avec Serge Toubiana, Alain Bergala, Pascal Bonitzer, «Cahiers du cinéma», 373, 1985).
3 Cfr. Roberto Chiesi, Godard nell’isola dei morti, «Cineforum», 433, pp. 38-41.
4 Alain Bergala, Nul mieux que Godard, cit., p. 55.
5 Jean-Luc Godard in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard. Il cinema non è il cinema, cit., p. 208.
6 Si pensi al caso Re Lear, definito nel primo dei titoli di testa «uno studio, un avvicinamento, una cancellazione». Del progetto originale, finanziato dalla Cannon Film, mancano la storia infatti e le stelle (Woody Allen, Norman Mailer, Sting), ma restano le cicatrici della Storia: William Shakespeare Junior deve recuperare le opere perdute dell’antenato distrutte dalla catastrofe nucleare di Chernobyl.
7 Alessia Cervini, Alessio Scarlato, Luca Venzi, Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoires du cinéma di Jean-Luc Godard, cit., p. 8.
8 Mi riferisco alla scelta, da parte di Jack Lang, di Godard quale collaboratore per la creazione di Péripheria, ambizioso progetto di un centro di ricerche di immagine e video destinato, in particolare, a costituire un laboratorio di sperimentazione per i giovani della Fémis.
9 Penso a videosaggi come Puissance de la parole, Closed e Le rapport Darty, variazioni su un tema, la comunicazione nel marketing aziendale, già abbordato negli anni Sessanta con Due o tre cose che so di lei e Masculin féminin (Il maschio e la femmina, 1966). In Le rapport Darty, in particolare, anziché obbedire ai precetti della committenza, Godard riflette sulle conseguenze antropologiche della mercificazione capitalistica e lo fa come sempre per accumulazione (citazioni da Bataille, Rousseau, Marx e molti altri), e conflitto: le immagini di un punto vendita Darty, per esempio, sono sovraimpresse ad alcune scene di Perceval le Gallois (Perceval, Éric Rohmer, 1978).
10 Queste le parole pronunciate dall’autore intento a battere i tasti della sua macchina da scrivere: «Toutes les histoires qu’il y aurait, qu’il y aura… qu’il y aurait ou qu’il y aura? Qu’il y a eu» (Tutte le storie che ci sarebbero, che ci saranno… che ci sarebbero o che ci saranno? Che ci sono state).
11 Sul tema dell’infilmabilità della Shoah si vedano, tra gli altri: Maurice Blanchot, L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980; Barbie Zelizer (ed.), Visual Culture and the Holocaust, Rutgers University Press, New Brunswick, 2001; Vincent Lowy, L’histoire infilmable. Les camps d’extermination nazis à l’écran, L’Harmattan, Paris, 2001; Claude Lanzmann, Holocauste, la répresentation impossibile, «Le Monde», 3 Mars 1994, I, p. 8.
12 Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, tr. it Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, p. 159.
13 Sulla relazione, al contempo affettiva e intellettuale, di Jean-Luc Godard con la cultura ebraica si veda Maurice Darmon, La question juive de Jean-Luc Godard: filmer après Auschwitz, Temps Qu’il fait, Cognac, 2011. Analizzando il pensiero per immagini delle Histoire(s), Darmon mette in evidenza come l’orrore dell’Olocausto costituisca il «cuore profondo» non solo dell’arte, ma anche della volontà morale del cineasta.
14 Alessio Scarlato, Un’oscura fedeltà per le cose cadute, in Alessia Cervini, Alessio Scarlato, Luca Venzi, Splendore e miseria del cinema, cit., p. 77.
15 Sei sono in totale le opere “attraversate” da questa citazione: Passion, Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma, Re Lear, On s’est tous défilés e Histoire(s) du cinéma-4b, JLG|JLG.
16 Sulla funzione trasfigurante del montaggio delle Histoire(s) si veda Francesco Zucconi, La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità, Mimesis, Milano, 2013, pp. 86-99.
17 Cfr. Georges Didi-Huberman, Immagini, malgrado tutto, cit., p. 158.
18 Godard parafrasa il seguente aforisma di Robert Bresson: «Ne pas montrer tous les côtés des choses. Marge d’indéfini» (in Robert Bresson, Note sul cinematografo, tr. it. Marsilio, Venezia, 1986; 2008, p. 95). Questa “nota” risuonerà qualche anno dopo anche in Hélas pour moi, per bocca dell’albergatrice che aiuta Abraham Klimt, il narratore, a dipanare i fili della storia di Rachel e Simon. Mentre il sosia di Simon possiede Rachel, lo schermo diventa improvvisamente nero. Klimt è inquieto («Non vedo nulla, signorina»), ma la ragazza lo rassicura: «Mantenga un margine di indefinito». Non c’è immagine, e dunque storia, senza confronto con il nulla (il buio).
19 Penso alla fotografia di Godard diciottenne su cui si sofferma per diversi minuti la cinepresa all’inizio di JLG/JLG.
20 Questo paragrafo e i due successivi riprendono, con opportune integrazioni, la struttura di L’inconsolable mémoire de Jean-Luc Godard, un articolo da me pubblicato in «AAM·TAC» Technology, Aesthetics, Communication 6·2009, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma, pp. 31-38. Si ringrazia per la gentile concessione Fabrizio Borin.
21 Jean-Luc Godard, Montage mon beau souci, «Cahiers du cinéma», 65, 1956, tr. it. di Adriano Aprà in Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, cit., p. 58.
22 Cfr. Céline Scémama, Histoire(s) du cinéma. La force faible d’un art, cit., pp. 9-13.
23 Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 271.
24 Jean-Luc Godard, Histoire(s) du cinéma, Gallimard, Paris, 1998, vol. II, p. 85.
25 Monica Dall’Asta, La storia impossibile. Ancora sulle Histoire(s) du cinéma, «La Valle dell’Eden», Dossier Cinema e Storia, VI, 12-13, luglio-dicembre 2004, p. 29.
26 «Importanti, sorprendenti, profonde e giuste cose». Scolpiti in un bianco e nero che Godard concepisce come il colore del lutto, scorrono muti i volti di Simone Weil, Hannah Arendt, Camille Claudel, Virginia Woolf, Colette, Sarah Bernhardt e Lou Andreas-Salomé. Sulla loro pelle si alternano in carattere maiuscolo gli otto titoli di queste Histoire(s). Queste donne, che hanno scritto delle storie, sono ora scritte dalla Storia.
27 Céline Scémama, Histoire(s) du cinéma, cit., p. 10.
28 «La vera immagine del passato passa di sfuggita. Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte nell’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato»: Walter Benjamin, Angelus novus, cit., p. 77.
29 Un uomo e una donna, in mezzo busto frontale, guardano davanti a sé le immagini di un film nel film. La quinta parete dello schermo trasforma il soggetto in oggetto della visione.
30 «L’Io di Godard – ha scritto Céline Scémama – si sostituisce a tutte le storie e si sostituisce anche a tutte le solitudini. Perché la solitudine è plurale qui. […] Il cineasta/storico lascia che la forma pensi da sola e si dichiara solo, perduto nei suoi pensieri». Céline Scémama, La force faible d’un art, cit., p. 60.
31 Con l’eccezione dell’intervista a Serge Daney, le sole immagini “create” da Godard sono in realtà inserti sonori. Mi riferisco ai brani espunti da testi letterari e letti in voce off di Alain Cluny, Sabine Azéma, Julie Delpy e Juliette Binoche.
32 Fréderic Hardouin, Le cinématographe selon Godard, cit., p. 33.
33 Per un’analisi approfondita delle affinità del progetto godardiano con la teoria della Storia di Walter Benjamin si veda Monica Dall’Asta, La storia impossibile, cit.
34 André Malraux (Le musée imaginaire, 1965 e La métamorphose des dieux, 1957) è stato il primo a concepire l’idea di accostare al testo scritto – in questo caso una storia delle arti visive – un paratesto composto da riproduzioni fotografiche dei capolavori pittorici e architettonici, scelti anche in base alla memoria personale dell’autore.
35 Cfr. Monica Dall’Asta, La storia impossibile, cit., p. 111.
36 Con la licenza poetica che spetta a ogni artista, Godard si permette di “riscrivere” la storia della Nouvelle Vague. Gli unici due titoli citati come simbolo di quella che secondo l’autore è l’atto conclusivo della storia del cinema sono Les quatre-cent coups (I quattrocento colpi, François Truffaut, 1959) e Adieu Philipine (Id., Jacques Rozier, 1958).
37 Nell’Introduzione alla vera storia del cinema sono raccolte le lezioni tenute da Godard all’Università di Montréal nel corso dell’anno 1978-1979.
38 Cfr. Céline Scémama, La force faible d’un art, cit., p. 122-123.
39 «Espressione per compressione. Mettere in un’immagine ciò che un letterato diluirebbe in dieci pagine». Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 88.
40 Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 245.
41 Cfr. Jacques Aumont, Amnésies. Fictions du cinéma díaprès Jean-Luc Godard, P.O.L., Paris, 1999.
42 Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 78.
43 Attratto in questo vortice di immagini-palinsesto, lo spettatore delle Histoire(s) subisce una serie di choc percettivi probabilmente non dissimili da quelli che, secondo Benjamin, hanno sconvolto la mente dei primi spettatori cinematografici, non abituati alla percezione del discontinuo.
44 Noël Nel, Histoire(s) du cinéma 1 et 2 de Jean-Luc Godard, in Gilles Delavaud, Jean-Pierre Esquenazi, Marie-Françoise Grange (sous la direction de), Godard ou le métier d’artiste, L’Harmattan, Paris, 2001, p. 204.
45 Noël Nel, Histoire(s) du cinéma 1 et 2 de Jean-Luc Godard, cit., p. 205. «L’immagine-geroglifico – continua Nel – è la condizione d’esistenza dell’immagine-palinsesto, la quale non può realizzarsi completamente se non è alimentata da un mito personale. Questo mito è, in Godard, la fede in un intra-mondo, una realtà superiore che non sarebbe né sopra né sotto, ma tra le immagini, nel punto di fusione di esse».
46 «Se il pensiero si rifiuta di pensare e di violentare, si espone a subire tutte le brutalità che la sua assenza ha liberato».
47 Céline Scémama, La force fabile d’un art, cit., p. 249.
48 Mi riferisco a Maxime Scheinfeigel, Leçon de mémoire, in Gilles Delavaud, Jean-Pierre Esquenazi, Marie-Françoise Grange (sous la direction de), Godard ou le métier d’artiste, cit., p. 214.
49 Giorgio Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma, 2009, p. 23.
50 In quanto riflessione sul mistero di un’Origine al contempo vicina e lontana, Je vous Salue, Marie aveva già rivelato, ben prima delle Histoires, la natura «contemporanea» dell’arte di Godard.
51 Due anni dopo le riprese, nel 1993, finirà anche la vita dell’attore, per il quale questo viaggio costituisce dunque una sorta di monumento audiovisivo, una lenta messa a morte per immagini.
52 La fonte di ispirazione per la serie televisiva è il saggio di Michel Hannoun, Nos solitudes, Seuil, Paris, 1990.
53 Jean-Luc Godard, Allemagne 90 neuf zéro. Notes d’intention, in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit., p. 339.
54 «Godard mobilita un gigantesco coro di voci, di personaggi muti e parlanti, che da sempre popolano e percorrono questa Germania oppure ne sono stati cacciati. Il film è questa mobilizzazione». Hanns Zischler, Dix ans après (Godard 2001). Remarques au sujet d’Allemagne 90, in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit., p. 341.
55 Conte Zelten è il nome del protagonista di un romanzo di Jean Giraudoux, Siegfrid et le limousin (1924), riflessione pirandelliana sulla fragilità delle memoria e sull’ambiguità della nozione di identità: ex soldato francese colpito da amnesia e fatto prigioniero durante la Prima guerra mondiale, Siegfrid diventa, nel giro di pochi anni, uno dei personaggi più influenti della Germania post-bellica. Come il futuro Lennox (Delon) di Nouvelle Vague, è un uomo che vive due volte.
56 Si consideri per esempio la sequenza della colazione a letto all’inizio di Il bandito delle undici: i volti di Karina e Belmondo restano fuori da un campo visivo occupato solo da dettagli di quadri celebri, tra i quali la Bagnante di Pierre-Auguste Renoir (1890) e Paul travestito da Pierrot di Pablo Picasso (1925). Renoir e Picasso sono i modelli compositivi scelti per la costruzione dei due personaggi. Per un’analisi del rapporto tra cinema e pittura in Godard, si veda Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Jean-Luc Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, cit., pp. 49-54.
57 «O radiosa aurora, radiosa aurora, tu mi annunci troppo presto la morte. Presto suonerà il richiamo della tromba e io dovrò lasciare questa vita bella».
58 Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., p. 328.
59 «Appena ebbi traversato la frontiera i fantasmi mi vennero incontro». Con le parole di Johnatan Harker, messe in bocca a Eddie Constantine, Godard rende omaggio al capolavoro di Murnau, archetipo del film fantastico. Come il vampiro, i fantasmi del passato sono sempre vivi.
60 Cfr. Daniel Morgan, Late Godard, cit., pp. 3-7.
61 Il mare dove Carmen trova rifugio è lo stesso ritratto da Courbet, ovvero il mare di Normandia. L’atelier del pittore si trovava infatti a Etretat.
62 Hanns Zischler, Dix ans après (Godard 2001). Remarques au sujet d’Allemagne 90, cit., p. 341.
63 La ricezione dello spettatore godardiano si compone di tre giustapposizioni: «guardare un testo su alcune immagini (giustapposizione visiva), ascoltare un testo detto con la musica (giustapposizione auditiva) e naturalmente operare la sovrapposizione del visivo e del sonoro» (Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard simple comme bonjour, cit., p. 166).
64 Cfr. Jacques Aumont, L’occhio interminabile, cit.
65 Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat Godard simple comme bonjour, cit., p. 21.
66 Béla Balázs, L’uomo visibile (1924), tr. it. a cura di Leonardo Quaresima, Lindau, Torino, 2011, p. 198.
67 Ivi, p. 203.
68 La figura del giardiniere-filosofo è un omaggio al teatro di Giraudoux.
69 Sull’ambiguità di questa voce narrante ha indagato Louis-Albert Serrut: «Il discorso è costituito quando l’enunciazione ripetuta o la continuità dei termini su un soggetto dato restituisce un continuum elaborato, progressivo e coerente. Per mezzo di un racconto sul rinnovamento, Nouvelle Vague presenta un discorso dal triplice soggetto: economico, ecologico e inerente al potere» (Louis-Albert Serrut, Jean-Luc Godard: Cinéaste acousticien. Des emplois et usages de la matière sonore dans ses oeuvres cinématographiques, L’Harmattan, Paris, 2012, p. 301).
70 Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 69.
71 «Questa storia non poteva che venire da uno della tua generazione, la prima generazione che ha cominciato a filmare negli anni Cinquanta, ovvero a metà del ventesimo secondo e anche a metà della storia del cinema». (2a)
72 Louis-Albert Serrut, Jean-Luc Godard: cinéaste acousticien cit., p. 308.
73 Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 65.
74 Ne sono convinti Suzanne Liandrat-Guigues e Jean-Louis Leutrat, secondo cui «Nouvelle Vague fa entrare in risonanza, prolungandola, la serie dei film degli anni Ottanta, fondata su temi a tonalità religiosa, con quella degli anni Sessanta» (in Godard simple comme bonjour, cit., p. 171).
75 «Sarebbe carino se una volta tanto tu dicessi qualche cosa / Sì, ma ogni volta mi domando cosa dire».
76 «Tu la vedi? / Cosa? / L’eternità, con il sole».
77 Jean-Luc Godard, JLG Vague novelle, «Cahiers du cinéma», 431-432, 1990, p. 43.
78 Cfr. Conférence de presse de Jean-Luc Godard (extraits), «Cahiers du cinéma», 433, 1990.
79 Per un’analisi delle citazioni pittoriche di Nouvelle Vague si veda Roberto Chiesi, Nella filigrana di Nouvelle Vague, «Parole rubate», 5 Giugno 2012, pp. 141-159 (http://www.parolerubate.unipr.it).
80 Per un’analisi del tessuto simbolico di questo spazio si veda Nicole Brenez, Le film abymé. Jean-Luc Godard et les philosophes byzantins de l’image, «Etudes Cinématoghraphiques», Numéro Spécial Jean-Luc Godard: Au delà de l’image, 194-202, 1993, pp. 150-151.
81 Cfr. Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard simple comme bonjour, cit., p. 171.
82 Il miracolo a cui si riferisce il curato di campagna è la sua stessa capacità di dare pace ai fedeli in quanto umile intermediario di un’autorità superiore. Dopo la morte della contessa, da lui guarita nella sua crisi spirituale, il curato annota sul suo diario queste parole: «Ô merveille qu’on puisse ainsi faire présent de ce qu’on ne possède pas soi même, ô doux miracle de nos mains vides!» («Meraviglioso è poter donare ciò che non si possiede! O dolce miracolo delle nostre mani vuote!»). Georges Bernanos, Journal d’un curé de campagne (1936), Pocket, Paris 1984, p. 200.
83 Alain Delon in Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit., p. 41.
84 Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 219.
85 Allieva dell’Accademia Silvio D’Amico e dello Stella Adler Studio, Domiziana Giordano non manterrà le brillanti promesse degli esordi. Dopo la collaborazione con Tarkovskij, Giuseppe Bertolucci (Strana è la vita, 1987) e Godard, abbandonerà progressivamente la recitazione e il cinema d’autore per dedicarsi a quella che oggi è la sua attività principale: la videoarte (http://www.domizianagiordano.it).
86 Jacques Rancière, Jean-Luc Godard, La religion de l’art, «CinémAction», Où en est le God-Art?, 109, 2003, pp. 106-112.
87 Nell’utilizzo dei fiori come “cornice” Alain Bergala ha invece rilevato la presenza di quello che appare come il partito preso teorico degli anni Ottanta, ovvero la scelta di filmare gli oggetti secondo un’angolazione contraria a quella che la loro disposizione nello spazio suggerisce (cfr. Alain Bergala, Filmer un plan, in Nul mieux que Godard, cit., p. 106-108).
88 «Il desiderio di avere una propria morte si fa sempre più raro». Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), tr. it. Adelphi, Milano, 1992, p. 13.
89 Jean Cléder, Ce que le cinéma fait de la littérature, Fabula LHT 1 décembre 2006. http://www.fabula.org/lht/2/Cleder.html
90 «Onnipotenza dei ritmi. È durevole solo ciò che è catturato in un ritmo. Piegare il fondo alla forma e il senso ai ritmi» (Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit. p. 65).
91 Sulla citazione come esperienza «creatrice» si veda Philippe Roger, Nouvelle vague entre Tati et Bresson: musique, littérature, peinture, «CinémAction», 109, 2003, pp. 23-29.
92 Jacques Rancière, Jean-Luc Godard. La religion de l’art, cit., p. 108.
93 Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 223.
94 «Il ricordo è l’unico paradiso dal quale non possiamo essere cacciati. Più in generale, il ricordo è l’unico inferno al quale siamo condannati in tutta innocenza». (Jean Paul, Die unsichtbare Loge, tr. fr. La loge invisibile, 1793).
95 «Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio / e che lo novo peregrin d’amore / punge, se ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more». (Dante Alighieri, La divina commedia: il Purgatorio, canto VIII).
96 Marie-Françoise Grange, Images d’artiste, in Gilles Delavaud, Jean-Pierre Esquenazi, Marie-Françoise Grange, (sous la direction de), Godard et le métier d’artiste, cit., p. 97.
97 Il primo Lennox però, con quell’aria stralunata e quell’aspetto dimesso, ricorda da vicino Robert Avranche, un personaggio interpretato dall’attore per Bertrand Blier in un film, Notre histoire (1984), citato da Godard anche nelle Histoire(s) du cinéma.
98 «Bisogna arrivare al punto in cui le cose parlano da sé. […] Quando qualcuno mostra un albero, bisogna che vi parli della sua bellezza d’albero». (Jean-Luc Godard, Intervista con Roberto Rossellini. «Un cineasta è anche un missionario», in Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, cit., p. 153).
99 «La vita da sola, che mi sarebbe piaciuto tenere prigioniera grazie a panoramiche sulla natura, inquadrature fisse sulla morte, immagini brevi e lunghe, suoni forti e deboli […]». (Jean-Luc Godard, Pierrot amore mio, in Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, cit., p. 233).
100 «L’immagine è un rapporto… Un’immagine sono due cose lontane che avviciniamo, oppure due cose vicine che allontaniamo… Sottile come un capello, grande come l’aurora»: ecco un’immagine. Un capello non è un’immagine, e nemmeno l’aurora lo è. E il rapporto tra le due entità che produce l’immagine». (Jean-Luc Godard citato in Jean-Louis Comolli, Jouer à la Russie. Les corps projetés de Godard, «Trafic», 18, 1996, p. 44).
101 Non a caso Nicole Brenez legge questo film di montaggio come una sorta di bozza per il futuro Film socialisme. (Cfr. Nicole Brenez, Liberté, fraternité, prodigalité, «Cahiers du cinéma», 657, 2010, pp. 26-27).
102 Jean-Luc Godard, Propos rompus, «Cahiers du cinéma», 316, 1980.
103 Cfr. Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. Einaudi, Torino, 1980.
104 Jean-Luc Godard, Discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio Adorno a Francoforte 1995, tr. it. in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema, cit., p. 136.
105 «Lei dice l’amore, ma niente è più lontano dall’immagine dell’essere amato che quella dello Stato, la cui ragione si oppone al valore sovrano dell’amore». (Georges Bataille, L’amour d’un être mortel, Ludd, Paris, 1951; 1990, p. 8).
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L'immagine e il nulla: l'ultimo Godard
Ce livre est cité par
- Surace, Bruno. (2019) Il destino impresso. DOI: 10.4000/books.edizionikaplan.2115
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