Capitolo 1
L’infanzia dell’immagine (Si salvi chi può... la vita; Passion)
p. 19-61
Texte intégral
Qualcosa nel corpo e nella testa
si inarca contro la ripetizione e il nulla.
Jean-Luc Godard, Si salvi chi può… la vita
1«Non c’è nulla che io ami di più delle storie. Mi hanno detto che le distruggevo. Ci ho messo vent’anni per farmi avanti, per riuscire a ricominciare»1.
21979. A quasi 50 anni, più di trenta opere all’attivo tra lungometraggi, cortometraggi e video, Godard dunque ricomincia. E lo fa innanzitutto a partire da un luogo, Rolle, scelto non solo per ragioni autobiografiche. Nella campagna svizzera Godard riesce a fare ciò che non gli riusciva più a Parigi: guardare. Guardare persone, animali, fenomeni naturali e industriali, ovvero un patrimonio del visibile difficile da ritrovare nella metropoli:
In una strada di Parigi ci sono molte meno cose rispetto all’epoca della Nouvelle Vague. Non ci sono più animali, ad esempio. Se voglio filmare un cavallo, a Rolle posso farlo. Se voglio filmare una ragazza innamorata, posso fare anche questo. C’è semplicemente una scelta più ampia di soggetti e una possibilità umana di raggiungerli2.
3Filmare, dunque, è ancora «raggiungere» qualcosa che si muove, ovvero fare ciò che Godard fa da sempre: vedere prima di scrivere, pedinare corpi o auto in modo tale che il loro semplice spostamento nello spazio lasci intravedere ipotesi di altre storie possibili. Esemplare in questo senso è il primo camera-car di Fino all’ultimo respiro, con gli effetti di reale del paesaggio (sole, auto, vento) che indeboliscono la tensione dell’immagine-azione.
4Negli anni Sessanta – penso a Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962) – l’attore spesso faceva di tutto per non essere «raggiunto». Offriva per esempio la sua nuca alla cinepresa, obbligando quest’ultima a sospendere la narrazione a vantaggio della mostrazione di un reale frantumato (rumori, scorci di vie urbane, passanti) che significa solo se stesso. Camminando per i boulevard di Parigi, invece, l’eroina di Due o tre cose che so di lei confessava allo spettatore, in voce over, la piacevole sensazione di una fusione panica con il corpo urbano: «Non so come né quando, ma mi ricordo solamente che è successo. È un sentimento che ho cercato per tutto il giorno. C’era l’odore degli alberi… io ero il mondo e il mondo era me».
5Non solo uomo e mondo si riconciliano alla fine di questo film-saggio, ma anche finzione e documentario: la elle citata dalla voce over all’inizio del film è infatti sia un’attrice (Marina Vlady) che una città (Parigi).
6Molte cose però da allora sono cambiate: la certezza dell’armonia uomo-mondo si è affievolita e di conseguenza sono mutate le dinamiche di interrelazione tra il corpo dell’attore e l’ambiente. Vent’anni dopo, come vedremo, il corpo femminile si offre ancora come cassa risonante del mondo, almeno stando a quanto affermano Marie (Je vous salue, Marie: «La terra e il sesso sono dentro di noi: fuori non ci sono che le stelle») e Carmen (Prénom Carmen: «È dentro di me, o dentro di te, che questo produce delle onde terribili»). Ma negli spazi urbani degli anni Ottanta non ci sono più boulevard da attraversare o marciapiedi da calpestare; nessun viaggio in Italia all’orizzonte. Il corpo errante degli anni Sessanta è diventato un corpo statico, legato sempre e comunque a una catena di montaggio, non importa che si tratti di lavoro (l’operaia di Passion) o d’amore (la prostituta di Si salvi chi può… la vita).
7Del resto, quello che Godard cerca ora non è più il volto di una periferia in costruzione, quanto ciò che precede la traccia stessa dell’uomo sulla terra, ovvero i quattro elementi naturali: «In città non c’è acqua, non c’è aria. Non ho gli elementi che mi servono. Nel luogo sui cui abbiamo ripiegato […] ci sono comunque delle correnti d’aria. Sul lago soffiano una trentina di venti diversi»3.
8Forse aveva ragione Lubitsch, evocato come nume tutelare in Lettre à Freddy Buache: «Se si sanno filmare le montagne, l’acqua e la vegetazione, si sanno filmare anche gli uomini».
9Ricominciare a costruire immagini significa dunque ritornare all’infanzia stessa del mondo, verificando la forza segnica di elementi difficili da inserire in un sistema narrativo come gli alberi, una collina, un prato, un cielo. Proprio sull’immagine di un cielo si apre Si salvi chi può... la vita, un film, leggiamo nei titoli di testa, «composé par Jean-Luc Godard». Cosa vuol dire «comporre» un film?
Rolle anno zero
10Per rispondere bisogna risalire alla genesi di questo progetto, affidata da Godard a tre lettere dattiloscritte inviate, nella primavera del 1981, alla Commission d’avance sur recettes, l’organismo statale francese che finanzia opere di particolare interesse culturale. Normalmente la commissione delibera sulla base di un trattamento, o quanto meno di una bozza della sceneggiatura definitiva. Godard integra invece le tre lettere in una sorta di press-book multimediale, «composto» di documenti visivi (tra cui una riproduzione di Le déjeuner sur l’herbe (1863) e alcune foto di scena scattate da Anne-Marie Miéville)4 e letterari, come un estratto da Il libro del riso e dell’oblio di Milan Kundera, citato nel film per bocca del personaggio di Paul. A questo collage, che comprende anche un frammento dell’introduzione di James Agee al suo saggio Louons maintenant les grandes hommes5, l’autore allega un video di venti minuti, Scénario de Sauve qui peut (la vie). Quelques remarques sur la réalisation et la production du film (1979), motivando la scelta come un bisogno assoluto di passare alle immagini, in modo tale che queste «non siano la conseguenza delle parole, ma la causa»:
Che un’inquadratura non segua un’altra inquadratura […] perché questo è scritto, ma perché l’inquadratura che precede dove trasformarsi in un’altra per continuare il suo movimento, allo stesso modo in cui in un gioco o in una società le persone si mettono d’accordo oppure no per fermare o continuare il loro movimento sociale. […] Continuerò dunque questa sceneggiatura con l’aiuto di un film […] come se Cézanne avesse fatto qualche schizzo di una mela prima di chiedere il compenso al suo committente6.
11Godard inaugura così una pratica che diventerà frequente nel decennio a venire, ovvero quella di costellare un lungometraggio di uno o più film-satelliti, atti a precedere (Petites notes à propos du film Je vous salue, Marie, 1983) o a seguire (Scénario du film Passion) il relativo “pianeta”. Passion sarà in questo senso un caso limite, in quanto il testo principale (il film) è anche preceduto dal Terzo stadio della sceneggiatura del film, ovvero Passion, le travail et l’amour. Introduction à un scénario (1981).
12Vista dall’alto, questa costellazione di opere è parsa a Jean-Louis Leutrat un «territorio complesso»7, intersecato da linee tematiche (la religione, la politica, il commercio) e formali (la sovrimpressione, il ralenti, il suono) che permettono di accostare tra loro film apparentemente lontani come, per fermarci al tema politico, Le dernier mot (1988) e Allemagne 90 neuf zéro.
13Più che tracciare una cartografia di questo paesaggio, peraltro ancora in divenire, mi sembra interessante indagare le radici dell’horror vacui godardiano. Perché riempire gli intervalli tra i testi con paratesti, pre-testi e post-testi audiovisivi? Forse le opere non sanno più parlare da sole e hanno bisogno della presentazione o del commento dell’autore? E se la politica dell’autore non fosse più rintracciabile nell’opera, ma solo nel relativo commento? Forse più semplicemente, come ci ricorderà tra breve un personaggio di Si salvi chi può… la vita, sono le cose secondarie che illuminano le principali.
14Aveva ragione Garrel: questo cinema non solo non è separato dalla vita ma sembra «servire alla vita» e in certi momenti, sono parole dell’autore, può addirittura «sostituirla come una fotografia, come un ricordo»:
Non faccio tale differenza tra i film e la vita, direi anzi che i film mi aiutano a vivere […]. Ecco perché c’è anche la vita nel titolo del film. Si salvi chi può... la vita è anche aver salva la vita, come si può. Ho sempre pensato che il cinema fosse un luogo dove si potevano cambiare le cose più facilmente che altrove. Il cinema è il laboratorio della vita […]. Il cinema è il paradiso per studiare la vita mentre si vive8.
15Nell’atelier di Rolle la dimensione ideale sembra essere dunque il presente, cioè il fatto di avere sempre un film in corso e quindi vivo, ritoccabile all’infinito come un dipinto. La tecnica video garantisce la possibilità di gestire la fase del montaggio in perfetta solitudine, tornando e ritornando sulle proprie decisioni, assemblando materiali eterogenei (ciak scartati, frammenti di casting, sopralluoghi) sino a forgiare una sorta di “para-film”, quello che per primo Henri Langlois salutò come «qualcosa di nuovo»9.
16Ma torniamo a Si salvi chi può... la vita. Recuperando una passione antica, perfezionata negli anni Cinquanta presso la sede parigina della Twenty Century Fox10, Godard va oltre e costruisce il suo press-book ricalcando la struttura musicale in sei atti che regolerà il lungometraggio: Sauve qui peut (-1), La vie (0), L’imaginaire (1), La peur (2), Le commerce (3) e La musique (4). L’utilizzo del verbo «composer», allora, potrebbe rinviare all’affinità di questo traliccio narrativo con la forma del quartetto, considerando i movimenti “positivi” di questa sinfonia (da 1 a 4). Tre strumenti (Denise, Paul e Isabelle) dispiegano la loro energia in quattro movimenti i quali permettono, a loro volta, di articolare una riflessione teorica su quattro temi: Technique, Peinture, Prostitution, Le merle. Il risultato, secondo Michael Witt, è «la produzione di una matrice poetica che al contempo presenta, spiega e teorizza il film11.
17Come ha suggerito Giorgio De Vincenti, però, composé par Godard può leggersi anche come “composto attraverso Godard”: il regista come passaggio, che informa di sé ciò che passa e che esiste prima e fuori di lui12. Metafora ironica di questo corpo mediatico saranno le maschere burlesque che l’autore, prima di contemplarsi in un autoritratto (JLG/JLG. Autoportrait de décembre), indosserà in alcune opere del decennio, dall’ingenuo zio Jean (Prénom Carmen) al bizzarro professor Pluggy (Re Lear).
18Ma torniamo al nostro paratesto. Per “spiegare”, ammesso che questo fosse davvero uno degli obiettivi dell’autore, Godard infittisce la testura del suo press-book di una rete di citazioni che, come abbiamo visto, rafforzano la dimensione intertestuale del progetto, da Kundera a Van Gogh, da Manet alla cronaca nera: estratti di dialogo del film sono infatti assemblati con un effetto collage a ritagli di giornale relativi a inchieste sulla prostituzione. Se il lavoro (Technique) impone gli stessi gesti dell’amore e se l’amore si riduce a lavoro (Prostitution), la Pittura sembra invece offrire la risposta a una domanda antica: «Quando si comincia a inquadrare e quando si stacca? L’inquadratura è nel tempo. E nella pittura questo aspetto è molto evidente»13. Evidenziandola con la penna in calce al testo, l’autore sembra far sua una dichiarazione di poetica che Vincent Van Gogh confessa al fratello Theo nella Lettera n. 520. Intenzionato a ritrarre un amico artista, il pittore dice di voler utilizzare il colore non per restituire ciò che ha davanti, ma per esprimersi «in modo forte»:
Dietro la testa, invece di dipingere il muro, dipingo l’infinito, faccio uno sfondo semplice del blu più ricco, più intenso che io possa confezionare, e grazie a questa combinazione la testa bionda illuminata […] ottiene un effetto misterioso, come una stella nell’azzurro profondo14.
19Godard dunque punta in alto, ma cotanto exemplum non ha impedirà alla Commissione ministeriale di esprimere alcune riserve sulla modalità di rappresentazione della sessualità, definita «aggressiva e brutale». La velleità di ricerca dell’infinito, inoltre, non seduce nemmeno la platea di giornalisti che visionano Si salvi chi può... la vita prima della sua uscita ufficiale. È proprio questo “rifiuto” che induce Godard a consolarsi con un altro illustre modello della Storia dell’arte, il Manet di Déjeuner sur l’herbe, riprodotto esattamente nella pagina di fianco a quella dedicata agli estratti delle lettere di Van Gogh. Van Gogh versus Manet, parola versus immagine. Anche il pre-film una questione di montaggio.
Dietro lo schermo
20Consideriamo ora l’incipit di Si salvi chi può... la vita. Esterno giorno. Una panoramica esplora il cielo alla ricerca di qualcosa che non è dato sapere: forse una storia, forse un oggetto, forse un suono (fig. 1). La cinepresa esita, balbetta, si ferma su una nuvola per poi deviare la propria traiettoria verso l’alto, quindi scendere verso sinistra e continuare in questa direzione sino a che non interviene il montaggio. Con uno stacco passiamo dall’esterno all’interno, dal cielo a una stanza d’albergo, dall’azzurro al giallo. La soglia è aperta, la storia comincia.
21Per un minuto e cinque secondi non abbiamo visto nulla, o forse, per dirla con Van Gogh, abbiamo intravisto l’infinito.
22Le esitazioni dell’occhio tradiscono l’incertezza di uno sguardo intento non tanto a prendere il reale, ma a farsi sorprendere da esso. Meno profondo di quello di Van Gogh, l’azzurro su cui si apre Si salvi chi può... la vita è al contempo traccia di reale e supporto per la falsificazione del reale stesso. Traccia perché cristallo di un tempo che si dà come durata – «l’inquadratura è nel tempo» ha detto Godard – ma al contempo artificio, in quanto questa durata è in realtà un tempo funzionale alla lettura dei titoli di testa, soglia che permette allo spettatore di entrare nel mondo diegetico della finzione.
23È possibile, sembra chiedersi Godard, guardare il mondo e allo stesso tempo raccontarlo? Alzare gli occhi al cielo come le marionette di Pasolini (Che cosa sono le nuvole?, 1967) e poi abbassarli per filmare personaggi che pensano, amano e muoiono? Anche se utilizzato come supporto, pagina azzurra ideale per far risaltare i caratteri neri dei titoli di testa, il reale “insiste” e resiste al tentativo di essere de-finito. Fa sentire la sua voce, per esempio. Anche se solo per qualche secondo, verso la fine del piano sequenza il rumore del traffico e un suono simile a uno scroscio del mare “bucano” il sipario sonoro costituito dalla musica elettronica di Gabriel Yared.
24Già fotografato come ou-topos, metafora della “fatal quiete” romantica (penso al finale di Il bandito delle ore undici), lo spazio del cielo è quanto di più difficilmente definibile non solo dall’occhio, ma anche dal linguaggio. Possiamo determinarlo con un articolo (un cielo, quello di Romandia), ma nel momento in cui viene configurato nello spazio bidimensionale di un’inquadratura un cielo è, in fondo, sempre il cielo. Nulla, al termine del movimento di macchina, ci permetterà di connotare tale “luogo” come spazio diegetico del racconto; nessun raccordo sullo sguardo dei personaggi, nessun campo lunghissimo nel quale il corpo si possa offrire come parte di un tutto, come invece accadeva nello spazio del Mito: penso agli Dei di cartapesta che sorridevano nel cielo di Il disprezzo.
25Non so se, come ha suggerito Alberto Farassino, Godard voglia «volare alto». Di certo filmare il cielo significa confondere le coordinate del punto di vista, in quanto il piano sequenza in questione potrebbe essere un’immagine vista dalla terra, ma nulla ci impedisce di leggerla come il prodotto di uno sguardo aereo, sospeso in un vuoto “fisico” oltre che narrativo (ricordiamo che il racconto deve ancora cominciare). Dunque non solo non sappiamo che cosa stiamo per vedere, ma nemmeno chi e da dove guarda.
26Perché (ri)cominciare dal cielo? In quanto Atmosfera il cui colore è determinato unicamente dal gioco di rifrazione e diffusione della luce, il cielo è forse scelto in quanto metafora perfetta dell’immagine cinematografica, se intendiamo quest’ultima come simulazione di una simulazione. «Cos’è l’immagine in sé? – si è domandato Godard quarant’anni fa – Un riflesso»15. Se l’immagine cinematografica è riflesso, allora l’immagine del cielo è riflesso di un riflesso, grado zero di uno sguardo che forse è pronto per realizzare un desiderio antico, confessato nel 1967 ai «Cahiers du cinéma»: passare all’interno dell’immagine. «Normalmente al cinema si resta al di fuori di questo riflesso, al suo esterno. Io volevo vedere il rovescio dell’immagine, volevo vederla da dietro, come se ci si trovasse dietro lo schermo e non davanti»16.
27Da Si salvi chi può... la vita a Film socialisme Godard non smetterà di decostruire17 la natura bidimensionale dell’immagine cinematografica, manipolandola come qualcosa che si può penetrare, alterare, scomporre, arrestare, riciclare. Più di una volta non esiterà a mostrare se stesso nell’atto di toccare la pellicola: penso agli incipit delle video-sceneggiature e soprattutto alla seconda parte di JLG/JLG, quando il maestro, per spiegare le sue volontà alla montatrice, fa passare tra le dita 153 fotogrammi del negativo di Hélas pour moi.
28In quanto riflesso, l’immagine non contiene la materia di ciò che in essa si riflette, ma solo la sua apparenza. Allo stesso modo il colore azzurro, ovvero quella qualità che Van Gogh modificava al fine di potenziare il proprio grido, è semplicemente l’effetto ottico di un’illusione. Il cielo di Godard è più grigio di quello impresso sulla tela e le sue nuvole, probabilmente, non suggeriscono nessuna elevazione, nessun infinito. Forse è presto per riflettere sulla genesi della Creazione o contemplare la «straziante, meravigliosa bellezza del creato» (Pasolini).
29«Il cinema – diceva il reporter di Le petit soldat – è la verità ventiquattro volte al secondo». Per ora l’unica verità che scorre davanti ai nostri occhi è un’illusione. Le immagini che vediamo per un minuto e cinque secondi sono rappresentazioni di qualcosa che appare opaco e invece è trasparente. Qualcosa che è al contempo immagine, cioè configurazione del visibile regolata da una determinata struttura geometrica, e nulla, ovvero materia informe, invisibile, muta. Nel blu delle origini, Godard filma la luce.
Passare per il reale
30Non so se davvero il cinema degli anni Ottanta possa essere considerato una sorta di «film perpetuo»18, con Passion a svolgere il ruolo di opera seminale, feconda di immagini germinali che migrano da un’opera all’altra (l’aereo che decolla alla fine di Scénario du film Passion atterrerebbe poi nella città di Marie e Joseph). Senza nulla togliere a Passion, mi sembra che Si salvi chi può... la vita sia il testo ideale per indagare il sistema dialettico che regola la rappresentazione del corpo attoriale, segno spesso trascurato dagli esegeti godardiani e invece fil rouge analitico del presente saggio.
31Per raccontare una storia, infatti, il paesaggio non basta. Ci vuole un corpo, meglio se “educato” all’arte della simulazione: «Io parto dal documentario, per poi dargli la verità della finzione. Per questo ho sempre lavorato con attori professionisti ed eccellenti. Senza di loro, i miei film sarebbero meno buoni».
32Chiamati a garantire la “verità” di Si salvi chi può... la vita sono Jacques Dutronc, Nathalie Baye e Isabelle Huppert, tre professionisti scelti in quanto permeabili, abili nel coadiuvare la produzione del senso offrendo semplicemente la loro presenza plastica. «Godard – ha detto Nathalie Baye – è come un pittore che può passare dei giorni a guardare la sua tela senza dipingere. E noi siamo i suoi tubi di colore»19.
33Non molto20 si è scritto sul lavoro di Godard con l’attore, fondato su un metodo che è rimasto sostanzialmente invariato negli anni.
34Libero di discutere con il regista eventuali variazioni nel testo dei dialoghi, l’attore godardiano deve soprattutto restare «vicino alla vita», ovvero conferire al proprio personaggio gestualità, movenze e atteggiamenti che gli sono familiari nella vita quotidiana. E questo precetto vale ancor di più per le star. Brigitte Bardot, per esempio, ha dichiarato di non essere mai stata “diretta” sul set di Il disprezzo: a Godard era bastato osservarla nel suo quotidiano (versare il tè, aprire la porta, accendere una sigaretta) per fornirle le indicazioni essenziali alla costruzione di un personaggio, Camille, peraltro fecondo di suggestioni pittoriche: «È molto bella, assomiglia all’Eva di un quadro di Piero della Francesca»21. Come vedremo tra poco, il reale fa sentire il suo peso solo in quanto delimitato dall’immaginario.
35Portare la vita sul set, però, richiede una naturalezza mimico-gestuale che non tutti gli attori possiedono:
Non domandate a Michèle Morgan di mettersi il rossetto, togliere un sassolino dalla scarpa o prendere un taxi: non sa farlo. Non chiedete a nessuna delle nostre grandi vedettes di rifare davanti alla cinepresa il più banale dei gesti quotidiani: non sanno farlo. Allora io dico: ma che cosa venite a fare qui?22
36«Essere» non basta. Al fine di perfezionare la fase di preparazione, Godard da sempre suggerisce un training fatto di letture e/o esercizi fisici eseguiti però mal volentieri, quando non rifiutati, dalla maggior parte degli interpreti. Alcuni esempi: Maruscka Detmers (Prénom Carmen) avrebbe dovuto ascoltare almeno dieci minuti di Beethoven al giorno, mentre solo a fatica Isabelle Huppert accettò di leggere Rilke (La bellezza e il terrore) durante le riprese di Passion. Meno intellettuali i compiti affidati a Nathalie Baye e Myriem Roussel, ovvero, rispettivamente, andare in bicicletta e giocare a pallacanestro: a quanto pare però entrambe le interpreti rifiutarono di seguire queste indicazioni.
37Al di là del metodo utilizzato, lavorare con un attore significa, per ogni regista, mettere il proprio immaginario alla prova del reale.
38È quanto Godard ci racconta in Scénario du film Passion: immaginare un personaggio a partire da un quadro non è sufficiente, bisogna che l’attore partecipi fisicamente e intellettualmente a un processo creativo che consiste nel vedere la storia prima di scriverla. Vedere se l’invisibile può diventare visibile, creare la possibilità di un mondo, rendere il possibile probabile: a questo serve un attore.
39Curiosamente, due dei capitoli in cui è suddiviso Si salvi chi può… la vita alludono all’ambiguità ontologica dell’attore cinematografico, al contempo vettore dell’immaginario, dunque fantasma senza corpo, e moneta di carne, materia prima per il commercio di sogni.
40L’immaginario (capitolo 1) era in un certo senso il luogo d’infanzia della Nouvelle Vague, il ventre materno di una generazione di cineasti cresciuta guardando il mondo attraverso la lente del cinema.
41«Solo più tardi – ha confidato di recente Godard – abbiamo capito che il vero immaginario esige di passare per il reale: girare nelle strade, filmare la propria compagna o la storia della propria compagna»23.
42L’alter-ego Paul dice in sostanza la stessa cosa: «Faccio dei film per parlare di me». All’artista che ha superato la stagione delle utopie l’immaginario non basta più e fare cinema, come è scritto negli appunti che Paul legge in classe, è solo un modo per occupare il tempo: «Se avessi la forza di non fare nulla, non farei nulla».
43Quando lo vediamo per la prima volta, in effetti, Paul non fa nulla; semplicemente si occupa del suo corpo. Da alcuni dettagli, come il letto disfatto e la giacca appoggiata alla maniglia della porta, deduciamo che egli si è alzato da poco e ora si sta vestendo. Ascoltiamo il rumore del rasoio sulla pelle e intravediamo la cameriera che porta via quanto resta della colazione. La cinepresa non assegna all’uomo nessun posto privilegiato nella struttura gerarchica di un quadro al contempo aperto e chiuso (fig. 2). La parete gialla sulla sinistra, infatti, ostacola la visione del personaggio principale ma al contempo invita lo spettatore a cogliere i frammenti di una delle tante storie secondarie che sfiorano l’architettura narrativa. Penso alla voce fuori campo della cantante, probabilmente una vicina di stanza, che disturba la telefonata di Paul: il reale, ancora una volta, insiste e preme sulla finzione.
44«Descrivere le cose secondarie – affermerà di lì a poco Piaget, l’amico di Denise – illumina le principali». Oscurato da un controluce che ricorda gli interni degli anni Sessanta, Paul entra ed esce dal campo visivo senza che l’occhio del narratore faccia nulla per non perderlo. Questo significa «passare per il reale»: l’attore non fa, ma è, e il suo esserci si scontra con i limiti di una scenografia anch’essa, come la luce, “reale”. Il microfono registra in presa diretta suoni e silenzi di una stanza d’albergo la quale appartiene – e su questo Godard insiste molto – al medesimo luogo geografico che ospiterà anche le altre scene.
45Guardare il corpo dell’attore, infatti, significa anche esplorare la sua relazione con un ambiente che offre coordinate geometriche nuove (anziché la verticalità della metropoli, le linee orizzontali dei prati), ma che alla fine forse non riesce a sollevare i personaggi da quella oggettività decantata quindici anni prima dalla voce over di Due o tre cose che so di lei: «Poiché non posso sottrarmi all’oggettività che mi schiaccia né alla soggettività che mi esilia, poiché non mi è permesso né di elevarmi verso l’Essere né di cadere nel nulla, bisogna che io ascolti, che guardi intorno a me più che mai il mondo, mio simile, mio fratello». Evidenti sono gli echi del pensiero di Maurice Merleau-Ponty e in particolare delle tesi argomentate in Fenomenologia della percezione e in Il visibile e l’invisibile: il corpo è il solo luogo della coscienza e il mondo esiste solo in quanto è percepito come vero e buono.
46Audiovedere, negli anni Sessanta, sembrava il solo modo per certificare a se stessi il proprio essere nel mondo. Guardandosi intorno, questo “nuovo” Godard vede il corpo come un esser-ci più sofferente e affaticato, sospeso e soprattutto itinerante tra presente e passato, città e campagna, paura e commercio, amore e messa in scena dell’amore.
47La relazione tra occhio e mondo, però, non è cambiata e rivela ancora una volta l’influenza della fenomenologia merleaupontiana: vedere (voir) – suggerisce Scénario du film Passion – è oggi come allora ricevere (rece-voir), darsi a vedere, lasciarsi illuminare dalla luce bianca dello schermo, pagina (page) ma anche spiaggia (plage). Spiaggia sulla quale i corpi avanzano mossi da un’unica forza: il desiderio.
48Al fattorino che lo insegue nel parcheggio Paul offre la sua anima, ma l’uomo insiste: «Je vous aime Monsieur… il vostro corpo!». Il diverbio che ne consegue è solo il primo dei numerosi scontri tra corpi che Deleuze avrebbe definito «intensivi», ovvero espressioni di potenza e desiderio. Si pensi per esempio al litigio tra i contendenti della misteriosa ragazza-col-rossetto, sporcata di sangue alla stazione di Nyon mentre Denise attende il suo treno.
49Autoritratto a tre voci – come il suo creatore, Paul Godard è cineasta sospeso tra la Svizzera e la Francia, tra l’anima (Denise) e il corpo (Isabelle) –, Si salvi chi può... la vita racconta dunque non una storia, ma frammenti di storie dove i corpi si urtano per amarsi perché non sanno fare altrimenti. «Abbiamo voglia di toccarci – confessa Paul a Isabelle – ma ci riusciamo solamente colpendoci a vicenda».
50L’amore filmato passando per il reale è proprio questo: frasi spezzate, carezze che fanno male, corpi che cadono.
Una folata di irregolarità
51Ricominciare da zero significa insomma filmare la vita e riprodurne le pulsazioni in immagini “infantili” in quanto incapaci di parlare seguendo quella logica orizzontale del racconto a cui lo stesso autore allude in apertura di Scénario de Sauve qui peut (la vie): «Lavoravo orizzontalmente al testo che voi avete letto e poi quello che mi ha sorpreso è stato l’irrompere improvviso dell’immagine, come nel film di Resnais Les statues meurent aussi».
52Godard ci illustra passo dopo passo il travaglio della sua creazione e l’immagine non fa che assecondare la parola: sul foglio inserito nella macchina da scrivere è infatti impressa la foto di una giovane donna, un volto dunque visto prima di essere scritto. Così visto da diventare “testo”, supporto per un linguaggio altro rispetto a quello iconico.
53Quello della scrittura sull’immagine è un motivo che ritornerà in Scénario du film Passion, ma ciò che ci interessa ora è rilevare la nozione di immagine come verticalità, ovvero perversione della struttura narrativa classica. In luogo della concatenazione cronologica di legami senso-motori, è preferita la logica dell’associazione di idee, suoni, colori. E associare, ha notato giustamente Giorgio De Vincenti, «significa sì stabilire nessi ma anche e soprattutto esibire la ricerca di nessi possibili»24. Lo abbiamo già visto a proposito dell’attore: raccontare una storia significa semplicemente rendere il probabile possibile.
54Godard accumula e dissemina. Dissemina frasi, suoni, motivi (l’amore, la violenza, l’arte) e soprattutto corpi, come quello della misteriosa “signora con l’ermellino” che attira l’attenzione della cinepresa nel capitolo 1, mentre Piaget sta illustrando a Denise ciò che lo ha appassionato del progetto editoriale della donna.
55«La passione non è questo» risponde Denise, inaugurando una delle “frasi-motivo” musicalmente disseminate nel testo: la pronuncerà più avanti anche Paul. La passione è qualcosa che Paul e Denise non sanno de-finire: non sanno darle un nome e non definendola la consacrano nella dimensione del possibile. Forse vogliono semplicemente provare a viverla, ma viverla significa costringere l’immaginario a passare per il reale. E ciò naturalmente fa paura.
56La sequenza in questione dimostra come in Godard il reale si nutra sempre e comunque di un materiale immaginario, completamente eterogeneo: penso all’auto di Formula 1 parcheggiata alla stazione ma anche, come vedremo, al lama legato al guinzaglio nella stazione di servizio di Film socialisme.
57Riascoltiamo ora un frammento delle Histoire(s) du cinéma, capitolo 1B: «Il cinema proiettava e gli uomini hanno visto che il mondo era là: un mondo senza storia, un mondo che racconta. Ma per dare, in luogo dell’idea della solitudine, l’idea della sensazione, le due grandi storie sono state il sesso e la morte».
58Il cinema classico, insomma, non avrebbe mai posseduto quella «logica della sensazione» – penso al Bacon riletto da Deleuze25 – che unisce soggetto e oggetto e che predilige il figurale rispetto al figurativo, ma solo l’idea.
59La domanda è allora la seguente: nelle immagini “nuove” e terse di questi anni Ottanta c’è ancora l’idea della sensazione? Come lavora il corpo dell’attore per esprimere quest’idea? Come sono filmati l’amore e la morte?
60Si salvi chi può… la vita, capitolo 2: La peur. Come gli amanti di Questa è la mia vita, anche Paul e Denise si sono lasciati e ora parlano del passato. Questa volta Godard li guarda, li filma frontalmente, lascia che, in luogo degli sguardi, siano le loro voci a incrociarsi.
61«L’amore – dice Denise – viene dal lavoro, dai gesti che potremmo fare insieme, e non soltanto la notte». Ma la notte non interessa a Godard. Tutto ciò che vediamo, azioni e inazioni, si svolge di giorno, quando l’amore si confonde con il lavoro e le parole del rimpianto si mescolano ai rumori di un pub.
62Ripartire da zero significa ricollegare la parola al volto? Forse. Stando a quanto afferma Denise però, la parola non sembra più poter aiutare il corpo a ripararsi dal tempo e nemmeno, come già aveva notato Nana, aiutare a vivere la propria vita.
63Dopo aver abbandonato la città per la campagna e la televisione per la scrittura, la donna afferma di voler rinunciare anche alla parola: «Non posso più chiamare per nome le cose, ma solamente farle un poco». Irrorata dalla luce naturale di una finestra, una sigaretta tra le dita, Denise scrive su un block-notes frammenti di un romanzo che forse non finirà mai:
Qualche cosa nel corpo e nella testa si inarca contro la ripetizione e il nulla. La vita… un gesto più rapido… un braccio che cade, in controtempo, un passo più lento. Una folata d’irregolarità, un falso movimento. Grazie a tutto ciò, in questo derisorio quadrato di resistenza contro l’eternità vuota che è il posto di lavoro, ci sono ancora degli eventi...
64Torneremo più avanti sul significato di queste parole. Per ora occupiamoci del significante.
65Ancora una volta Godard “passa” per il reale: nessuna gerarchia nello spazio sonoro di questo quadro. Catturata in presa diretta, la voce dell’attrice non copre il rumore della penna sul foglio, determinato dalla pressione della mano a sua volta bilanciata dalla tensione dei muscoli delle gambe (il block-notes è poggiato sulle ginocchia). Scrivere è dunque un atto che richiede una determinata coordinazione gestuale; come il lavoro, come l’amore. In virtù della loro irregolarità ritmica, però, i gesti della scrittura si oppongono a quella che la voce off di Denise definisce l’«eternità vuota del lavoro», concetto visualizzato da Godard con un’immagine eidetica dal forte sapore eisenteiniano: due mani senza volto che, pur “disturbate” dal ralenti, inseriscono viti in una struttura metallica (fig. 3).
66Il romanzo – o meglio, per dirla con Denise, «qualcosa che fa parte di un romanzo» – sta nascendo e la cinepresa ne filma l’“infanzia”, il venire alla luce delle parole e il loro depositarsi sulla carta, ma soprattutto il silenzio che le circonda: «il silenzio che c’è intorno a un testo – dirà poco dopo Marguerite Duras – è la parola che lo crea».
67Silenzio vuol dire intervallo, frattura, cesura. Solo un movimento in contro tempo o una variazione nel ritmo dei gesti – sembra dirci Denise – potrebbe liberare l’uomo a una dimensione dall’asservimento della catena di montaggio, luogo dove il tempo diventa nulla e la creazione si fa ripetizione: Passion non è lontano.
68Se il lavoro è come l’amore, fermare i gesti dell’amore può essere un modo per sottrarli al destino della ripetizione e proteggerli dall’oblio. L’amore e la morte, protagonisti fatali anche di Prénom Carmen, sono filmati in Si salvi chi può… la vita allo stesso modo, ovvero come atti sospesi, tracce di vita catturata e messa, grazie al ralenti, al riparo dal tempo26.
69L’attrazione per il ralenti nasce con la scoperta del video a metà degli anni Settanta, quando, uniti nel binomio Sonimage, Godard e compagna sembrano ritrovare nell’occhio analogico del nuovo mezzo quelle facoltà “sovrumane” rilevate da Dziga Vertov nel suo cineocchio: libertà di azione, capacità di precipitare e risalire, in volo, con i corpi che precipitano e risalgono. «Andiamo lentamente, bisogna scomporre», diceva Anne-Marie Miéville in Comment ça va, terzo forse dei video-esperimenti degli anni Settanta.
70Il ralenti allora è non solo occasione per lo svelamento del dispositivo – atto a dare la stessa sensazione procurata dai jump cut degli esordi, ovvero quella di assistere alle procedure del linguaggio cinematografico per la prima volta – ma soprattutto rottura della continuità, manipolazione tattile, memoria di un gesto manuale.
71La compressione del tempo determina un’alterazione delle qualità intensive del corpo, “stirato” e allungato nel tentativo di catturarne la concentrazione massima di energia vitale. Il problema è che l’alterazione temporale nasconde suddetta energia (la vie) nel momento in cui finge di mostrarla. La nasconde, lo vedremo, nella pedalata di Denise, nei capelli scompigliati della figlia di Paul, ma anche negli schiaffi inferti da due uomini alla ragazza-col-rossetto, colpevole di non aver scelto tra i due misteriosi contendenti: «Je ne choisie pas».
72Dilatata dal ralenti, la violenza ha gli stessi gesti dell’amore: le mani che colpiscono la ragazza non fanno più rumore del corpo di Paul che, dopo aver rovesciato il tavolo della cucina, crolla su Denise senza accorgersi di essere osservato da uno spettatore interno (Isabelle). Tutti le scene rallentate, del resto, sono filmate come spettacolo di uno spettacolo: Denise è testimone del pestaggio alla stazione, mentre toccherà a una misteriosa passante garantire la focalizzazione interna in occasione dell’incidente mortale di Paul.
73Perché inserire un vedente nella visione? Forse perché ciò che vediamo è davvero qualcosa di “nuovo”, qualcosa che Godard non aveva mai filmato prima: «Vorrei rallentare, filmare ciò che non si vede ordinariamente, non proprio rallentare ma decomporre questo passato nell’istante in cui esso compone il presente dei personaggi»27.
74Ciò che «non si vede ordinariamente» sono le forze invisibili che animano la forma sensibile del corpo, e un cinema che insegue l’Origine non può che interrogarsi su tutto ciò.
Quel che resta dell’attore (e del paesaggio)
75«Stato alterato dell’immagine – secondo la definizione di Antonio Costa28 –, il ralenti rimette in questione non solo lo statuto della percezione (oggettività vs soggettività), ma innanzitutto il ruolo della perfomance attoriale. Rallentare in sede di montaggio un gesto o un micromovimento della mimica, infatti, equivale a rafforzare il ruolo del dispositivo rispetto all’agire di un attore che si conferma davvero, come ha dichiarato la stessa Baye, un «tubo di colore». Con questo colore l’istanza narrante può fare di tutto, ma soprattutto può mostrare se stessa, assecondando quella volontà di straniamento a cui abbiamo accennato sopra: si deve “vedere” che è solo un film.
76Tra la prestazione dell’attore e la resa finale, infatti, nessun punto di contatto. Oltre al sezionamento, determinato dalla messa in quadro, il corpo subisce infatti anche l’alterazione di quel poco che di umano restava nel simulacro: il tempo del gesto. Della forza investita da Dutronc per abbracciare Nathalie Baye, lo abbiamo visto, resta solo una traccia sonora, ovvero il fragore degli oggetti che cadono a contatto con i corpi.
77Paul non capisce la decisione di Denise: «Credi che ti basti rifugiarti in montagna con la bicicletta per cambiare vita?». A cambiare vita, in realtà, non è solamente il personaggio ma anche l’attrice, pedinata in deambulazioni ben più rapide di quelle a cui Godard aveva abituato i suoi interpreti. Il cambiamento di décor, infatti, impone all’attore di adottare codici espressivi nuovi per abitare lo spazio. Nathalie Baye non cammina, come invece facevano Jean Seberg o Macha Méril in Une femme mariée (Una donna sposata, 1964). Si sposta in bicicletta, ma il suo gesto è irrimediabilmente bloccato da una cinepresa che finge di adottare i codici della fotografia sportiva ma in realtà non fa che defigurare la figura umana e scioglierla sullo sfondo. Si veda il fermo-immagine in fig. 4: agitati dal vento, i capelli di Nathalie Baye si confondono con le macchie del sole tra gli alberi, mentre il verde scuro del maglione si dissolve nel tono luminoso dello sfondo. Tra corpo e paesaggio non c’è più alcuna soglia, ma lo stesso non si può dire della relazione che lega attrice e personaggio.
78Torniamo un momento indietro. Abbiamo sentito Juliette (Due o tre cose che so di lei) lamentarsi dell’«oggettività» che la schiaccia, mentre Marina Vlady, la sua interprete, sembra libera di errare a piacere all’interno e all’esterno di quella elle a cui allude il titolo (lei è il personaggio ma, come abbiamo già detto, anche la città). A differenza di quanto potrebbe sembrare, però, pochissimi sono gli esterni deambulanti dell’attrice, la quale è invece «schiacciata» dalla cinepresa contro pareti di appartamenti, interni di caffè e paesaggi urbani ipermoderni (fig. 5). Due o tre cose che so di lei, in questo senso, è un film sulla potenza fascinatoria del montaggio: abbiamo la sensazione di muoverci per le vie di una città che invece percepiamo più come suono che come immagine.
79Anche Denise rivendica l’urgenza di un rapporto autentico con il mondo («non sono una macchina»). La sua interprete non rivela il dispositivo, al contrario. Nathalie Baye mette in pratica la posizione teorica esposta dal personaggio, ovvero lavora portando sullo schermo il proprio “naturale”, senza obbedire ad alcun cliché mimico o ripetere gesti codificati. Nessuna tensione nei muscoli facciali, nemmeno nei momenti più concitati dei duetti con Dutronc: il pathos resta nelle parole e non affiora su un paesaggio, quello del volto, increspato solamente dal movimento degli occhi, spesso tesi verso il fuori campo, al contempo assorti e distratti.
80Se davvero, come sentiremo tra poco, nel cinema non esistono leggi, tutto ciò che un attore deve fare davanti alla cinepresa è esserci. Le azioni (sciogliersi i capelli, andare in bicicletta, chiudere la zip dei pantaloni, sorseggiare un caffè) si confondono con il quotidiano e le frasi pronunciate sono spesso banali, ripetitive, incomplete. Proprio come nella «vita» a cui il film allude.
81Che Godard adotti o no la tecnica dello straniamento, dunque, le cose non cambiano. Oggi come ieri filmare un attore non significa permettere allo spettatore di conoscere il personaggio. Scomponendo la presenza attoriale in un tempo lontanissimo dal naturale, ralenti e fermo-immagine vanificano gli effetti di reale prodotti da questo stile di recitazione e svelano la natura reificata dell’attore cinematografico, la sua natura di “moneta dell’assoluto”, anello debole nell’ingranaggio dello sfruttamento capitalistico.
82Se Marina Vlady era «schiacciata» contro l’ambiente, Nathalie Baye vi è dissolta dentro. Il risultato è lo stesso: di lei l’istanza narrante conosce solo “due o tre cose”.
83Dai ritratti ottenuti mediante stop-frame non emerge «l’anima che c’è dietro» (Le petit soldat), ma la testura setosa di una carne ceduta alla cinepresa, direbbe Benjamin, mediante un Test-leistung, ovvero una semplice «prestazione di verifica»29.
84Secondo Benjamin, com’è noto, la performance dell’attore cinematografico altro non sarebbe che un test finalizzato a renderne immagine infinitamente riproducibile e trasportabile. Un test del quale il performer sembrerebbe addirittura consapevole:
Mentre si trova davanti all’apparecchio, egli sa che in ultima istanza avrà a che fare con la massa. È questa massa che lo controllerà. E proprio questa non è visibile, non è ancora presente mentre egli realizza la prestazione artistica che essa controllerà30.
85Le Histoire(s) du cinéma evidenzieranno come moltissimi siano i debiti di Godard nei confronti del pensiero di Benjamin, soprattutto per ciò che concerne la nozione di Storia come eterno presente, oggetto di una costruzione «il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di attualità»31. Di questa riflessione sull’attore cinematografico, invece, interessante è il termine «controllo». Perché, come suggerisce la celebre sequenza dell’orgia, lavoro e amore possono avere gli stessi gesti: quelli della macchina cinema. Il cinema, infatti, non è solo catena di montaggio finalizzata alla produzione di immagini narrative, ma anche – questo vuol dirci Godard – laboratorio, metafora, anticamera della vita.
86E la vita, spesso, sfugge ai tentativi di riproduzione. Osserviamo nuovamente il fermo-immagine in fig. 4. I contorni delle cose sfumano, la definizione, come ama ripetere spesso l’autore nelle interviste di questi anni, non è alta ma “bassa”, come nei quadri di Van Gogh32. L’inquadratura non appare più una finestra sul mondo.
Figurativo o figurale?
87Nel momento in cui scompone il movimento e arresta il suo sguardo, Godard sembra oltrepassare la dimensione del figurativo e sfiorare i territori del figurale33. Non è questa la sede per una riflessione sul pensiero di Lyotard, ma è evidente che la nozione lyotardiana di figura presenta numerosi punti in comune con le questioni in campo.
88Denise vuole salvarsi la vita e vede come unica possibilità la pratica artistica (nel caso specifico la scrittura). A differenza di Paul però, che come molti cineasti narrati ha separato arte e vita, lei intende l’arte come oltrepassamento della discorsività, liberazione dell’espressività e soprattutto vibrazione del mondo dell’affettività. Ovvero i cardini dell’estetica di Lyotard.
89Più che la vita del personaggio, Godard sembra voler salvare quella dell’immagine, la quale può perdere la propria infanzia e diventare adulta solo se – come ha scritto Jean-François Lyotard cinque anni prima della lavorazione di questo film – essa si oppone al «nichilismo dei movimenti»:
L’ordine dell’insieme ha per scopo solo la funzione del cinema: che ci sia ordine nei movimenti, che i movimenti si facciano in ordine, che facciano ordine. Siamo in grado di concepire e praticare la scrittura con il movimento, il cinematografare, solo come un’incessante organizzazione dei movimenti34.
90In questione, infatti, è il dissidio tra la forma e la forza dell’immagine cinematografica, forza che emerge proprio nel momento in cui il tempo non è più normalizzato, ma rallentato, s-figurato, esposto. Ciò che Godard mette in crisi, incrociando le traiettorie dei suoi personaggi in una sinfonia di rumori, note e colori (il verde dietro Nathalie Baye, il giallo attorno a Isabelle Huppert), è esattamente la logica del racconto organizzato secondo quella che Lyotard definisce «legge del valore»: ogni elemento o movimento è mostrato in quanto ha valore in relazione al movimento precedente o successivo.
91In Si salvi chi può… la vita, lo abbiamo visto, non solo di immagine si tratta, quanto di immaginario (capitolo 1). L’immaginario di Denise produce non solo «folate di irregolarità», ma anche «goffaggini, spostamenti superflui, accelerazioni improvvise», ovvero tutta una serie di scarti rispetto al ritmo del racconto classico.
92Queste deviazioni, che comportano uno scivolamento dal principale al secondario, altro non sono che i «vacillamenti» in cui può incorrere il cineasta secondo Lyotard:
Poniamo, ad esempio, che stiate lavorando ad un piano con una videocamera, magari su una splendida chioma alla Saint-John Perse.
Al momento di visionare, notate che c’è stato un vacillamento: di colpo, disordinati profili di isole, paludi e scogliere taglienti invadono i vostri occhi, li colmano, intercalano, nel vostro piano, una scena venuta da chissà dove, che non rappresenta nulla di riconoscibile, che non si ricollega alla logica del vostro piano, che non ha valore neppure come inserto, perché non sarà ripresa, ripetuta, una scena indecidibile che dovrete eliminare35.
93Questa «scena venuta da chissà dove» è, per usare la parole di Denise, «la vita che si aggancia, tutto quello che in ogni uomo della catena urla silenziosamente: non sono una macchina».
94Certo, forse la «folata di irregolarità» allude, come ha suggerito Giorgio De Vincenti, anche a una riflessione sulle leggi che governano l’universo. Ma come sappiamo il cinema per Godard è soprattutto cinema e Si salvi chi può... la vita è (anche) un film sul problema del racconto inteso, per dirla con Lyotard, come «risoluzione di dissonanze»36 o «ripetizione dello stesso». Non a caso è proprio contro la ripetizione che si inarca l’immaginario di Denise…
L’immagine dell’origine
95Ha ragione Raymond Bellour: dilatando la durata oltre il principio di verosimiglianza, Si salvi chi può... la vita annuncia «la prefigurazione di una nuova immagine, che si svincola dalla sua trasparenza fotografica per dare spazio ad altre materie»37.
96Tra queste «materie», lo abbiamo visto, c’è la carne di un attore che “eccede” il suo personaggio anziché aderirvi e dunque si dà a vedere come presenza plastica, materiale da comporre, decomporre e, se necessario, violentare. Si pensi a Jacques Dutronc: più che agire, il suo personaggio sembra agito dagli eventi. Le cose (la presentazione di Duras) lo inseguono e le parole non lo aiutano a entrare in comunicazione con gli altri: «Le immagini, come i corpi, per diventare parlanti devono subire violenza, l’accesso al simbolico è doloroso. Il vecchio linguaggio cinematografico, con le sue figure e le sue clausole codificate, si disfa e si degrada. Il corpo corre verso la morte»38.
97Quella di Paul nel finale non è una corsa, ma la danza stilizzata di un corpo intertestuale, alter-ego dell’autore (Mr. Godard) e al contempo emanazione del primo antieroe di questo cinema, il Michel Poiccard di Fino all’ultimo respiro (anche là, in fondo, si trattava di salvarsi la vita).
98Ma davvero, come ha detto Bellour, la ricerca di Godard prefigura una nuova immagine? Forse è sull’accezione di “nuovo” che bisogna riflettere. Mi sembra infatti che a Godard risulti impossibile filmare la vita senza dimenticare il (proprio) cinema. Perché cinema e vita, lo abbiamo visto, sono la stessa cosa per un artista che rivendica, attraverso la creatività, la propria dignità di essere umano: «Faccio delle immagini invece di fare dei bambini» (Soft and Hard, 1988).
99Come sostiene Roberto De Gaetano39, la forza dell’immagine godardiana non risiede tanto nel momento “inventivo”, quanto nella sua capacità di redimere il passato, configurandosi come «ripetizione salvifica». L’immagine di Dutronc ha quindi “origine” in quella di Belmondo, la quale è traccia di un passato creativo che non passa, ma insiste sul presente permettendo la riformulazione di nuove (?) immagini. Sul problema dell’origine dell’immagine torneremo; per ora restiamo sul volto di Dutronc.
100Paul muore sull’asfalto. Solo. L’unico sguardo femminile gettato su di lui, quello della figlia, è immediatamente castrato dall’ex moglie, con un gioco di parole intraducibile in italiano: «Qu’est-ce que tu regarde? Ca ne nous regarde plus»40.
101Guardare, dunque – ma lo aveva già dimostrato Merleau-Ponty –, significa anche essere (ri)guardati, toccati, coinvolti. Per questo prima di stampare un’immagine, non importa se fissa o mobile, Godard sente il bisogno di sfogliarla, testarla e discuterla mediante video-appunti o video-sceneggiature41.
102Il gioco di rifrazioni è infinito. Godard guarda la vita di Paul Godard e cerca di filmarla, riuscendo però solo a catturare solo qualche immagine-tempo (una carezza, un bacio, una caduta) dal movimento alterato rispetto al ritmo convenzionale del cinema mainstream. La moglie invece non guarda questa vita, perché essa non la ri-guarda. Non guardarla equivale a non salvarla: madre e figlia, infatti, abbandonano indifferenti quel corpo ferito.
103Parlavamo sopra di creatività come rifacimento: l’origine delle immagini di oggi è rinvenibile in quelle di ieri. Come sempre in Godard, infatti, anche questa morte arriva senza preavviso, in uno dei tanti esterni urbani indifferenti alle passioni dei personaggi.
104Dopo aver salutato l’ex moglie e cercato una vana riconciliazione, Paul esce di campo e la cinepresa resta sulla nuca della donna (fig. 6), una delle tante nuche che in questo cinema mettono in crisi la nozione di volto come luogo dell’identità.
105Rumore di frenata, tonfo sordo di un corpo che cade, grida di una ragazza: la morte del protagonista è filmata (?) come una «cosa secondaria», un fuori-campo sonoro che “apre” le pareti dell’inquadratura. Non ha torto De Vincenti a scomodare il nome di Ejzenštejn per questo Godard. L’immagine non coincide più con l’inquadratura, ma si offre come il prodotto di un’esperienza dialettica fatta di luce (audio) e buio (visione): un’estasi della percezione audiovisiva. L’immagine è suono, o meglio il suono mostra ciò che l’immagine nega.
106Devono infatti passare alcuni secondi perché la cinepresa ci permetta di dare a questo paesaggio sonoro un volto. Ma quella che vediamo, dilatata dal ralenti, non è un’immagine-fatto, perché il fatto è accaduto prima. Il tempo della storia non coincide con il tempo del racconto.
107Viene in mente la sequenza dell’incidente sugli Champs-Elysées all’inizio di Fino all’ultimo respiro. Distratta da un rumore fuori campo, la cinepresa abbandona i personaggi e cerca di catturare un apparente frammento di realtà, ovvero lo scontro frontale tra un’auto e un ciclomotore. Anziché raffigurare il reale, Godard ne imita la modalità di percezione: l’illusione di realtà è assicurata. Quando Belmondo arriva sul posto, il fatto è già avvenuto e la cinepresa documenta solo la traccia di ciò che è sfuggito al suo sguardo. Niente ralenti dunque. Sono passati vent’anni, e qui siamo in Svizzera, non a Parigi. La verità non è più un dato fenomenologico, o quanto meno non scorre più 24 volte al secondo perché il cinema-verità è morto, o meglio riservato a supporti più agili come il video.
108Nonostante tutto, però, il (cinema) passato sembra accompagnare il presente, soprattutto se questo si configura come re-visione di immagini, storie, volti. «Bisogna vivere le storie prima di inventarle», dirà il regista di Passion. Parafrasando questo motto, potremmo affermare che il “terzo” Godard inventa storie già inventate, ma forse (oppure proprio per questo) ancora aperte, non morte, non finite.
109Per tornare al 35mm e recuperare l’infanzia dell’immagine, in conclusione, la strada è una sola: lavorare sul passato dell’immagine e sulla contiguità di questo passato con il presente.
Il verbo, la carne, il cinema
110La traccia del passaggio di un aereo nel cielo; un uomo al volante; un’operaia al lavoro; una donna che si riveste. Così, sulle note extradiegetiche del Concerto per mano sinistra di Ravel, comincia Passion, forse l’opera più ispirata, densa e polisemica di questa stagione. Fotografato da Raoul Coutard e montato dallo stesso Godard, Passion approfondisce la riflessione sullo stadio “infantile” dell’immagine mettendo sul tavolo due questioni fondamentali: la relazione tra cinema e pittura e il ruolo del segno nella costruzione del senso.
111Luci naturali e luci artificiali, interni ed esterni: Godard espone subito la materia del racconto, ma non solo. Suggerisce inoltre che gli elementi di questa materia sono tenuti insieme, mediante il montaggio, da una rete di associazioni tanto narrative quanto plastiche, cromatiche e musicali.
112Come sempre, Godard formula domande di cui non suggerisce la risposta: la pittura è davvero l’infanzia del cinema? E poi, è possibile costruire «immagini parlanti» rinunciando a filmare sia la parola che il movimento?
113Filmare ciò che non si vede ordinariamente, infatti, non è l’unica ambizione di questo Godard. Fotografare cieli, prati e nuvole è un modo per inserirsi nella tradizione della pittura occidentale e dipingere finalmente dei paesaggi; ma la storia dell’occhio, come ha osservato Jacques Aumont42, comincia da lontano e non a caso Delacroix, uno dei pittori rifatti da Jerzy, prima di dipingere fiori ha ritratto guerrieri, santi, amanti.
114Solo accennato nel film precedente, il tema della creatività/creazione è qui elemento cardine del plot, articolato in un intreccio di almeno tre storie: la storia di un film intitolato “Passion”, la storia della passione tra un produttore/padrone (Michel Piccoli) e la proprietaria di un hotel (Hanna Schygulla), la storia di un’operaia (Isabelle Huppert) e della sua protesta sociale. Da queste storie ne derivano altre, non meno secondarie: Hanna è sedotta da Jerzy, il regista del film nel film, il quale però è attratto anche da Isabelle, dipendente di Michel, della quale Hanna è gelosa. Le storie sono tante, troppe, o forse troppo poco illuminate.
115Ogni personaggio, infatti, nasconde dietro di sé un passato opaco, che Godard si guarda bene dall’illustrare (qual è l’origine del malessere di Hanna? Che cosa faceva Jerzy in Polonia?). Se i personaggi non sono de-finiti, neppure la loro storia può finire. Anziché chiudere il cerchio, il finale apre ad almeno due film possibili: un kolossal (la lavorazione del film viene sospesa e trasferita negli USA), oppure un ritratto della condizione operaia (Isabelle convince Hanna a trasferirsi in Polonia per unirsi a Solidarność).
116Saggio sul cinema, ma anche, per riprendere uno slogan degli anni Sessanta, film poetico e politico, Passion è una «sinfonia» (Farassino) articolata e complessa la cui struttura melodica, però, non ha nulla di eccentrico. Al contrario, immagini e suoni si mescolano secondo «una logica assoluta» (Godard), quella del conflitto: vita-arte, plein air-studio, lavoro-amore, Francia-Svizzera, politica-religione, attore-personaggio, ma soprattutto luce extradigetica-luce naturale.
117Jerzy deve mettere in scena tele celebri (da Goya a Rembrandt, da El Greco a Velásquez) e per farlo ne ricostruisce la composizione scenica, imitando la posizione dei personaggi, la direzione degli sguardi, la temperatura del colore e la tensione interna delle linee di forza. Ma l’approccio si rivela immediatamente sterile. Difficile, infatti, è riprodurre la luce. Non basta “trovarla”: bisogna fermarla e fare in modo che essa si fondi con la testura di un’immagine mobile.
118Jerzy interrompe le riprese perché la luce non va, «non va e non viene da nessuna parte». Come sempre, Godard gioca con le parole ma questa volta il gioco nasconde una riflessione sulla struttura organica dell’immagine cinematografica. Ciò che Jerzy “patisce”, probabilmente, è la natura artificiale della luce: «il film si farà con la luce vera», dice a Hanna. Questi tableaux non sono vivants perché la luce non è viva, non dà vita, non si muove. Non si muove, almeno, quanto quella del sole svizzero, la quale prima ferisce gli occhi di Isabelle dietro il finestrino e poi accomuna tutto, corpi e cose, in una monocromia che sembra congelare il tempo.
119Come ha dimostrato Jacques Aumont, Godard ha sempre adoperato la metafora che assimila il regista al pittore, tanto negli scritti critici che nei testi audiovisivi. Ma se in Il bandito delle undici o in Il disprezzo, la pittura appariva come il punto di arrivo di una ricerca estetica («Ce n’est pas du sang, c’est du rouge»), oggi essa è vista come un punto di partenza. Il “nuovo” Godard viene dalla pittura e ora va verso la banalità del mondo, cercando di dipingerne le cose principali ma anche quelle secondarie, con o senza contorni. Per fare ciò, però, anch’egli deve ritrovare la luce.
120Tutto sommato quella di Jerzy, Isabelle e Hanna è una storia molto simile a quella raccontata da Il disprezzo, ovvero «la storia degli uomini che si sono allontanati dagli Dei e tagliati fuori da loro stessi e dal mondo reale. Ora, racchiusi in un mondo di tenebre, provano maldestramente a ritrovare la luce»43.
Estasi e pathos
121Sono passati dodici minuti dall’inizio. Nelle tenebre di una stanza, accompagnate dal Requiem di Mozart ma non sincronizzate con i volti, vagano le parole degli operai riuniti a casa di Isabelle, corpi statici e inerti esattamente quanto quelli dei modelli chiamati a dar vita ai tableaux. «Bisogna vedere ciò che si scrive», dice Isabelle. E per vedere la giovane sindacalista abbassa lentamente il punto luce, aprendo l’inquadratura a uno spazio altro, quello del set: mediante un raccordo sul movimento la lampada casalinga si è trasformata in un riflettore professionale. Quasi scolastico nella sua fattura, un montaggio analogico permette infatti di associare, mediante un semplice gesto (il posizionamento di un proiettore), operai e figuranti, uniti nel medesimo destino di vittime: il quadro “illuminato” da Isabelle è infatti La fucilazione di Goya.
122Più volte scomodato dagli esegeti44, il nume di Ejzenštejn ritorna dunque a far sentire la sua presenza. In un film sul cinema inteso come connubio mistico di amore e lavoro, del resto, l’immagine non poteva che configurarsi come èk-stasis, prodotto di un montaggio che, sintetizzando due rappresentabili, opera un processo di trasformazione fondato in questo caso sul principio dell’analogia. Come l’Ejzenštejn de Staroe i novoe (Il vecchio e il nuovo, 1928), Godard mette in immagini il concetto di trasformazione, nell’accezione di passaggio da una condizione a un’altra. Tutti vogliono trasformare qualcosa: Isabelle aspira a trasformare le condizioni di vita del mondo operaio, Jerzy deve cinematizzare la pittura, Hanna vorrebbe mutare il lavoro in amore. Passione significa innanzitutto sofferenza. Ciò che questi personaggi patiscono è proprio l’impossibilità di attuare questo “passaggio da una condizione a un’altra”, tema che del resto anticipa, su scala laica, il mistero metafisico del concepimento (Je vous salue, Marie).
123Per ogni processo di trasformazione il nemico è quello individuato da Denise (Si salvi chi può… la vita), ovvero la ripetizione. Isabelle e Hanna lottano ognuna a suo modo contro la ripetizione e per farlo espongono anche il loro corpo. A Jerzy Isabelle offre la verginità, mentre Hanna esita a soddisfare la richiesta dell’uomo: prestare il corpo alla cinepresa le appare un gesto troppo simile all’amore.
124Godard, insomma, non riesce a raccontare una storia senza raccontare la Storia del cinema. Ejzenštejn, il cinema militante e il film in costume sono solo alcuni dei capitoli di una Storia che l’autore ha appena cominciato a sfogliare. E quella di un regista chiamato controvoglia a dirigere un kolossal è una storia che abbiamo già visto, appunto, in Il disprezzo. Allora come oggi, si tratta di raccontare una storia e seguire delle leggi. Ma nel cinema, ripete Jerzy, «le leggi non esistono. Per questo la gente lo ama ancora».
125Una conclusione, questa, che suona come l’ammissione di una sconfitta. Inutile rinchiudersi negli studi. Le passioni della vita alterano l’umore delle comparse e distraggono la mente di un regista attento, più che a raccontare una storia, a evitare buchi, cesure e fratture nell’architettura luministica. Jerzy non lotta contro la ripetizione. Jerzy ripete. O meglio vorrebbe ripetere. Rifare Rembrandt però, dove «tutto è correttamente illuminato, da sinistra verso destra», è impossibile. Raccontare una storia fatta solo di immagini, e non di vita, è impossibile.
126Perché, come afferma M.lle Lukatchewski, difficile è separare «dal reale esteriore» una storia che «non è una menzogna, ma qualcosa di immaginato che non è mai l’esatta verità, ma nemmeno il suo contrario».
127Nonostante le leggi, dunque, l’inquadratura resta sempre una finestra sul mondo e il cinema, vent’anni dopo la Nouvelle Vague, è ancora «il cinema della disponibilità esistenziale, del mondo inteso come possibilità, orizzonte di aperture che si presentano al soggetto nella loro variegata disponibilità, dell’esserci considerato come sintesi della libertà e del nulla»45.
Uomini e fiori
128Si è detto che Passion è articolato secondo una serie di opposizioni binarie (vita/arte, cinema/pittura, lavoro/amore ecc). Consideriamo la dialettica interno/esterno – ammesso che sia davvero possibile parlare di esterni – e osserviamo la quinta inquadratura del film, ovvero il campo lungo con cui, dopo averci mostrato un frammento della storia di Hanna (la relazione clandestina con Michel), Godard introduce il personaggio di Jerzy (fig. 7). Questi i materiali dell’immagine: un giardino incolto, dove fiori selvatici si alternano alla sterpaglia, la roulotte della produzione parcheggiata sullo sfondo, un’auto che arriva e un’altra che parte. Qualcuno sembra accogliere Jerzy e parlargli, ma non conosciamo né l’identità dei personaggi, né il soggetto della loro conversazione. Come spesso avviene nelle opere di questo decennio, i corpi urlano invece di parlare e soprattutto corrono, si spingono, urtano contro gli oggetti.
129Anziché avvicinarsi per cogliere i dettagli dell’azione e permetterci di collegare la parole ai rispettivi volti, Godard resta fermo, lasciando che il rumore del vento, ben visibile per effetto del movimento dei fiori sulla destra, renda ancora più impercettibili le voci della storia, o meglio di una delle storie che compongono il film.
130Denise aveva ragione: «descrivere le cose secondarie illumina le principali». Fiori in primo piano, corpi e parole sullo sfondo. La profondità di campo permette allo spettatore di effettuare il proprio découpage, scegliendo liberamente che cosa guardare e che cosa ascoltare. Più che raccontare, dunque, la cinepresa si limita a guardare, senza fare (apparentemente) nulla. Sul set di Passion, del resto, Jerzy si comporta allo stesso modo, rivendicando con queste parole la propria impotenza: «Io non sono nulla, nulla di nulla. Osservo, trasformo, trasferisco, elimino gli eccessi, tutto qui».
131Eppure, qualcosa la cinepresa di Godard ha fatto: ha suddiviso, all’interno del campo visivo, una porzione di spazio che duplica la cornice dell’inquadratura rilanciando all’infinito il gioco metalinguistico. L’albero a sinistra e la roulotte sulla destra, infatti, fungono da quadro nel quadro atto a racchiudere coloro che dovrebbero essere gli attanti dell’azione, ovvero i personaggi, e che invece più che agire si limitano a essere: come abbiamo detto in Passion non c’è azione ma inazione, stasi, constatazione dell’impossibilità di agire. Molto simile è la composizione di un altro spazio liminare, ovvero l’esterno del bar dell’hotel che ospita la troupe (Fig. 8). Da un interno misterioso (l’hotel? un’abitazione?), qualcuno osserva il produttore e Michel salire in auto e partire, mentre Hanna si defila dal resto del gruppo (sta per raggiungere Jerzy in segreto). La posizione della cinepresa duplica l’inquadratura in due quadri adiacenti, ma nessuno di essi mostra eventi “principali”. Scorgiamo solo auto ferme e corpi in campo lungo, troppo lontani per farci sentire la loro voce: guardare, in Passion, non significa vedere. Fare cinema, dunque, è innanzitutto osservare. Ma osservare equivale inevitabilmente – per utilizzare un verbo caro a Ejzenštejn – a trasformare ciò che si osserva in qualcosa d’altro. E ogni trasformazione, lo abbiamo visto, produce senso nella percezione dello spettatore. Un anonimo luogo come questo esterno svizzero diventa, una volta catturato dalla cinepresa, uno spazio, ovvero – direbbe Sandro Bernardi – un territorio che non obbedisce più alla storia ma rivendica da essa una certa autonomia46.
132Uomo del suo tempo, Godard sa bene che filmare un paesaggio significa non solo trasferire o eliminare elementi, come sostiene Jerzy, ma anche porre interrogativi sull’atto del guardare. Chi guarda l’arrivo dell’auto del regista? Se il soggetto dello sguardo è l’istanza narrante, perché la cinepresa non si avvicina ai corpi?
133Perché Godard fa come Velásquez, o quanto meno come il Velásquez raccontato da Elie Faure all’inizio di Il bandito delle ore undici ovvero «girovaga attorno agli oggetti con l’aria e il crepuscolo». Riascoltiamo le parole di Belmondo: «Dopo i cinquant’anni Velásquez non dipingeva mai una cosa definita. Girovagava attorno agli oggetti con l’aria e il crepuscolo. Coglieva nell’ombra e nella trasparenza dei fondi le palpitazioni colorate di cui faceva il centro invisibile della sua silenziosa sinfonia».
134Non tutti gli esterni sono uguali in questo Godard. Netto, per esempio, è il contrasto tra paesaggi con figure come questo, imitato poi nella sequenza della tentata fuga del padrone (fig. 9), e i frammenti di quello spazio cosmologico che invece ha attratto fin da subito l’attenzione della critica: dai prati verdi di Si salvi chi può... la vita alle nuvole di Passion, dal mare nero di Prénom Carmen alla luna di Je vous salue, Marie. Territori non in grado di ospitare una storia in quanto immensamente aperti, privi di limiti, di bordi, di cornici.
135Quelli abitati dai corpi, invece, sono esterni chiusi, senza cielo ma soprattutto senza una via di fuga, luoghi di transito nei quali la cinepresa, a differenza di quanto faceva negli anni Sessanta, non si può muovere. Quando lo fa, e mi riferisco al camera car che documenta la rincorsa di Isabelle all’auto di Jerzy all’inzio del film, la cinepresa non vede nulla, ma sembra al contrario “subire” l’aggressione di un reale accecante, difficile da mettere a fuoco. Mentre Isabelle resta voce senza volto, il sole lampeggia tra gli alberi come una macchia di colore astratto.
136Ai travelling di Fino all’ultimo respiro o di Une femme est une femme (La donna è donna, 1964) si oppongono, in Passion, inquadrature fisse di muri davanti ai quali si agitano corpi che, come la luce agognata da Jerzy, non vengono da nessuna parte e non vanno da nessuna parte. Quando passano davanti all’occhio della cinepresa ci sono sempre due o tre auto che raddoppiano il motivo del muro inteso come ostacolo alla visione. Si pensi alla sequenza che documenta l’incontro incrociato tra amanti presenti (Michel e Hanna, seduti al volante delle rispettive auto) e futuri (Jerzy e Isabelle). Esterno giorno. L’auto di Jerzy è ferma, quella di Hanna deve ancora arrivare. Prima di avvicinarsi al produttore e confessargli la sua crisi («non vedo più nulla»), l’alter ego dell’autore stringe la mano a Isabelle nello spazio liminare compreso tra due auto in sosta, una delle quali oscura completamente la parte inferiore dei due corpi (fig. 10).
137Nel paesaggio urbano, insomma, si fatica non solo a prendere ma anche a vedere il corpo.
138Questa è forse l’unica novità figurativa di un Godard, quello degli anni Ottanta, che sembra voler smentire quanto affermato da Marina Vlady in Due o tre cose che so di lei, ovvero l’equivalenza balazsiana tra volto e paesaggio: «Un paesaggio è come un volto». In realtà non così. Nel suo autoritratto invernale (JLG/JLG), monsieur Godard alternerà immagini di diversi JLG (seduto alla scrivania o alle prese con una pallina da tennis) a silenziosi paesaggi invernali, «paesaggi d’infanzia e d’altri tempi, senza nessuno dentro, e paesaggi recenti, dove si sono svolte le riprese». Perché, come dirà la voce narrante, «il y a pays dans paysage»47 e filmare un paesaggio significa riprodurre, anche rappresentare la patria del soggetto e dunque completare l’(auto)ritratto.
139Gli esterni di Allemagne 90 neuf zéro, è vero, saranno filmati come volti, devastati ed erosi quanto quello di colui che li attraversa (Eddie Constantine)48. Ma se, come ha scritto Deleuze, «voltificare un paesaggio significa filmarlo come una superficie riflettente sulla quale si inscrivono micromovimenti»49, non sono sicuro che il paesaggio di Passion possa essere guardato a tutti gli effetti come un volto. Più che riflettere, infatti, questi esterni si offrono come negazione dello sguardo, concrezione figurativa di quel «Néant» che, come abbiamo visto, «soggiornerebbe accanto all’immagine» al fine di permettere a quest’ultima di esprimere tutta la sua potenza. Come i paesaggi di JLG/JLG, gli esterni di Passion non portano da nessuna parte. Ma a differenza di quei quadri invernali, carichi di passato, questi sono spazi senza storia ma anche contro un’ipotesi di storia, spazi da costruire, materiali da togliere.
Contorni
140Velásquez, diceva Elie Faure, non dipingeva cose definite. De-finire significa fare ciò che Godard cerca di evitare, ovvero conferire all’oggetto della rappresentazione un contorno, qualcosa che permetta allo spettatore di riconoscere codesto oggetto attraverso la sua forma.
141Disponendo gli elementi narrativi secondo associazioni libere anziché adottare una concatenazione di azione e reazione, l’autore fa in modo che il racconto avanzi per piccoli slittamenti, brevi digressioni su personaggi e ambienti secondari nell’economia della storia. È il caso della sequenza che documenta un frammento della vita privata di François, l’aiuto regista, alle prese con i compiti scolastici della figlia Barbara. Si tratta di scrivere un dettato, ma il testo pronunciato dal padre si rivela, in realtà, la lettura di un celebre interrogativo di Gregory Bateson: «perché le cose hanno dei contorni?»50.
142Rileggiamo le pagine di Verso un’ecologia della mente:
Figlia: Papà, perché le cose hanno contorni?
Padre: Davvero? Non so. Di quali cose parli?
Figlia: Sì, quando disegno delle cose, perché hanno i contorni?
Padre: Beh, e le cose di altro tipo..., un gregge di pecore? O una conversazione? Queste cose hanno contorni?
Figlia: Non dire sciocchezze. Non si può disegnare una conversazione. Dico le cose.
143Non è questa la sede per un’analisi della suggestione esercitata dal pensiero di Bateson sull’immaginario di Godard. Di certo questioni come la teoria del caos deterministico e i criteri del processo di evoluzione e pensiero, cardini dell’epistemologia di Bateson, affascinano da tempo anche il nostro autore, il quale però, come dimostrerà anche Je vous salue, Marie, si diverte a restare sulla superficie della questione. Si pensi per esempio alla teoria della probabilità: campo d’indagine tra i più frequentati da Bateson, questa teoria verrà, come vedremo, scherzosamente derisa durante uno dei duetti tra Hanna a Jerzy.
144Una delle grandi intuizioni di Bateson, com’è noto, fu l’analogia tra pensiero ed evoluzione, indagati come processi aleatori accomunati non dal tempo (tempo storico e tempo biologico non coicidono), ma dalla duplicità della loro struttura. Sia il sistema individuo che il sistema evoluzione, infatti, prevedono nel loro DNA, oltre a una componente conservativa e tautologica, anche un elemento casuale e creativo che Bateson chiama “immaginazione”. Non c’è evoluzione, sostiene Bateson, senza continuità, in quanto ogni organismo muta mantenendo inalterati i meccanismi interni. Non ci sarebbe vita nel cosmo, insomma, senza la dialettica tra caso (rinnovamento) e legge (continuità).
145I concetti di rigore e immaginazione rinviano a quel grande orizzonte del pensiero godardiano che è il linguaggio. Da Ferdinand (Il bandito delle ore undici) a Nana (Questa è la mia vita), da Juliette Jeanson (Due o tre cose che so di lei) a Bruno (Le petit soldat), tutti o quasi si interrogano sui limiti che il linguaggio incontra nel momento in cui cerca di definire la realtà. «Più si parla – ripete Nana – meno le cose hanno senso».
146Affermare che la donna è donna o che il cinema è il cinema, infatti, significa constatare come la realtà sia già essa stessa linguaggio. Il nostro tentativo di decodificare questo linguaggio non fa che porre limiti all’espressività della realtà stessa. Rileggiamo un frammento di Bateson espunto dal film: «I contorni appartengono alle cose o siamo noi che li diamo quando le disegniamo?».
147Sono passati vent’anni, ma la ricerca di Godard ruota attorno agli stessi temi affrontati negli anni Karina. E mi riferisco alla sequenza della conversazione tra Nana e Brice Parain in Questa è la mia vita. Alla ragazza, delusa dal fatto che le parole tradirebbero le sue intenzioni, il filosofo ribatte affermando che forse siamo noi che tradiamo le parole: «Bisogna arrivare a poter dire esattamente quello che vogliamo. Bisogna pensare, e per pensare è necessario parlare. Per comunicare bisogna parlare. È la vita umana».
148La «vita umana»: ovvero la vita che Denise vuole salvare, la vita intesa come «quella cosa impalpabile, quel modo di guardare il mondo con i sentimenti, questa nozione che non ha forma determinata, quella cosa che […] si chiama Passione»51. La comunicazione verbale, del resto, è un problema sollevato anche da Hanna durante la visione del suo provino per Passion: «Ciò che è difficile per te è parlare come vuoi tu. Anche se parlo il polacco, non so, non capisco come parli. Non so dove tu vuoi che io metta gli aggettivi e i verbi».
149La replica di Jerzy, immediata, tradisce tutta la familiarità poetica con il suo creatore: «Approfitta del fatto che la frase non è fatta per cominciare a parlare. Per cominciare a vivere».
150Da Fino all’ultimo respiro a Il bandito delle ore undici, da Il disprezzo a Éloge de l’amour, Godard ha sempre rappresentato la vita come un flusso pieno di ellissi, di vuoti, di tempi narrativamente deboli e parole perdute nel rumore o nell’oblio. Ha sempre errato attorno alle cose anziché asservirle necessariamente alla produzione del senso.
151Il cerchio si sta chiudendo: ricapitoliamo. Nell’hotel che ospita la troupe di Passion è in corso una lite tra Michel, il padrone della fabbrica, e un suo creditore. Anziché documentare la scena, la cinepresa resta sul volto di Hanna Schygulla, la quale però è distratta dalle grida del produttore, desideroso di richiamare l’attenzione della segretaria di produzione, Sophie Lucatchevsky. Qualche secondo dopo vediamo Hanna discutere con Jerzy sulla similitudine tra amore e lavoro; la conversazione avviene in una sorta di periferia del set, davanti all’uscita secondaria dell’albergo.
152Tra queste due scene “principali”, solamente abbozzate dal punto di vista scenografico e narrativo (intuiamo a mala pena il motivo della disputa e l’espressione dei personaggi), Godard inserisce una piccola scena secondaria, ovvero il dettato del padre alla figlia di cui sopra.
153Se è vero, come diceva Denise, che le cose secondarie illuminano le cose principali, la citazione di Bateson rivela una delle chiavi con cui decodificare il duetto dei due amanti, ognuno complice e coautore della storia dell’altro. La bambina di Bateson è sicura: «Non dire sciocchezze papà: non si può disegnare una conversazione».
154E quello che Godard fa è proprio filmare una conversazione senza “disegnarla”, ovvero senza assegnarle i seguenti contorni tipici del cinema narrativo: intellegibilità acustica delle parole, affinità linguistica tra i due interlocutori, découpage classico in mezza figura e ruolo attivo della conversazione nell’economia narrativa del racconto. Ebbene: nessuno di questi “contorni” è presente. Pur posizionati al centro del quadro, i due corpi sono coperti da strutture oggettuali quali la ringhiera di una scala e le foglie di una pianta. Quanto alla comunicazione, essa è ostacolata non solo dal rumore del traffico ma anche dalla differenza linguistica. Quando Jerzy passa dal francese al polacco, Hanna replica con una frase in tedesco che l’uomo ammette di non capire e che Godard, naturalmente, non traduce: «Die Arbeit ist vielleicht eine Art sich ausziehen, Aber ist Verdammt nah an der Liebe gleich». «Il lavoro – dice Hanna – è forse un modo di spogliarsi, ma è maledettamente simile all’amore». Nemmeno la lingua tedesca dissolve l’ambiguità della tipologia di prestazione richiesta dal regista alla sua amante: che cosa deve fare Hanna per Jerzy? Posare o agire? Recitare impone di mettere a nudo semplicemente il corpo o anche l’anima? Lo vedremo tra poco.
155Oltre a non capire, Jerzy commette, al pari dell’amante, numerosi errori di grammatica con il francese: «Il y a longtemps que je ne fais pas d’allemand»52 (Si dovrebbe dire «Cela fait» al posto di «Il y a»).
156Anziché mimetizzarsi nei rispettivi personaggi, insomma, gli attori mostrano in presa diretta i limiti del loro “dispositivo”, ostacolando così il processo di identificazione spettatoriale. Quello che Godard cattura è proprio la resistenza passiva che il significante oppone alla costruzione del senso. Ancora una volta, però, si tratta della ripetizione di qualcosa che abbiamo già visto o meglio già ascoltato, vent’anni fa, sugli Champs-Elysées. Anche Jean Seberg (Fino all’ultimo respiro), infatti, interrompeva la conversazione per chiedere al partner il significato di alcune espressioni idiomatiche proprie di una lingua straniera sia per l’attrice che per il personaggio. Allora come oggi, soprattutto, il cuore del discorso viene presto abbandonato e i due interlocutori scivolano dal centro alla periferia:
Hanna: Il lavoro che mi chiedi è troppo simile all’amore.
Jerzy: Possibile.
Hanna: Possible o probabile?
Jerzy: Che giorno è oggi?
Hanna: Il 21.
Jerzy: No, il 22.
157Forse Nana aveva ragione. Le parole non facilitano la comunione degli individui e soprattutto non aiutano, per dirla con Bateson, a disegnare i contorni del reale. Se la realtà è essa stessa linguaggio, allora, tanto vale seguire il suggerimento della voce over di Due o tre cose che so di lei, ovvero modificare il modo di guardarla. E questo lo si può fare allontanandosi dall’oggetto (penso all’esterno giorno analizzato sopra), oppure avvicinandosi così tanto da deformarne i contorni. Solo in questo modo, infatti, la schiuma creata dalla caduta di una zolletta di zucchero in una tazzina di caffè può apparire una galassia oscura e sconfinata.
158Prima di parlare o scrivere – affermerà Godard in esergo a Scénario du film Passion – bisogna vedere. Jerzy guarda attorno a sé, nella nebbia svizzera e oltre le luci del set. Le parole non servono né in amore (con Hanna) né sul lavoro: impossibile, infatti, dirigere a parole la nipote di Michel, sordomuta chiamata a “interpretare” la Bagnante di Valpinçon di Ingres. Per poter inventare una storia – è lui stesso ad ammetterlo – Jerzy deve prima viverla. Nel finale, ecco l’illuminazione. Partito con l’auto del padrone alla ricerca di Hanna e Isabelle, l’uomo incontra Sarah, la cameriera dell’hotel che tutti chiamano “principessa”, nota per svolgere i suoi lavori domestici compiendo esercizi di contorsionismo acrobatico. Jerzy la invita a salire in auto ma lei rifiuta, perché non le piacciono le auto. Jerzy però, nel frattempo, ha imparato a guardare. Ha imparato che, al pari delle conversazioni, le cose non hanno sempre dei contorni. E allora tutto dipende dallo sguardo che si getta su di esse: «Su salga! – urla Jerzy alla ragazza – Non è un’auto, è un tappeto volante».
Volti
159Un paesaggio, diceva Marina Vlady, è come un volto. Nel tentativo di «creare la probabilità di un mondo possibile»53, l’occhio di Godard abbandona il vento della campagna (Si salvi chi può… la vita) e ritorna a esplorare lo spazio affettivo del volto. Vengono in mente i monologhi del reporter di Le petit soldat, convinto che il cinema possa davvero restituire la verità ventiquattro volte al secondo. Ma la questione è ancora aperta: quando si filma un volto si cattura davvero l’anima che c’è dietro? E che cosa resta, sul fragile supporto audiovisivo, di tutto ciò che Bruno definisce «l’inquietudine di uno sguardo» o il «segreto di un sorriso»? In altri termini: il cinema cattura solo i contorni o anche l’essenza delle cose?
160Da quanto possiamo intuire, il découpage del film di Jerzy non prevede primi piani. Tutto lo sforzo del regista è concentrato nell’allestimento della scenografia, nella disposizione dei figuranti e soprattutto nel tentativo di rendere, attraverso la luce, l’immagine fissa “animata”, ovvero – dirà Marie (Je vous salue, Marie) – dotata di anima.
161Il volto, in Passion, non è dunque sul set, ma fuori. Nella fabbrica, nelle stanze di una casa popolare (fig. 11), dietro il finestrino di un’auto o sullo schermo di un monitor di servizio (fig. 13). Cosi come aveva fatto Nathalie Baye, Isabelle Huppert e Hanna Schygulla si offrono come modelle per una variazione sul tema del ritratto da parte di un cineasta che ha abbandonato le suggestioni dell’astrattismo (penso alle citazioni di Braque o Picasso in Il bandito delle ore undici) per confrontarsi con i classici. Quando Hanna, nel finale, si reca da Jerzy per un ultimo addio, Godard filma il volto della Schygulla con una north-light simile a quella con cui Von Sternberg irrorava il volto di Marlene Dietrich (fig. 14). Pochi minuti prima, nel tentativo di convincere Jerzy a trasferirsi a Hollywood, il produttore di questo film nel film aveva citato proprio questa luce: «Laggiù vedrai la luce, quella di Sternberg, e quella di Boris Kaufman!». Si veda la sequenza della riunione delle operaie a casa di Isabelle: ogni primo piano si differenzia dal successivo o dal precedente per l’angolazione della cinepresa e soprattutto per il taglio di luce, ora piena, ora scarsa, ora aggressiva ecc. Difficile rinvenire qui quelle che Deleuze individua, proprio in questi anni54, come i tre fattori principali dell’immagine-affezione: comunicazione, individualizzazione e socializzazione. Privi (?) della rispettiva voce, questi volti infatti non introducono a nessun evento. Anziché riflettere la luce, sono da essa divorati, assorbiti, inghiottiti. A noi, come al protagonista di Le petit soldat55 davanti alla sua modella, non è dato sapere a cosa pensano.
162Ciò che mette in crisi la nozione deleuziana di «voltità» è il rapporto ambiguo che questi volti hanno con la voce, esterna al contenuto di un’immagine che eppure offre una galleria di bocche aperte, chiuse, semichiuse.
163Ancora una volta, Godard smaschera le procedure del processo di identificazione spettatoriale e in particolare quell’«atto di fede»56 che consiste nell’attribuire l’immagine della voce all’immagine del corpo. Aveva ragione Jacques Aumont: poiché non esiste alcun criterio assoluto che possa assicurarci la sincronia tra voce e volto, è necessario che lo spettatore creda a ciò che vede, anche se ciò che vede non è una storia, quanto la semplice esposizione degli elementi di una storia. Ci sono dei volti (i quali rimandano a dei corpi), ci sono delle luci, ci sono delle parole. La storia è dunque possibile. Tocca allo spettatore e alla sua “fede” renderla – direbbe Godard – «probabile». Se raccogliamo tutti i primi piani di Isabelle Huppert presenti in Passion, possiamo comporre una piccola storia del volto cinematografico. Pensiamo alle scene di conversazione tra la ragazza e Jerzy. Castrato da un’acconciatura che rinvia immediatamente a un testo, Questa è la mia vita, a sua volta intertestuale (La passion de Jeanne D’Arc, La passione di Giovanna D’Arco, Carl Th. Dreyer, 1927), quello di Isabelle è in primo luogo un volto parlante e dunque, secondo la classificazione di Jacques Aumont, «ordinario», ovvero capace di veicolare il senso. Il personaggio ha non solo lo stesso nome dell’attrice, ma anche la medesima voce. Una voce riconoscibile (già “vista” nel film precedente), ma al contempo inedita, in quanto emanata con una balbuzie che avrebbe dovuto simboleggiare tanto la “diversità” spirituale del personaggio quanto l’analogia tra quest’ultimo e la sua interprete: «Godard mi ha chiesto di balbettare e mi è sembrata una cosa molto violenta. Avevo la sensazione che mi inviasse una metafora: “Non ci riesci ancora, balbetti nella vita”57.
164La balbuzie altro non è che l’incarnazione sonora di quella «folata d’irregolarità» a cui anelava Denise. È ciò che seduce Jerzy o quanto meno ciò che l’uomo non trova in Hanna: un varco verso il possibile, verso la «frase non finita», verso la vita.
165Accanto al volto classico, il volto moderno: opaco, ottuso, resistente al senso. Penso al primo piano di spalle durante il lavoro o a quello sguardo in macchina che punteggia la sequenza della riunione bucando il tessuto, già fragile, della finzione (fig. 12). Non ancora trentenne, Isabelle Huppert dimostra grande abilità negli effetti di trascinamento, passando senza soluzioni di continuità dal sentimento (umiliazione, solitudine, impotenza) alla distruzione dello stesso. È sufficiente, infatti, un piccolo movimento delle sopracciglia per ammiccare ironicamente allo spettatore e suggerirgli una partecipazione fredda e distaccata al racconto58.
166Nel successivo Scénario, Godard spiegherà come il raccordo analogico sul quadro di Goya (vedi sopra) sia da interpretare come un movimento della pittura “verso” la musica, in aiuto di Isabelle (ma quale Isabelle? L’attrice o il personaggio?).
167Nella penombra della sua stanza, Jerzy accarezza il volto dell’operaia, confidandole che grazie a lei egli ha ritrovato sé stesso. Col volto di Hanna, però, l’uomo fa di più. Lo cattura con la cinepresa e poi lo graffia con il ralenti del monitor. Il referente reale è abbandonato e sostituito con una copia sgranata, una superficie di pixel che il regista adopera come la sua tavolozza personale. Premendo i tasti stop, forward e rewind del suo telecomando, Jerzy sembra riuscire finalmente a sciogliere la materia del significante e trovare ciò che cercava. Davanti al produttore infuriato e desideroso di una storia, l’uomo indica il monitor e risponde: «La ci sono delle storie, là c’è la luce».
168Dunque quello conservato nel nastro magnetico non è solamente un volto, ma qualcosa di più. Su un paesaggio solcato da un tempo che nessun trucco nasconde (le labbra secche, gli occhi gonfi, la pelle unta), forse qualcosa succede. Hanna parla, dice di «viaggiare in se stessa» ma la sua storia non coincide con quella di Jerzy. Per questo l’uomo manipola con il telecomando il tempo di questa frase e la distrugge, creando quei buchi di cui sopra.
169Passion si conferma un film sull’interstizio che c’è tra le cose; tra il cinema e la vita, tra l’amore e il lavoro, tra un uomo e uno schermo. Questo tra corrisponde a quella sensazione di distanza che avverte Nana quando si sente tradita dalle parole, ma anche al vuoto ben visibile nei numerosi “esterni con figure”. Oltre all’inquadratura analizzata nel primo paragrafo (l’arrivo di Jerzy sul set), si veda anche la disposizione dei personaggi nella sequenza della rissa tra i componenti della troupe, immediatamente successiva al dialogo tra il regista e il suo simulacro.
170Fermare l’immagine non serve, perché il volto di pixel, nella sua tattilità, si rivela immagine al secondo grado, immagine di un’immagine o quanto meno juste une image. E non un’immagine giusta. Vana si è rivelata anche la scelta di accompagnare il casting con la terza parte della Messa in do minore (K 427) di Mozart, quel Credo per voce sola che Hanna finge solamente di intonare: Et incarnatus est de Spiritu sancto ex Maria virgine et homo factus est. Come sempre, anche questa scelta musicale non è casuale. Il Credo è uno dei momenti più delicati della professione di fede cristiana, ma nel cinema inteso come lavoro/amore la fede non basta: se il fedele crede che Verbo e Dio siano una sola cosa, il cineasta fatica a ritrovare nell’immagine l’essenza della carne filmata.
171Nonostante il lamento dell’amante («Oh, ti dimentico. Non dimenticarmi! Ti dimentico»), il volto amato scivola nell’oblio59.
172Di fronte alle immagini che scorrono sul monitor l’assistente di Jerzy parla di Rubens, ma quello di Hanna, se consideriamo la sequenza del dialogo con Jerzy sulle scale, mi sembra soprattutto un volto rembrandtiano, ovvero un volto che genera esso stesso la fonte luminosa, una luce che anziché unire isola e esclude60.
173La luce irradiata dal volto di Hanna, dunque, non sembra in grado di illuminare né la Storia né la Passione del film da fare, ma esclusivamente la fragile passione di due amanti occasionali.
174Proviamo a trarre una conclusione, seppur provvisoria. Le due opere prese in esame ci hanno detto che per ricominciare a raccontare delle storie Godard è dovuto risalire, per citare uno dei suoi recenti schizzi (L’enfance de l’art, 1991), all’“infanzia dell’immagine”, riesumando così interrogativi propri non solo del cineasta, ma anche del fotografo o del pittore. Ricominciare a raccontare significa infatti ricominciare a guardare e dunque ripartire dalla figura umana, per poi riflettere sulla relazione tra corpo e paesaggio, sulla distanza tra cinepresa e attore, sull’intervallo tra la voce e il volto e sulla luce necessaria a rendere presente questo volto.
175Rispetto agli anni Karina, alcune cose sono cambiate. Per i personaggi le passioni sono sempre le stesse: delusioni amorose, insoddisfazioni professionali, velleità artistiche, perdita di identità. Ciò che muta sono piuttosto le dinamiche del racconto, frastagliate da digressioni e frammentazioni, e le modalità di messa in scena. Anziché essere appiattita contro superfici colorate o lasciata deambulare in spazi aperti, la figura umana è filmata sempre in uno spazio liminare, una sorta di non luogo: tra la fabbrica e il set, tra la campagna e la città, tra la stanza d’hotel e il centro urbano, tra il lavoro e l’amore.
176Le forze del desiderio appaiono invisibili sotto la pelle di un’immagine che, pur manipolando il tempo (e penso ai ralenti analizzati), vuol restare mimetica. Se il corpo talora è filmato come un lastra di nervi nervosa, in preda all’ira (Passion), al rimpianto (Si salvi chi può… la vita), il volto resta sostanzialmente una superficie compatta, dove il tempo scorre lentamente lasciando solchi, ferite, tracce, frammenti di storie.
177Se per raccontare una storia è prima necessario viverla, recuperare l’infanzia dell’immagine significa fare i conti con la vita la quale, diceva il filosofo di Questa è la mia vita, altro non è che «oscillazione»: «Sei tra il nero e il bianco. Passion. Tra il nero e il bianco. Tra il nulla e l’immagine»61.
Notes de bas de page
1 Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, cit., p. 155.
2 Ivi, p. 178.
3 Ibidem.
4 Secondo Michael Witt il lavoro di Anne-Marie Miéville meriterebbe quanto meno una retrospettiva. Alle fotografie a colori, scattate esattamente nel punto in cui era collocata la cinepresa, si alternano alcune immagini in bianco e nero, realizzate con una cura formale del tutto differente e mai inviate alla produzione. Cfr. Michael Witt, Sauve qui peut (la vie). Oeuvre Multimédia in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, Centre Pompidou, Paris, 2006.
5 James Agee, Walker Evans, Louons maintenant les grandes hommes. Alabama, trois familles de métayers en 1936, [1940], tr. fr. Plon, Paris, 1972.
6 Jean-Luc Godard, Lettre numéro deux aux membres de la Commission d’avance sur recettes, in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit., p. 307.
7 Jean-Louis Leutrat, Suzanne Liandrat-Guigues, Alla ricerca dell’arte perduta, cit., p. 123.
8 Jean-Luc Godard, Travail-amour-cinéma, tr. it. in Il cinema è il cinema, cit., pp. 352-353.
9 «A parte Chaplin, le brutte copie del cinema erano scrittura, letteratura. Erano il contrario. Ora, col videoregistratore, Godard ha la prova. Può preparare il suo film, lavorarlo, vederlo in brutta copia, correggerlo, cambiarlo, modificarlo con la forma stessa dell’immagine latente, voi capite, animata. È quello che io chiamo cinema in libertà. È un cinema che non ha paura di sbagliare qualcosa e di mostrarla comunque» (Henri Langlois, Le cinéma en liberté: Warhol/Godard (1976), in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit., p. 259).
10 Nel 1956 Godard succede a Claude Chabrol in qualità di ideatore di press-book per conto della Fox. Quest’esperienza, che durerà sino al 1958, significa non solo tranquillità economica ma anche continuità con la pratica critica: «Era come fare del cinema. Creavo delle brochure per il film e queste brochure le realizzavo come se fossero degli articoli. È stata una bella parentesi della mia vita» (Jean-Luc Godard, Godard dit tout: À bout de souffle c’était le petit Chaperon rouge, «Télérama», 1489, p. 58).
11 Michael Witt, Sauve qui peut (la vie). Oeuvre Multimédia, in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit., p. 305.
12 Cfr. Giorgio De Vincenti, Il cinema cosmologico di Jean-Luc Godard negli anni Ottanta, tra scienza, saggio e web, cit., p. 199.
13 Jean-Luc Godard in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean Luc Godard. Documents, cit., p. 313.
14 Vincent Van Gogh in Cynthia Saltzman (a cura di), Lettere, Einaudi, Torino, 2013.
15 Jean-Luc Godard in Jacques Bontemps, Jean Comollli, Michel Delahaye, Jean Narboni, Entretien avec Jean-Luc Godard, «Cahiers du cinéma», 194, 1967, tr. it. in Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 132.
16 Ibidem.
17 Sulla decostruzione come modello di configurazione dell’immagine in Godard si veda Paolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, Marsilio, Venezia, pp. 45-58, 2014.
18 Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Jean-Luc Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, cit., p. 64.
19 Nathalie Baye in Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, Rivages, Paris, 1994, p. 38.
20 Tra gli studi più recenti si veda Jean-Louis Leutrat, Jean-Luc Godard, in Paolo Bertetto (a cura di), Azione! Come i grandi registi dirigono gli attori, Minimum Fax, Roma, 2009, pp. 251-266.
21 Jean-Luc Godard in Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit. p. 65. Nostra traduzione.
22 Ivi, p. 80.
23 Jean-Luc Godard in dossier Aux frontières du cinéma, «Cahiers du cinéma», hors série, Avril 2000.
24 Giorgio De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, cit., p. 120.
25 Cfr. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione (1995), tr. it. Quodlibet, Macerata, 2008. Come hanno osservato Suzanne Liandrat-Guigues e Jean-Louis Leutrat, negli anni Ottanta la ricerca di Godard sembra incrociare il pensiero di Deleuze: «La riflessione di Deleuze sulla pittura “prima di dipingere”, su Francis Bacon e sulla nozione di “probabilità” raggiunge quella di Godard sulla sceneggiatura (possibile o probabile?)». (Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat,Godard simple comme bonjour, cit., pp. 167-168).
26 Ancora una volta ci viene in aiuto la voce over delle Histoire(s) du cinéma, 4B: ««Il cinema non temeva nulla dagli altri, né da se stesso. Non era al riparo del tempo, era il riparo del tempo».
27 Jean-Luc Godard, Lettre numéro un aux membres de la Commission d’avance sur recettes, in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit. p. 307.
28 Sulla nozione di «stato alterato dell’immagine» si veda Antonio Costa, L’état altéré des images: de Lyotard à Bill Viola, «AAM-TAC», 7, 2010, pp. 9-18.
29 Walter Benjamin, Opere complete VII, Scritti 1938-1940, tr. it. Einaudi, Torino, 2004, pp. 314-316. Secondo Benjamin quella dell’attore cinematografico, a differenza di quella dell’attore teatrale, non è una prestazione artistica in quanto egli si comporta come se dovesse fare dei test.
30 Walter Benjamin, Scritti 1934-1937, tr. it. Einaudi, Torino, 2004, p. 289.
31 Walter Benjamin, Angelus Novus (1940), tr. it. in Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1995, p. 78.
32 Cfr. Jean-Luc Godard in Olivier Bombarda, Entretien avec Jean-Luc Godard, «ARTE», 28 Novembre 07.
33 Sulla nozione di figurale nel cinema si vedano almeno Paolo Bertetto, Il figurale e il cinema, cit.; Jean-François Lyotard, L’Acinéma, in Dominique Noguez (sous la direction de), Cinéma: théorie, lectures, «La Revue d’Esthétique», numéro spécial, 1973 (tr. it. «Aut Aut», 338, 2008, L’acinema di Lyotard, a cura di Antonio Costa e Raoul Kirchmayr, p. 17); Jean-François Lyotard, Discorso, figura, tr. it. Mimesis, Milano, 2008; Luc Vancheri, Les pensées figurales de l’image, Armand Colin, Paris, 2011; Roberto De Gaetano, La potenza delle immagini. Il cinema, la forma, le forze, ETS, Pisa, 2012.
34 Jean-François Lyotard, L’acinema di Lyotard, cit., p. 17.
35 Ivi, p. 18.
36 Ivi, p. 23.
37 Cfr. Raymond Bellour, Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, cit.
38 Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, cit., p. 146.
39 Mi riferisco alla tesi esposta in L’immagine senza origine, «Fata Morgana», Origine, VI, 16, gennaio-aprile 2012. Roberto De Gaetano analizza alcuni casi in cui l’immagine cinematografica si sottrae a ogni nozione di origine, offrendosi come prodotto del montaggio. Esemplari in questo senso sono le ricerche di Ejzenštejn (dialettica), Bresson (frammentazione) e Godard (archeologia).
40 «Che cosa guardi? Questo non ci riguarda più».
41 Il tema della riflessività dello sguardo ritorna in Scénario du film Passion nell’ambito di una interrogazione sulla veridicità dei media. Quando guardiamo un telegiornale, ci dice Godard, non siamo noi a guardare le immagini, ma le immagini guardano noi. Da dietro le spalle degli speaker.
42 Cfr. Jacques Aumont, L’occhio interminabile, tr. it. Marsilio, Venezia, 1988.
43 Jean-Luc Godard in Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit., p. 209.
44 Lo stesso Jacques Aumont propone un confronto tra la cinematizzazione di Godard e il cinematismo di Ejzenštejn, ricordando come il teorico russo analizzasse le tele di El Greco alla luce del concetto di montaggio e della concezione idiosincratica di estasi (cfr. Jacques Aumont, L’occhio interminabile, cit., p. 151).
45 Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., p. 174.
46 Sulla dicotomia spazio-luogo rimando a Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia, 2009.
47 «C’è la parola “paese” in paesaggio».
48 Sulle affinità tra volto e paesaggio in Godard si veda Jacques Aumont, Du visage au cinéma, Cahiers du cinéma, Paris, 1996.
49 Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 110.
50 Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, tr. it. Adelphi, Milano, 1977, p. 73.
51 Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit., p. 209.
52 «Da molto tempo non ripasso il tedesco».
53 Jean-Luc Godard in Scénario du film Passion.
54 Mi riferisco a L’immagine-affezione: volto e primo piano in L’immagine-movimento, cit., pp. 109-147.
55 Bruno si muove e scatta fotografie in serie. Chiede a Veronika di compiere gesti naturali, come pettinarsi i capelli o fare una doccia. Ma l’obiettivo non riesce a rivelare i pensieri della ragazza.
56 Jacques Aumont, Du visage au cinéma, cit., p. 123.
57 Isabelle Huppert in Serge Kaganski, Frédéric Bonnaud, Le centre et la marge, «Les inrockuptibles», 1 Mars 2000.
58 Quella dello sguardo in macchina è questione assai complessa negli studi di settore. Come ha dimostrato Paolo Bertetto, lo sguardo diretto verso la cinepresa può infatti rafforzare l’illusione narrativa anziché distruggerla (cfr. Paolo Bertetto, Fritz Lang. Metropolis, Lindau, Torino, 1990). In questo caso però, come in tutto Godard, questo sguardo ha due funzioni: interpellazione e messa a distanza dello spettatore.
59 La dimensione privata di ogni storia verrà presto affermata visualmente con il lampeggiare del «toi» di His-toi-re in tutti e quattro i capitoli di Histoire(s) du cinéma, manifesto dello scacco di ogni tentativo di raccontare il Tempo. Per raccontare il Tempo è infatti necessario raccontare una storia.
60 La luce plasmata da Raoul Coutard in Passion ricorda molto da vicino certe soluzioni luministiche dell’ultimo Garrel. A questo proposito si veda Rosamaria Salvatore, Traiettorie dello sguardo. Il cinema di Philippe Garrel, Il Poligrafo, Padova, 1999.
61 Scénario du film Passion.
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L'immagine e il nulla: l'ultimo Godard
Ce livre est cité par
- Surace, Bruno. (2019) Il destino impresso. DOI: 10.4000/books.edizionikaplan.2115
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