Capitolo 2
Le parole e le cose (Prénom Carmen; Je vous salue, Marie)
p. 62-119
Texte intégral
Noi parliamo il suo Verbo. Altrimenti,
come possiamo essere viini alla Sua parola,
se non la parliamo. Noi parliamo, e
parliamo del Verbo.
Jean-Luc Godard, Je vous salue, Marie
1Nonostante la lavorazione sofferta e tormentata, Passion sembra rafforzare lo slancio creativo di Godard, che nella seconda metà degli anni Ottanta intensifica la produzione raggiungendo quasi i livelli degli anni Sessanta. Accanto ai ritratti, i bozzetti. Nell’arco di sette anni (1983-1989) si contano, infatti, sei lungometraggi e soprattutto nove cortometraggi, distinti tra spot pubblicitari (Closed, On s’est tous défilé, 1988), video conversazioni (Soft and Hard – Conversation beetween Two Friends on Hard Subject, Meeting W. A., 1986), sketch (Armide, episodio del film collettivo Aria, 1987) e film promozionali (Puissance de la parole, 1988, Le rapport Darty, 1989). Data l’impossibilità di esaurire qui l’analisi di queste opere, piccoli tasselli di una ricerca tesa a decostruire nozioni come “narrazione” o “documento”, ho selezionato quelli che a mio avviso restano, a trent’anni di distanza, i risultati più interessanti in relazione a una delle questioni cardine del pensiero godardiano, la dicotomia immagine-parola. A partire da Fino all’ultimo respiro, infatti, parola e immagine si affermano come segni autonomi, partecipanti alla costruzione di un senso più ottuso che ovvio.
2Il modello è quello del contrappunto musicale e la modernità dell’autore risiede proprio, oltre che nella dédramatisation1, nella predilezione per la melodia a discapito dell’armonia.
3Prendiamo Passion: al pari della luce sul set di Jerzy, i codici (s)fuggono, non vanno in un’unica direzione e dunque svelano la loro presenza e il loro lavoro di configurazione del reale. Il suono è il suono, il colore è il colore, l’attore è l’attore (e non il personaggio). E potremmo continuare. Non c’è armonia, ma contrappunto tra il rumore del vero (il vento tra le fronde, i passi, le frenate delle auto) e le frasi musicali spezzate sopra la voce degli attori. Non c’è armonia, ma contrappunto tra l’architettura luministica utilizzata per i tableaux vivants e quella che configura i duetti tra Jerzy e Hanna. Eppure la melodia – la passione come sofferenza artistica/erotica/spirituale – è una sola. Più che sull’armonia, Godard lavora sull’associazione, preoccupandosi di mostrare la ricerca di tutti i nessi possibili tra le parole (Marie/aimer, avoir/ à voir) e tra le cose. In Je vous salue, Marie, per esempio, il motivo della sfera/cosmo sarà declinato dal montaggio analogico attraverso strutture oggettuali quali un pallone da basket, una luna piena, un ventre gravido.
4Il montaggio verticale, atto di norma a produrre effetti di armonia, non è dunque l’unica forma di scrittura adottata in questi anni Ottanta. Alla ricerca di una polifonia del senso, Godard spesso accosterà immagine e suono in senso orizzontale, al fine di offrire allo spettatore non una selezione del visibile, come fa la televisione, ma un accumulo. In Prénom Carmen, come vedremo, il racconto procede per addizione orizzontale: le parole pronunciate dagli attori in una determinata sequenza vengono espunte e fatte ascoltare allo spettatore all’interno una sequenza successiva, incollate su volti apparentemente muti. Orizzontale, inoltre, sarà anche la composizione di JLG/JLG, autoritratto costruito tramite l’accostamento di inquadrature figurative (interni abitati da un corpo) ad altre invece vuote di corpi ma piene di passato (i paesaggi invernali). Unico segno di interpunzione, gli aforismi scritti in corsivo sulle pagine di un diario.
5Come le linee melodiche nella musica contrappuntistica, immagine e parola sono in questo Godard non solo indipendenti ma anche conflittuali: punctus contra punctum, parola versus immagine, nome versus cosa.
6Nell’Introduzione alla vera storia del cinema2, pubblicata non a caso all’alba di questo decennio, l’autore rivendica la presunta supremazia dell’immagine sulla parola in nome di un’ontologica garanzia di verità:
Credo che il modo in cui si racconta la storia – il cinema, la TV, le immagini – sia piuttosto importante, perché è una cosa che non mente. […] Certo, la si può fare mentire, ma un’immagine non è niente più di un fatto. […]. Può mentire invece l’uso che se ne fa3.
7Vent’anni prima di Jacques Aumont4, insomma, Godard ci dice che i film non solo pensano e lo fanno senza bisogno di parole, ma possono anche “intervenire” – come ha dimostrato Giorgio De Vincenti – in un dibattito scientifico come quello sull’origine del Cosmo:
La scienza sta solo in questo, nel vedere con i propri occhi. […] E i guai cominciano dopo, quando [gli scienziati] vogliono dire quello che hanno visto. Invece di fare del cinema […] ti scrivono un testo grosso così e l’immagine te la danno solo per provare che quelle cose le hanno davvero viste5.
8Per vedere, insomma, bisogna guardare le cose e non dirle. Una volta guardate, le cose possono essere messe in quadro e dunque configurate per una rappresentazione audiovisiva. Ma che ruolo ha la parola in tale configurazione? Può aiutare a «disegnare i contorni» (Passion) delle cose che sfuggono alla messa in quadro? William Shakespeare junior (Re Lear) farà sua questa domanda6, ma il professor Pluggy, maschera idiota con sigaro in bocca e cavi audio sui capelli, replicherà con un cenno negativo del capo: «Non mi interessano i nomi». E ancora: «Ho bisogno di dire rosso per vedere rosso?». «Quando si dà il nome alle cose – chioserà la segretaria – il professore fa la pipì».
9Prénom Carmen e Je vous salue, Marie, le due opere che analizziamo in questo capitolo, riflettono proprio su quella distanza tra parole e cose che tanto incolmabile è sembrata alla Nana di Questa è la mia vita.
10Sono due storie d’amore, ma anche due riflessioni sulla (pro)creazione: creazione di un film, creazione del mondo, creazione di un figlio. Da un film all’altro circolano corpi (Myriem Roussel), nomi (anche l’amante di Carmen si chiama Joseph) e motivi figurativi (volti alla finestra, traffico urbano notturno ecc.). Come avrebbe voluto Denise (Si salvi chi può… la vita) sono le storie secondarie, ovvero quelle di Claire e Juliette, vertici dei rispettivi triangoli amorosi, a illuminare le storie delle eroine principali (Carmen e Marie), le quali sembrano declinare singolarmente i due orizzonti della Passione secondo Passion: prima il profano (Carmen), poi il sacro (Marie).
11Je vous salue, Marie però, come vedremo, complica lo schema narrativo aggiungendo al triangolo un’altra figura quale la linea retta. La storia di Marie, infatti, non si interseca mai con quella di Eva, la quale si offre come semplice (?) riflesso, deriva, emanazione della prima.
12Principale e secondario, insomma, sono accostati mediante raccordi analogici o sentieri appena incrociati. Inteso nella duplice accezione di voie e voix, il cammino di Marie non sfiora mai quello di Eva, mentre invece tocca quello di Juliette. Le due ragazze scambiano un pallone in palestra ma per puro caso (il Caso è uno dei temi del film) non si incontrano alla stazione di servizio, quando Juliette tenta di riconciliarsi con Joseph.
13Sia il destino di Carmen che quello di Marie sono noti in quanto già vulgati, già raccontati, proprio come la tragedia di Re Lear. Alla cinepresa, dunque, Godard affida il compito di “criticare” queste storie, mettendone a nudo i dispositivi narrativi al fine di esplorare tutto ciò che esse contengono di non-definito e soprattutto di possibile.
14Lo dirà anche Marie durante una delle sue notti insonni: «Essere caste significa essere aperte a tutte le possibilità».
La musica al lavoro
«Con Si salvi chi può... la vita c’era un desiderio di sbarcare: è un film di pionieri, si sale sul carro, si prendono a fucilate gli indiani. In Passion c’era ancora una certa utopia. Ma per gli altri due che avvicino a questi, Prénom Carmen e Je vous salue, Marie è stato più difficile…»7.
15Lucido analista di se stesso, Godard ci suggerisce in prima persona la scelta di isolare in un capitolo a parte gli ultimi due pioli di quella ideale «scala» alla quale egli stesso aveva paragonato la stagione della sua rinascita: «Possiamo dire che Si salvi chi può... la vita, Passion, Prénom Carmen e Je vous salue, Marie sono come i quattro pioli di un’unica scala, mentre prima del ’68 ogni film era il piolo di una scala di diversa8».
16Come Passion, anche Prénom Carmen, celebrato con un Leone d’oro per meriti artistici e tecnici, è la storia di un film da fare. Ma anziché quadri, ovvero immagini vive ma ferme, qui si tratta di filmare corpi in movimento. I piani narrativi sono ancora due: da un lato una storia di lavoro (le prove del Quartetto Prat), dall’altro una storia d’amore. Entrambe le storie prevedono azione, movimento, investimento fisico. Proprio all’inizio del film Claire, la viola del Quartetto, è invitata a suonare «con il corpo». Mentre i musicisti provano alcuni quartetti di Beethoven, due amanti senza domani, una guardia giurata (Joseph) e una rapinatrice (Carmen), corrono verso un destino già visto in questo cinema: amore e morte.
17La lavorazione incontra fin da subito una serie di difficoltà. Il budget, innanzitutto, è dimezzato rispetto alle previsioni. Costretto a rinunciare a Isabelle Adjani, Godard ripiega sull’esordiente Maruschka Detmers, futura musa di Bellocchio (Diavolo in corpo, 1986), ma all’epoca sconosciuta e assolutamente sprovvista di preparazione tecnica. Proprio questo, forse, attrae il maestro. Per rifare Carmen, mito infinitamente riprodotto e interpretato, l’ideale è un volto senza storia e senza passato. Rispetto ai canoni morfologici del femminile godardiano, Detmers presenta tratti nuovi ma giustificabili secondo la logica del typecasting: Carmen è icona della sensualità latina e i lineamenti di quest’attrice – in particolare la bocca – non sono sottili, ma carnosi, rotondi, morbidi. La matita nera attorno agli occhi, su cui cadono scomposti i ricci castani, non fa che rendere ancora più oscuro il volto, soprattutto se confrontato a quello dell’antagonista, Claire (Myriem Roussel).
18A Mérimée è preferito Bizet. Dalla riduzione di Henri Meilhac e Ludovic Halévy Godard riprende la struttura mélo del triangolo, con Claire a replicare il ruolo di Michaela in perfetta antitesi fisiognomica alla rivale. Interpretata da Myriem Roussel, futura Vergine, Claire occupa esattamente gli spazi liminari abitati da Isabelle in Passion: tra la vita e l’arte, tra l’amore e il lavoro.
19Perché forse più che un «film sulla musica», come hanno suggerito gli esegeti, Prénom Carmen è un film sul lavoro: il lavoro dei musicisti9, il lavoro dei rapinatori, il lavoro di Godard sul suono, sulla luce e soprattutto sugli attori. A Maruschka Detmers si chiede di interpretare il ruolo di una rapinatrice che a sua volta indossa la maschera di cineasta. Viene in mente l’esergo di Le petit soldat: «Il tempo dell’azione è finito, quella della riflessione comincia». Prénom Carmen è un film dove azione e riflessione si intrecciano fino a confondersi. L’azione dell’attore, per esempio, anziché esaurire la riflessione (sul cinema, sulla recitazione, sul dissidio realtà-finzione) la rilancia all’infinito.
20Dell’eroina del mito è rimasto poco, forse solo il rossetto. Carmen è solo il nome (prénom) di una ragazza che, come Nana o Charlotte (Una donna sposata), vive la sua vita senza dimenticare di riflettere sull’origine della Vita («Che cosa c’era prima?» chiede insistentemente a Joseph). E la cinepresa non fa altro che filmare questa vita: «La storia di Carmen tutti la conoscono. Si sa come comincia e come finisce. Ma come si va dall’inizio alla fine?»10.
21L’inizio è ancora una volta un pre-inizio. Un prologo di circa quattro minuti ci introduce alla storia, presentandoci i materiali del racconto, ovvero la musica, il rumore, la parola, l’immagine. La musica, innanzitutto. Il primo cartello dei titoli di testa evidenzia fin da subito la natura demistificante di questa trasposizione: «Alain Sarde/ présente/do re mi fa sol/la Coproduction/ Sara Films/JLG Films/Films A2».
22Anziché rispettare la gravitas del modello, Godard gioca con le note proprio come il suo alter-ego, oncle Jean, fa con la sua macchina da scrivere: la nota la si confonde con l’articolo la anteposto davanti alla parola “Coproduction”.
23Com’è noto, dell’opera nel film rimane solo il refrain della habanera, fischiettato alla meno peggio da due personaggi di contorno. Per il resto Bizet è sostituito dai 17 Quartetti di Beethoven (16 se consideriamo la Grande fuga come parte finale del Quartetto n. 13), a loro volta frammentati dal montaggio in sedici quadri proposti con una frequenza costante nei primi settantacinque minuti del film.
24«Beethoven è una musica molto profonda, Beethoven va ascoltato a mezzanotte», diceva Le petit soldat alla sua amata modella, indecisa su quale musica scegliere per accompagnare la seduta fotografica. Quello tra Godard e Beethoven è una sorta di dialogo ininterrotto e Prénom Carmen è solo l’ultimo capitolo di una relazione che apparve scandalosa alla critica degli anni Sessanta, in virtù della leggerezza con cui Godard montava frammenti di quartetti senza nemmeno rispettare la durata della frase musicale: penso al collage di note e rumori in Due o tre cose che so di lei, Alphaville (Agente Lemmy Caution: missione Alphaville, 1966) e soprattutto in Una donna sposata, dove, per esempio, del Quartetto op. 7 è citata solo la metà del primo brano.
25Raccontare una storia, lo sappiamo, per Godard significa raccontare anche la Storia del cinema e in particolare del suo. Non è un caso se l’Andante del Quartetto n. 9 (secondo movimento) suonato nel primo dei sedici quadri musica anche i titoli di testa di Una donna sposata11. Là i frammenti del cinema-verità; qui le derive del melodramma, ma anche brandelli di musica e carne.
26Come ha osservato Jacques Aumont, dietro l’apparente dissacrazione si nasconde una confidenza assoluta con la scrittura beethoveniana, della quale l’autore metterebbe in evidenza le strutture nascoste, bloccando lo sviluppo della melodia e tagliando proprio ciò che in genere la musica da film insegue, ovvero il tema. Utilizzo il verbo tagliare non a caso. Se Claire è esortata a suonare «con il corpo», l’autore non è da meno. Non solo mostra il suo corpo al lavoro (zio Jean batte i tasti della sua macchina da scrivere, osserva i colori e alla fine dirige la troupe della nipote), ma dietro le quinte manipola il suono come se si trattasse di creta e come, del resto, faceva Resnais, modello da imitare negli anni Karina. Tagliare infatti significa anche scolpire: «Procedendo io stesso al montaggio e al missaggio, ho ritrovato l’idea che avevo di Rodin: l’idea di uno scultore che scava una superficie con le sue mani. Scava lo spazio […]. Ecco, mi interessava scavare uno spazio sonoro».
27Ha detto bene Éric Rohmer: «In Godard la musica è filmata come possono esserlo gli alberi, il mare, il cielo»12, ovvero un materiale come gli altri a cui attingere al fine di generare emozione e significato. Questa volta Beethoven non è citato, ma nemmeno registrato in presa diretta, per quella che Jacques Aumont ha definito una «ragione stilistica profonda»:
È necessario produrre una lacerazione nella musica o, più precisamente, la musica, divenendo filmica, deve lacerarsi. Perché? Perché Godard non si interessa né alla grande forma né alla frase musicale in se stessa, ma all’idea musicale, e forse soltanto al sorgere dell’idea13.
28La musica, dunque, risuona in uno spazio che non è più over, come nei film degli anni Sessanta, ma nemmeno completamente in, perché, a differenza di quanto il montaggio sembra suggerire, mai immagine (gesto del musicista) e suono coincidono. Quando si tratta di filmare Claire, poi, l’effetto di verità è messo doppiamente in crisi, poiché l’attrice non possiede la tecnica e dunque simula, producendo un suono che non è quello che avvertito dallo spettatore. Vengono in mente le parole di M.lle Lukatchewski a proposito dell’illuminazione de La ronda di notte (Passion): «Non è una menzogna, ma qualcosa di immaginato, che non è l’esatta verità, ma nemmeno il suo contrario». L’interrogazione sui codici del linguaggio e la messa in discussione delle leggi che lo governano – e tra queste la recitazione come mimesis – si rivelano forse le costanti più profonde della modernità di Godard, le cui opere, direbbe Aumont, pensano senza per questo de-finire ciò che pensano.
29Perfetta è la simmetria tra il numero dei quartetti composti da Beethoven e quello delle inquadrature dedicate ai musicisti, sedici piani a camera fissa differenti tra di loro per angolazione della cinepresa, illuminazione, disposizione degli orchestrali e, come ha osservato Michel Fano14, per ambiente. Non siamo infatti sicuri che i musicisti occupino sempre la medesima stanza. «L’infinito – dice Godard alla fine di Scénario du film Passion, sarà finito quando la metafora raggiungerà il reale». Ebbene: Prénom Carmen conferma come questo cammino sia ancora lungo. Lo spostamento virtuale dei musicisti, il loro invisibile movimento nell’immobilità, può essere letto come una metafora della testura della musica, fluida, impalpabile, ubiqua. Reale e metafora si intrecciano senza toccarsi.
30La nozione di fluidità non può non evocare, naturalmente, il tema dell’acqua, correlativo oggettivo della musica ma anche luogo di una memoria autobiografica:
Da giovane, verso i vent’anni – l’età della giovinezza dei miei personaggi – ho ascoltato Beethoven. Ero in riva al mare. […] Bizet faceva una musica che Nietsche definiva bruna. Era una musica del Mediterraneo. Bizet è un compositore molto legato al mare. Io dunque ho scelto non un’altra musica, ma un altro mare. […] Per cui dovevo scegliere una musica seminale. Una musica che ha segnato l’intera storia della musica. Come i Quartetti di Beethoven15.
31Il tempo visivo della musica, però, è uguale a quello del rumore, codice forse mai utilizzato da Godard con questa forza polisemica. Il cartello dedicato al titolo, scritto in stampatello bianco su sfondo nero, è incorniciato da due inquadrature figurative ma tendenti all’astrazione: un paesaggio urbano notturno e un mare agitato dalle onde. Nessuna figura umana dunque, ma luci e colori, acqua e aria, ovvero ciò attorno a cui, come abbiamo visto, errava lo sguardo di Velásquez. Che cosa accomuna i due paesaggi? Il movimento.
32Qualcosa infatti si muove senza alterare le linee di forza dello spazio. Come già in Passion, anche qui immagine e rappresentazione non coincidono. Le onde che scuotono la superficie dell’acqua con un ritmo costante quanto quello del traffico urbano evocano, in astratto, l’idea del movimento, idea che presto Godard sintetizzerà nella metafora, così autobiografica, dell’onda (Nouvelle Vague).
33E questo perché l’idea non è più dentro l’immagine ma, come ha sintetizzato Paolo Bertetto, «la struttura complessiva delle immagini concatenate nella fluidità audiovisiva la produce attraverso un’estensione concettuale dell’invisibile del cinema»16.
34Oltre che metafora del Cosmo, la musica in questo Godard è dunque soprattutto pensiero, struttura linguistica, terreno di analisi. In una parola sola, idea.
Eterotopie
35Analizzando le componenti heideggeriane di questo cinema, definito una «scrittura filmica del Dasein», Bertetto sottolinea come Godard strutturi il proprio orizzonte teorico per mezzo di opposizioni dialettiche: vita/non vita, realizzazione/scacco, libertà/nulla. Di qui il senso dell’ossimoro «l’invisibile del cinema». Mescolare l’etnologia con i quartetti di Beethoven (Una donna sposata) o filmare «tutto ciò che non abbiamo visto in Senso» (così Godard presentò il plot di Il bandito delle ore undici) significa infatti fare ciò che zio Jean, prima incarnazione godardiana del buffone, suggerisce alla nipote aspirante cineasta, ovvero chiudere gli occhi: «Bisogna chiudere gli occhi invece di aprirli».
36Scritto dalla compagna Anne-Marie, Prénom Carmen è un film girato con occhi che, per esempio, appaiono chiusi sul paesaggio urbano. Eroina di tante inchieste e avventure, Parigi infatti c’è, ma non si vede. O meglio ne vediamo solo “due o tre cose”: l’ingresso di un hotel di lusso, lo scorcio di un marciapiede, il traffico serale in campo lungo (fig. 15). Più che per il contenuto – Godard non ha mai smesso di filmare lo spazio urbano –, quest’ultima inquadratura colpisce per la scelta del punto di vista, in qualche modo “esterno” al contenuto della rappresentazione (vengono in mente alcune vedute di Due o tre cose che so di lei). Non solo. Rifiutando di offrire allo spettatore le coordinate classiche del paesaggio parigino (boulevard, caffè, marciapiedi), Godard sembra realizzare quel desiderio confessato ai tempi di Si salvi chi può... la vita, ovvero filmare un paesaggio “di spalle”17. Il métro aereo, le infrastrutture della periferia, le luci dei fanali rappresentano allora tutto ciò che normalmente non si mostra di Parigi, ovvero l’equivalente urbano delle spalle di Anna Karina in Questa è la mia vita. Parigi vive la sua vita e la cinepresa si accontenta semplicemente di catturarne il respiro (la circolazione del traffico).
37Carmen dunque non abita il luogo della Memoria cinematografica, ma solo quello della “sua” memoria, ovvero la casa al mare, vuota di oggetti e piena di ricordi. Inevitabile pensare al mare degli anni Karina, sorgente di blu per la palette tricromatica (bianco, rosso, blu) ma al contempo orizzonte del mito (Il disprezzo) o rifugio per amanti criminali (Il bandito delle ore undici).
38Questo mare però non è azzurro né soleggiato, ma grigio e freddo. Solo i gabbiani lo popolano, mentre gli amanti si limitano a guardarlo, protetti dal vetro di un’auto pallida come l’acqua. Parafrasando l’esergo di Le petit soldat, potremmo dire che con Prénom Carmen il tempo della fuga è finito e comincia quello del ritorno: ritorno a ciò che precede, all’origine, alla madre (mère/mer). Giocando sull’omofonia della lingua francese (mère/mer), zio Jean/Godard si diverte a intrecciare Mérimée con Euripide: «Hai sempre avuto delle storie con tua madre (mère), in riva al mare (mer), come la piccola Elettra».
39Che anche il mare, come la casa d’infanzia o l’hotel, sia uno spazio chiuso, lo conferma la voce over durante il prologo: «È in me, o in te, che si producono delle onde terribili…».
40Le onde dunque, molto più schiumose e violente di quelle dei mari precedenti, sono dentro. Lo sforzo compiuto da François Musy, ingegnere del suono, è proprio questo: dissociare la registrazione di un suono dal suo ambiente naturale e incollarla a un ambiente altro, non importa se interno o esterno. Il registratore a due piste permette, per esempio, di incollare la battuta di Carmen su uno spazio, quello del mare, filmato come una sorta di eterotopia, ovvero come uno spazio connesso a tutti gli altri spazi, anche se si tratta di una connessione sonora e non spaziale. Tutti i suoni, infatti, vi penetrano, vicini e lontani – le parole di Carmen (il prologo), le note di Beethoven, il clacson dell’auto –, e allo stesso tempo il suono del mare penetra luoghi non adiacenti dal punto di vista spaziale. Un esempio su tutti: la sequenza della rapina è introdotta da un campo lungo notturno identico a quello che abbiamo visto nel prologo (paesaggio parigino con traffico sulla Senna), ma in questo caso il suono del mare si mescola con quello della circolazione urbana, il quale, dal punto di vista ritmico, sembra imitare quello delle onde: avvertiamo infatti il rumore del métro solamente quando i due convogli, al pari di due onde, si incrociano. Non a caso Michel Fano ha parlato di suono polifonico, una sorta di unico bagno sonoro che funziona come segno per le auto, per il métro e per il mare.
41A differenza del métro, paesaggio sonoro, il mare è dunque luogo concreto, abitato dai personaggi. Non solo: è anche la scenografia scelta dalla giovane per le riprese del suo misterioso film, che potremmo definire, parafrasando un cortometraggio del suo autore, une histoire de mer.
42Ma così come è configurata, montata e ritmata all’interno del racconto, l’immagine del mare rimanda anche a un altrove extra-uterino, a un’«utopia situata», per dirla con Foucault. Questo altrove può avere anche una funzione evocativa, simile a quella di cui il realismo poetico investiva oggetti e ambienti. Pensiamo alle valenze simboliche dell’acqua in Epstein (Coeur fidèle [Id., 1923]) o in Vigo (L’Atalante [Id., 1932]), e analizziamo la sequenza che documenta l’inizio della vita a due nell’appartamento di zio Jean.
43Carmen raggiunge Joseph in riva al mare. Anziché mettere ordine, il montaggio confonde. Un campo lungo della ragazza sulla spiaggia segue e anticipa due figure intere filmate all’interno della casa. L’esterno e l’interno, lo abbiamo visto, sono dimensioni relative poiché tutto è reale e tutto è astratto in questo film, compreso il linguaggio. Carmen dice all’amante di voler fare «ciò che una donna fa a un uomo». Ma non nomina la “cosa”. Non le dà un nome ([pré]nom). La parola (amour) è sostituita non tanto da un gesto, quello di afferrare con la mano il sesso dell’uomo, quanto da un’inquadratura, lunga trentotto secondi e raffigurante – se di figurazione possiamo ancora parlare – il mare (fig. 16). Inquadrate dall’alto verso il basso, le onde si muovono da destra verso sinistra, mentre i riflessi del sole, basso all’orizzonte, aggiungono piccole variazioni di luce alle increspature dell’acqua. La cinepresa è immobile, eppure tutto si muove in un paesaggio che sembra dipinto da Velásquez, il pittore delle cose indefinite e delle palpitazioni colorate, ma anche, come dice Pierrot/Ferdinand alla figlia (Il bandito delle ore undici), «il pittore della sera, dell’immensità, del silenzio». Ebbene: questa inquadratura non è fatta solo di aria, di luce e di acqua, ma anche di musica e di silenzio. Quattro secondi di silenzio che separano la parola degli amanti dalle note del Quartetto n. 15 (terzo movimento). Il tempo di Beethoven, molto adagio, accompagna il respiro di onde che evidentemente non sono più, come diceva Carmen in esergo, «terribili».
44Il mare, dunque, è eterotopia in quanto non solo tiene uniti due mondi (il lavoro e l’amore, il reale e la finzione), ma, come tutte le eterotopie, rende difficile l’attribuzione di un nome alle cose. Rileggiamo Foucault:
Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa “tenere insieme”… le parole e le cose18.
45Spezzare, devastare, minare sono azioni familiari alla pratica artististica di Godard, il quale prima disarticola la sintassi cinematografica (anni Karina) e poi sostituisce la cinepresa con la videocamera (anni Settanta). Ma, riscoperto il piacere del testo, si accorge subito che le questioni antiche sono ancora aperte. È possibile raccontare una storia nascondendo il dispositivo? Più ancora di Passion, Prénom Carmen svela la sintassi «meno manifesta» del cinema: quella che tiene insieme i suoni e le immagini, le immagini e la musica, il colore e le cose.
46Tutta la seconda parte del racconto è ambientata in una hall (Hotel Intercontinental), ovvero, assieme ai giardini, ai centri commerciali e alle stazioni del métro, la più classica delle eterotopie urbane. Come abbiamo visto, Godard ci fa sentire, mediante le punteggiature, la respirazione del film, che è anche la respirazione di chi lavora nel film (penso alle esitazioni, alle interruzioni dei musicisti durante le prove). Questa respirazione, dal punto di vista visivo, si traduce in circolazione: circolazione di auto, circolazione di note, circolazione di parole. Ebbene, nella hall dell’hotel tutto circola: la passione di Joseph, i corpi degli amanti, le idee sul film da fare, la musica del quartetto, le armi, il sangue, le grida e il verso dei gabbiani.
47Non è un caso se due anni dopo Godard ambienterà proprio in un hotel19 Détective, gruppo di fantasmi “in una camera” e détection sulla testura stessa dell’immagine, priva di cielo ma piena di corpi e soprattutto di innesti extradiegetici. Oltre a un match di boxe, la TV trasmette infatti anche La belle et la bête (La bella e la bestia, Jean Cocteau, 1946) e Sunset Boulevard (Viale del tramonto, Billy Wilder, 1950), mentre l’infinito collage di citazioni di cui si compongono i dialoghi funge da prova generale per il futuro Nouvelle Vague. Come Carmen e Joseph, i personaggi di Détective sono simulacri di un cinema perduto (Grace Kelly, Jean Gabin) e dunque la loro carne altro non è che materia da plasmare, tagliare, sciogliere: «Consideratevi come tubi di colore e cercate il motivo che state componendo»20.
48Nelle hall, dunque, tutto circola e, allo stesso tempo, tutto si confonde. E così un semplice accappatoio giallo, come quello indossato da Carmen nella sua stanza, non è più un accappatoio ma semplicemente del giallo: «Se Van Gogh avesse visto questo giallo», commenta con rimpianto zio Jean.
49Ci siamo: la parola giallo non nomina più la cosa (l’accappatoio), ma la trascende. Il costume di un personaggio rappresenta solo il contorno di una materia, il colore, che deborda. Perché Godard, ora che è diventato pittore, non dipinge più i contorni delle cose, ma cerca di catturarne le «palpitazioni colorate» (Due o tre cose che so di lei).
Tre colori: giallo
50Prima di analizzare il lavoro del colore in questo film, è opportuno un breve excursus su una questione tanto affascinante quanto complessa. Pochi cineasti hanno lavorato sul colore, o meglio con il colore, come Godard21. Fin dagli anni Karina, il colore interessa in quanto codice autonomo da ogni compito mimetico, significante chiamato, talvolta, a non significare altro che se stesso.
51Prima di Godard, forse solo Ejzenštejn aveva rivendicato con una tale originalità espressiva – ma con meno ironia – la libertà del colore, sottoponendolo, in quanto elemento vivente dell’organismo film, ai medesimi salti di qualità inferti ad altri codici quali la musica, il montaggio, la recitazione22. Nella seconda parte di Ivan Groznyj (Ivan il terribile, 1944-1946), per esempio, il colore arriva ad avere ciò che invece in Godard non possederà mai, ovvero «la forza e l’autonomia di un vero personaggio, investito drammaturgicamente del proprio carico emozionale»23.
52Quando Ejzenštejn, nel corso della sua «ricerca incompiuta», precisa i «toni maggiori e i toni minori» del colore, dimostra di comportarsi con il materiale luministico come farebbe con le note di uno spartito: «Si precisano gli accordi di colore: il celeste con l’oro, il nero con il rosso».
53Inserito in una gamma di accordi ben precisa, dunque, il colore si estasia in musica, ma per fare questo deve prima trascendere i contorni del relativo oggetto. Dei contorni delle cose, però, abbiamo già detto. Quello che Godard cerca è svincolare l’oggetto dal contorno, ovvero le cose dalle (relative) parole. Nominare una cosa – o un individuo (Carmen) – significa renderla finita. Ma questo cinema, come vedremo, preferisce seguire la lezione di Bresson, ovvero lasciare un margine di indefinito, non rappresentare tutti i lati delle cose.
54Il colore, in questo processo, si rivela un elemento fondamentale. Anziché costringerlo a raccontare o simboleggiare qualcosa, Godard lo compone e lo filma per ciò che è, ovvero la sostanza compositiva primaria di ogni immagine, «il materiale visuale di base con cui le immagini vengono lavorate e che accompagna, proprio in quanto costitutivo alle immagini, tutte le loro determinazioni formative»24.
55Dunque il colore è il colore. E in quanto tale valica i contorni delle cose. Per questo zio Jean confonde l’oggetto colorato (l’accappatoio) con la materia (il giallo). Perché il colore non appare più qualità delle cose, ma qualità concettuale autonoma, qualcosa che non può non essere percepito e allo stesso tempo utilizza gli oggetti per affermare la sua presenza sensibile e in tal modo, direbbe Ejzenštejn, «scorrere nel film».
56Questa ricerca, come detto, viene da lontano. Si pensi all’illuminazione omogenea e verticale degli interni di La donna è donna, all’assenza di ombre sui muri di Made in USA (Id., 1966) e sulle pareti di La chinoise (La cinese, 1968), ai filtri monocromatici di Il disprezzo o alle scritte tricolori che formano i titoli di testa di Due o tre cose che so di lei. Come ha evidenziato anche Luca Venzi, la palette di Godard prevede infatti solo tre colori: blu, rosso e bianco, con quest’ultimo (è il caso anche di Prénom Carmen) sostituito eventualmente dal giallo. Costante, soprattutto, è la duplicità della modalità con cui il dato coloristico viene utilizzato, ovvero al contempo insorgente (ciò che Venzi definisce «potenza visiva trasfigurante»)25 e ricorrente. Si pensi per esempio all’utilizzo “musicale” del colore sui tessuti: la nota tricromatica rosso/bianco/blu circola da Il disprezzo (l’asciugamano utilizzato da Paul) a Il bandito delle ore undici, dove, tra gli altri oggetti, contamina anche la camicia di Pierrot.
57Degli anni Karina si è detto. E dopo? Che ruolo occupa il colore in questo “terzo” Godard?
58La palette, innanzitutto, non è cambiata. Leggermente emarginati in Si salvi chi può... la vita, opera costruita sull’opposizione giallo (chiuso/hotel/Paul)-verde (aperto/natura/Nathalie), rosso, bianco e blu ritornano a circolare negli esterni di Passion, contaminando, con l’insegna della VTF, l’auto di Michel, quella di Jerzy e il camion della troupe. La ricorrenza si muta in insorgenza dopo venti minuti dall’inizio, quando M.lle Lukatchewski, che indossa un vistoso maglione rosso, sorprende l’amato Patrick (il cui pullover è blu) mano nella mano di una comparsa biancovestita. La successiva disputa amorosa, ambientata nei pressi dell’auto dell’uomo e filmata in primissimo piano, è occasione per una variazione sulla tricromia molto indicativa di come la concezione del colore non sia, vent’anni dopo, cambiata (fig. 17). Come faceva sulla spiaggia di Pierrot le fou, «film lavorato come un volto senza sosta attraversato dal movimento dei colori»26, il colore musica la vita dei personaggi, anzi si offre esso stesso come pulsazione, emozione, passione. Non a caso Godard fa muovere questi corpi amorosi, seppur in modo semiserio. Sfumati dall’effetto flou che ne deriva, i tre colori “escono” dalle rispettive sedi e si stemperano sull’intera superficie del quadro, a disegnare una sorta di parodia della bandiera nazionale. Ancora una volta – penso alle palpitazioni di colore gettate sui volti di Pierrot le fou – l’emozione passa attraverso la via dell’astrazione, che in questo caso però non si offre più come defigurazione del volto, ma come ellissi. Quando M.lle Lukatchewski chiude la portiera dell’auto, infatti, tutto è già compiuto. Ma noi non abbiamo visto nulla, se non tre colori. I volti degli attori (e con esso le emozioni dei personaggi) restano infatti fuori campo perché Godard, al pari di Rossellini, non cerca sempre le emozioni negli attori, ma le crea anche attraverso gli attori.
59In un certo senso fa come Rembrandt: li guarda attentamente sulle labbra e negli occhi e poi ne cattura quelle particelle che emanano non solo la bellezza, ma anche il suo doppio. «La bellezza – dice zio Jean citando Rilke – è l’inizio del terrore che siamo capaci di sopportare».
60Bellezza sono i capelli di Nathalie Baye agitati dal vento (Si salvi chi può [la vita]), ma anche le increspature che affiorano sul volto riflessivo di Hanna Schygulla (Passion), ferito da una passione che, in quanto tale, è anche angoscia, paura, terrore della perdita. Poco importa, dunque, che l’oggetto della rappresentazione siano tre braccia che si agitano oppure un volto. La cinepresa salva la vita di ciò che filma catturandone le particelle, e filmato in questo modo il colore si dà proprio come aggregato di particelle sensibili, materiche, vive.
61Anche l’abbraccio “violento” tra Dutronc e Baye, analizzato nel capitolo precedente, obbedisce a questa modalità di configurazione plastica. La posizione degli amanti, con l’uomo che copre il viso della donna nel suo slancio, impedisce di vedere i volti, cosicché tutta l’emozione è affidata all’accostamento dei colori: la maglietta blu di Paul si scontra, in una impossibile fusione, con la canottiera a righe bianche e rosse di Denise (fig. 18).
62Come accennato, Prénom Carmen rappresenta un interessante ritorno al colore degli anni Karina. La saturazione e la gradazione tonale del rosso, in particolare, hanno indotto Marc Cerisuelo a istituire un parallelismo con Il disprezzo, del quale questo mélo sarebbe una versione aggiornata e degradata: «Il rosso ha virato in granata, il blu si è spento, e il giallo è diventato paglierino, a eccezione degli accappatoi che sembrano ricordare i suoi trascorsi di assistentato allo zio Jean»27.
63Il sole di Capri, però, è scomparso, sostituito da una bruma che ricorda più Carné che Rossellini. Se il plot non è dissimile (un film da fare), i materiali ricordano però più da vicino Pierrot le fou: Parigi, una spiaggia e due amanti criminali. Dietro la cinepresa l’occhio è sempre lo stesso (Raoul Coutard), ma più sensibile è la testura dell’immagine, grazie anche alla modernissima Aaton 35 nella quale scorre pellicola Eastmancolor Kodak, perfetta, secondo l’autore, per cogliere i contrasti di temperatura tipici della pittura olandese28. E oltre che vettore narrativo (passione versus legge), il contrasto è ancora una volta la modalità con cui il colore partecipa delle dinamiche del racconto, assecondando la costruzione dello spazio. La divisione tra interno (lavoro/finzione) ed esterno (amore/vita) è rafforzata dall’utilizzo del giallo, dominante assoluta nell’arredamento dell’hotel, ma anche nella stanza d’ospedale di zio Jean. Che dietro la bellezza si nasconda il terrore, inoltre, è lo stesso colore a ricordarcelo. Con l’eccezione della macchia di sangue sul pavimento, immediatamente ripulita ma sufficiente a far insorgere l’amata tricromia29, la sequenza della rapina è infatti avvolta da una luce fredda che toglie al colore l’ultima forza rimasta. Così la passione ha il rumore dei proiettili e il colore scuro, tendente al nero, degli abiti degli amanti. Fuori dalla banca, però, il colore li aspetta. In prossimità del Pont de Grenelle, un camion bianco con insegne rosse blocca per qualche istante la strada alla loro auto, naturalmente di colore blu. Un blu più chiaro di quello dei calzoni di Joseph, i quali contrastano con il rosso sangue della giacca di Carmen con la stessa violenza con cui suddetto rosso, poche ore prima, risplendeva nella monocromia bianco/gialla dell’ospedale (fig. 19).
64Restiamo su questa inquadratura perché mi sembra molto significativo il ripetersi di un cliché relativo alla rappresentazione della figura umana di questo Godard. Ancora una volta, come nella sequenza della disputa a tre di Passion, la passione è filmata per sineddoche: in luogo dell’immagine-affezione classica (il volto), vediamo solo le mani. L’emozione non passa per il volto dell’attore e nemmeno per la sua nuca (Questa è la mia vita). L’emozione è un affare di mani che si stringono appoggiate su gambe a loro volta amputate dal taglio di un’inquadratura che si dà, direbbe Ejzenštejn, come rappresentazione e non come immagine. Della fascinazione per la ricerca di Ejzenštejn si è detto sopra. Evidenti però qui mi sembrano gli echi della lezione bressioniana, soprattutto nella misura in cui Godard non cerca l’espressività nelle parole o nella mimica, quanto nella combinazione, a questo punto potrei dire cromofonica, tra elementi appartenenti alla stessa inquadratura e a inquadrature contigue. Non un metteur en scène insomma, ma un metteur en ordre. E a questo ordine, di natura squisitamente musicale, obbedisce l’inquadratura immediatamente successiva a quella qui analizzata, ovvero un campo lungo del traffico urbano osservato da punto di vista frontale. Rispetto alla Parigi di Il bandito delle ore undici mancano i semafori e le rispettive qualità cromatiche (rosso, giallo, verde), ma non importa: il colore è ancora il codice prediletto per restituire non il reale, ma la forma sensibile della percezione del reale. Si tratta forse di uno dei risultati più alti della cinepittura godardiana, un esempio di come davvero per rappresentare la realtà non sia più necessario riprodurne i contorni, perché l’obiettivo è sempre lo stesso e in particolare quello inseguito nei camera-car notturni di Il bandito delle ore undici: «ricostruire una sensazione a partire dagli elementi che la compongono»30. Le linee ci sono, ma agiscono come segni geometrici in un certo senso indipendenti dal referente: penso ai cerchi (i fari accesi delle auto) e alle linee rette (la carreggiata, il lungo-Senna). Gli elementi del paesaggio – la strada, la Senna – sono rappresentati unicamente con il colore: una striscia di giallo paglierino per il manto stradale e un blu notte sul bordo destro del quadro (fig. 20). Le luci del reale (i fari) si comportano come quelle della finzione (i proiettori), ovvero colorano il mondo oltre che illuminarlo.
65Se il cinema è il cinema e il colore è il colore, il mondo che scorre sullo schermo sembra ancora, vent’anni dopo Il disprezzo, accordarsi ai nostri desideri.
Differenze e ripetizioni
66Che l’amore avesse gli stessi gesti del lavoro, lo sapevamo. Ma un amore come quello di Carmen, archetipo esemplare del connubio eros-thanatos, non può non rivelare gesti identici a quelli della (messa a) morte. Mi riferisco alla sequenza della rapina in banca. Le note di Beethoven, ovvero il primo movimento del Quartetto n. 10, agiscono come un contrappunto rispetto ai movimenti dei personaggi e in particolare dei gendarmi, sincopati e scomposti: più che innaturali, coreografici. Che stia per succedere qualcosa di “tragico”, è la musica a suggerirlo. O meglio, la voce fuori campo del primo violino, che interrompe l’esecuzione invitando i colleghi a un suono «più teso, più strano», perché in quel momento il tono diventa «più drammatico che d’abitudine».
67Anche l’immagine obbedisce a queste direttive. I rapinatori fanno irruzione e il panico si impadronisce di tutti i clienti, o quasi: penso all’uomo che, incurante del pericolo, continua a consultare il suo carnet seduto per terra mentre Joseph spara all’impazzata.
68A questo punto Godard abbandona la banca e i suoi corpi danzanti (il cinema) per concentrarsi sui corpi dei musicisti (la vita), la cui dinamica obbedisce a leggi diverse. L’energia muscolare non è infatti più investita per spostare il corpo nello spazio, ma convogliata tutta nella tensione delle spalle, dell’avambraccio, delle dita. L’imperativo, lo abbiamo visto, è suonare col corpo. Il braccio del violoncellista che, entrando i campo, graffia l’immagine oscurando il volto del secondo violino testimonia la volontà di restituirci dall’interno la fisicità di questo lavoro, continuamente interrotto da commenti, giudizi e suggerimenti. In questo senso, secondo Michel Fano, si spiega l’imperativo di Claire, infastidita dalle continue sospensioni a tal punto da farsi portavoce del desiderio del compositore: «Agisci, invece di chiedere».
69Tratta dai Quaderni di conversazione31, questa frase fluttua nello spazio dell’inquadratura conservando però un peso sonoro diverso dalle altre voci.La avvertiamo come più vicina a noi, proveniente da una sorta di al di qua dell’immagine. Si tratta, direbbe Michel Chion, della parola-emanazione di quello che resta forse uno dei personaggi più belli ed enigmatici di questi anni Ottanta, forse l’allegoria stessa della Musica32. Nessuno dei musicisti sembra udirla, come se la voce della ragazza facesse fatica a uscire dal corpo. Del resto, se ricordiamo la prima frase del prologo, questo capitava anche a Carmen: «È in me o in te che si producono delle onde terribili?».
70Non solo Carmen, ma anche il corpo del film sembra scosso da “onde” che agiscono in maniera tale da annullare il tempo della storia, mentre il tempo del discorso va avanti. Il meccanismo è quello dell’iterazione. Alcuni eventi o gesti vengono ripetuti due volte all’interno della stessa sequenza, senza che a riguardo vi sia alcuna giustificazione narrativa, come per esempio un flashback o un flash-forward.
71Le parole off di Claire/Beethoven sembrano profetiche: «Fai prima dei miracoli, se poi vuoi rivelarli!». In “corrispondenza” di questa frase, infatti, Joseph trasforma la sua andatura in danza e percuote con un calcio una sedia nel corridoio. Il montaggio verticale complica ulteriormente le linee di significazione di un racconto che offre allo spettatore non solo raffinate suggestioni intellettuali, ma anche sensazioni. Le immagini fabbricate con il corpo33 si rivolgono a tutti i sensi dello spettatore, non solo ai neuroni specchio. Fortissimo, per esempio, è il contrasto tra la fragilità simboleggiata da Claire (voce), occhi bassi e pullover bianco, e la forza di Joseph (immagine), il quale sembra obbedire all’esortazione della ragazza («Fai dei miracoli»!).
72Il miracolo in questione altro non è che la ripetizione del gesto. Joseph rivive sullo schermo il tempo necessario per ripetere quel gesto di violenza: rivediamo il ragazzo che entra in campo, si avvicina al superstite seduto per terra e scalcia la sedia. Come accade per i musicisti, però, ogni ripetizione di una battuta non è mai identica alla precedente. E infatti nel secondo ciak il paesaggio sonoro è mutato: non più le grida del bambino, ma un silenzio surreale coperto solo dalle note di Beethoven.
73L’estasi ejzenštejniana è compiuta. L’immagine è uscita da se stessa e si è fusa con la musica, a tal punto da essere utilizzata come una frase musicale. Godard la fa suonare una prima volta e poi la ripete, servendosi del suo interprete come puro materiale, schizzo di colore da gettare sullo schermo per poi cancellarlo e ripetere l’operazione. Accennavamo poco fa alla struttura eidetica di queste immagini. Ha ragione Leutrat: l’idea che muove Prénom Carmen è quella della ripetizione. I musicisti ripetono le battute, Claire ripete le parole di Beethoven, Carmen ripete una domanda («Che cosa c’è prima?»). Tutti ripetono e nessuno, direbbe Denise (Si salvi chi può… la vita), sembra lottare contro «la ripetizione e il nulla».
74Come ha osservato Aumont, la ripetizione è una figura chiave nell’ultimo Godard, che qualche anno dopo rifletterà sulla dualità immagine/suono dissociando il suono del Bolero di Ravel dall’immagine di JLG intento all’ascolto (Lettre à Freddy Buache): «Gesto regressivo rispetto a quello del montatore, perché in apparenza privo di qualsiasi segno di inventività, la ripetizione dell’identico ha un senso più elementare […]: essa fa penetrare nella profondità della musica, nella profondità dell’ascolto»34.
75Musicale, in questo senso, è anche la rappresentazione del primo abbraccio tra gli amanti. La rapina sta volgendo al termine. Miracolosamente salvo (la pistola della ragazza fa cilecca), Joseph insegue Carmen lungo le scale e rotola con lei sul pavimento macchiato non di sangue, ma di rosso (per questo la donna delle pulizie lo rimuove). Ora i due sono a terra. Joseph fa per rialzarsi e prendere il fucile ma Carmen con un balzo si porta sopra di lui, in un abbraccio che sa di amore e di lavoro (il lavoro del gangster). Come Ejzenštejn in Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potëmkin, 1925: la sequenza del lancio del piatto da parte del marinaio ribelle), Godard non si limita a suddividere suddetto gesto in più inquadrature, ma addirittura lo raddoppia, mostrandocelo secondo due punti di vista; prima dall’alto verso il basso (cinepresa sulle scale: fig. 21) e poi ad altezza uomo (fig. 22). Lo spettatore è dunque costretto a ricostruire dentro di sé non solo lo spazio diegetico, che appare disomogeneo, ma anche il senso dell’azione mostrata. Solo l’iterazione, infatti, trasforma un gesto di lavoro in un gesto d’amore. Il montaggio conferisce dunque intensità affettiva a un’inquadratura che, se isolata, risulta invece priva di affetto. L’immagine-affezione, in questo caso, è però “esterna” all’inquadatura: è il prodotto della collisione analogica delle due inquadrature.
76Al di là dell’angolazione della cinepresa, ciò che muta nell’articolazione del découpage è soprattutto il paesaggio sonoro, vuoto nell’inquadratura a, pieno nell’inquadratura b. L’attacco del Quartetto op. 10 (secondo movimento) appare perfettamente sincronizzato con il balzo in avanti della ragazza, anche se poi le note cedono gradatamente il passo ai suoni diegetici (i tacchi di Carmen, il rumore del fucile contro il pavimento, il fruscio dei vestiti). Secondo Michel Fano, le esitazioni della musica vorrebbero tradurre il balbettamento emotivo di una relazione amorosa che sta nascendo e che per prendere slancio necessita, ancora una volta, della ripetizione: due volte ascoltiamo Carmen esortare Joseph: «Andiamo via da qui!».
77Che si tratti di un avambraccio che si flette o di due gambe che spingono, dunque, poco importa. Se i gesti dell’amore assomigliano a quelli del lavoro è perché in questione è sempre e comunque il corpo. Corpo che, nella successiva sequenza della casa al mare, si mostra per quello che è, presenza plastica muta di un’interprete che, prima di agire, è.
78Carmen ha appena confidato a Joseph di voler fare ciò che una donna fa a un uomo. Ma noi, l’amore, non lo vediamo. Come di consueto Godard evita scene madri e punte drammatiche del racconto. Uno stacco di montaggio ci porta davanti al mare mosso, musicato dal Quartetto op. 15. Quando li ritroviamo, gli amanti sono in piedi, davanti alla finestra. L’illuminazione diegetica in controluce – stilema frequente in molti primi piani femminili di questo Godard – addolcisce i colori e soprattutto i lineamenti dell’eroina, garantendo quel senso di intimità necessario al viaggio à rebours della ragazza. Carmen parla, ma per ascoltare le sue parole dobbiamo aspettare una decina di secondi, ovvero la ripetizione della medesima inquadratura: «Ho abitato qui, presso uno dei miei zii. Dovevo avere 13 o 14 anni. Là c’era il salone e qui la sua camera. La sua camera…».
79Che cosa è successo, dieci anni prima, in quella camera? Carmen ride, Joseph tace. Solo il rumore del mare sembra commentare queste parole e in qualche modo aiutarci a decifrarne il senso: durante una pausa della frase, ascoltiamo il rumore di un’onda che sale. Nel momento in cui quest’onda si infrange contro la superficie dell’acqua, Detmers pronuncia per la seconda volta, ovvero ripete, il luogo degli incontri rimossi con lo zio: «sa chambre». Uno spazio, la camera, che è al contempo teatro dell’amore di oggi e luogo di una memoria perduta, almeno giudicando dalle parole di zio Jean: «Sono pazzi i giovani: dimenticano tutto, e hanno solo la memoria. Sono nel buco nero».
80Memoria, oblio, oscurità: Godard anticipa in una sola frase temi e motivi del cinema che verrà, in particolare il viaggio nelle Histoire(s) du cinéma e soprattutto la discesa agli inferi di Dans le noir du temps (2001), episodio di Ten Minutes Older che ci conduce, come ha scritto Roberto Chiesi35, nell’«isola dei morti» del passato (Auschwitz) e del presente (Sarajevo). Anziché illustrare, allora, la parola complica il significato dell’immagine e soprattutto non rimargina le ferite dell’oblio. Il tempo perduto di Carmen non è né detto né mostrato, ma anzi continuamente evocato dai continui buchi neri che erodono il racconto (parole coperte dal rumore del mare, vuoto audio, passaggi narrativi non lineari).
81Vent’anni dopo, nella galleria di detriti audiovisivi sommersi dal nero del tempo – immagini della Shoah, frammenti da La cinese, Forever Mozart e Le petit soldat, cadaveri di Sarajevo – il volto di Maruschka Detmers non ci sarà. Ma, scritte in bianco su fondo nero, scorreranno parole che appartengono anche al mito di Carmen, ovvero giovinezza, coraggio, pensiero, memoria, amore, silenzio, paura, eterno, cinema. Che sia scritta, pronunciata fuori campo o sovraimpressa a immagini “false” in quanto lavorate, striate e saturate, non importa: la parola non nomina la cosa. Le sta semplicemente accanto, ma sempre e comunque in “ritardo” rispetto alla cosa:
Si je te parle du temps, c’est qu’il n’est pas encore / Si je te parle d’un lieu, c’est qu’il a disparu / Si je te parle du temps, c’est qu’il n’est déjà plus36.
Filmare la Parola
82Nel tempo – o meglio in quel tempo che, secondo la lezione di Benjamin, Godard “redime” attraverso l’immagine – comincia anche la storia di Marie, scandalosa Vergine contemporanea dai tratti adolescenziali e dagli interrogativi cosmologici: da dove viene la vita? Preceduto da brevi appunti nei quali Godard immagina le immagini nel loro “farsi” (Petites notes à propos du film Je vous salue, Marie), Je vous salue, Marie resta a mio avviso non solo la summa teorica ed estetica di questi anni Ottanta, ma anche uno dei vertici più alti della produzione recente37. Le ossessioni sono quelle di ieri e di domani: la dinamica di coppia, le intermittenze del sentimento, il mistero della vita e della sua origine. Inedita, però, è la levità con cui l’autore tocca tali motivi, declinandoli al tempo presente e soprattutto senza rinunciare a raccontarci una storia, anzi due storie: quella di Marie, una giovane benzinaia eletta da Dio e quella di Eva, studentessa volubile, sedotta e abbandonata.
83Come ha osservato Jean-Luc Douin, filmare la Parola altro non è che un’occasione per esorcizzare un’ossessione antica e riflettere sul confine tra creazione e procreazione:
Da sempre in Godard emerge una frustrazione già presente in Henry Miller (che si diceva incinto) o in Artaud (che si immaginava come sua madre o le sue figlie): l’artista riproduce una certa bellezza di cui non è l’autore. Al contempo l’uomo desidera essere il padre ma la vita viene d’altrove. Procreare non è creare. Allora chi crea? Mistero38.
84Filmare la prima donna significa anche filmare la prima storia, ovvero tornare alle origini del racconto39. Novella per antonomasia, il Vangelo è scelto in quanto repertorio di archetipi e miti insiti non solo nella struttura della nostra civiltà, ma anche nelle pieghe del nostro io: «Marie, Carmen, sono personaggi che non esistono […], ma che esistono profondamente nello spirito, o nel corpo, o nel godimento delle persone. Per Carmen significava filmare l’eterno femminino. E qui, dopo il femminino, l’eterno, o l’eternità40».
85Dal particolare (eterno femminino) all’universale (eterno): il procedimento è identico a quello teorizzato all’epoca di Il bandito delle ore undici, quando Godard dichiarò di aver voluto filmare non la vita delle persone, ma la vita da sola41. Vent’anni dopo l’orizzonte si allarga e le ambizioni crescono: non più la vita interessa, ma la sua nascita.
86Com’è noto – ma forse non abbastanza indagato – l’ispirazione per il soggetto non nasce direttamente dalla lettura del Vangelo, ma da quella di una sua modernissima rilettura, L’évangile au risque de la psychanalyse, conversazione “soft” tra Gérard Sévérin e Françoise Dolto, analista di scuola freudiana e di fede cristiana. Prima che interrogazione filosofica sul mistero dell’Universo, dunque, Je vous salue, Marie è un film-saggio su un saggio, o meglio sulla rivelazione di un’intuizione:
Nulla del messaggio di Cristo mi sembra in contraddizione con le scoperte freudiane. […] La vita, l’effetto di verità sempre nuova che la frequentazione dei Vangeli genera nel cuore e nell’intelletto sono un invito a superare i nostri processi logici coscienti42.
87Ciò che seduce Françoise Dolto, insomma, è il potere affabulatorio posseduto dalle Sacre Scritture, la loro capacità di penetrare nell’inconscio del lettore e offrirsi come «effetto di verità». Nel Vangelo, infatti, il lettore non solo ritroverebbe il proprio immaginario preverbale, ma anche – sostiene Dolto – un “affetto” molto caro a Godard e alle sue eroine, ovvero la sensazione di «vivere nel proprio corpo». Nel rispondere alla domanda di Sévérin («Cos’è un mito per lei?»), Dolto parla proprio in termini di sensazione: «un mito è la proiezione della sensazione di vivere nel corpo («ressenti du vivre dans le corps»). Vengono in mente i soliloqui di Juliette (Due o tre cose che so di lei), attenta ad ascoltare il riverbero della propria presenza nel mondo, ma, come ha suggerito Paolo Bertetto, possiamo leggere tutti i personaggi godardiani come declinazioni del Dasein: un essere-nel-mondo con il corpo, attraverso il corpo, nel corpo43.
88Rileggiamo un frammento della celebre intervista concessa ai «Cahiers» nel 1965: «L’importante è sentire di esistere. Nell’arco della giornata, per i tre quarti del tempo, ci dimentichiamo di questa verità che ricorre all’improvviso, guardando le case o una fiammata rossa: a un tratto si ha la sensazione di esistere in quel momento»44.
89Il Vangelo e le sue riletture, dunque, sono semplicemente dei pretesti per riprendere le fila di un percorso lontano e mai interrotto. Lecito è dunque leggere tutta l’opera di Godard alla luce della teoria di Benjamin, ovvero come insistenza del passato (gli anni Karina) su un presente che cerca, mediante la citazione, una definitiva redenzione. «Mi sarebbe piaciuto – continua Godard nell’intervista di cui sopra – gonfiare la vita per farla ammirare, o ridurre ai suoi elementi fondamentali come un professore di storia naturale»45.
90Ebbene: il Godard di Je vous salue, Marie non solo gonfia la vita, cristallizzandola in rischiosissime “nature vive” – riflessi del sole sull’acqua, temporali nel bosco, dettagli di luna piena – ma cerca anche, tramite l’alter-ego del giovane scienziato, di delucidarne il Mistero: «Che cosa sappiamo noi, con le nostre conoscenze scientifiche, dell’amore e del suo mistero? Che sappiamo noi della gioia?»46.
91Queste parole, pronunciate da Myriem Roussel all’inizio delle Petites notes, provengono però direttamente dal testo di Dolto, la quale è nominata dall’autore in uno sketch che tanto assomiglia a una parodia della terapia freudiana: la discussione sulle relazioni tra sceneggiatura e musica avviene infatti con Anne-Marie seduta in poltrona e il marito disteso su una sorta di lettino.
92Anche il concetto di quotidiano, chiave di lettura del mito evangelico attorno a cui Godard fa ruotare tutti i codici (recitazione in primis), è in realtà un’intuizione della psicanalista, la quale proprio nell’intimità di coppia rileva i presupposti per una carnalità del trascendente. Riportiamo qui sotto la riflessione di Dolto che, nella seconda parte delle Petites notes, l’attrice batte a macchina su dettatura del regista: «Ogni uomo non è forse l’ombra di Dio per la donna che ama? La potenza e l’ombra di Dio che coprono Marie possono essere la carnalità di un uomo che ella riconosce come suo sposo»47.
93In questo Godard, lo abbiamo visto, i gesti dell’amore assomigliano spesso a quelli del lavoro e allora ecco spiegato il provino eseguito da Myriem Roussel nelle Petites notes. La pelle senza trucco e i capelli sciolti sulle spalle, Marie deve compiere un gesto apparentemente banale (stirare una tovaglia) ma in realtà perfettamente identico a quello svolto dalla compagna Anne-Marie in Soft and Hard, video conversazione familiare realizzata per Channel Four nell’abitazione di Rolle, dove «non mancano gli oggetti, ma i soggetti». Tout se tient: fare un film è per Godard vivere e vivere significa condividere con la persona amata pensieri e parole sul cinema, sull’arte, sul mistero della vita.
94Restiamo sulle Petites notes. «La parte principale del film – dice Thierry Rode, interprete di Joseph – è composta dal ciò che accade tra Marie e il ginecologo. Costui si potrebbe chiamare forse Dottor Freud». Come sempre, Godard depista. Il cuore della storia, in realtà, non sarà la constatazione dell’incredulità della scienza quanto l’osservazione delle dinamiche psicologiche che al contempo rafforzano e minano il rapporto di coppia, rapporto fondato non sulla passione ma su quello che Françoise Dolto definisce «un amore della parola»:
[Marie e Joseph] sono una coppia di parola. Sono una coppia esemplare perché si sono sottomessi alle Scritture, ovvero alla Parola di Dio. Parola ricevuta, parola data. Parola data che è venuta dalla parola ricevuta, creatrice e fondatrice. Parola data di essere garante di questa donna, Parola data di avere fiducia, di essere madre senza sapere come…48.
95Come abbiamo accennato nell’Introduzione, anche le opere di questa “sesta” stagione sono intrecciate le une alle altre per mezzo di motivi visivi e sonori: da un film all’altro migrano corpi, battute, inquadrature, citazioni ecc49. Le riflessioni di Dolto, per esempio, riecheggeranno esattamente nove anni dopo in Hélas pour moi – che Bamchade Pourvali50 considera la terza parte di un’ideale trilogia della coppia composta da Il disprezzo e da Je vous salue, Marie –, variazioni sull’amore inteso come dialettica tra Eros e Agape: sia Paul (Il disprezzo) che Joseph rinunciano al possesso dell’amata sublimando il desiderio nell’arte (Paul) e nella fede (Joseph). Le celebri parole con cui Piccoli “tocca” la carne nuda di Brigitte Bardot rasentano infatti la devozione: «Je t’aime totalement, tendrement, tragiquement»51. Paul parla come se parlasse a una dea e in effetti Camille è incarnata dalla più lucente tra le divinità di quello star system, un corpo al contempo mortale e imperituro. Per questo Godard ne decostruisce il mito, sottoponendolo a un’anatomia visiva “in continuità”52 per poi svuotarlo del suo contenuto inorganico: non sangue, ma colore: «Ce n’est pas du sang, c’est du rouge».
96Hélas pour moi racconta – si fa per dire – una storia d’amore dove il quotidiano si mescola con il fantastico. Simon e Rachel vivono sulle rive del lago Lemano. Un giorno Simon annuncia a Rachel che deve partire per un “viaggio in Italia”; sarebbe ritornato l’indomani. Poche ore dopo, invece, un uomo identico a Simon fa visita a Rachel e la possiede: la donna scopre, per la prima volta, che «la carne può essere triste». Di leggenda in leggenda. Se Omero fa da sfondo alla tragedia di Paul e Camille, l’amore fedele di Simon e Rachel (Hélas pour moi) è una copia post-moderna di quello che univa Anfitrione e Alcmena, mito contaminato, tra le infinite suggestioni, con la Storia del genere umano di Leopardi. Nessun cigno abita le rive del lago Lemano; il destino di Rachel è contenuto nel suo stesso nome (Donnadieu: donner à Dieu) ma nessuno, nemmeno l’occhio del narratore, potrà svelare il mistero della sua unione con Dio. Perché Godard scioglie l’immagine, ovvero il volto disfatto di Laurence Masliah (Rachel), nel nulla mediante una dissolvenza in nero. «Nessuna immagine è disponibile, Mademoiselle» dice Abraham Klimt (il personaggio del narratore), così come nessuna immagine potrà restituire in Je vous salue, Marie il mistero dell’immacolata concezione. Klimt si rassegna: «Una storia si costruisce solo nel momento in cui la si racconta». L’immagine ora non c’è, è in via di costruzione o meglio, come sostiene il personaggio dell’albergatrice citando San Paolo (Hélas pour moi), «verrà al tempo della redenzione». Il disprezzo, Je vous salue, Marie e Hélas pour moi raccontano allora (anche) storie di uomini in cerca di immagini. Paul cerca la sua Odissea, Joseph vuole vedere il sesso di Marie, Klimt deve ricostruire quanto accaduto la notte della possessione divina. E anche Rachel lo vorrebbe, poiché non ricorda nulla. Ma anche lei per vedere deve prima ascoltare la parola, e non una parola come tante. Si tratta infatti della parola di (Depard)Dieu, un Dio pesante e quotidiano, che ama solo le donne fedeli e filosofeggia avvolto in un accappatoio a righe rosse e blu. Tocca alla vestaglia bianca della donna il compito di completare la consueta tricromia, anche se questo non basterà per risalire il tempo del ricordo. Simon e Rachel, dunque, parlano e, a differenza di quanto di solito accade nelle conversazioni godardiane, nulla interrompe o oscura questa parola: né i rumori d’ambiente (Questa è la mia vita), né la violenza (Si salvi chi può... la vita), né la distanza amorosa (Il disprezzo)53. Rachel è stanca. Vedere l’invisibile come dice l’albergatrice, «è faticoso» e «per amare ci vuole un corpo». La donna accusa il sosia di Simon di essere solo ombra, simulacro, riflesso inorganico di un corpo familiare. Simon, che invece si è fatto corpo, risponde parafrasando la domanda retorica suggerita da Françoise Dolto («Ogni uomo non è forse l’ombra di Dio per la donna che ama?»). Ancora una volta per Godard giocare con le parole significa prendere la metafora alla lettera. Come sentiremo ripetere tra poco da Marie, dell’amore non resta che l’ombra. Anche per Marie essere amati altro non è che fare ombra all’amato, ovvero mettere le braccia attorno al suo collo e intrecciare le dita. Ma questo gesto d’amore, mimato dalla donna sul corpo dell’amante, è uguale al gesto della preghiera.
Un fiore del male
97In principio, dunque, è sempre la parola: nelle Sacre Scritture, nel prologo di Prénom Carmen e anche nel Livre de Marie, cortometraggio di Anne-Marie Miéville considerato da Godard come parte integrante del progetto. Si tratta di una sorta di parodia della Sacra famiglia. Anziché la nascita, Miéville racconta la distruzione di un nucleo familiare: la madre dichiara il suo disamore e la coppia, ordinaria come quelle prese a esempio da Dolto, si spezza.
98L’incipit ricorda molto da vicino il prologo di Prénom Carmen. Due voci si muovono off sulla superficie di paesaggi naturali che, nella loro compostezza calligrafica (nature morte, panorami lacustri, giardini soleggiati), sembrano quasi contraddire il colore emotivo del dialogo.
99L’uomo è convinto che la moglie fugga per paura di «vedere sparire l’Altro». Ma la realtà, a quanto pare, è diversa: al padre è contestata ciò che invece secondo le Scritture è essenziale alla Santa procreazione, ovvero l’assenza. Cifra stilistica di questo preludio è quella che il personaggio della madre definisce clarté: «Cerco solamente di vederci chiaro (clair) e non vedo perché tutti hanno così paura della chiarezza (clarté)». Tutti ma non la coppia Godard-Miéville, che chiede all’operatore Jean-Bernard Menoud un’immagine «crystal-clear»54, tanto esangue e priva di ombre quanto invece umbratile è la materia del racconto. Prima di scrivere, dice Godard nelle Petites notes, bisogna vedere e al tema dello sguardo rimandano anche due monologhi di Marie, alle prese prima con il sezionamento di una mela e poi, nella sequenza conclusiva, con un sin troppo simbolico uovo bianco, stagliato su fondo blu (la maglia della ragazzina) quanto basta per far insorgere due dei colori della tricromia. Dall’occhio all’ovulo dunque, attraverso la metafora – scopertamente cinefila – del taglio.
100Le citazioni si moltiplicano sino a stratificare il senso. Anche qui, come in Passion, abbiamo un padre che aiuta la figlia a svolgere i compiti scolastici. Ma questa volta si tratta proprio di effettuare ciò che allora era oggetto di interrogazione, ovvero disegnare i contorni delle cose. Pur peccando di didascalismo, Miéville riesce comunque ad accordare il suo poemetto alla melodia del corpus godardiano, visto che le parole-chiave sono sempre le stesse e tutte unite da associazioni logiche: visione, (pro)creazione, luce (clarté). A proposito di clarté: l’attrice che interpreta Marie adulta, ovvero Myriem Roussel, in Prénom Carmen impersonava proprio Claire.
101Non solo i corpi circolano in questo cinema, ma anche le parole e soprattutto quelle pronunciate dai personaggi femminili, tutti riconducibili a un tipo. «Per dieci anni abbiamo fatto delle copie, ora ho bisogno di inventare», dice questa femme mariée svizzera. Quella contro la ripetizione, però, è una lotta già vista, inaugurata da Nana (Questa è la mia vita), portata avanti da Charlotte (Una donna sposata) e ripresa da Denise (Si salvi chi può… la vita).
102Il cerchio allora – figura geometrica evocata dalla metafora dell’uovo ma esclusa dai compiti scolastici – si chiude. Perché l’invenzione come modalità di affermazione della propria identità è un concetto ripreso anche da Françoise Dolto, secondo la quale perché si possa parlare di “famiglia” alla procreazione deve far seguito un processo di creazione: «Dobbiamo ritrovare la nostra origine, ovvero diventare il nostro padre e la nostra madre e dunque il nostro proprio figlio. Dobbiamo inventare noi stessi. Che ognuno diventi l’artista di ciò che ha ricevuto!»55.
103Marie cerca se stessa nell’arte: nell’ascolto di Mahler o Beethoven, ma soprattutto nella lettura di Baudelaire. Il “libro di Marie” a cui allude il titolo, infatti, non è un Vangelo apocrifo ma quanto di più lontano dalla Buona Novella, ovvero Les fleurs du mal. Il fiore declamato dalla ragazzina nel suo gioco di ruolo è niente di meno che Femmes damnés, il lamento a due voci di Delphine et Hyppolite, amanti fatali di un amore troppo vicino all’Inferno: «Je sens fondre sur moi de lourdes épouvantes /Et de noirs bataillons de fantômes épars,/ Qui veulent me conduire en des routes mouvantes / Qu’un horizon sanglant ferme de toutes parts»56.
104Baudelaire parla di un amore conosciuto solo di riflesso: è forse questo l’amore a cui Marie alluderà? Ippolita ha paura ed è sola con i propri fantasmi, proprio come lo sarà Marie quando, gravida, si contorcerà nel letto alla ricerca di risposte.
105Le livre de Marie, dunque, espone in nuce temi e motivi del lungometraggio: Je vous salue, Marie sarà un film non sulla gioia ma sull’angoscia di una maternità tanto immacolata quanto dolorosa.
106Marie è triste. Delusa dal fatto che «nulla resta come prima». Allora la madre la consola, ricordandole che «tutto scorre» (ça devient autrement) e invitandola a leggere il suo destino in quello che appare sempre di più il luogo dell’identità dei personaggi godardiani: il nome. «Guarda il tuo nome Marie. Nel tuo nome c’è amare (aimer)».
107Tra l’infanzia di Marie e la vita adulta, cinque secondi di nero. Il “nero del tempo”, infatti, è scelto da Godard quale supporto ideale per introdurre la storia di un grido («Je vous salue, Marie!») di cui Françoise Dolto ha evidenziato il potere fecondante, potere che renderebbe quanto meno superflui gli interrogativi circa il mistero dell’immacolata concezione. «Che sappiamo noi della parola?» – si chiede Dolto – «essa è feconda o portatrice di morte?». Dell’angelo Gabriele, del resto, non sappiamo nulla se non il contenuto del suo messaggio57. L’angelo esiste unicamente in quanto portatore di Parola e il prologo di questa Annunciazione svizzera lo dimostra: nel taxi di Joseph una misteriosa bambina rimprovera allo zio, oncle Gabriel, di aver recitato il testo sbagliato («Finché resteranno i Borboni in Spagna non saremo tranquilli»).
108Parlare, però, non significa solo citare o recitare. Perché le parole del film, come ricorda Myriem Roussel nelle Petites notes, sono quelle di tutti i giorni, ovvero «gioia, amore, libertà, lavoro, desiderio». Ma che relazione c’è tra queste parole e il loro significato? È possibile, per esempio, disegnare i contorni della “gioia”?
109Je vous salue, Marie comincia proprio con una discussione sull’utilità dell’atto del parlare. Seduta al tavolo di un caffè, Juliette (Binoche), fidanzata di Joseph, parla della sua parola:
Juliette: «Tutto quello che esce dalla mia bocca diventa merda».
Joseph: «E allora taci»
Juliette «Con te a volte fatico a sopportare il silenzio».
110Anche Nana (Questa è la mia vita) – lo abbiamo visto – si sentiva “lontana” quando non tradita dalle parole, ma faceva di tutto per evitare il silenzio. Juliette vorrebbe parlare. Ma quando lo fa, fatichiamo a comprenderla, perché il “narratore” offusca la sua parola – si tratta dell’espressione di un desiderio – prima con i rumori di fondo e poi con le note, extradiegetiche, della Toccata e fuga in re minore BMW 565. Identico, pochi secondi dopo, è il destino di Marie e della voce che Myriem Roussel presta al suo personaggio. Lo spazio che occupa non è più off, ma over. Pulita, chiara e onnisciente, la voce di Marie funge da sintassi per il montaggio analogico con cui Godard organizza l’apparizione della “Vergine”, annunciando fin da subito la chiave demistificatoria della sua lettura, fondata sul contrappunto tra parole e cose. Se la parola vola alto, assorta in riflessioni esistenziali («Mi chiedevo se qualche evento stesse per irrompere nella mia vita»), l’immagine rimanda a un registro “basso”: una partita di basket femminile con le divise delle squadre a comporre i tre colori della palette58. Il sacro, come ha evidenziato Dolto, è nel quotidiano e il quotidiano di Marie è l’odore del distributore di benzina e un pallone da infilare nel canestro, un pallone che però il montaggio assimila o meglio trasforma – direbbe Ejzenštejn – in una luna piena. Anziché ascoltare l’allenatrice, Marie parla dell’Amore ma soprattutto di ciò che angustiava anche Juliette (Due o tre cose che so di lei), ovvero la relazione tra sé e il mondo:
Dell’amore non avevo che l’ombra. O meglio l’ombra di un’ombra. Come quando si vede nel lago il riflesso di un nannufero, un riflesso non tranquillo ma agitato dalle onde. È normale che questo riflesso agitato sfugga in parte. Nonostante ciò, tutto il mondo era per me un nannufero.
111L’ultima frase, in realtà, la intuiamo appena, perché ancora una volta il volume della voce è abbassato e soverchiato da un’altra immagine-suono, anche questa costruita sull’estetica del contrappunto, ovvero voce maschile/volto femminile: una studentessa (Eva) maneggia il cubo di Rubik mentre la voce-off del professore illustra le dinamiche dell’apparizione della vita nell’universo.
112Sia le parole di Marie che quelle del professore scivolano sulle immagini come un logos ordinatore: pulite, chiare, distinte. Si tratta di quella che Michel Chion definirebbe parola-testo59, ovvero una parola che fa andare avanti il racconto illustrando sentimenti, stati d’animo o ipotesi e tesi scientifiche. Come ha osservato Johannes Erhat,
Esiste chiaramente una hierarchia veritatum in Je vous salue, Marie. I messaggi importanti sono fatti sentire chiaramente, anche a costo di eliminare suoni ambientali o altri elementi della colonna sonora. […] I discorsi di Marie più difficilmente udibili sono quelli in cui ella sta rispondendo a Dio («C’est un grand secret»). Al contrario, tutto ciò che ha a che fare con il suo corpo virginale è chiaro come se fosse un’audizione pubblica60.
113Di tutt’altra natura è invece la parola da cui ci aspetteremmo più clarté, ovvero la parola dell’Angelo.
L’Annunciazione
114Disturbata dal rumori di fondo (l’abbaiare del cane, il traffico dell’aeroporto, il motore dell’auto), l’Annunciazione è messa in scena in un contesto luministico assolutamente nuovo rispetto a quanto visto sopra. La clarté cede il passo a visioni sfocate e confuse, come se Godard avesse deciso di non disegnare più i contorni delle cose, lasciando ai raccordi del montaggio il compito di de-finire il contenuto dell’immagine.
115L’epifania dell’angelo, doppio come quello di Dreyer – la coppia zio-nipotina riprende il binomio sacro di Ordet (Id., Carl Th. Dreyer, 1955) –, è introdotta da un prologo non verbale, composto dai seguenti elementi: un aereo in fase di atterraggio, un volto allo specchio, fasci di luce tra gli alberi. Solo la musica di commento tiene uniti i frammenti di una sequenza che fa dell’ellissi una sorta di “cine-pugno”, veicolando allo spettatore non il racconto del Mistero ma la sensazione di smarrimento che esso provoca. Nel bagno, mentre si pettina, Marie avverte una sensazione indefinita, che Godard dipinge senza contorni. Qualcosa inquieta la Vergine: forse una di quelle «vagues terribles» descritte da Carmen, o forse «un primo soffio di sacro»61 emanato dall’aereo. Prima di assogettarsi alle forme del linguaggio, dunque, la Parola si manifesta come emozione e l’emozione passa anche attraverso insorgenze di colore come il giallo del tramonto, ricorrenze quali la coppia rosso/blu che incornicia il volto di Marie o effetti ottici come i lampi di luce che aggrediscono l’occhio dello spettatore nel camera-car che conduce il taxi alla stazione di servizio.
116Proprio il taxi costituisce uno degli scarti principali che l’autore mette in atto rispetto ai modelli iconografici rinascimentali. Né Leonardo né ilBeato Angelico, per esempio, contemplavano nella loro scenografia la presenza di Giuseppe, a cui invece Godard assegna non solo l’umile mansione di tassista ma anche l’inedito ruolo di testimone della Parola.
117Quanto alla scenografia, ha ragione Bergala: la scelta della stazione di servizio conferma come il piacere del divertissement sia più forte dello spirito filologico. L’architettura del luogo, provvisto di tettoia illuminata, replica infatti il motivo iconografico della loggia, ambiente prediletto per le annunciazioni del Quattrocento. La Parola biblica è presa alla lettera, ma soprattutto impone la sua forza significante sul significato. Se il cinema è il cinema, quale scenografia migliore per rappresentare una stazione (della vita di Cristo) che una stazione (di servizio)?62
118L’annunciazione è preceduta da due vocazioni: la prima diretta a Dio («Nom de Dieu!»), la seconda a Marie. Godard, insomma, continua a giocare con le parole, con l’obiettivo di evidenziare non solo la distanza tra esse e le cose, ma anche l’intraducibile polisemia di alcune strutture linguistiche. Anche nella lingua francese, infatti, l’espressione Nom de Dieu ha un senso blasfemo se utilizzata come interiezione. Nella versione italiana del film, il doppiatore dell’angelo nomina Dio invano in un modo meno violento di quanto non faccia la voce originale francese63.
119Poi tocca a Marie. Come quello di Carmen, il nome di Marie è iconogenico: l’atto vocativo, ripetuto come in una frase musicale da un altro strumento (la voce della bambina), genera infatti un’immagine costruita secondo topoi performativi, scenografici e cromatici già visti, che proprio grazie alla loro ricorrenza acquistano lo status musicale di “motivi”64. Quattro personaggi discutono animatamente attorno a un’auto il cui colore rosso – raddoppiato dalla minigonna di Marie – completa la ben nota tricromia: gialla è l’insegna del taxi mentre blu è il colore di alcune auto sullo sfondo e del muro sulla sinistra del quadro (fig. 23). Sembra che l’autore non riesca a costruire una scena di conversazione senza allestire lo spazio en plein air e, soprattutto, senza rinunciare a far muovere i suoi attori attorno a un’automobile ferma. Se la “discussione a più voci” è un refrain narrativo, l’auto si conferma uno dei motivi iconografici più amati. Il cinema di Godard comincia con due personaggi attorno a un’auto (Michel Poiccard e amica al porto di Marsiglia) e continua alternando variazioni su questo motivo, oggetto reale («culturale», direbbe Aumont) trasformato in segno figurativo. Penso ai duetti Belmondo-Karina alla stazione di servizio di Il bandito delle ore undici, ma anche – le abbiamo analizzate sopra – alle liti tra i personaggi di Si salvi chi può… la vita (Paul vs fattorino), agli slanci passionali di Carmen in riva al mare o alle discussioni tra gli amanti di Passion: sia l’incipit che il finale prevedono l’auto di Jerzy come paesaggio del discorso amoroso.
120Gli anni Sessanta sono finiti e con loro anche ogni possibilità di avventura. L’auto non rimanda più all’idea del movimento o della fuga (Fino all’ultimo respiro, Il bandito delle ore undici, Il disprezzo), ma, silenziosa come una macchia di colore, evoca una sensazione di staticità: staticità dei corpi e staticità della narrazione.
121Anche qui, in questo esterno notte urbano, l’automobile è l’elemento scenografico attorno al quale Godard disegna i movimenti dei corpi. Alla ricerca di spiegazioni, Joseph riceve una spinta prima dall’Angelo e poi dalla stessa Marie, che poi invita con decisione il padre a uscire dal quadro. Come al solito, c’è qualcosa di poco naturale nei gesti dei personaggi, il cui rumore è, ancora una volta, coperto da frammenti di musica extradiegetica. Il brano scelto – l’incalzante primo movimento del Concerto per violoncello in Si minore (op. 104, b. 1919) di Antonin Dvořák – fa esattamente ciò che fa l’immagine, ovvero introduce, annuncia l’avvento di una voce sola. Il violoncello solista, infatti, occuperà nello spazio sonoro il posto riempito nell’inquadratura dalla voce dell’Angelo.
122Più che imitare la vita, gli interpreti sembrano attenti a rispettare le coreografia di una danza grottesca, che non prevede nessun particolare approfondimento psicologico del personaggio. Se Myriem Roussel lavora in underplay lasciando alla parola il compito di esprimere l’emozione, Philippe Lacoste (l’angelo) e Thierry Rode (Joseph) si limitano a disegnare sul volto una maschera e a effettuare solo piccole variazioni su di essa.
123«Che cosa c’è?» chiede Marie. Ed è a questo punto che la parola-emanazione cede di nuovo il passo alla parola-testo: la voce dell’angelo ritorna off ma il paesaggio sul quale si staglia non ha nulla di figurativo. Al contrario: il volto di Myriem Roussel è sostituito da uno schermo nero puntellato, nel tempo, dai consueti tre colori: rosso (il semaforo), giallo (ancora il semaforo) e bianco. Per osservare la ricorrenza del blu dobbiamo aspettare l’inquadratura seguente, che ci mostra il profilo di Joseph immobile all’interno di un’auto rossa fuori ma blu dentro.
124Se la tricromia è familiare, più perturbante è l’insorgenza del nero, grado zero del colore che abbiamo visto aprire e che vedremo chiudere il racconto. Solo quando la bambina ripete la risposta dell’Angelo («Ci sei tu Maria!») la luce gialla cede il posto a quella rossa, mentre il quadro resta vuoto di corpi ma pieno di suoni (musica extradiegetica), rumori (vento) e soprattutto parole: le indicazioni di radio-taxi stridono con il registro “alto” della musica. Prima l’immagine, dunque, poi il nulla. Hyppolite, l’eroina baudeleriana declamata nell’adolescenza, sentiva il suo cuore sprofondare in un «abisso vuoto»65. Questa Vergine contemporanea dal vuoto è completamente inghiottita. Come se il racconto per avanzare avesse bisogno di un intervallo, un sorta di sospensione del figurativo che ci riporta alla dimensione del figurale analizzata a proposito di Si salvi chi può… la vita.
125La disposizione di luci, volti e colori all’interno del découpage obbedisce infatti alla «legge del valore» di Lyotard, che individua la forza dell’immagine non nella logica narrativa ma nei vacillamenti, nelle deviazioni, nelle sospensioni del senso. Mentre ascolta le parole dell’Angelo, per esempio, Marie guarda verso l’alto, creando così una frattura nei raccordi che punteggiano la scena (l’angelo infatti è a pochi metri da lei, ad altezza uomo).
126Poiché ci dice altro rispetto al racconto, l’immagine di Je vous salue, Marie pensa e soprattutto pensa altro rispetto a quanto dicono le parole dei personaggi, e in particolare degli “angeli”: «Sois pure, sois dure, ne cherche que ta voie (voix)»66. Nana aveva ragione. Le parole mentono, ingannano, o quanto meno non riescono a disegnare i contorni delle cose. Marie, infatti, rimane vittima dell’omofonia della lingua francese non capisce a che cosa la bambina si riferisca: «Ma voie? Mon chemin ou le son de ma voix?»67.
127Abbiamo riportato accanto al termine voie (cammino), il sostantivo voix (voce), perché nella lingua francese le due parole hanno lo stesso suono e dunque lo stesso volto. Naturalmente la variante prescelta dal doppiaggio italiano è via («Cerca la tua via»), ma è evidente che in questo caso la differenza linguistica vanifica la riflessione dell’autore su quella che egli presto definirà la potenza della parola (Puissance de la parole). Non solo il colore dunque. Anche la parola partecipa attivamente al processo di defigurazione di un senso che si frammenta e moltiplica proprio come fanno il volto di Marie allo specchio del bagno o le luci dei fari sull’asfalto viscido. Sono tutte, direbbe Denise, «folate di irregolarità». «Irregolare», in un certo senso, è anche la voce di Marie, la cui domanda di chiarificazione («mon chemin ou le son de ma voix?») risuona sul volto della bambina e non su quello di colei che dovrebbe essere la “proprietaria” di suddetta voce.
128Marie è confusa quanto lo spettatore. Forse ha perso la sua via, o forse la sua parola: «Non fare l’imbecille! Io ho la tua parola e tu troverai presto la tua».
129Questa seconda ipotesi è rafforzata dall’immagine che segue, ovvero il profilo68 di Myriem Roussel contratto in un spasmo innaturale (fig. 24): la bocca è aperta, dilatata verso il basso, come se la ragazza cercasse invano non tanto la parola, quanto la materia di cui essa si compone (il suono). Che Godard distingua, per dirla con Lyotard, tra forza (suono) e forma (parola) ce lo suggerisce anche una battuta rivolta da Marie a un Joseph incapace di credere: «Forse non capisci bene le mie parole o la mia voce».
130Per trovare la parola, però, la Fede non basta. Marie deve cercare nel corpo. Alla carnalità della parola, del resto, allude anche l’angelo nel suo commiato: «Non dimenticare: ciò che entra esce e ciò che esce entra».
131Il mistero dell’Incarnazione è pronunciato: lo Spirito si fa carne penetrando il corpo attraverso le sue cavità. La bocca allora non è più soltanto sorgente del Verbo, ma anche, così come confermerà la celebre inquadratura finale, un limen da penetrare, mordere o abbellire con un rossetto.
132Fecondata dalla Parola, Marie insegue l’auto di Joseph e crolla a terra, appoggiandosi alla pompa di benzina. Ma è solo un attimo, quanto basta per passare dallo status di vergine a quello di Vergine. La ragazza si rialza subito e saltella verso casa con la stessa gaiezza dei frati di Rossellini (Francesco giullare di Dio, 1950) o dei compagni di classe di Eva, sul cui movimento il montaggio raccorda l’attacco della sequenza successiva.
Marie e le altre
133Prima di analizzare la messa in scena di questo corpo, è opportuno fare un passo indietro e allargare il campo di osservazione.
134Quasi tutti gli esegeti, da Alain Bergala a Jean-Luc Douin, hanno rilevato una volontà di “de-erotizzazione” nella messa in scena del corpo femminile, vettore di un desiderio sospeso tra la negazione (il corpo vestito) e la mostrazione (il corpo nudo), ma soprattutto scisso nella polarità sacro-profano69.
135Se Marina Vlady (Due o tre cose che so di lei) negava ai suoi clienti la tensione erotica derivante dall’atto di spogliarsi, invitandoli a possedere un corpo già nudo e in quanto tale forse non altrettanto desiderabile, Hanna (Passion) rifiuta le richieste dell’amante: «Spogliarmi mi dà fastidio, è un lavoro troppo vicino all’amore». “Già” nudi, infatti, sono anche i corpi femminili degli anni Ottanta, dalle prostitute di Si salvi chi può… la vita alle figuranti di Passion, dove il nudo non è eros ma bellezza da guardare, illuminare e riprodurre. Quando il nudo è anticamera di eros, come nella figura intera di Isabelle prossima a concedersi a Jerzy, tocca alla luce e alla parola favorire la decostruzione. L’illuminazione in controluce, infatti, trasforma il corpo di Isabelle Huppert, che sta recitando l’Agnus Dei, nel simulacro di un angelo di El Greco.
136«Niente nudi, no no – preciserà William Shakespeare junior in Re Lear – ora lavoro per la divisione culturale della Canon e loro non vogliono nudi». Godard, invece, il nudo lo filma ma non lo rende garanzia della rappresentazione dell’amplesso, tabù che Bazin gli ha insegnato a lasciare ob-scenam. La messa in scena dell’eros è allora come il travelling di Kapò (Gillo Pontecorvo, 1959), una questione di morale da esorcizzare sostituendo al corpo tattile del cinema “osceno” un corpo scopico o più semplicemente ludico: penso alla gag di Détective (dove il seno di Emmanuelle Seigner (alias principessa delle Bahamas) funge da punching ball per gli allenamenti del fidanzato, boxeur dalla libido spenta.
137A questo proposito gli anni Ottanta non dicono nulla di nuovo. Sul letto di Il disprezzo, infatti, Camille/Bardot si offriva non al tatto ma allo sguardo di un uomo che anziché stringerne la carne si accontentava di contemplarne l’immagine allo specchio. Limitarsi a guardare è esattamente ciò che, volenti o nolenti, fanno anche i personaggi maschili di Si salvi chi può… la vita e Je vous salue, Marie, soggetti di una contemplazione programmata nei minimi dettagli.
138Se i clienti di Isabelle obbligavano la prostituta a recitare personaggi di fantasie tanto erotiche quanto audiovisive («L’immagine va bene. Adesso facciamo il suono!»), Joseph (Je vous salue, Marie) sfogherà la sua frustrazione invitandoci a guardare assieme a lui la nudità di Marie come se ciò che stiamo per vedere lo vedessimo per la prima volta: «Adesso vado a vedere la padrona!».
139Ma che cosa si vede, in Godard, quando si guarda un corpo? La risposta forse è contenuta nella domanda che Isabelle pone al primo cliente nel momento in cui gli offre la sua nudità: «Ammirate il paesaggio?». Dunque ci si relaziona con il corpo come se fosse un paesaggio nel quale nessuno, tanto meno lo spettatore, può penetrare. Non esistono infatti raccordi in soggettiva sullo sguardo dei voyeur godardiani; possiamo solo guardare un uomo che guarda senza condividerne completamente la visione. Nel momento in cui diventa paesaggio, il corpo si offre allora come scarto, spazio esterno alla rappresentazione, infilmabile. Quello tra Isabelle e il suo cliente non è solo un incontro ottico, ma anche una sorta di finzione al quadrato. Personaggi di finzione fingono di fingere, ma la loro performance è in qualche modo amputata da un montaggio conflittuale: da un lato i corpi (attori/finzione), dall’altro il paesaggio, ovvero l’esterno giorno di una via di Rolle dove non succede nulla (figuranti/documentario). Finzione (corpi) e documentario (paesaggio) si scontrano senza possibilità di compromesso.
140Come ha notato Alain Bergala70, all’inizio della sequenza, nella stanza d’hotel, il montaggio sezionava in due parti anche il corpo di Isabelle: prima il sesso, contemplato da Monsieur Personne, e poi il volto, perso in un monologo interiore e anch’esso a sua volta separato dalla voce. Identica è la sorte che spetta al corpo mistico di Marie, incarnazione di una Passione che Myriem Roussel interpreta però secondo un canone performativo antitetico a quello di Isabelle Huppert. Dove Huppert leva, tratteggiando il martirio del personaggio con la maschera dell’indifferenza, Roussel aggiunge, rifiutando l’astrazione a favore della composizione. Ciò che illumina quello che Godard ha definito un «documento sulla parola» è a mio avviso proprio l’intensità di un corpo filmato in tutti gli stati, ovvero disteso, rannicchiato, seduto, in piedi, seminudo ma soprattutto nudo.
141Una nudità, questa, asessuata grazie all’utilizzo di modelli pittorici “alti”, atti a elevare, in una sorta di sineciosi postmoderna, la grazia proletaria di un volto che le Petites notes connotano come al contempo leonardesco e michelangiolesco. Myriem Roussel ha lo sguardo trasognante delle donne di Leonardo e la giovinezza della Vergine di Michelangelo. L’immagine cinematografica si conferma in questo cinema punto di arrivo èk-statico di un processo di montaggio. Si veda a questo proposito l’immagine del volto leonardesco (Testa di Madonna) sovrimpresso al primo piano dell’attrice qualche secondo prima che l’autore evochi, in qualità di exemplum, la tristezza gaia di Giulietta Masina (La strada, Federico Fellini, 1954 – figg. 25-26). Anche la composizione del personaggio appare dunque una questione di montaggio, una sorta di intervallo tra due stati dell’anima (e del corpo): il Dolore e la malinconia, la Grazia e l’innocenza. Come sempre, in Godard il cinema è il cinema; non solo Fellini, ma anche e soprattutto Rossellini. L’intuizione di Michelangelo, ovvero la fanciullezza della Vergine della Pietà, aveva infatti già ispirato “Roberto” (così Godard lo ricorda nel diario di JLG/JLG. Autoportrait de décembre) nella ricerca iconografica per Il Messia (1977): una vergine eterna bambina e dunque in grado di vincere il “nero del tempo”.
142Si diceva del montaggio. La figura dell’intervallo regola l’elaborazione dei principali modelli pittorici evocati in quella che, quanto meno nella parte centrale del film, appare davvero una sorta di Passione femminile. Come Isabelle (Passion) o Nana (Questa è la mia vita) Marie soffre, si lamenta, urla la sua solitudine. Da Schiele (le contorsioni nel letto: figg. 27-28) a Degas (il bagno nella vasca) sino a Mantegna (la posizione supina che omaggia il Cristo morto), Godard mescola sacro e profano alla ricerca di un’immagine che non sia né cinematografica né pittorica:
Se inquadrassi Roussel in primo piano diventerebbe Sophie Marceau o Annabella o Lillian Gish. Ma se la guardassi in piano medio, sarebbe come in tutta la pittura sacra. Dunque allora il cinema non esisterebbe. Bisognava dunque restare tra le due soluzioni di ripresa. E la cosa interessante del soggetto era questa: perché non si può essere vicini alla Vergine?71
143E invece numerosissimi sono i primi piani di Myriem Roussel, spesso però raccordati con la parte inferiore del corpo, come a ribadire la predilezione per questa “estetica dell’intervallo”. Si osservi per esempio l’inizio del pedinamento quotidiano della vergine. Marie sta stirando, gesto già provato due volte nel casting delle Petites notes. Questa volta però la messa in scena configura l’immagine del corpo secondo una dinamica diametralmente opposta. All’intero (il piano americano in long take), sono preferiti i frammenti, con un gioco chiastico A-B-A. Dal ventre, coperto da una maglietta a righe, passiamo al volto (fig. 29) e quindi di nuovo al ventre, accarezzato da una mano che scende timida verso il basso (fig. 30). Per il volto vale quanto abbiamo detto a proposito di Nathalie Baye o Maruscka Detmers: al volto-ordinario, vettore di identificazione spettatoriale e portatore di parola-testo, è preferito il volto opaco, dallo sguardo basso diretto verso un fuori campo impossibile da determinare. L’opacità dell’espressione è rafforzata dall’effetto straniante prodotto dalla voce over, che ci allontana da ciò che il volto dovrebbe mostrare, ovvero l’interiorità del personaggio.
144In questione è proprio la natura di questa “interiorità”: la voce diegetica è per Godard pura emissione corporea, senza alcun colore emotivo, sentimentale o psicologico.
145Consideriamo la sequenza della visita ginecologica. Prima di esplorare l’interno del ventre, il medico si avvicina alla ragazza e guarda all’interno della sua bocca, spazio che pure la cinepresa indagherà nell’ultima inquadratura. Così facendo, però, il medico blocca sul nascere l’atto del parlare, perché Marie in quel momento stava per rivolgere all’uomo una domanda. Una domanda che non verrà evasa:
Marie: «L’anima ha un corpo?»
Ginecologo: «Ma no, cosa dici! È il corpo che ha l’anima».
Marie: «Ho sempre creduto il contrario».
146La sequenza della visita è interessante in quanto contiene, in abisso, il nucleo del contrappunto immagine/parola. Alle insistenti domande del ginecologo, desideroso di un resoconto dei sintomi, la vergine risponde con un imperativo molto caro a Godard: «Regardez!» (Guardate). Dopo qualche secondo però l’uomo alza il volto e guarda nel vuoto. La visita è finita e lo spettatore non ha visto nulla in più di quanto la parola non abbia detto. Come Joseph o il ginecologo, anche noi dobbiamo credere alle parole e limitarci a guardare quello che l’immagine ci mostra, ovvero un semplice “divenire” del volto. Il ventre infatti resta off.
147Seduta sul lettino, Marie sposta continuamente i capelli sul viso proprio come faceva Anna Karina in Le petit soldat e, come sulla pelle dell’antica musa, anche qui nessuna palpitazione, nessun fremito, nessuna emozione. Myriem Roussel è sola e la materia del suo volto – al pari di quella di un’infelice eroina di Garrel – non è più «densa di grani luminosi, ma evoca la pietra porosa di cui sono fatti i sogni»72. Non a caso Jacques Aumont colloca Godard tra quei cineasti che, in antitesi alla scrittura empatica di Cassavetes, «fanno passare il volto filmato dall’esaltazione alla solitudine, senza abbandonare il registro comune, quello dell’angoscia. […] L’atto di filmare diventa una trappola, la cinepresa diventa una macchina infernale»73.
148Per agire però – Passion ce lo insegna – la «macchina infernale» ha bisogno di luce. E la luce di Godard non “va” sui volti ma “viene” dai volti o meglio dalle finestre davanti alle quali tutti i corpi femminili, da Carmen a Isabelle, da Eva a Marie, si fermano. C’è infatti sempre una finestra nei primi piani di questi anni e non a caso qualcuno ha parlato di Vermeer come modello di composizione scenica. La luce che filtra, però, è opaca e indifferente come l’espressione del volto che dovrebbe illuminare. Sia Nathalie Baye (Si salvi chi può… la vita) che Maruschka Detemers (Prénom Carmen) sono spesso colte nell’atto di guardare fuori, ma la cinepresa non ci mostra alcun paesaggio. E lo stesso accade in molti primi piani di Je vous salue, Marie. Perché il paesaggio che interessa è il volto e l’inquadratura, anziché offrirsi come finestra sul mondo, svela la sua natura metadiscorsiva: filmare un volto alla finestra significa non solo incrociare le traiettorie dello sguardo del personaggio con quelle dello spettatore, ma anche mettere in crisi la nozione di limen. Marie lo ripete spesso: essere caste significa «essere aperte a tutte le possibilità», possibilità che anche Denise inseguiva nella sua lotta «contro la ripetizione e il nulla». Per la sua configurazione scenografica e luministica però, la soglia godardiana ricorda molto i limen di Philippe Garrel, luoghi simbolici di «un impossibile rapporto con l’aperto»74. Da bambina ballava sul balcone, confine tra un interno finito e un esterno infinito (il lago Lemano). Ora invece Marie si avvicina alla finestra per leggere ad alta voce (i Fioretti di San Francesco) o parlare d’amore, proprio come fanno molte eroine di Garrel e in particolare un personaggio dal nome ormai familiare, ovvero Hyppolite (Voyage dans le jardin des morts, 1978). Oltre la soglia però, nessuna apertura. Perché Marie in fondo è essa stessa limen, corpo sospeso tra il terreno e il divino, e conteso tra lo sguardo e il tatto.
149Anziché scolpirne i tratti, la luce si limita ad accarezzare i capelli permettendo al profilo di stagliarsi sullo sfondo e lasciando la sensazione, a chi guarda, di contemplare una superficie refrattaria a qualunque scrittura. Se la finestra non “apre” sul mondo, nemmeno il volto lo fa, offrendosi invece come superficie opaca, scivolosa ed enigmatica.
Prénom Eva
150Enigmatico è anche lo sguardo di Eva. Nel concentrarci sul personaggio di Marie abbiamo trascurato colei che, come Claire in Prénom Carmen, funge da doppio della protagonista, contrappunto dissonante e in quanto tale essenziale alla struttura musicale del racconto. Anche in questo caso, il prénom è importante. Il docente di scienze sbaglia nel nominarla e lei lo corregge: «Il mio nome è Eva, non Eve». Quando la vediamo per la prima volta, Eva è appoggiata alla finestra della sua aula, il profilo destro inondato di luce.
151Lo diceva Denise: le storie secondarie illuminano quelle principali e anche questo è il caso. Il caschetto biondo e le forme rotonde, Eva è l’antitesi culturale, morale, cromatica e morfologica di Marie. Eppure, in uno spazio adiacente a quello della storia principale, ella compie gesti simili a quelli del suo alter-ego (e di altre eroine degli anni Ottanta): solleva lo sguardo verso il cielo, proteggendosi gli occhi con la mano e poi li abbassa, portando entrambe le mani al volto, come per sottrarsi alla dinamica di situazioni ottiche che la avvolge. Analizziamo la sequenza della lezione di fisica en plein air, che Godard monta in parallelo con i primi turbamenti di Marie. Eva siede sulla riva di un lago con altri studenti. Non sappiamo non solo che cosa pensa ma nemmeno cosa guarda, perché il montaggio inserisce il suo volto tra le cose, o meglio tra differenti “volti” dell’elemento naturale più vicino, per analogia iconica, al volto umano. Sole e volto sono l’ennesima variazione plastica sul tema del cerchio, inaugurata dalla catena di associazioni occhio/uovo/pallone/ventre. “Accanto” al volto di Eva si alternano, nell’ordine, un sole coperto da una nuvola, un sole nascosto dalle fronde e un sole cadente, basso all’orizzonte. Se il sole simboleggia la luce – conditio sine qua non per la creazione tanto artistica quanto biologica –, elementi quali nuvole o fronde rappresentano i limiti insiti non solo in ogni visione, ma anche in qualsivoglia rappresentazione del visibile. Eva guarda fuori campo, ma non dice ciò che vede. Non è possibile stabilire chi guarda cosa. Godard confonde i raccordi di sguardo in modo tale che le sue immagini “pensino” una teoria del visibile non distante da quella elaborata da Merleau-Ponty75, referenza citatissima anche nelle opere degli anni Duemila. Così filmata e configurata all’interno del quadro, infatti, la luce non appare strumento di visione e neppure oggetto, ma soggetto vedente. L’occhio umano non può controllare né organizzare questo visibile poiché, in quanto guarda, esso è già guardato. In questo caso il destino di Eva non è diverso da quello di Jerzy: guardare non significa vedere, ma cercare.
152Mentre il montaggio alterna strati del visibile, la parola prende una direzione parallela, vicina e al contempo lontana dalla materia visiva. Seduto tra i suoi studenti, il professore illustra la sua teoria cosmologica:
Professore: Chissà se [i nostri discendenti] decideranno di trasmettere il segreto dell’origine…
Eva: Ma può darsi che ci sia precluso leggere il codice.
Professore: Ah sì, ma questa voce che arriva al fondo della tua coscienza, che si fa sentire dai più attenti, avverte che sei nata da qualcosa, altrove, nel cielo. Cerca, e troverai molto più di quanto immagini.
153Forse mossa dalla «voce» di cui parla l’uomo, Eva apre la bocca e la tiene spalancata per qualche secondo, iterando la postura mantenuta da Marie durante l’Annunciazione. Allo stesso modo in cui la luce, anziché illuminare, produce alterazioni della visione nel vedente, l’ascolto della parola provoca afasia nello soggetto della percezione.
154Anche Eva, dunque, deve trovare la sua voie e anche questa volta si tratta di una voix. La ragazza la cerca nell’amore, ma non riesce a leggere il volto dell’amato e quindi gli rivolge una domanda già ascoltata molte volte in questo cinema: «A quoi tu penses?»76.
155L’immagine di Godard, lo abbiamo visto, pensa offrendo al nostro sguardo non un «mondo che si accorda ai nostri desideri» (Il disprezzo)77, ma volti opachi o, come in questo caso, filmati di spalle e protetti dalla penombra. Anziché rispondere, l’uomo pronuncia senza alcun colore emotivo l’ennesima sentenza, funzionale solamente a rinnovare il leitmotiv dell’Annunciazione, ovvero l’ambiguità della parola:
Professore: «Il me semble que la politique ne peut être que la voie/voix de l’horreur»
Eva: «La voie/voix? Le chemin ou la parole?
Professore: «La parole de l’horreur»78.
156No. Eva non sa ciò a cui l’amato pensa, e forse un giorno, come Marie, anche lei troverà la sua parola. Per ora, però, sul suo corpo nudo e impuro (sigaretta nella bocca e postura disinvolta) scivolano solo le parole di Marie, o meglio le parole lette in voce over da Marie: «Credo che lo spirito agisca sul corpo, lo trasfiguri e lo copra di un velo che lo fa apparire più bello di quanto non sia. Cos’è dunque la carne in se stessa? Possiamo guardarla e non provare che disgusto».
157Questo fa Godard: guarda la carne di Eva e Marie e ce la restituisce sollevata da ogni codificazione erotica e soprattutto raggelata in interni notturni, alla pallida luce di lampade molto simili a quelle che illuminavano l’infelice Hyppolite di Baudelaire, eroina della piccola Marie: «À la pâle clarté des lampes languissantes / Sur de profonds coussins tout imprégnés d’odeur / Hippolyte rêvait aux caresses puissantes / Qui levaient le rideau de sa jeune candeur»79.
Il rossetto
158Come Isabelle (Passion), vergine sedotta e abbandonata80, Marie non cerca il piacere, ma non vuole nemmeno farsi sopraffare dal dolore («Il dolore non mi avrà in una volta»). A differenza di Isabelle, a cui la balbuzie conferisce una sorta di “grazia”, Marie ha il controllo completo della parola. Con la parola, sorretta da una dizione impostata, illustra in voce off i suoi stati d’animo e i suoi propositi; con la parola allontana Joseph e al contempo lo rassicura del suo amore, non potendolo fare attraverso il corpo. Noi sappiamo a cosa pensa perché, più ancora che in Questa è la mia vita, il pensiero qui è non solo “detto”, ma anche analizzato: «Noi parliamo la sua parola. Come potremmo essere cosi vicini alla sua Parola se non la parliamo?».
159Basterebbe questa battuta per evidenziare come, al di là degli spunti offerti dal testo di Dolto, Je vous salue, Marie non è solo un film sul mistero dell’Origine quanto una riflessione sul confine incerto che separa le parole dalle cose e l’atto del parlare da quello di vedere. Joseph, per esempio, non crede alla Parola e, come l’autore, deve vedere. Tutto quello che Marie può concedergli è allora la visione del suo sesso, ma la visione genera pulsione e deve intervenire l’Angelo per evitare il peggio.
160L’inquadratura finale invece, ovvero quel dettaglio della bocca di Myriem Roussel a cui abbiamo accennato sopra, non ha generato pulsioni, ma svariate interpretazioni. La presenza di un personaggio di nome Freud (il ginecologo) autorizza l’ermeneuta a leggere nella metafora del rossetto che la ragazza avvicina alla bocca una parodia della dottrina freudiana. Questo rossetto, del resto, è un fallo impotente in quanto non penetra l’orifizio di Marie, ma si limita a disegnarne i contorni.
161Rivediamo la sequenza.
162Esterno giorno. Marie e Joseph hanno appena salutato il piccolo Jésus, scappato verso il bosco durante un caldo pomeriggio d’estate dopo aver affermato: «Je suis celui qui est». La dominante verde del paesaggio naturale cede il passo a una bicromia bianco-grigio. Inclinata dall’alto verso il basso, la cinepresa fissa l’asfalto e registra il passaggio di due corpi, di cui solo più tardi conosceremo l’identità: Marie e Gabriel. Di entrambi intravediamo solo le gambe: quelle della Vergine sono nude, mentre l’Angelo indossa calzoni e scarpe blu. I due corpi attraversano la carreggiata da destra verso sinistra, dirigendosi fuori campo verso una destinazione ignota, senza rispettare la direzione delle frecce bianche dipinte sull’asfalto.
163L’estetica del frammento raggiunge forse uno dei risultati più lirici del decennio. Godard abbandona lo schema compositivo del tableau vivant e si limita a filmare quello che c’è tra i corpi, ovvero le palpitazioni colorate di un mondo che scorre indifferente davanti alla cinepresa. Un mondo privo di parole e composto di corpi, auto, vento, luce, colori.
164Queste pulsazioni audiovisive, le stesse che davano al giovane Godard la «sensazione di esistere»81 di cui sopra, costituiscono uno spazio tanto eccentrico quanto quello della Ronda di notte rifatta in Passion. Anche qui ci sono “buchi” e spazi riempiti male, o meglio svuotati di tutto ciò che abbiamo visto sinora, ovvero la carne fragile della Vergine. «Io non sono nulla – diceva Jerzy in Passion – osservo, trasformo, trasferisco». Godard qui fa proprio questo: osserva un gesto mille volte filmato negli anni Sessanta, ovvero la camminata urbana, e lo trasforma in qualcosa d’altro, qualcosa che non imiti necessariamente il vero, ma che nemmeno si ponga in contraddizione con esso. Liberati dal compito di veicolare un’emozione, gli attori sono filmati per quello che sono: macchie di colore bianco (Marie) e blu (Gabriel) su uno sfondo bianco e giallo.
165Forse, come ha suggerito Alain Bergala, queste inquadrature urbane rinviano nostalgicamente allo spazio «senza dolore» di Tati82. Di certo qui la cinepresa è volta verso una direzione opposta a quella da cui, nel 1979, tutto era cominciato. Dalle panoramiche aeree di Si salvi chi può… la vita siamo passati a una plongée, immobile, sull’asfalto. Godard, insomma, abbassa lo sguardo, come se per vedere fosse necessario non guardare: non a caso presto affiderà la propria pellicola a una montatrice cieca (JLG/JLG Autoportrait de décembre).
166Anche Marie, dopo essere stata raggiunta dal saluto di Gabriel, abbassa lo sguardo. Sola nella sua auto, una sigaretta tra le dita, reclina la testaall’indietro per assaporare il calore del sole attraverso il finestrino. La cinepresa ne scruta quella che è indubbiamente la parte del volto prediletta in questi anni, ovvero il profilo: pensiamo ai ritratti di Isabelle Huppert al suo posto di lavoro (Passion) o di Maruschka Detmers e Nathalie Baye davanti alla finestra (Prénom Carmen, Si salvi chi può… la vita). La scelta di questa angolazione mette in crisi la nozione stessa di primo piano. Filmare un volto di profilo, infatti, significa ancora filmare l’anima che vi è dietro (Le petit soldat)? O non è forse un modo per evidenziare l’opacità di uno spazio, quello del volto, che Godard pone al confine tra i due poli suggeriti da Deleuze, il riflessivo (Griffith) e l’intensivo (Ejzenštein)83?
167Marie pensa a qualche cosa, ma non sappiamo cosa. Mediante una serie di raccordi sull’asse la cinepresa si avvicina al fine di cogliere le increspature di un paesaggio che però, pur filmato come «superficie riflettente», non riflette nulla se non – per dirla con Deleuze – la propria «volteità». I contorni voltificanti, infatti, sono lentamente distrutti, inquadratura dopo inquadratura. Il volto di Marie si rivela allora un volto che sente: sente, probabilmente, un misto di paura e trepidazione davanti a quel rossetto che simboleggia il suo ingresso in una femminilità prima proibita. Ma suddetta intensità non è espressa mediante una qualità intensiva della mimica (si pensi ai volti di Ejzenštejn analizzati da Deleuze), bensì per mezzo di una sfigurazione operata prima dal punto di vista e poi dal montaggio.
168Si considerino le ultime due inquadrature: un piano ravvicinato del profilo con il fuoco decentrato sulla destra (fig. 31) e un dettaglio della bocca aperta, tesa, mossa da un impercettibile spasmo muscolare (fig. 32). Non so se, come ha suggerito Alain Bergala, Godard abbia voluto «affrontare l’oscenità con un gesto filmico di una violenza ancor maggiore»84. Al di là della metafora sessuale – la bocca come simbolo di un sesso aperto e finalmente disponibile –, mi sembra qui evidente l’eco di uno dei più celebri dettagli s-figurativi di questo cinema, ovvero la tazzina di caffè di Due o tre cose che so di lei, vertice di una sequenza già citata nel capitolo 1. Il volto umano, ovvero l’epicentro della configurazione del quadro nel cinema classico, appare qui decostruito in un’immagine che Paolo Bertetto definirebbe «non strutturata, caotica, acentrata e asignificante»85. In realtà l’informale qui non c’entra, e nemmeno il figurale: questa pratica decostruttiva significa qualcosa e questo qualcosa è la disarmonia tra Io e mondo.
169Come Marina/Juliette, anche Marie sente il bisogno di recuperare un’armonia tra sé e il mondo che la circonda. Per farlo, come abbiamo visto, deve prima trovare il suo cammino (voie) e suddetto cammino passa certo attraverso la parola (voix), ma anche e soprattutto attraverso lo sguardo. Quello stesso sguardo che, vent’anni prima, trasformava una tazzina di caffè in una galassia sterminata e oscura, nera come questa bocca aperta e muta.
170Marie ascolta e guarda «intorno a sé il mondo», ma fatica a riconoscerlo come «suo simile, suo fratello». Anche se non parla, le sue domande però sono probabilmente sempre le stesse, quelle suggerite vent’anni prima dalla voce-over di Godard: «Dov’è l’inizio? L’inizio di cosa? Dio creò il cielo e la terra, certo. Ma cosa posso dire di più?».
Potenza delle cose
171Forse di più non è possibile dire. Per questo il dr. Freud tace dopo aver ispezionato il ventre di Marie, il cui concepimento è frutto di una Parola più potente di quella a cui Godard dedica, tre anni dopo, un breve ma densissimo86 saggio, commissionato da France Telecom. Ispirato alla novella omonima di Poe (The Power of Words, 1845) ma anche a Defence, un racconto fantastico di Alfred Von Vogt (1947), Puissance de la parole conferma la vena nostalgica di questi anni Ottanta e anticipa i divertissement combinatori del decennio successivo.
172Ancora una volta non la storia interessa – ammesso che di “storia” si possa parlare – ma la forma della sua percezione. Una percezione che in questo caso si manifesta come «video-vibrazione»87. Sommerso da uno choc di suoni e immagini incrociate come impulsi sonori nella rete telefonica, lo spettatore fatica a seguire il filo di una vicenda come al solito divisa in due: da un lato la conversazione telefonica tra due ex fidanzati, dall’altro la ripetizione di un topos di questo cinema, ovvero il dialogo – non più mediato, ma de visu – tra un filosofo e una ragazza. Se i dialoghi della coppia “telefonica” sono attinti a un cinema che, come questo amore, non c’è più (The Postman Rings Always Twice [Il postino suona sempre due volte, Tay Garnett, 1946]), il tema della discussione in riva al lago riprende, con le opportune variazioni, il dialogo filosofico Oinos e Agathos, i due angeli di Poe.
173Dall’Angelo agli angeli, il cerchio si chiude. Al cuore della discussione, infatti, è ancora il mistero della creazione, risolto da Agathos con una tesi non dissimile da quella esposta, in Je vous salue, Marie, dall’amante di Eva:
La divinità non crea. Solamente all’inizio egli creò. Le illusorie creature che ora, in tutto l’universo, balzano improvvisamente in essere possono unicamente considerarsi risultato mediato e indiretto, non già diretto e immediato, del Divino potere creativo88.
174In un determinato momento nel tempo («En ce temps là»), un’intelligenza ordinatrice dunque ha agito, come un Big Bang metafisico. Ma la creazione, ora, è un affare tutto umano. Una questione di impulsi, di particelle, di parole:
Agathos: Ti ho parlato, Oinos, come a un fanciullo della vaga terra recentemente perita; degli impulsi sulla sua atmosfera.
Oinos: È così.
Agathos: E mentre in tal modo io parlavo, la tua mente non è stata attraversata da un pensiero sul potere fisico delle parole? Forse che ogni parola non trasmette un impulso all’aria?
175Oinos – che nel frattempo Godard ha trasformato in una donna, M.lle Oinos – è stupito, proprio come Eva. Pensava, in quanto beato, di possedere tutta la conoscenza, allo stesso modo in cui Jerzy si illudeva che nella quiete del set avrebbe facilmente trovato la luce atta a trasformare un’immagine ordinaria (giusto un’immagine) nell’immagine giusta. E invece tutti, da Oinos a Marie, da Joseph a Carmen, devono cercare, «trovare l’apertura», come dice Jerzy.
176Che cosa intende Jerzy per apertura? Come ha suggerito Rinaldo Censi89, il concetto di «apertura» sembra evocare uno dei capisaldi di questa estetica, ovvero la nozione di “TRA”, l’intervallo aperto dal montaggio a cui abbiamo accennato sopra e sul quale ritorneremo. Alle soglie degli anni Novanta, dunque, Godard conferma di non aver modificato l’orizzonte della sua ricerca, che è sempre lo stesso, quello verbalizzato per iscritto sulle pagine dei «Cahiers» (Montage, mon beau souci): riconciliare regia e montaggio. Non basta insomma trovare l’«apertura» sul set, perché l’immagine non sarà mai forte senza il «battito di cuore» del montaggio, battito di cui Puissance de la parole restituisce pulsazioni, vibrazioni e ritmo. Se le parole tradiscono, insomma, l’unico modo per comunicare è utilizzarle come cose, ovvero in virtù della loro qualità intensiva.
177«Bisogna cercare», diceva Jerzy. Carmen e Marie hanno cercato la loro parola, nella speranza che essa potesse permettere di stabilire un legame con le cose. Per dare un nome alle cose hanno dovuto prima ascoltare il loro rumore: il vociare dei gabbiani, lo sciabordio delle onde del mare, l’eco del traffico in lontananza. «Dans Marie il y aimer», dice la madre della protagonista in Le livre de Marie. Ma dell’amore, tanto a Marie quanto a Carmen non resta che l’ombra di un’ombra: per questo Carmen ammette di «aver fatto della solitudine la propria compagna». Se Marie riflette senza trovare risposta al dubbio che la tormenta («L’anima ha un corpo o il corpo ha un’anima?»), Carmen coglie l’attimo ben sapendo che il suo destino è già scritto e che il mondo – come ha scritto Giraudoux – non appartiene agli innocenti.
178Le parole, infatti, «uniscono attraverso ciò che esprimono e separano per quello che omettono» (Due o tre cose che so di lei) ma, come ha dimostrato Merleau-Ponty, restano per ora l’unico strumento mediante cui noi ci appropriamo del nostro pensiero e conferiamo senso agli oggetti90. Alle due (anti)eroine allora, elevate verso l’essere e al contempo schiacciate contro il nulla, non resta che condividere la speranza confidata, all’inizio di Grandeur et décadence, dal produttore Almereyda a un regista di nome Bazin: «Credete che un giorno potremo cessare di dire le cose e che potremo finalmente vederle, invece di dirle, queste povere vecchie cose?».
Notes de bas de page
1 Per la nozione di modernità si veda Giorgio De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, cit.
2 Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, tr. it. Editori Riuniti, Roma, 1982.
3 Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., p. 211.
4 Cfr. Jacques Aumont, A cosa pensano i film, tr. it. ETS, Pisa, 2007.
5 Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., pp. 212-213.
6 «Che cosa stiamo cercando? Dimmi il suo nome! Niente nomi, niente battute, nessuna storia… perché? Mi risponda».
7 Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 38.
8 Ivi, p. 39.
9 Quello di filmare la musica al lavoro è un progetto confessato dall’autore molti anni prima: «E siccome di colpo senti la musica, ho sempre voglia di fare una panoramica o un carrello, se fosse possibile, per andare a scoprire l’orchestra che sta suonando». (Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., p. 242).
10 Jean-Luc Godard citato in Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, cit., p. 168.
11 Per un’analisi approfondita della questione musicologica, in particolare delle simmetrie tra Una donna sposata e Prénom Carmen, rimando a Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, cit., pp. 58-64.
12 Éric Rohmer, De Mozart à Beethoven, essai sur la notion de profondeur en musique, Acte sud, Arles, 1996, pp. 233-234.
13 Jacques Aumont, A cosa pensano i film, cit., p. 254.
14 Compositore e musicologo, collaboratore, tra gli altri, di Alain Robbe-Grillet, Michel Fano è forse il più acuto tra quelli che hanno cercato di decriptare la struttura musicale di Prénom Carmen. Si veda l’analisi pubblicata in http://www.michelfano.fr/Textes/P_Carmen_Analyse.html.
15 Jean-Luc Godard in Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, cit., pp. 59-60.
16 Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., p. 175.
17 Si veda Jacques Aumont, L’occhio interminabile, cit.
18 Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it. Rizzoli, Milano, 1967; 1990, pp. 7-8.
19 In questo caso si tratterà del Grand Hotel Concorde Saint Lazare.
20 Jean-Luc Godard in Alain Bergala, Pascal Bonitzer, Serge Toubiana, La guerre et la paix, «Cahiers du cinéma», 373, 1985.
21 Sul problema del colore in Godard si vedano in particolare Luca Venzi, Godard, gli anni Karina e il colore, «Predella», 31 (http://predella.arte.unipi.it/); Jean-Louis Leutrat, Godard’s tricolor, in David Wills (a cura di), Jean-Luc Godard’s Pierrot le fou, Cambridge University Press, Cambridge, 2000, pp. 64-80; Alain Bergala, La couleur, la Nouvelle Vague et ses maîtres des années cinquante, in Jacques Aumont (a cura di), La couleur en cinéma, Cinémathèque Française-Mazzotta, Paris-Milano, 1995, pp. 133-134; Federico Pierotti, La seduzione dello spettro. Storia e cultura del colore nel cinema, Le Mani, Recco, 2012, pp. 229-231. Interessante, e aperta sulla produzione più recente, la ricerca di Roberto Lai, Il colore nel cinema di Jean-Luc Godard, Tesi di Dottorato in Estetica e Teoria delle arti, XXI Ciclo, relatore Salvatore Tedesco (Università degli Studi di Palermo, a.a. 2009-2010).
22 Cfr. Sergej M. Ejzenštejn, Da una ricerca incompiuta sul colore (1946) in Id., Opere scelte in sei volumi, 1963-1970, vol. III, tr. it. Il colore, a cura di Pietro Montani, Marsilio, Venezia, 1989², in particolare pp. 35-42.
23 Alessia Cervini, Sergej M. Ejzenštejn, L’immagine estatica, EDS, Roma, 2006, p. 118. Sulla celebre sequenza a colori di Ivan Groznyj II: Bojarskij (La congiura dei boiardi, Sergej M. Ejzenštejn, 1958) e sulle affinità teoriche con la ricerca di Godard si veda anche Luca Venzi, Volto, colore, emozione. A proposito di Pierrot Le fou, in Giorgio De Vincenti, Enrico Carocci (a cura di), Il cinema e le emozioni. Estetica, espressione, esperienza, Edizioni EDS, Roma, 2012, pp. 221-236.
24 Luca Venzi, Godard, gli anni Karina e il colore, cit.
25 Ibidem.
26 Luca Venzi, Volto, colore, emozione. A proposito di Pierrot le fou, cit., p. 233.
27 Marc Cerisuelo, Jean-Luc Godard, Lherminier, Paris, 1989, p. 218.
28 Per un approfondimento delle questioni tecniche relative all’illuminazione si veda Jean-Paul Beauviala, Jean-Luc Godard, Genèse d’une camera, «Cahiers du cinéma», 348, 1983, pp. 94-111, e 350, 1983, pp. 45-61.
29 Ancora una volta il colore è impresso sugli abiti: la donna morta ha calze bianche e un vestito rosso, mentre azzurro è il camice della donna delle pulizie.
30 «Quando si corre in macchina per Parigi di notte che cosa si vede? Semafori rossi, verdi, gialli. Ho voluto mostrare questi elementi, ma senza disporli per forza come sono nella realtà. Piuttosto come restano nel ricordo: macchie rosse, verdi, gialle». (Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 91).
31 Com’è noto, molti degli scritti di Beethoven ci sono giunti grazie a trascrizioni di seconda e terza mano, in quanto gran parte delle riflessioni erano annotate su fogli sparsi, piccoli quaderni, calendari domestici o addirittura sul retro degli schizzi musicali. Godard si è affidato soprattutto ai Quaderni di conversazione (Konversationshefte), citando in particolare il testo 103. Per un approfondimento rimando a Luigi Magnani, I quaderni di conversazione di Beethoven, Einaudi, Torino, 1975.
32 Questa almeno è la lettura suggerita da Jacques Aumont, A cosa pensano i film, cit., p. 253.
33 Mai come in questi anni Godard mette in scena se stesso e soprattutto il suo corpo al lavoro: la mano e il volto su uno schermo bianco (Scénario du film Passion), la voce durante la direzione degli attori (Petites notes à propos de Je vous salue, Marie).
34 Jacques Aumont, A cosa pensano i film, cit. p. 256.
35 Roberto Chiesi, Godard nell’isola dei morti, «Cineforum», 433, aprile 2004, pp. 38-49.
36 «Se ti parlo del tempo, è perché esso non è ancora. Se ti parlo di un luogo, è perché è sparito. Se ti parlo del tempo, è perché esso non è più» (voce narrante in Dans le noir du temps).
37 Non è un caso se, nella sua recente monografia, David Sterrit sceglie di analizzare Je vous salue, Marie come testo esemplare degli anni Ottanta, soffermandosi in dettaglio su Le livre de Marie e dedicando solo poche righe ai lungometraggi precedenti (David Sterrit, Seeing the Invisible. The Films of Jean-Luc Godard, cit., pp. 161-180). Oltre all’analisi testuale, Sterrit riassume in modo sufficientemente esauriente il clima di avversione che accolse l’uscita del film in Francia e in Italia.
38 Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit., p. 219.
39 «Ho sempre fatto storie d’amore e di coppie. E mi sono detto: “Forse devo cambiare, da tanto tempo faccio film su giovani donne, posso andare a vederne una delle prime, una di cui ci si ricorda ancora”». (Jean-Luc Godard, «Révolution», 1 février 1985, tr. it. in Roberto Turigliatto [a cura di], Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema, cit., p. 191).
40 Ibidem.
41 Jean-Luc Godard, Pierrot amico mio [1965], tr. it. a cura di Adriano Aprà, Il cinema è il cinema, cit., pp. 232-253.
42 Françoise Dolto (interpellée par Gérard Sévérin), L’évangile au risque de la psychanalyse, Jean-Pierre Delarge, Paris, 1977, p. 13. Nostra traduzione.
43 Cfr. Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., pp. 173-178.
44 Jean-Luc Godard, Pierrot amico mio, cit., p. 233.
45 Ibidem.
46 Ivi, p. 22-23.
47 Françoise Dolto, L’évangile au risque de la psychanalyse, cit., p. 23. Nostra traduzione.
48 Ivi, p. 25. Nostra traduzione.
49 Alcune migrazioni hanno origini antiche. In Prénom Carmen, per esempio, viene citato un frammento dell’Elettra di Giraudoux, dramma a cui Godard aveva però già attinto trent’anni prima, in un articolo sui «Cahiers du cinéma» del febbraio 1959.
50 Cfr. Bamchade Pourvali, Godard neuf zéro. Les années 90 de Jean-Luc Godard, cit., pp. 40-43.
51 «Ti amo totalmente, teneramente, tragicamente».
52 Singolare è infatti la messa a nudo di questo sex-symbol. Anziché affidarsi al découpage, come faceva il cinema classico, Godard lascia che siano le insorgenze di colore e la voce della diva a sezionare le parti anatomiche («Mes seins, ma poitrine, mes fesses» ecc.). La cinepresa, nel frattempo, compie su questa carne movimenti laterali simili a quelli eseguiti da alcuni personaggi (Francesca e Camille per esempio), movimenti di andata e ritorno e dunque movimenti doppi, vuoti, vani (cfr. Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard simple comme bonjour, cit., pp. 168-169).
53 Cfr. Alain Bergala, Hélas pour moi ou de legères corrections au présent, in Nul mieux que Godard, Éditions Cahiers du cinéma, Paris, 1999, pp. 171-174.
54 David Sterrit, Seeing the Invisible, cit., p. 170.
55 Françoise Dolto, L’évangile au risque de la psychanalyse, cit., p. 45.
56 Charles Baudelaire, Femmes damnées, in Les Fleurs du mal, LXXXI, Booking International, Paris, 1993, p. 107.
57 La natura sonora di questa epifania è stata colta anche da Pier Paolo Pasolini che, nel suo Vangelo secondo Matteo (1965), lascia la cinepresa sul volto dell’angelo solo il tempo sufficiente a far scivolare sullo schermo le parole dell’evangelista.
58 «Per me il basket era il corpo. Mi sembrava giusto mettere della musica classica. L’archetipo è Bach, conosciuto in tutto il mondo. È il solo musicista che si può eseguire in un senso e nel senso inverso, produce quasi sempre lo stesso suono». (Jean-Luc Godard, «Le monde», 14 Janvier 1985).
59 Cfr. Michel Chion, Un’arte sonora, cinema (2003), tr. it Kaplan, Torino, 2007.
60 Johannes Ehrat, Cinema and Semiotic: Peirce and Film Aesthetics, Narration and Representation, University of Toronto Press, Toronto, 2005, p. 269. Nostra traduzione.
61 Alain Bergala, Nul mieux que Godard, cit., p. 158. Nostra traduzione.
62 «Per Godard l’annunciazione è una scena che si gioca tra le apparenze (Maria immutata agli occhi di Giuseppe) e le essenze (Maria trasfigurata dall’annuncio)» (Ibidem).
63 «Vous avez une fille qui s’appelle Marie? Nom de Dieu!».
64 Per la nozione di motivo come figura rimando a Jacques Aumont, A cosa pensano i film, cit.
65 «“On ne peut ici-bas contenter qu’un seul maître!” Mais l’enfant, épanchant une immense douleur, Cria soudain: “Je sens s’élargir dans mon être Un abîme béant; cet abîme est mon coeur!» (Charles Baudelaire, Femmes damnées, in Les Fleurs du mal, cit.).
66 «Sii pura, sii dura, non cercare che il tuo cammino (la tua voce)».
67 «La mia via? Il mio cammino o il suono della mia voce?».
68 Come ha osservato Alain Bergala, «Godard fissa la sua interprete in posture tipiche del tableau-vivant, che corrispondono ad alcuni degli stati codificati in cui la pittura rinascimentale ha ritratto l’Annunciazione» (Alain Bergala, Nul mieux que Godard, cit., p. 161).
69 Si veda in particolare Alain Bergala, Le nu chez Godard, in AA.VV., Une encyclopédie du nu au cinéma, Éditions Yellow Now, Studio 43, MFC Terre Neuve, Dunkerque, 1994 e Laura Mulvey, Images of Women, Images of Sexuality: Some Films by J.-L. Godard, in Visual and Other Pleasures, Indiana University Press, Bloomington, 1989.
70 Cfr. Alain Bergala, Nul mieux que Godard, Cahiers du cinéma, Paris, 1999, pp. 132-133. Bergala evidenzia la scelta, da parte di Godard, di filmare una scena di sesso da un punto di vista opposto a quello per il quale la scena è stata preparata e concepita: se la disposizione dei corpi rimanda a un fantasia sessuale maschile (il dominio), l’articolazione del montaggio rispecchierebbe invece il punto di vista del personaggio femminile. Questo al fine di ridurre quanto più possibile il coinvolgimento erotico dello spettatore.
71 Jean-Luc Godard in Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit., p. 76.
72 Jacques Aumont, Du visage au cinéma, cit., p. 137. Nostra traduzione. Aumont si riferisce all’utilizzo che Garrel fa del volto di Jean Seberg in Les hautes solitudes.
73 Ibidem.
74 Rosamaria Salvatore, Traiettorie dello sguardo. Il cinema di Philippe Garrel, cit., p. 175. Da Voyage dans le jardins des morts (1976) a Le vent de la nuit (1999), le eroine di Garrel sono filmate spesso in controluce, davanti a superfici opache da cui penetra una luce indifferente, priva di forza drammatica.
75 Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1965, pp. 400-408.
76 Così si rivolge non solo Bruno Forestier alla sua modella in Le petit soldat, ma anche Paul (Jean-Pierre Léaud) a Madeleine (Chantal Goya) all’inizio di Il maschio e la femmina. La ragazza però risponde con un’altra domanda, chiedendo al corteggiatore qual è per lui il centro del mondo. Paul non ha dubbi e dà una risposta simile a quella che fornirebbe anche Eva: il centro del mondo è l’amore.
77 Questa frase, attribuita volontariamente da Godard ad André Bazin, appartiene in realtà a Michel Mourlet (Sur un art ignoré, «Cahiers du cinéma», 98, 1959). Non a caso il nome di Mourlet compare nei “titoli di coda” del primo tomo delle Histoire(s) du cinéma edite da Gallimard.
78 «Mi sembra che la politica non possa essere che la “voix” dell’orrore? / La “voix”? La parola o il cammino? / La parola dell’orrore».
79 Charles Baudelaire, Femmes damnées, cit., p. 104.
80 È lei stessa a (re)citare il celebre passo del Vangelo: «Mio Dio, Mio Dio! Perché mi hai abbandonata?».
81 Jean-Luc Godard, Pierrot amico mio, cit., p. 233.
82 Cfr. Alain Bergala, Nul mieux que Godard, cit., p. 119.
83 Cfr. Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, cit., pp. 109-119.
84 Alain Bergala, Nul mieux que Godard, cit., p. 120.
85 Paolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, cit., p. 55.
86 Come ha ricordato Luc Moullet, non basterebbero sessantanove visioni per comprendere la ricchezza di questo film (cfr. Luc Moullet, Le film cosmique, «Bref», 68, Septembre-Octobre 2005, pp. 38-39.
87 Cfr. Philippe Dubois, Video Thinks What Cinema Creates, in Raymond Bellour, Mary Lea Bandy, Jean Luc Godard: Son + Image, MoMa, New York, 1992, pp. 169-185.
88 Edgar Allan Poe, Potenza della parola, in I racconti, Einaudi, Torino, 2009, pp. 594-597. Traduzione di Giorgio Manganelli.
89 Cfr. Rinaldo Censi, The Source of Motion Is Thought (Note su Puissance de la parole), in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema, cit., pp. 149-156.
90 Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., pp. 244-270.
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L'immagine e il nulla: l'ultimo Godard
Ce livre est cité par
- Surace, Bruno. (2019) Il destino impresso. DOI: 10.4000/books.edizionikaplan.2115
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