Capitolo 3. Il padre della Patria e lo Stato distopico
p. 177-245
Texte intégral
Gli Anziani pervennero a una certa decisione, ma prima di comunicarla quelli più scrupolosi ritennero opportuno riascoltare il disco. Sentirono il silenzio di Krug mentre osservava i prigionieri. Sentirono l’orologio da polso di uno dei due giovani e il mesto e sommesso gorgoglio nei visceri del sacerdote rimasto senza cena. Sentirono una goccia di sangue cadere a terra. Sentirono quaranta soldati soddisfatti scambiarsi commenti lascivi nel vicino corpo di guardia. Sentirono Krug che veniva condotto nella sala radio. Sentirono la voce di uno di loro dire quanto fossero dispiaciuti e quanto fossero pronti a fare ammenda: una bellissima tomba per la vittima della negligenza, un destino orribile per i negligenti.
Vladimir Nabokov, Un mondo sinistro
1Gli orizzonti esplorati sinora hanno a che fare con esperienze che, pur pertenendo a codificazioni culturali, sono spesso semiotizzate per motivi di impatto – ma anche per motivi più complessi – attraverso vicende di singoli. I motivi più complessi hanno a che fare con l’affronto diretto, che ogni singolo individuo, anche se equipaggiato di enciclopedie, euristiche, strutture e sovrastrutture, esperisce di persona con i temi ultimi. Così è più facile, tendenzialmente, empatizzare nei confronti di un personaggio delineato nella sua singolarità, sulla quale si può proiettare il proprio vissuto1. Da tali singolarità abbiamo attinto strutturazioni dentro il testo, che si propagano attraverso immaginari, riti, rimossi, e così via, e che si estendono dal singolare all’universale. Sarebbe a dire: la Morte e Dio sono per statuto sopra di tutti, ma la loro destinalità è solitamente veicolata attraverso storie di singoli valorizzati in quanto tali2. Dio si interfaccia con Noè, che è sineddoche dell’umanità tutta ma scelto in quanto speciale. La Morte gioca a scacchi con Antonius Block.
2C’è però un’istanza prorompente la cui specificità sta proprio nell’essere, per antonomasia, destinante collettivo. Lo Stato. Dio e la Morte chiamano in causa un destino individuale, lo Stato chiama in causa un destino sociale. È evidente come le due dimensioni destinali siano naturalmente interrelate, ma nel nostro cantiere è per ora buona cosa tenerle distinte. Avremo modo più avanti di dinamizzarle.
3Esso è in effetti l’ente invisibile ma strutturante la vita di chi lo abita, sulla cui definizione interi secoli di filosofia politica sono stati spesi, e su cui anche la semiotica si è spesa in termini teorici3. Lo Stato prescrive le topologie della liceità e del reato, assumendosi attraverso leggi e mezzi il potere di definire dei limiti di agentività i quali, se valicati, si tradurranno in pene. La grande potenza di controllo dello Stato si evince proprio in rapporto al modo in cui esso struttura la libertà di chi vi circola, poiché la libertà, kantianamente, è lo spazio di movimento semiosico entro il quale il soggetto percepisce la possibilità di determinare il proprio futuro. Per intenderci: essere omosessuale in Italia, o esserlo in Arabia Saudita, consiste fattualmente nella stessa condizione, ma lo spazio di movimento di un omosessuale in Italia (la sua possibilità di esprimere liberamente la propria sessualità, per esempio) è molto più ampio rispetto a quello di un omosessuale in Arabia Saudita, a cui, se scoperto, può essere inflitta la pena di morte (manifestazione del controllo destinale più totale possibile da parte dello Stato). E ancora, se il paragone si fa con un cittadino italiano e uno canadese, ecco che allora di nuovo i destini cambiano.
4Lo Stato, in qualunque forma esso sia (per semplicità, secondo qualsiasi delle declinazioni aristoteliche: monarchia, aristocrazia, democrazia), ha il potere di segmentare zone della semiosfera e di definire quale tipo di sanzione sia prevista per chi le valica senza licenza, dalla multa per auto in divieto di sosta alla fustigazione pubblica per aver bevuto alcol da minorenne, dai lavori socialmente utili all’iniezione letale. Definire le zone della semiosfera significa arginare la circolazione di senso e porre dei veti sulla sua produzione (operazione necessaria per l’autoconservazione dello Stato stesso). Porre dei veti sulla sua produzione significa elaborare delle soglie destinali precise e incontrovertibili, che sono quelle per le quali, pur avendo per esempio un cittadino italiano un’idea potenzialmente profittevole, essa non potrà essere realizzata se non fondando un’impresa secondo le norme di legge, e quindi perdendo tempo utile e magari dando la possibilità a una persona o a un gruppo più equipaggiati di agire più in fretta. Sul modo in cui gli Stati condizionano i destini il cinema può dirci molto.
5In effetti il rapporto fra cinema, Stato e destinalità è di rara complessità, e si estrinseca almeno secondo due modalità: da un lato c’è lo Stato come destino del film, e cioè come ente che attraverso più o meno visibili interventi (ingerenze, commissioni, censure, finanziamenti concessi o negati…)4 decide delle sorti del film stesso, dall’altro c’è il film che sullo Stato riflette, declinando una qualche ideologia. Entrambe queste condizioni si riflettono sulle testualità, sulla sua produzione e compiutezza.
Stato come destino del film
6Questo primo frangente ha a che fare con tutte le produzioni cinematografiche ove la presenza di una statalità influisce sui modi o i temi del film. La premessa è che ogni film, così come ogni testo, non può dirsi esente da alcune precondizioni di natura strutturale, che pesano semioticamente. Questioni di budget per esempio possono incidere sulla scelta di girare alcune scene, così come orizzonti culturali di vario tipo possono rendere necessaria una mediazione o un’autocensura nella produzione (così come addirittura un’elusione inconscia di questo o quel tema). Il film è insomma il risultato di consapevoli o inconsapevoli conciliazioni fra i suoi fautori e contingenze di natura culturale e materiale. Questo dato è emerso tante volte in precedenza: il modo in cui nei vari periodi della storia del cinema si sono trattati i diversi temi ha proprio a che vedere con l’idea della produzione artistica non come atto isolato, ma come atto socialmente integrato5. Ciò detto esistono casi in cui tale integrazione cede il passo a forme di partecipazione massiva dello Stato.
7I casi più palesi sono rappresentati da tutte quelle produzioni che, pur se firmate da registi talentuosi, sono da imputarsi a una committenza ideologica precisa, come nel caso degli Stati dittatoriali. Lenin, in riferimento all’URSS, dichiarò che «Per noi il cinema è, tra tutte le arti, la più importante»; Stalin a sua volta disse che «Il cinema è un grande strumento di agitazione di massa. Si tratta qui di prendere la cosa nelle nostre mani», e così nel 1930 nacque la Sojuzkino, società statale diretta da Boris Sumjatskij direttamente connessa alle decisioni del Segretario generale6; Mussolini sulla scia di Lenin ebbe a definire il medium “l’arma più forte”, un’arma “poderosissima” che lo Stato doveva gestire con pieno controllo e ai fini di veicolare la propria propaganda attraverso l’Unione Cinematografica Educativa (Luce)7; per Hitler il cinema costituiva un essenziale mezzo di propaganda, tanto da essere appaltato a un ministero estremamente attento, gestito da Joseph Goebbels8; e così via per molte delle altre dittature che hanno segnato il Novecento.
8È così evidente come il cinema prodotto fra URSS, Italia e Germania fra le due guerre mondiali sia spesso ben più che contaminato dalle ideologie dell’epoca, anche se non sempre in maniera palese; spesso il contenuto propagandistico risulta infatti mascherato in film di intrattenimento. L’universo cinematografico e semiotico che si dischiude da quanto detto sinora è immenso, e non possiamo che trattarlo attraverso una selezione ristretta di alcuni casi emblematici, che qui circoscriveremo al campo del cinema di ispirazione fascista, e più precisamente alla figura di Giuseppe Garibaldi, “padre della patria”, come istanza destinale sociale.
Il patriota Garibaldi
9La propaganda durante il regime fascista fu, come comprensibile in un modello statale di stampo autoritario, pervasiva. Toccò sfere mediali e del vivere sociale molteplici, dalle sensibilità cattoliche (tese fin dalla presa di Roma e divenute sempre più inquiete grazie al clima di conflittualità aperto dal rifiuto di Papa Pio IX della legge delle Guarentigie) che vennero ancorate dalla parte dello Stato tramite la grossa operazione dei patti lateranensi, all’intenso intervento simbolico sulla spazialità cittadina che fu investita dei valori promossi dal regime, tanto in chiave puramente linguistico-toponomastica (Predappio, per esempio, fu apostrofata come la “città del Duce”), quanto sicuramente da un punto di vista architettonico, tramite le operazioni evidenziate esemplarmente, fra gli altri, da Mosse9. E così via verso scuola, sport, e ogni altra forma dell’agire culturale che in un qualche modo avesse potuto contribuire alla formazione di un ricercato immaginario condiviso in grado di veicolare adesione convinta alla concezione statale mussoliniana.
10Mussolini non fu sin da subito consapevole della portata propagandistica del cinema, giacché egli «non valutò sufficientemente il cinema di finzione come invece fece con il documentario, e non seguì l’esempio di Hitler e di Stalin che si impossessarono del cinema non appena salirono al potere»10. L’attenzione per le storie narrate attraverso lo schermo difatti si fece nel dittatore più accesa in maniera graduale. A una iniziale mancanza di consapevolezza infatti si integrò in seguito un’attenzione peculiare verso quell’organo di comunicazione e rappresentazione che serbava un ascendente notevole verso i pubblici italiani, forse anche per la sua connaturata predisposizione a configurarsi come “via di fuga” da realtà che sicuramente erano non facili da sopportare per una larga parte dei cittadini.
11Se il cinema esisteva e faceva presa soprattutto quando metteva in scena storie di finzione, allora anche queste dovevano essere funzionali allo Stato fascista, tramite sottomissione alla censura e strenuo controllo dei contenuti che producevano. Il cinema fascista si può pertanto definire come canalizzato verso un unicum che più che tematico è simbolico. Inevitabilmente sarà molto difficile trovare film italiani prodotti durante il ventennio che contraddicano i dettami dell’ideologia fascista. Era difficile che un regista producesse un’opera con il dubbio che a questa venisse poi vietata la riproduzione. Nondimeno c’è da tenere conto che, seppure sia facilmente postulabile il contrario, dei circa 800 film prodotti in Italia in epoca fascista solo una bassa percentuale costituisce un esercizio di integerrima esposizione degli ideali fascisti, mentre gli altri sono costruiti secondo schemi estetici più complessi, che erano in grado di far passare specifici contenuti codificandoli sotto precise simbologie e narrazioni, in grado di creare trasporto anche se non superficialmente “fascistissime” (per rispolverare l’infelice termine proposto da Mussolini nel 1925). E infatti:
Una valutazione globale della politica cinematografica fascista deve necessariamente comprendere giudizi di tipo diverso. Il regime mussoliniano non creò il cinema in Italia, ma si limitò a riconoscerne – invero con una certa lentezza – il prezioso potenziale propagandistico, e a prendere varie misure intese ad assicurarne la conformità agli obiettivi culturali e politici del fascismo. Dopo le esitazioni degli anni Venti, il regime cominciò a muoversi in modo più risoluto verso l’integrazione dell’industria cinematografica nella più ampia organizzazione culturale dello Stato11.
12Si tenga presente infatti che non tutti i registi che in un qualche modo contribuirono al fascismo (e stessa cosa vale per forme d’arte altre dal cinema) si trovarono poi in futuro a rivendicare l’ideologia sostenuta nel passato; per alcuni di loro si trattò perlopiù di un passaggio, non sempre direttamente voluto:
Il fatto di aver collaborato, negli anni del regime, alla realizzazione di diverse opere contenenti, in maniera più o meno evidente e convinta, elementi di propaganda bellica non compromette la maturazione del regista e non ostacola il suo approdo a posizioni di aperto antifascismo di carattere, però, più morale che politico in senso stretto. Come Rossellini, […] Mario Camerini e Alessandro Blasetti trovarono naturale maturazione della loro sensibilità artistica e politica nel passaggio alla aperta critica del loro trascorso fascista12.
13Si capisce bene dunque quanto lo Stato determinasse il destino dei film. Ci limiteremo qui ad analizzare Il grido dell’aquila del 1923, «primo film fascista a tutti gli effetti»13, di Mario Volpe, e 1860 del 1934 di Alessandro Blasetti. La scelta di tali film è motivata da precise esigenze di pertinenza semiotica e storiografica giacché entrambi condividono la mitizzazione (se non mitologizzazione) del Risorgimento in chiave popolare, e in particolar modo della figura di Garibaldi, colui che ha destinato l’Italia a diventare Nazione.
I film risorgimentali del periodo 1923-1927 riflettono puntualmente questo dibattito. In primo luogo cercando esplicitamente di collegare Risorgimento e fascismo, schierando fianco a fianco vecchi e nuovi combattenti, camicie rosse e camicie nere. Così si rilanciava una filmografia garibaldina che guardava al fascismo. Tipico esempio di questa cinematografia fu Il grido dell’aquila, un film del 1923 di autori fiorentini, Valentino Soldani ed il regista Mario Volpe, commissionato dall’Istituto Fascista di Propaganda Nazionale fiorentino, con un ben identificato progetto: raccordare prima guerra mondiale, fascismo e esercito, raccordo tra le camicie rosse garibaldine e le camicie nere fasciste con l’ardito legame tra l’impresa dei Mille e la Marcia su Roma […]14.
14Inoltre, se il primo in un qualche modo apre al filone del cinema di stampo fascista, che sarà comunque come già accennato piuttosto complesso, il secondo fa riferimento a una fase di questo già più matura, e sarà dunque stimolante comparare i due testi filmici mettendone in rilievo sia le analogie che le diversità.
15I film di Volpe e Blasetti, pur se accomunati dalla figura di Garibaldi e dal tema risorgimentale sono costruiti in maniera radicalmente diversa sotto numerosi punti di vista, e godono oggi di una diversa visibilità (che vede Il grido dell’aquila sostanzialmente ignorato). 1860 è infatti quello che si può a rigor di termine definire film storico, poiché ambientato – tranne che per il finale contemporaneo – proprio nell’anno della spedizione dei Mille, mentre Il grido dell’aquila costituisce perlopiù un racconto di vicende attuali (nel 1923), pur mostrando immagini del 1860-1861 tramite interessanti enunciazioni mentali (sorta di flashback di uno dei protagonisti). I film dunque si distaccano fortemente sulla sostanza dell’enunciazione superficiale e della narrazione. Nell’opera di Volpe diverse storie, più o meno compiute, si intrecciano a convergere sul finale nella mitizzazione di Garibaldi e della sua impresa: vi è l’episodio più centrale anticomunista che mostra una tentata rivolta proletaria, e a contorno si ricamano un’accennata vicenda di amore negato, la storia di un imbranato soldato che diventa marionettista di strada, una vicenda (non così marginale) di comunicazione intergenerazionale incentrata proprio sulla Storia. In 1860 al contrario non si assiste a tale profluvio narrativo-episodico, ma anzi la storia portante è, seppur intessuta anch’essa di rimandi più impliciti, unica, e cioè quella del siciliano Carmeliddu che risale l’Italia per poi, dopo diverse peripezie, essere partecipe della spedizione garibaldina e poter finalmente riabbracciare la sua amata Gesuzza prima di combattere la gloriosa battaglia di Calatafimi contro i borbonici.
16Nondimeno asserire una diversità sul piano della manifestazione dei due testi non significa negarne una evidente, condivisa polisemia. Tale polisemia fa sì che i film, pur parlando di cose diverse, celino nelle strutture profonde delle isotopie. Tali isotopie sono risultato della “mano dello Stato” sui film, che si posa attraverso la costruzione retorica di Garibaldi in quanto destinatore della patria. Il cinema di ispirazione fascista come si è già menzionato in precedenza non necessariamente si caratterizzava da una propaganda esplicita, ma spesso agiva su livelli più profondi. Il tema risorgimentale come motivo di orgoglio e di unificazione degli animi fascisti, chiamati a rendere possibile l’apice di un destino statale iniziato dall’epopea garibaldina, è appunto uno dei camouflage grazie ai quali la gloriosità del fascismo veniva trasmessa più su un piano connotativo che non denotativo. Tuttavia esistevano numerose altre tematiche prese a cardini dalla propaganda, molte delle quali peraltro risultavano di gran lunga più efficaci; basti pensare per esempio all’esaltazione dello spirito coloniale italiano15, o a una certa rappresentazione del ruralismo come simbolo d’immacolata purezza16, anziché alle numerose idolatrie dell’Impero Romano o ancora all’auto-epidittico relativo alla marcia su Roma, di cui emblema è Vecchia guardia del 1934 dello stesso Blasetti. Non era prerogativa indispensabile che ogni film toccasse necessariamente una e una sola semiosfera, e infatti alcuni dei temi citati e altri compaiono anche solo per brevi momenti nei film, creando venature semiosiche e denotando una delle fondamentali caratteristiche delle propaganda fascista: la creazione di una rete narrativa interrelata, una Gestalt ove ogni elemento fosse di supporto agli altri e dove regnasse una solida e non intaccabile coerenza interna, pena un crollo strutturale del sistema intero.
17A sostegno di questa particolare concezione si pensi infatti al possibile dialogo che si instaura fra 1860 e Il grido dell’aquila, i quali si sostengono l’un l’altro formando assieme un potenziale macro-testo che potrebbe vederli uniti (a tutti gli effetti l’intero film di Blasetti potrebbe rientrare pienamente in uno degli episodi di ricordo presenti in quello di Volpe). Ciò nonostante, perché la già menzionata rete narrativa possa sostenersi è necessario che gli strati più profondi, quelli simbolici o semisimbolici, sappiano comunicare l’un con l’altro, e che siano costruiti pertanto con piena consapevolezza e maestria.
18Il cinema fascista si trova dunque a condividere, alla stregua per certi versi del cinema sovietico, in buona parte dei suoi film una tendenza all’inserto metaforico, che mira a stabilire marcati nessi semantici fra un’inquadratura e l’altra, atti a creare rapporti di causalità (si tratta di strutture destinali che forniscono orientamenti di senso) supportati da basi ideologiche precise tramite un manierismo stilistico che a tratti può anche spiazzare lo spettatore.
19Scrive nel merito Brunetta:
Se sul piano della propaganda il cinema fascista ha preferito i toni «medi» ed edulcorati a quelli di un’epopea gloriosa e trionfante, questo fatto ha favorito la creazione di un terreno comune di convergenza stilistica nel quale si sono ritrovate, a fianco a fianco, personalità assai diverse. La mancanza di uno stile unitario, uno «stile fascista», voluto e imposto dall’alto, ha favorito […] la contaminazione di tutti gli stili, dall’imitazione del film sovietico a quello americano, dal documentario alle ricerche dell’avanguardia, ma ha anche aiutato un’intera generazione di registi a liberarsi da una serie di riesami autenticamente critici sul proprio ruolo e sul grado della propria «compromissione» all’interno delle strutture del regime17.
Nel visionare Il grido dell’aquila effettivamente si nota uno stagliarsi simbolico-allegorico assai evocativo. Una delle primissime operazioni semiotiche attuate da Volpe è quella dell’inserimento delle maschere popolari, che da una posizione di inerzia iniziale intervengono poi direttamente nella narrazione durante lo scorrere delle vicende. Il richiamo a figure di questo calibro costituisce un forte atto di interpellazione verso il pubblico, una richiesta di partecipazione attiva. In effetti le maschere della commedia dell’arte (Arlecchino, Pulcinella, Balanzone, Gianduja, Meneghino e molte altre) sono portatrici di storie diverse ma intrecciate, e soprattutto radicate in un certo pubblico; saperle sfruttare come veicolo di determinati messaggi vuol dire essere consci di quella che chiameremmo una enunciazione delegata.
20Le maschere dunque agiscono al posto di Volpe, ne sono simulacro, così come quest’ultimo di fatto agisce per conto di Mussolini formandosi a sua volta come enunciatore delegato. Le maschere però hanno un plusvalore per i programmi narrativi che di per se stesse contengono, giacché si fregiano di essere rappresentazioni di un Italia vivace e multicolore, nel film inizialmente addormentata ma poi sveglia e pronta all’azione, alla manifestazione.
21Nella fattispecie Arlecchino funge da cerniera episodica fondamentale e in un qualche modo anche da più sotterraneo esercizio di analessi giacché la su prosopopea sul palco in una qualche maniera anticipa la duplice sovrimpressione-prosopopea del milite ignoto – richiamo a una patriottica nostalgia – nel seguito del film. L’evolversi delle vicende delle maschere è allegoria della costruzione dell’Italia, resa sul finale da un’interpolazione di inquadrature con più chiusure ad iride (tramite l’ausilio di mascherine poste sull’obiettivo della camera). Se le maschere pertanto sono un tipico rimando alle rispettive regioni italiane che notoriamente rappresentano, esse costituiscono solamente l’innesco dell’apparato simbolico issato da Volpe.
Allegoresi di Volpe e Blasetti
22È scritto nella Genesi, 3.1 che «Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal signore Dio». Ruolo preminente ne Il grido dell’aquila è occupato proprio da questa figura, assolutamente decontestualizzata dalle vicende del rappresentato e anticipatrice in un certo senso del celeberrimo pavone meccanico, allegoria di un vanesio Kerenskij in Октябрь (Ottobre, 1927) di Ėjzenštejn18. Per tre volte durante il film Volpe inserisce un’inquadratura composta unicamente da due serpenti (probabilmente piccoli pitoni), centrali e aggrovigliati, che si rivelano in una breve contorsione.
Il grido dell’aquila

Ottobre

23Queste tre inquadrature non sono, come prevedibile, casuali, ma collocate in particolari punti del montaggio, coincidenti con la presentazione del personaggio comunista (colui che è evidenziato da un raccordo in avanti che ne mostra la spilla con la falce e il martello, ulteriore prova di una certo interesse nella codifica simbolica della narrazione) o aizzatore di folle, e con la rivolta proletaria degli operai che perderanno la loro battaglia. Il serpente è quindi l’altro, e nella fattispecie l'altro comunista. La scelta di questo animale (quando sicuramente se ne potevano inserire numerosi altri) chiama in causa specifiche enciclopedie spettatoriali facendo leva su un diffuso biblismo popolare, a partire dal noto – quantomeno in una dimensione folkloristica – episodio del serpente tentatore nell’Eden. Non vi è pertanto emblema più efficiente di quello che, in una ultracattolica Italia, è il responsabile del peccato originale. La strategia retorica di Volpe si rivela dunque piuttosto fine poiché sa far leva sullo spettatore giocando sulla predisposizione xenofoba impostata dal regime e indicando all’alterità – in questo caso verso il più temibile tra gli altri: il comunista – senza direttamente rappresentarla.
24Il regista tocca un altissimo livello di simbolizzazione; dà l’idea, ma non la mette in scena esplicitamente. E buona parte del cinema di propaganda fascista, come si vedrà anche in Blasetti, fa di questo meccanismo dell’immagine-idea una delle sue strategie:
L’immagine eidetica è un’immagine che realizza una fusione di configurazione visiva e di idea, di forma, di visione e di concetto. È un’immagine-idea, una struttura visiva, impregnata di un contenuto intellettuale particolare. È un’immagine che unifica e rende indissolubili visivo e intellettuale, configurazione e concetto19.
25Si rifà a un substrato culturale condiviso, nuovamente dialoga con un pubblico pensato come pensante, pronto a rispondere e reagire a certi input semantici. Ancora alla stregua di un pubblicitario sa indurre tramite il richiamo, lavorando su livelli inconsci, evocando causalità specifiche. Detta in altri termini, lavora sul segno visivo a partire dalla sua connotazione:
Sulla base di idee sviluppate da Hjelmslev, il semiologo francese Roland Barthes ha proposto negli anni sessanta un’importante definizione della connotazione, quell'effetto per cui in certi segni a un significato centrale e denotativo, si aggiungerebbe un secondo significato spesso di carattere emotivo, un alone semantico, insomma una comunicazione parassita. […] Per esempio se il tricolore designa (arbitrariamente e in maniera denotativa) l'Italia, questo segno può, in un certo contesto politico, diventare il significante di un nuovo segno, che richiama valori come il patriottismo, o magari in altre circostanze la squadra nazionale di calcio20.
26Le maschere sono l’Italia dormiente o desta, il serpente è la perfidia dell’altro comunista istigatore di scioperi, e così ancora Volpe aggiunge inquadrature di asini e conigli, ma soprattutto imposta l’interezza del suo film su Garibaldi. L’Eroe dei due mondi è il fulcro dell’intera costruzione retorica de Il grido dell'aquila.
27Se la rilevazione di precipui dispositivi allegorici si dimostra agevole ne Il grido dell’aquila per via di una sua predisposizione a un certo tipo di esegetica, nel caso di 1860 un procedimento di tale fattura risulta quantomeno difficoltoso. Come si è già accennato il film è, al contrario di quello di Volpe, piuttosto lineare. Non si segue in questo caso un andamento episodico intervallato da momenti “onirici” e ricordi, ma anzi la storia di Carmeliddu, picciotto siciliano, ha un inizio e una fine fissati, e la focalizzazione allo stesso modo è concentrata prettamente sulle sue vicende, se non nei momenti iniziale e finale nei quali emerge il tono più marcatamente epico ed è la folla a occupare l’immagine. Tuttavia, così come Volpe attraverso un repertorio di immagini simboliche fortemente codificate mirava a far passare la concezione fascista facendo perno sulla figura di Garibaldi come massimo archetipo mussoliniano, allo stesso modo Blasetti – con un formalismo piuttosto raffinato – fa sedimentare nel sottotesto una precisa traslitterazione ideologica, condivisa con Il grido dell’aquila: Mussolini e Garibaldi sono lo specchio di una condivisa, italica eroicità. Essi incarnano la Nazione e la sua destinalità, sono uomini che da soli prendono in mano i destini di milioni di persone e hanno lo spirito e la forza per condurli.
28Sarà dunque difficile trovare qualcosa di analogo al serpente adoperato da Volpe, ma in 1860 specifiche dinamiche di simbolizzazione affiorano chiaramente, e metafore di varia natura sono comunque rilevabili. Per esempio evidente risulta il tema xenofobo, qui codificato in termini di alterità linguistica e nazionale: altri sono i borbonici che minacciano la tranquilla Sicilia con la loro presenza militarizzata; altri sono poi i francesi che esibiscono di fronte a Carmeliddu a Civitavecchia un palese sentimento di superiorità e una totale non collaborazione; altri sono ancora gli austriaci. Il tema del diverso come ostile all’unità della patria italica si staglia dunque in entrambe le pellicole senza essere esplicitato in termini diretti: dal lato di Volpe egli è il comunista, da quello di Blasetti lo straniero o altrimenti il non-italiano. Poco importa se l’oggetto della rappresentazione goda di dubbia verisimiglianza (l’epopea del picciotto siciliano assume a volte connotazioni del tutto caricaturali così come di fatto le vicende nel film di Volpe), «perché 1860 è un incrocio di determinazioni e di spinte contraddittorie, di voci dissonanti eppure oneste e sincere»21, e l’importante è che lo spettatore sia in grado di cogliere una serie di contenuti senza che questi gli vengano forzatamente imposti. Quel che si attua è più che altro un meccanismo di suggerimento, una richiesta che si fa al ricettore della comunicazione di mettersi nei panni (tramite una dinamica di sutura)22 del protagonista di turno e di rispondere razionalmente delle sue azioni.
29A conclusione di questa breve allegoresi dei due film in questione, soffermiamoci ancora un attimo su un dato stilistico.
30Dopo varie tribolazioni Carmeliddu riesce a raggiungere Genova per esortare la discesa di Garibaldi in Sicilia. È un passo avanti verso la liberazione e una vita di serenità e, dopo un iniziale momento di sconforto per via di una falsa notizia circa un presunto abbandono di Garibaldi, la spedizione parte. Poco dopo la narrazione si sposta in Sicilia, all’alba della battaglia di Calatafimi, ma Blasetti indugia su alcuni fiori bianchi in primo piano, simile a fiori di pesco.
1860

31Questa inquadratura, presa per esempio per la sua particolare evidenza (e cura estetica) ma certamente non unica in 1860, è di fatto non necessaria all’interno della narrazione, eppure è inserita come apertura all’arrivo di Garibaldi in Sicilia, subito dopo l’unico inframmezzo testuale recante le seguenti parole, anch’esse non strettamente necessarie ai fini narrativi: «Considerando che in tempo di guerra è necessario che i poteri civili e militari siano concentrati nelle mani di un sol uomo, assumo nel nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia la Dittatura di Sicilia. Giuseppe Garibaldi. Salemi, 14 Maggio 1860». È impossibile comprendere il senso di un’operazione stilistica di questo tipo senza calarsi in un dominio ermeneutico: Blasetti vuole qui infatti comunicare attraverso registri simbolici completamente denarrativizzati e puramente iconico-visivi. I fiori sono quasi immobili, se non smossi da una leggera brezza, e la camera ne cattura la ferma bellezza per poi, attraverso un quasi impercettibile movimento di zoom-out mettere diversamente a fuoco sul loro sfondo, costruito attorno a precisi codici della figurazione giacché raffigurante le baionette a loro volta ferme e intrecciate le une nelle altre. Innegabile una valenza estremamente codificata di questa immagine, resa a partire dalla cura tecnica e stilistica di un regista che durante l’intero film non esita nel giocare abilmente con i registri del medium cinematografico, e ne sono esempi i costanti movimenti di macchina (specie nelle situazioni di battaglia ma anche e soprattutto di dialogo, a rivelare nuovi interlocutori), un uso caratteristico e non scontato del fuori campo (come nella formidabile sequenza di Carmeliddu che si ritrova isolato nello sterminato mare), e così via.
32Insomma non è a farla da padrona solo la scelta del simbolo, e lo stesso – anche se con toni differenti – vale per Volpe, ma anche e in egual misura il modo di enunciazione di quest’ultimo.
The visual and auditory distinctions paint a melodramatic canvas in which the lines are clearly drawn between friend and foe, patriot and interloper. The Assignment of horizontal and vertical positions is metaphoric. The images of reclining and rising, like movement and stasis, become important as a way of measuring progress, but are also proleptic insofar as the notion of rising is associated with the notion of Risorgimento. The enemy is also identified with jarring sound, abrupt interruptions, entrances and exits, while softly played patriotic music identifies the Sicilians23.
33Numerosi altri sarebbero gli esempi da citare nel merito del valore della tecnica nel cinema di propaganda fascista e ci limiteremo qui a sottolinearne ancora due: l’uso del suono in 1860 rispetto al muto in Il grido dell’aquila, e la marcia finale in quest’ultimo. Nel film di Blasetti invero si riscontrano tre diversi tipi di sonorità: le voci del parlato, la musica, e le voci-off. Il sonoro va di pari passo con il visivo e anzi spesso ne surdetermina l’essenza, a partire dall’elemento più evidente sin da subito: un utilizzo marcato dei toni musicali quando spiccatamente epici, come nel caso della battaglia finale, quando invece più cupi come sottolineato da Landy, e spesso a metà fra l’intradiegetico e l’extradiegetico. Sono poi le voci fuori campo che scandiscono i ritmi della narrazione consentendo le necessarie ellissi temporali. Infine al parlato tocca una ulteriore posizione preminente perché è esso che mette in primo piano gli accenti, voluti da Blasetti, e le discrasie linguistiche fra gli italiani (accomunati da un idioma e caratterizzati dai singoli dialetti) e gli altri.
34Questa tripartizione del livello sonoro, variamente significativa nei termini della veicolazione del messaggio del film (e di fondo di quello fascista), si pone come constatazione dell’importanza della tecnica nell’evoluzione del medium cinematografico. Ne Il grido dell’aquila difatti non è possibile individuare elementi di questo tipo giacché si tratta di un film muto. In esso infatti intervengono altre scelte stilistiche, come la già citata prosecuzione onirico-episodica, segnata dall’uso delle mascherine, e l’utilizzo di molte allegorie visive. Dal canto suo Volpe dunque non manca, anche se forse in misura minore rispetto a Blasetti, di esibirsi in alcuni esercizi di stile tutt’altro che scontati. Ne è esempio una delle ultime inquadrature che mostra l’arrivo dei fascisti da tutte le parti d’Italia pronti a marciare su Roma. In questa breve scena Volpe indugia, per più tempo rispetto ai fiori di Blasetti, prodigandosi in un campo lungo magistralmente calcolato. Le truppe possono così essere viste arrivare in lontananza e attraversare lo schermo, e quel che emerge nettamente è la moltitudine di persone all’interno dell’inquadratura che si susseguono in un flusso senza fine, una ideale conta di un presunto smisurato consenso verso Mussolini. Certo è chiaro l’intento manipolatorio e propagandistico di operazioni stilistiche di questo genere, atte all’edificazione di un’apologetica della marcia su Roma, ma ciò non toglie di poterne analizzare la valenza estetica per coglierne le peculiarità che fanno dei film in analisi oggetti di studio scandagliabili in un contesto storiografico nel quale si cerca di astrarre le strategie di produzione del messaggio persuasivo. Nella fattispecie è Pierre Sorlin a mettere in guardia da una qualsivoglia interpretazione semplicistica o unilaterale di questo tipo di film:
[…] però, se mettiamo a confronto tutti gli elementi appena elencati, dobbiamo ammettere che [il film] non era mussoliniano e che, per molti aspetti, proponeva una linea politica che non corrispondeva a quella del duce. Il grido dell’aquila non si rivolgeva agli arditi o agli squadristi, mirava a due tipi di spettatori: da una parte ai militari congedati, e dall’altra al ceto medio; era capace di confortare i reduci, felici di vedere due volte, nell’ultima sequenza, il monumento del milite ignoto, e di rassicurare quella parte della borghesia che il pericolo rosso aveva terrorizzato. […] Nel contesto, non si può parlare d’identificazione dello spettatore con i personaggi, si tratta piuttosto di una adesione automatica, le figure sono troppo contrastanti per dare spazio a un attimo di esitazione, il pubblico deve necessariamente odiar i cattivi24.
35Tecnica e stile, simboli e narrazione superficiale, non sono dunque elementi da considerare come compartimenti stagni ma cooperano nella resa del prodotto definito. E questo, come si deduce dalla citazione, non era in epoca fascista mai necessariamente di massa, ma molto spesso realizzato secondo più chiavi, in maniera tale che fosse destinato a diversi tipi di pubblici, oggi si direbbe: targettizzato. Anche questo genere di considerazione destituisce di valore la tendenza a pensare al sistema mediatico come produttore di un unicum di contenuti che vadano bene per una grande entità indistinta che sarebbe la massa. Di certo infatti, come sottolinea Sorlin, il tema risorgimentale era adatto a fare più presa su certi individui che non su altri.
36Quel che qui abbiamo voluto fare, dedicando ampio spazio ai film di Volpe e Blasetti, è stato attraverso l’analisi tentare di incunearci nell’enorme riflessione su cinema, storia e ideologia, inaugurata almeno da Marc Ferro25, e poi proseguita da Sorlin e da molti altri26, ponendo le basi per una chiave di lettura destinale che unisca i tre poli in gioco (appunto: cinema, storia e ideologia). Discutiamo ora di come effettivamente Garibaldi, Padre della patria, nei due film sia un’istanza fortemente destinale.
Garibaldi destinale
37Il Risorgimento garibaldino è dunque il nucleo simbolico forte nei due film in analisi, ed è in buona misura presente in tutta una ulteriore serie di testi cinematografici di epoca fascista27. Garibaldi è ne Il grido dell’aquila il ricordo delle gloriose imprese dei Mille che unificarono l’Italia, e in 1860 una speranza per un miglior presente non più vessato dalle angherie dei tiranni stranieri. Attorno alla figura di Garibaldi ruota il destino del film come quello del paese, ed egli è metonimia di Mussolini. Ciò ci fa intendere come i film di propaganda fascista, ma non solo, presentino una struttura destinale che è surdeterminata da un’istanza di cui l’intera rappresentazione è funzione.
Come si diceva, le modalità retoriche di presentazione del tema sono differenti ma potenzialmente incastonabili l’un nell’altra, giacché poggiano sull’assunto di base per cui Garibaldi sarebbe una sorta di alter ego mussoliniano, il modello a cui guardare quando si guarda al duce. Dal punto di vista stilistico tale parallelo emerge, sia nel film di Volpe che in quello di Blasetti, sui finali, entrambi in qualche modo raffazzonati e costruiti come a far convergere le vicende prima rappresentate verso la loro unica possibile soluzione: la conferma dell’ideale fascista come migliore dei mondi possibili, come destinazione salvifica. Sarà poi solo Blasetti a “rinnegare” il suo finale adducendo a una sorta di costrizione (non così improbabile)28, e difatti la versione di 1860 rieditata nel dopoguerra non mostrerà più la marcia fascista sul Foro Italico.
Per esempio un film come Il grido dell’aquila di Mario Volpe (1923), anche se ambientato alla fine della Prima guerra mondiale, mostra nel finale un ex-garibaldino che partecipa assieme alle camicie nere alla marcia su Roma. In maniera rozza una conclusione del genere serve ad evidenziare la continuità tra ideali risorgimentali e “rivoluzione” fascista. E ancora, in 1860 di Alessandro Blasetti (1934) accade qualcosa uguale e contrario al film di Volpe. La pellicola, a partire dal dopoguerra, viene presentata in versione amputata, cercando di far dimenticare che nella versione originale il film si concludeva con una pomposa visione delle falangi fasciste che sfilavano davanti ai reduci garibaldini sullo sfondo del Foro Mussolini29.
Ma quale Garibaldi viene messo in scena? Sotto quale forma e in quali vesti? In entrambi i film l’Eroe dei due mondi non compare sostanzialmente mai in prima persona eppure è sempre presente in uno sfondo di racconti, aneddoti, vicende e icone. Questa è in effetti una strategia che mira a far emerge la dimensione sopraelevata, simbolica del personaggio, capace in quanto essenza di determinare la narrazione. Volpe lo mette in scena – fra gli altri modi – attraverso le parole del nonno Pasquale, cieco “Garibaldino di Montagna” che, prostrato da un’esistenza ormai al calare, ritrova energia nel ricordo della vivificante spedizione dei Mille cui prese parte in un glorioso passato. Garibaldi non è qui nient’altro che un nome, una tensione verso, una sorta di presenza a metà. In questo senso è un’istanza destinale in piena regola, non incarnata ma permeante su vari livelli la struttura del film. È destino in forma gassosa, che si spande ovunque. Solo in brevi, epici momenti la sua immagine compare ma sempre già codificata e iconizzata, in un’effigie che ne mostra la solida e incorruttibile postura. È la sua immagine assente a fungere da motore narratogeno, così come lo è alla stessa maniera in 1860.
38Qui infatti sarebbe stato più semplice mostrare un attore in carne e ossa che impersonasse il condottiero a trascinare con sé i suoi valorosi soldati, ma questa figura si vede rarissime volte e mai bene. È come se Garibaldi fosse una forza più che un’entità ontologica, una forza in grado di movimentare il popolo.
La unica intenzione precisa che io avevo era di inquadrare Garibaldi a grande distanza, in maniera che rimanesse così, come un alone storico, in rapporto a questi garibaldini, e che non ne venisse fuori un primo piano disturbante. Ne feci uno solo, di mezzo primo piano di Garibaldi, che mangiava una cipolla o una mela – non mi ricordo che cosa avesse in mano – mentre dava degli ordini; ed era di tre quarti, così... proprio perché mi ripugnava di prendere questa figura e portarla così in primo piano30.
Il grido dell’aquila

1860

39Insomma il tema centrale (r)esiste proprio perché frammentato; è in quanto richiamo sospeso fra l’universo della diegesi e quello dello spettatore, non lo si può mostrare nella completa finzionalità perché così verrebbe assimilato a un personaggio, ammirabile ma comunque destituito della sua carica destinale, inscritto in un preciso contesto narrativo, e allo stesso tempo non gli si può nemmeno negare una minima apparizione, perché altrimenti di lui non si percepirebbe più nulla. Non è un banale leader carismatico, è un leader destinale. Così, tramite un meccanismo di equilibrati passaggi fra esposizione e nascondimento, Garibaldi si fa mito intriso di un’aura superomistica, e inoltre, essendo mito nell’ombra, si prepara a essere riflesso dal suo alter ego nel presente: Mussolini.
40Garibaldi (il suo ricordo) fa rivivere il cieco di Volpe, Garibaldi (la speranza da lui incarnata) fa compiere improbabili risalite italiche al giovane e ingenuo Carmeliddu. Garibaldi è anche, modalmente, un ibrido che fa fare e facendo fare fa essere. È un attante invisibile ma estremamente performativo.
41La dimensione esperienziale è fortemente presente nella propaganda fascista, e il cinema non si esime da tale caratteristica. Vi è il bisogno di creare un coinvolgimento appassionato (e incondizionato) verso il regime e una delle tattiche è quella di non far percepire direttamente un atteggiamento restrittivo ma anzi di chiamare i destinatari della comunicazione alla partecipazione in prima persona, a diventare attori protagonisti – nell’italico proscenio – degli eroici messaggi ai quali stanno assistendo. Sull’esperienza dunque si centra una ulteriore valenza del costrutto garibaldino nel cinema fascista, «perché non è il generale a fare la guerra, ma è il popolo italiano nella sua interezza a lottare per liberarsi»31. Anche per questo motivo il condottiero non è mai direttamente rappresentato ma esiste essenzialmente nel rimando, perché sia deducibile che egli è la guida di cui il popolo ha bisogno, ma che è il popolo in prima persona a rendere possibile l’impresa. Inutile negare in tale concezione un rivestimento di lampante populismo. Sebbene 1860 non possa essere infatti definito un film «rozzamente propagandistico»32, se non nel finale poi eliminato con la «baldanzosa visione delle falangi fasciste che sfilano davanti ai reduci garibaldini, sullo sfondo imperiale del Foro Mussolini»33, esso propone
una visione di tipo “populista” – omettendo, naturalmente, le sanguinose repressioni operate dai garibaldini – in cui le classi popolari hanno un ruolo; mentre gli storici fascisti – ma anche gli altri – hanno messo in evidenza, pressoché all’unanimità, come l’unità d’Italia sia stata realizzata da un’élite di aristocratici e borghesi34.
42Sono prova dell’appena menzionata visione, oltre alla preponderanza narrativa delle classi popolari, per esempio lo strenuo ruralismo in entrambe le pellicole. Ma Garibaldi, che unisce e fa agire, elimina le diversità di classe nella creazione della sua utopica Italia. In quanto destinante del popolo esso unifica il popolo sotto il suo nome. Ecco, lo ribadiamo data la sua rilevanza destinale, che nel far fare fa essere, reificando un protocollo destinale unidirezionale in cui il popolo esegue i propri compiti nella convinzione di condividerli. In 1860 egli è atteso da tutta la comunità del paesino siciliano, compreso il prete che alla fine sollevato esclama «è arrivato Garibaldi!», guida e faro della patria, e inoltre riesce nell’ardua impresa di eliminare le discordie politiche giacché i due litiganti a cui assiste Carmeliddu nel treno da Civitavecchia a Genova alla fine convengono che «è finito il tempo di discutere, è iniziato il tempo di fare»35.
43La “politica del fare”, espressione retorica che risuona di numerose eco anche nel XXI secolo, è pertanto intrinsecamente connessa alla forte dimensione esperienziale proposta da entrambi i film. Anche ne Il grido dell’aquila è proprio il ricordo di Garibaldi a smuovere il rappresentato da uno stato di inerzia a uno d’azione (l’impressione del moto data dal destinante di cui parliamo sin dall’inizio), producendo uno dei più palesi raccordi con il fascismo. Il programma destinale non è così immediatamente intuitivo: Garibaldi promuove un’ideologia del fare, dell’azione, inducendo chi è predisposto verso una certa retorica alla convinzione che mediante il proprio diretto intervento sia possibile modificare il destino dello Stato in cui vive. Parrebbe quindi una sorta di dichiarazione programmatica del destino come autodiretto. Tuttavia tale fare è in realtà estremamente guidato. Garibaldi non solo induce al fare, ma anche orienta tale fare. Così chi lo segue è in realtà poco più che l’infinitesimo braccio meccanico, guidato dall’alto, destinalmente eterodiretto. È il fare all’unisono, seguendo l’orma del destinante collettivo, trasformandosi in Leviatano. Si vede, identificando questa logica, come il film destinato dallo Stato sia in realtà imbevuto di ideologie che forniscono precise idee di destino, secondo un circuito: lo Stato fa ingerenze sul film, il film che ne fuoriesce presenta una struttura destinale che è frutto di tali ingerenze (le quali, schematicamente, hanno a che fare spesso e volentieri proprio sulle causalità presenti nel film stesso).
44Beppino, nipote del cieco Pasquale, ascolta con attenzione i racconti colmi d’ardore sull’eroico passato del nonno, che lo vide già due volte marciare su Roma, fin quando – mosso da una sorta di spirito invisibile – decide di agire egli stesso, non a caso nella seguente maniera: si reca ove alcune persone stanno scrivendo su di un muro “W Lenin” e a colpi di manganello (da lui soprannominato “San manganello”) li allontana con gioia. Da un punto di vista narratologico non solo Beppino agisce per cacciarli, ma anche loro di contro agivano nel loro atto scrittorio, e questa banale constatazione induce a rilevare come il richiamo all’esperienza mosso da Garibaldi sia il richiamo a un’esperienza manichea, che ben distingue fra moralmente giusto e deprecabilmente sbagliato, pienamente in concordia coi dettami fascisti costruiti dai numerosi rimandi allegorici già menzionati. La coerenza deve regnare sovrana nella costruzione di una propaganda attenta e il richiamo all’azione è valido solo se questa è conforme, anche moralmente, al fascismo.
45Per l’allegoria, gli enunciatori delegati, la connotazione, il rimando implicito, l’esercizio retorico più o meno evidente, c’è un posto (o meglio uno spazio) concettuale rigoroso: il passato. Mussolini è il Presente, e anzi è il nuovo Garibaldi, sua estensione esplicita, che non va simbolizzata ma mostrata nel suo essere. Egli è l’istanza che convoglia l’aerosità di Garibaldi in un nuovo destinante.
1860 era ambientato nell’anno dell’Impresa dei Mille, ma svolgeva il tema della partecipazione popolare all’impresa anche contro le titubanze “politichesi” e della funzionalità dell’impresa garibaldina alla coesione nazionale, sempre e comunque nel presupposto che in quelle sinergie si celasse la fondamentale sinergia tra capo e popolo che il fascismo si attribuiva36.
46Questa considerazione emerge da una lettura analitica dei due film finora presi in esame. L’intero impianto di cui si è disquisito pare asservito alla creazione di un terreno fertile per la mise-en-scène del duce come diretta conseguenza della metafora, sua maxima (e unica) giusta esegetica. In questo senso il finale de Il grido dell’aquila è esemplare: il ricordo dell’impresa garibaldina, in una commistione fra onirico e reale che in altri contesti non si esiterebbe a definire tipica del postmoderno, si amalgama con le immagini dei luoghi simbolo italiani: si vedono l’aquila e il fascio littorio e poi la concretezza prende sempre più piede con immagini di campi, industrie, navi, e il tutto culmina con un fermo immagine sul duce. E poco prima fastose immagini della marcia su Roma, cui partecipa con ritrovata vitalità il reduce garibaldino, si susseguono una dietro l’altra in una sequenza più lunga della media del film a ricalcare la grandiosità dell’impresa fascista. A onor del vero tali sequenze non sono mai state giudicate con toni positivi dalle critiche, così come quelle affini sul finale di 1860 che analogamente raccorda Risorgimento garibaldino con marcia Mussoliniana, e che lo stesso Blasetti nel dopoguerra tagliò in forza di una raggiunta consapevolezza antifascista.
47Come sottolinea De Filippo la scelta di finali così manifestamente celebrativi non si rivelava sempre efficace, ed è piuttosto comprensibile mettendosi nell’ottica di un pubblico che fino a un certo punto viene stimolato da una ricca produzione simbolica per essere poi sottoposto a un diretto bombardamento autoencomiastico. Nondimeno vi è da considerare come il cinema fascista fosse comunque costantemente scandagliato da potenti organi di censura e di revisione, e se dunque scelte di un certo tipo non trovano favorevoli ragioni su di un frangente estetico, esse risultano comunque giustificabili da un punto di vista storiografico. Inoltre in qualche modo tutto ciò ci dà prova di quanto già detto: lo Stato in quanto destino del film si riflette poi nella destinalità interna al film stesso37.
Film come destino dello Stato
48Se i contesti precedenti vedevano la presenza extradiegetica dello Stato che destinava il film da fuori, ripercuotendosi nel di dentro, altrettanti sono i film che invece trattano deliberatamente lo Stato come oggetto di riflessione critica, senza necessariamente essere commissionati, ma rispondendo comunque a determinate istanze culturali.
49L’apparato statale viene trattato in molti modi, ma qui ci limiteremo a vagliare i casi in cui viene ricondotto a ur-destinante, che opprime generando sentimenti di rivolta e di riscatto, non sempre realizzati. è il caso rilevante delle distopie filmiche, la cui datazione cinematografica risale almeno al 1927, anno di uscita di Metropolis di Fritz Lang, anche se inaugurate a partire da una nota tradizione letteraria, quella di Evgenij Ivanovič Zamjatin, George Orwell da cui il film Nineteen Eighty-Four (Orwell 1984, Michael Radford, 1984), Philip K. Dick da cui molti film, Aldous Huxley, Ray Bradbury da cui il film Fahreneit 451 (Id, Francois Truffaut, 1966), e cosi via38.
50Esistono molti tipi di distopie, ma tutte risultano accomunate da almeno due punti. In primis esse, etimologicamente, hanno a che fare con spazi precipuamente significati, con connotazione estremamente negativa. Spazi dell’invivibile o del represso, ove masse di persone risultano infelici, soggiogate, violentate. Nella serie televisiva brasiliana 3% (2016- in corso, ideata da Pedro Aguilera) una piccola fetta di popolazione vive su un’isola paradisiaca, mentre il restante 97% risiede in un mondo in macerie; nel noto Hunger Games (Gary Ross, 2012; Francis Lawrence, 2013; Francis Lawrence, 2014 e 2015; tutti basati sui romanzi di Suzanne Collins, 2008, 2009, 2010) i ricchi stanno a Capitol City, i poveri in Distretti trasandati; e così via. In secondo luogo, direttamente connesso al primo, la condizione di infelicità che significa lo spazio distopico è attuata da un ordine sovrastrutturale, che ha il potere di destinare tutto quanto gli sottostà. Per sovrastruttura intendiamo: «[…] non qualcosa che sta autonomamente sopra alla struttura sociale, ma come interna a essa, con un ruolo non semplicemente interpretativo e giustificativo, ma organizzativo, formativo»39.
51Tale ordine destinale è, statisticamente quasi sempre, una forma statale o parastatale deviata dispotica. Alle volte è invece un risultato di natura (spesso tuttavia scatenato fra guerre fra Stati, incuria dei potenti e così via), come nel caso del cinema post-apocalittico40. Spazio e Stato dunque concorrono mutualmente nella definizione della distopia, ove la destinalità proietta chiunque non appartenga alla sovrastruttura in una dimensione oppressa e pericolante. Così le distopie si costruiscono narrativamente spesso secondo dei pattern regolari, che vedono la nascita di Resistenze contro la tirannia dello Stato, desiderose di riprendere in mano il proprio destino. La fama odierna di questo genere di film è spesso attinta dalla letteratura cosiddetta young adult41, come nei casi di culto quali il già menzionato Hunger Games, o la saga composta da Divergent (Neil Burger, 2014), Insurgent (Robert Schwentke, 2015), Allegiant (Robert Schwentke, 2016), tutti tratti dalla serie di Veronica Roth, o ancora quella di Maze Runner (Wes Ball, 2014, 2015, 2018), basata sui romanzi di James Dashner42. In questi film i protagonisti sono sempre adolescenti che combattono il regime statale nel tentativo di liberare loro stessi, e per sineddoche il mondo, dalla dittatura. La fama di tali opere, che spesso sembrano costruite come copie carbone di canovacci tutti identici, è dovuta a diverse contingenze, che hanno a che fare con l’età dei protagonisti, i quali spesso nel compiere le loro imprese imparano a crescere, trovano l’amore, scoprono il sacrificio e la morte e via discorrendo, ma anche con il diffondersi postmoderno di distopie adulte (si pensi alla nota serie tv The Handmaid’s Tale, Bruce Miller, 2017- in corso), oltre che di ideologie del complotto e della cospirazione, che inducono il pubblico ad appassionarsi e immedesimarsi con vicende costruite ad hoc per assecondare sentimenti di vittimismo e dottrine del giogo43.
52Accanto a queste opere si stagliano tuttavia molti altri universi, spesso contaminati, passando, per esempio, dalla fantascienza cyberpunk44 del transumanesimo come annichilimento dell’umano allo zombie-movie45 come distopia di carattere pseudo-profetico circa una società di massa concepibile come thanatocomio diffuso, dove lo spazio si fa “caco-topia”46.
Distopia, distopia canaglia
53Le distopie esaudiscono sempre un bisogno esistenziale: compiacciono lo spettatore nelle sue manie di persecuzione, di ordine destinale (non sono libero, qualcuno o qualcosa mi determina), ammiccandogli e facendogli capire che non è solo, che qualcosa si sta muovendo, che il film non è pura finzione ma manifestazione di un futuro prossimo venturo di cui altri sono a conoscenza; anche in vece di ciò spesso gli universi della distopia si fondono con quelli delle teorie cospiratorie. Le distopie, in questo senso, fanno sentire meno soli, e avallano ideali di riscatto. Quelle adolescenziali prima menzionate lo fanno in maniera tendenzialmente semplicistica o manichea, altre invece costruiscono apparati più complessi, problematizzandosi come riflessioni filosofiche.
54Il primo caso di rilievo, cultualizzato fortemente nella contemporaneità, è senz’altro V for Vendetta (V per Vendetta, James McTeigue, 2005), ispirato al graphic novel di Alan Moore e David Lloyd (1982-1985), sceneggiato e prodotto da Larry e Andy Wachowski che sull’ideologia della sovrastruttura hanno costruito l’intera loro estetica, facendola culminare nella serie di Matrix. La storia è quella di V (Hugo Weaving), un terrorista che pianifica un attentato al Parlamento inglese per colpire il regime fortemente nazionalista che sta imperversando. V è un uomo alto, vestito con un mantello nero e un cappello dello stesso colore, e indossa una maschera di Guy Fawkes, preso a emblema per aver ideato la “congiura delle polveri”. È un uomo dotato nelle arti marziali, colto e caratterizzato da un linguaggio forbito da cui traspira tutto il suo idealismo. Il film è scandito dai suoi monologhi, che contribuiscono – assieme al velamento della sua identità – a farne una figura magnetica, che si innamorerà poi di Evey (Natalie Portman), unico momento in cui verrà rivelato il suo lato umano. A parte questo V è un’idea, o meglio un brand, un’identità visiva, un involucro di valori, che si perpetua con un logo che plasticamente ricorda la “A” degli anarchici, e che non esita a compiere azioni di grande spettacolarismo per fare proseliti, come quando, un anno prima dell’attentato, prende possesso dei media della nazione.
55Il film dunque veicola l’idea di uno Stato opprimente e panottico47 che si può combattere a partire da una cellula anomala, elemento di disordine in un sistema del tutto ordinato, intaccando i media, e cioè il principale mezzo attraverso cui lo Stato esercita il suo plutocratico influsso sul popolo. La scena della presa di possesso di V dei canali televisivi è in questo senso indicativa, svolgendosi attorno a quattro focalizzazioni:
V per Vendetta

- Gli schermi e i maxi-schermi attraverso cui il volto di V si propala;
- I responsabili delle emittenti in preda al panico che cercano invano di interrompere le trasmissioni;
- Lo stesso V, che con tono serafico propugna il suo messaggio, invitando il popolo lo stesso giorno l’anno dopo a prendere parte con lui alla scintilla della rivoluzione;
- I telespettatori, le cui espressioni assorte indicano il coinvolgimento emotivo nei confronti del discorso trasmesso a reti unificate.
V per Vendetta (2)

56Il tutto è disposto secondo un montaggio alternato, e la musica solenne e i movimenti di macchina che realizzano primi piani sugli spettatori di varia età ed estrazione sociale sanciscono la presa del discorso.
57L’idea è innestata. V così durante il film si addestra per la sua ardua missione, che andrà a buon fine, pur richiedendo il suo sacrificio. La notte del 5 novembre infatti egli perisce, ma il popolo chiamato insorgerà, tutto vestito con maschere di Guy Fawkes così rendendosi massa anonima e inattaccabile, e Evey potrà far detonare le bombe che porteranno all’esplosione del Parlamento. Un atto di violenza è presentato qui come estremamente poetico, sotto le note baldanzose della Ouverture 1812 di Čajkovskij. A tale esplosione il popolo si leverà la maschera, guardando lo spettacolo, riconquistando dopo l’atto collettivo un volto individuale, riaprendosi alla speranza.
58Destinalmente dunque il potere oppressivo dello Stato viene minato, non sconfitto definitivamente, a partire da un dispositivo passionale, la vendetta, da cui attinge il proprio nome il protagonista. E tuttavia non è il popolo a insorgere di sua sponte, ma un personaggio anti-Stato, che amplifica la sua potenza persuasiva depersonalizzandosi e costruendosi un’identità ideale, fondata unicamente su un insieme di valori (cosa che farà anche Evey, rapata a forza e convinta ad appoggiare la causa al di là dei suoi sentimenti). V è di fatto una metafora vivente, un’idea «a prova di proiettili» come si definisce nella sequenza della sua dipartita, e rappresenta la presa di coscienza dei cittadini, che svolgono, a partire da Evey, un ruolo fondamentale, senza cui l’impresa non potrebbe in definitiva compiersi. V in effetti, per la sua storia personale, non potrebbe esistere (dovrebbe essere morto bruciato stando a quel che sappiamo del suo passato). E anche sul piano filmico egli è a tutti gli effetti un non personaggio. Non ha identità, ha sempre lo stesso comportamento serafico, non cambia (quasi mai). L’unico statuto esistenziale che gli si può concedere è quello di essere la devianza incarnata derivata da una destinalità dispotica, un programma destinale:
V is not rash or irrational, but calm and deliberate in his pursuit of revenge because he is certain of the legitimacy of his cause, and thus he is unconflicted in its pursuit. Indeed, he is so comfortable with his violence that he begins to resemble an allegorical embodiment of fate or justice. He has in effect returned from the grave to torment his persecutors48.
59Il film così si apre a numerose speranze, in primis a quella di una capacità del popolo, a partire da uno stimolo, di sviluppare cognizione della propria condizione, e di rischiare per migliorarla e prendere le redini della propria esistenza. È sulla base di queste premesse che V per Vendetta diviene un “film sacro”, preso a modello da numerose persone, e si propala per simboleggiare la causa di gruppi hacktivisti – attivisti che agiscono con strumenti informatici – come quello di Anonymous (che nelle sue comunicazioni mantiene l’anonimato con la maschera di Guy Fawkes)49 o fa supporto dell’ideologia del Movimento 5 Stelle in Italia, che ai suoi esordi ne imita le caratteristiche plastiche del logo e ne attinge sul piano discorsivo dalla sceneggiatura (dai monologhi di V), sancendo la sutura fra fantapolitica e realtà. Entrambi i movimenti, nel loro autonarrarsi, si pongono come inneschi per un’uscita felice da un percorso predestinato da organizzazioni sovrastrutturali, disinteressate al benessere dei loro sottoposti, cioè un Noi contrapposto a un Loro.
60Il successo e la diffusione di V per Vendetta come mito contemporaneo dimostra l’interesse generale nei confronti dei temi della libertà personale e del riscatto50, fornendo aspettative positive come controparti di sacrifici necessari per la libertà (sacrifici finali, cioè la morte, ma anche sacrifici mediani, cioè la trasformazione di se stessi in oggetti utili alla causa, come maschere viventi che destituiscono l’individualità per formare una massa omogenea e compatta).
V […] allow himself to be used as an instrument of freedom. His very life as the Guy Fawkes savior of the United Kingdom, and his death so that Evey and others may “carry the torch” both indicate that he intends to sacrifice himself for the greater good of the society in which he resides51.
61Speranze per un destino migliore sono anche quelle che si aprono in Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013), basato sul fumetto francese Le Transperceneige del 1982 di Jacques Lob e Jean-Marc Rochette. Qui l’origine della distopia non è di ordine statale ma naturale, in tipico stile climate fiction. Una glaciazione ha infatti reso inabitabile il mondo, e l’unica sacca di vita umana superstite sopravvive su un treno che compie sempre lo stesso percorso. Il treno, ristretto e diviso per vagoni, e così reso sempre come spazio affollato e scuro, è tuttavia divenuto luogo di una divisione sociale per la quale chi è nei vagoni più prossimi alla locomotiva è benestante, chi risiede negli ultimi è invece il proletario costretto a una vita desolante e a lavori duri. Sussiste insomma una stretta divisione classista, certificata dalla presenza di una polizia interna che punisce le devianze anche molto crudamente, per esempio infilando il braccio del reo in una fessura verso l’esterno e facendolo congelare, per poi distruggerlo. Il locomotore è abitato da Wilford (Ed Harris, che ha un ruolo simile, essendo un destinante “divino”, in The Truman Show di Peter Weir, 1998), creatore del treno e suo governatore, oltre che implicato nelle ribellioni interne che ogni tanto si verificano e che sembrerebbe innescare egli stesso nei casi di sovraffollamento dialogando con il vecchio Gilliam nella coda (John Hurt, che in Orwell 1984 era il protagonista Winston Smith e che in V per Vendetta è Adam Sutler, temibile Alto Cancelliere del regime). Il film è dunque la storia di una ribellione dalla coda alla testa del mezzo, di una risalita di vagone in vagone fino alla “Carrozza di Dio”, dove alcuni macabri segreti verranno rivelati. Il tutto qui culmina, nuovamente, con un’esplosione, una sorta di programma destinale che innesca un riavvio del sistema, a cui consegue il deragliamento del treno e la fuoriuscita della protagonista Yona (Go Ah-sung) e di un bambino (immagine simbolica di una ri-nascita) che, vedendo un orso bianco in lontananza, comprenderanno che sul pianeta è di nuovo possibile la vita.
Snowpiercer

62Se la storia presenta dei tratti di comunanza con V per Vendetta, molti di più sono i tratti dissimili. Lì l’esplosione era un atto lungamente programmato, qui invece è una estemporanea soluzione finale; lì l’azione aveva lo scopo di aprire una breccia di speranza, qui invece la speranza si apre fortuitamente; lì V era l’idea di riscatto che si faceva strada ordinatamente nel popolo, qui il ribelle Curtis (Chris Evans) agisce invece spesso e volentieri impulsivamente, fino al finale in cui gli viene addirittura proposto di assumere il ruolo di nuovo capo dell’umanità nel treno, rifiutandolo (anche perché venuto a conoscenza del fatto che, perché tutta la macchina funzioni, un bambino di pochi anni deve effettuare un costante lavoro manuale chiuso in una minutissima cella). L’idea di fondo che il film veicola è dunque nuovamente connessa con un’etica del sacrificio, ma ribaltata dalla programmaticità di V a una logica della scommessa per la quale quando non c’è più nulla da perdere tanto vale arrischiarsi fino alla fine. A tale rischio corrisponde una sanzione premiante, e cioè una speranza per un futuro migliore, da ricostruire avendo finalmente imbrigliato le redini della propria esistenza individuale e di classe: «Snowpiercer […] presents a portrait of oligarchical rule and underclass discontent; these films are fueled by disgust for the decadent rich and admiration for the outraged poor»52.
63Destinalmente, muovendo le mosse dalle due logiche evidenziate, l’una programmatica, l’altra disordinata, entrambe culminanti in un’esplosione cui corrisponde una speranza, le due idee destino si delineano su binari paralleli ma difformi. In entrambi i casi la riappropriazione del destino necessita di un’idea di partenza e di un leader carismatico. Nel primo caso tuttavia l’oppressione statale va poi disinnescata a partire da un laborioso piano, seguito con precisione maniacale, mentre nel secondo la scintilla dell’ingiustizia basta ad accendere una rivoluzione scomposta, fondata sull’istinto. È in effetti la distinzione fra progetto e destino, secondo la bipartizione di Giulio Carlo Argan53. Nel primo caso insomma con la sorte si tenta di dialogare, cercando di elaborare un “imbuto evenemenziale” che vada a restringersi minimizzando le possibilità di fallimento (attraverso progettazione, allenamento, equipaggiamento, calcolo dei possibili risultati, piani b e così via). Nel secondo il destino è al contempo sfidato e adulato, si agisce nell’aspettativa che esso “collabori” e l’imbuto evenemenziale viene rovesciato, allargandosi sempre di più la possibilità di fallimento ogni qualvolta l’azione compiuta sia sconsiderata, disperata, estrema (secondo a-logiche di istinto, pulsione, rabbia, azzardo).
64Sul finale dunque il destino a V stringe la mano, essendo egli archetipo dell’homo faber est suæ fortunae, colui che ha asintoticamente portato a zero la rilevanza della sorte prevedendo un ampio ventaglio di variabili, mentre in qualche modo dà una pacca sulla spalla a Curtis, che è stato, a tutti gli effetti, fortunato. Il regime di certezza raggiunto dai due protagonisti è poi asimmetrico, nella misura in cui V ha instillato nel popolo una nuova forma di consapevolezza, esplicitata dagli sguardi commossi verso il Parlamento in deflagrazione, mentre Curtis ha innescato una rivolta rabbiosa che è culminata con la distruzione del treno, simbolo del giogo ma anche condizione fino a quel momento necessaria al perpetuarsi dell’umanità. In ogni caso la speranza, intesa come un’aspettualità incoativa verso un futuro autodeterminato, conclude ambedue i film.
65Così non è per altre distopie statali, come il seminale Brazil di Terry Gilliam (1985):
Onirico al limite del fantasy, claustrofobico, cupo e scenograficamente sovraccarico, il film è una feroce satira nei confronti di un mondo burocratizzato fino alla nevrosi; solo una sottile vena parodica, di stampo grottesco e nonsense […] riesce a stemperarne le atmosfere opprimenti: il titolo del film, ispirato alla spensierata canzone in esso ricorrente, Aquarela do Brasil, ne è una manifestazione emblematica, e come osserva Diego Salì è anche «evocazione: richiamo alla libertà che da sempre questa terra richiama in modo quasi pavloviano nelle nostre menti»54.
66Qui è la burocrazia come reale essenza dello Stato a governare un mondo grigio e grottesco. Una burocrazia sfrenata e incapace di qualsiasi umanità, contro la quale Sam Lowry (Jonathan Price) tenta in tutti i modi di ribellarsi, ottenendo tragicomicamente l’effetto contrario, cioè costringendo il protagonista sempre di più sotto la lente della dittatura. In una delle scene iniziali del film Sam si trova al ristorante con la madre Ida (Katherine Helmond), un’amica di questa e sua figlia. La madre è una donna imborghesita, di una certa età, che passa il suo tempo a tentare di ringiovanirsi con sofisticate e grottesche tecniche di lifting. Le sue amiche non sono da meno. Il luogo è presentato come un ristorante dalle pretese eleganti, ma che tuttavia non riesce del tutto a celare il suo essere inserito in una realtà distopica (giganteschi tubi di metallo lo attraversano, simboli di un’interconnessione panottica che ha invaso ogni meandro della realtà). I piatti si possono scegliere unicamente fra quelli nelle fotografie, tant’è che Sam per una sua richiesta particolare deve scontrarsi con l’ottusità del cameriere che non riesce ad accettare l’idea di una variazione dai numeri prefissati, numeri che peraltro corrispondono a cibi liofilizzati la cui parvenza non ha nulla a che fare con l’immagine da cui era scaturita la scelta. Le donne sono vestite in maniera ridicola e appariscente: la madre di Sam porta come cappello una scarpa col tacco, e i suoi abiti sono tutti vistosamente leopardati. È l’eccentrico come epifania della borghesia, i cui canoni Gilliam, con l’usuale fantasia visionaria, deride in quanto conseguenza di uno statuto di potere che ha del farsesco.
Brazil

67Il cameriere dunque dopo aver servito il tavolo, ove Sam sembra essere l’unico perplesso circa la coercizione intrinseca alla situazione che sta vivendo, dichiara «Bon Appétit», e proprio mentre lo fa una violenta esplosione si verifica nel locale, causando seri danni a molte cose e ferendo e uccidendo diverse persone. La tavolata tuttavia, dopo il breve spavento, prima esprime con tono stizzito il proprio disappunto, e poi continua a mangiare noncurante dello strazio che le si sta consumando attorno, ciarlando delle più effimere facezie mentre i musicisti continuano a suonare. Sarà cura dello stesso cameriere scusarsi e provvedere un paravento per evitare ai commensali la visione degli orrendi mutilati che gli stanno soffrendo attorno.
Brazil (2)

68La scena è metafora dunque di una società piegata ai suoi sistemi e del tutto anestetizzata alla sofferenza altrui, ed è proprio a partire da queste premesse che Sam sviluppa il bisogno di immaginarsi in un mondo diverso, quello cioè perseguito dagli stessi terroristi che avevano poco prima causato l’esplosione. L’atmosfera spaziale e il settaggio contenutistico, poi, sono di matrice chiaramente orwelliana:
In Brazil, profondamente ispirato da 1984 di Orson Welles, il timore che un gruppo sociale prenda il sopravvento sulla restante popolazione è qui vestito di ironia e satira nei confronti della burocrazia. Si distinguono due mondi: da un lato il grigiore della routine nel contesto lavorativo di una corporazione, talmente gigantesca e labirintica al punto che si perde traccia delle azioni di ciascuno; dall’altro invece vi è il mondo onirico del protagonista in cui diventa un coraggioso e valoroso guerriero. Il film ha una struttura complessa in cui l’oppressione della burocrazia e del totalitarismo (simboleggiata dai tubi di controllo che invadono ogni spazio, muri nelle abitazioni, soffitti, uffici e convogliano nell’ultimo terminale del Regime) si sovrappone al caos generato dalle continue esplosioni di negozi, tubature e ristoranti, indotte dallo stesso Sistema Centrale che necessita di generare paura per mantenere il controllo. Lo stesso sistema di controllo impone anche che per ogni singola azione sia necessaria l’autorizzazione del Sistema Centrale tramite moduli firmati, in un’escalation di burocrazia che, tuttavia, resta inefficace.
La città rappresentata in Brazil è grigia e degradata ma possiede una rigidità formale paragonabile alla potenza espressa dall’architettura di Metropolis di Fritz Lang55.
Il film così si collocherebbe nello schema già visto in precedenza con V o Curtis, ma in realtà Sam non è un leader carismatico, quanto piuttosto un personaggio che non riesce mai appieno a sviluppare una personalità forte, e i suoi tentativi non fanno che rivelarsi buchi nell’acqua fino al doppio finale che lo vedrà catturato dal ministero per il quale egli stesso lavorava e torturato. Egli tuttavia, in stato catatonico e canticchiando Aquarela do Brasil, sarà ormai del tutto annichilito dal sistema, rifugiato in un mondo interiore libero, naturalistico, e congiunto con il suo amore Jill (Kim Greist), in realtà deceduta. Questa scena filmicamente è presentata come reale, e compone un lieto fine fittizio che si rivelerà tale solo mediante l’inserzione del vero finale, in cui vediamo il povero Sam pressoché lobotomizzato in primo piano, e poi con uno stacco lo vediamo al centro della stanza delle torture, in campo lungo, un puntino isolato in un grosso cono di cemento, solo nella sua prigione di fantasie, anomalia del sistema eliminata, mentre la sua canzone scorre coi titoli di coda.
Brazil (3)

69L’idea di destino che emerge è estremamente pessimistica. Il protagonista da solo non può nulla contro l’ur-destinante statale, nonostante tutti i suoi sforzi egli è matematicamente svantaggiato e non possiede nemmeno il carisma necessario affinché qualcuno possa, realisticamente, credere in lui. Nessuna speranza traspira da questo film, in cui definitivamente 2+2=5.
70Brazil magnifica la potenza della distopia come struttura destinale capace di annullare ogni chimera di autodeterminazione. Così accade anche nel cult A Clockwork Orange (Arancia meccanica, Stanley Kubrick, 1971), trasposizione cinematografica del romanzo omonimo di Anthony Burgess (1962) che vede il drugo Alex DeLarge (Malcolm McDowell) praticare forme di divertimento sadico fino all’omicidio, per poi essere incarcerato e “corretto” attraverso la “cura Ludovico”, che fa sì che ogni qualvolta esso in futuro sia colto da istinti violenti una forte nausea lo dissuada dal compierli. Come Qualcuno volò sul nido del cuculo, e come nel finale di Brazil, «il potere mette fine ai comportamenti aggressivi di individui marginali, intervenendo direttamente sul loro cervello»56. Il potere si fa foucaultianemente biopolitico, determinando le capacità stesse dei devianti di immaginare un destino autodeterminato, anche con interventi mirati al corpo (un corpo individuale che va fatto rientrare nei ranghi del corpo sociale)57.
71Alex così una volta uscito dal carcere si trova cambiato e subisce come contrappasso angherie da tutti coloro che aveva in passato seviziato. Incapace di difendersi tenta dunque il suicidio e al suo risveglio dal coma il Ministro degli Interni, per mettere a tacere le polemiche che potrebbero scaturire dal suo caso, è costretto ad accettare di farlo diventare capo della polizia, reintegrandolo così nella società e anzi conferendogli un ruolo di prestigio, oltre che un lasciapassare che gli garantisce di esercitare la sua amata violenza in maniera del tutto legale.
72Arancia meccanica, così come in genere buona parte delle distopie, è ambientato in un futuro prossimo, e di fatto si può considerare come la controparte speculare di Brazil. Entrambi i film sono visti dal punto di vista di devianti nei confronti dello Stato, ma i due personaggi rispondono alle richieste di integrazione in maniera diversa. Sam rifiuta il suo assorbimento totale negli organi statali, e lo fa come risposta individuale e sociale, rimettendoci tutto quanto ha di più caro. Alex invece proprio sul finale accetta l’integrazione, e lo Stato, assolutamente disinteressato a lui come a tutti ma deciso a preservare se stesso, gli diviene complice, nella consapevolezza che nulla di buono potrà nascere dal suo nuovo titolo di capo della polizia. Non è dunque la violenza di Alex a preoccupare lo Stato, ma il fatto che tale violenza non rientri nella nomologia dello Stato stesso. Egli infatti è prima esecrabile carnefice, poi vittima, poi carnefice non più esecrabile ma agente in piena liceità, come riassunto dalla efficace scena finale.
73Qui Alex è in ospedale, raggiunto dal Ministro con cui ha concordato il suo nuovo ruolo. La scena è presentata come un campo/controcampo in soggettiva. Da un lato c’è Alex nel letto con il Ministro sorridente che lo abbraccia, dall’altro molte persone della stampa che fanno foto per immortalare l’evento e attivare la macchina propagandistica che non farà altro che rinsaldare il potere e l’immagine dello Stato. Le due inquadrature sono frontali e simmetriche, come è tipico nel cinema di Kubrick, le luci sono poche e concentrate al centro dello spazio profilmico che risulta saturo e oppressivo, a marcare la logica di inglobamento che vi si sta consumando all’interno. Lo scambio non è dialogico, ma costruito su una serie di sguardi, tutti sorridenti ed entusiastici, resi dai primi piani di Kubrick su Alex e il Ministro sovrapposti al mormorio di voci e ai rumori delle macchine fotografiche, oltre che alla Nona Sinfonia di Beethoven. Lo scambio di inquadrature però porta a un ultimo passaggio, che vede il volto di Alex passare dal sorriso di circostanza a un’espressione catatonica – come quella di Sam in Brazil, altra convergenza – e inquietante, con gli occhi che vanno a rovesciarsi pian piano verso l’alto. Egli dopo pochi minuti ha riacquisito la sua personalità iniziale, e sostituisce la visione dei fotografi, una visione soggettiva pura, resa da Kubrick tramite l’inserzione nel lato basso dell’inquadratura dei piedi ingessati del protagonista, con quella di lui che fa sesso con una donna al centro dell’immagine, su un letto che parrebbe fatto di qualche sostanza psicotropa, e ai due lati una schiera di nobiluomini e nobildonne vestiti in stile vittoriano che applaudono. In sottofondo, prima dello stacco sui titoli di coda, la sua voce interiore con soddisfazione esclama: «Ero guarito… eccome!».
Arancia meccanica

74Così si cala il sipario su un film ove la destinalità è circolare, in grado di riassorbire le disfunzioni mantenendosi inalterata e perpetrando un immobilismo totale, giocato su due ordini di grandezza. Da un lato lo Stato, che mantiene se stesso immutato, dall’altro il singolo, Alex, che è vittima dello Stato in quanto non trattato adeguatamente dato il carattere patologico del suo sadismo, e che così come vive l’illusione della guarigione immediatamente viene incoraggiato a nutrire i suoi vizi, purché siano allineati con il volere dello Stato stesso. Vizi i quali, chiaramente, una lettura ideologica potrebbe definire deleteri, ma che pure rappresentano una formula di ribellione che a tutti gli effetti è ribellione contro un futuro prestabilito, coltivata in un perverso rapporto fra coltezza – la passione per Beethoven, il linguaggio fra il forbito e l’immaginifico (il cosiddetto nadsat), lo stile di vita decadente – e barbarie – la violenza sessuale, le brutali aggressioni ai clochard, l’omicidio. Alex stesso, che ha narrato il film in prima persona, si congeda con sarcasmo. Egli sa di non essere guarito ma di essere stato, in via definitiva, integrato, di aver trovato un posto in un mondo ove c’è spazio anche per gli abbrutiti, purché essi indossino la casacca dello Stato.
Purghe, aragoste, formiche
75Un mondo del genere, privato di ogni speranza e dalla destinalità impietosa, è anche quello descritto dalla quadrilogia di James DeMonaco The Purge (La notte del giudizio, 2013, Anarchia – La notte del giudizio, 2014, La notte del giudizio – Election Year, 2016 e The First Purge, 2018), costruita su uno schema distopico a metà fra l’allegoria sociale e l’home invasion thriller. In un futuro molto vicino, gli USA del 2022, esiste una legge elaborata dai Nuovi Padri Fondatori: ogni anno dodici ore consecutive di un determinato giorno sono dedicate allo “Sfogo”, momento nel quale ogni legge decade e le persone possono commettere qualsiasi reato (salvo alcune minime restrizioni) in maniera totalmente “pulita”, senza che ciò infici sulla loro fedina penale. La retorica su cui è stata promulgata la legge, e che durante gli anni l’ha mantenuta viva, è quella relativa ai sentimenti repressi di rabbia nei cittadini che, potendosi purgare attraverso una catarsi normalizzata, vengono espletati, così riducendo nel resto dell’anno drasticamente il tasso di criminalità nel paese e, in generale, aumentando il livello di benessere percepito dai suoi abitanti.
76Lo Stato qui non è solo complice, ma incoraggia i cittadini a compiere i più efferati crimini, invitando coloro che non parteciperanno allo sfogo ma che ne condividono i principi a lasciare un mazzo di baptisia blu davanti alla propria abitazione. Gli effetti della legge producono migliaia di morti, stupri e violenze di ogni genere all’anno, per i motivi più disparati, e i film focalizzano su diverse dimensioni dell’evento, man mano allargando la focalizzazione. Il primo si concentra sulle vicende dal punto di vista di una famiglia favorevole all’evento ma non desiderosa di parteciparvi, braccata per tutta la notte nella propria casa da alcuni vicini mascherati (le stesse maschere sono suggerite dal governo) che per futili motivi vogliono seviziarla. Il secondo mette a fuoco il tema dei ceti più poveri i quali non avendo i fondi per mettere in sicurezza le proprie case (o non avendo alcuna casa) sono tendenzialmente le vittime predilette della notte dello sfogo; si assiste così a compravendite di persone per finanziare giochi quali cacce umane e simili orrori, e iniziano a intravedersi possibili ingerenze delle autorità governative che potrebbero intervenire direttamente nelle strade durante le dodici ore, e che avrebbero pianificato la purga non come macabra modalità per aiutare il popolo ma come mezzo per tenerlo sotto controllo. Nel terzo film tale ipotesi, tramite un allargamento prospettico ancora più evidente, viene confermata; il governo adopera lo sfogo per il proprio tornaconto economico, e la questione assume un tono prevalentemente politico, mentre si diffonde una formula turistica che vede cittadini del mondo dirigersi negli USA proprio per partecipare alla catarsi collettiva. Nel quarto film infine viene mostrata la prima notte di sfogo, quella sperimentale, architettata dai Nuovi Padri Fondatori come esperimento sociologico e testata per la prima volta a Staten Island, con tanto di premio in denaro per coloro che partecipano attivamente alla prova, corroborandone le premesse teoriche. Il tutto si gioca quindi sul territorio dei film basati sulla logica “kill or be killed”, come la già citata serie Hunger Games, ma pure Battle Royale (Kinji Fukasaku, 2000), Death Race 2000 (Paul Bartel, 1975), Death Wish (Il giustiziere della notte, Michael Winner, 1974, poi anche remake del 2018 di Eli Roth) e in un certo modo le distopie letterarie sul modello Lord of the Flies (Il signore delle mosche, William Golding, 1954) o The Lottery (La lotteria, Shirley Jackson, 1948). È evidente che tali distopie possano essere trattate sotto molti punti di vista, ma dato il lavoro già condotto in precedenza ci limiteremo qui a un taglio preciso.
77Dei molti modi nei quali potremmo rintracciare la destinalità in questa distopia scegliamo qui di concentrarci su due dimensioni, e cioè quella dell’importanza degli schermi e dei media nella società panottica descritta dalla serie cinematografica La notte del giudizio, e quella della retorica inscritta nei film come emanazione diretta dello Stato stesso. Le due dimensioni, come vedremo, si fondono nei video promozionali dello sfogo inseriti nei film stessi. Ne La notte del giudizio, film iniziatore della saga, i media giocano un ruolo preminente, diffondendo i messaggi patriottici che servono a propagandare lo sfogo prima che avvenga, producendo informazione nel durante, e infine glorificandone i risultati quando la carneficina è avvenuta. Quella della serie di film è una società schermica, secondo una doppia accezione. Gli schermi aprono il varco a una dimensione collettiva dell’evento, destituendo l’idea della violenza come una questione di singoli e diffondendo invece il mito di una ritualità condivisa, ove la responsabilità si possa disperdere. Di contro gli schermi, come quelli sul finale di 11 minut (Jerzy Skolimowski, 2015), i TG di 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls (71 frammenti di una cronologia del caso, Michael Haneke, 1994), i maxischermi di V per Vendetta o gli schermi del fuori campo di Benny’s Video (Michael Haneke, 1992), schermano cioè proteggono se stessi e i propri emittenti. Dietro la superficie schermica c’è lo Stato che ne assume la gestione, e che surrettiziamente si sincera di non essere smascherato, suggerendo transitivamente ai cittadini di schermarsi a propria volta, attraverso maschere o attraverso apparati di sicurezza domestica. La schermatura è ciò che consente ai cittadini di trasformarsi in aguzzini durante la notte dello sfogo.
78La retorica della trasparenza statale si infrange con una pragmatica dell’opacità. Non a caso il primo La notte del giudizio inizia, immediatamente dopo le scritte patriottiche su quanto faccia bene lo sfogo, con immagini che parrebbero di “repertorio”, attinte come da superfici schermiche, che mostrano il dilagare della violenza negli Stati Uniti durante lo sfogo. Sono tutte immagini lo-fi, molte delle quali sembrano tratte da dispositivi di ripresa di videosorveglianza, ad amplificare sin da subito la sensazione panottica58. Si vedono in esse esecuzioni sommarie tramite colpi di pistola, pestaggi, persone insanguinate che cercano di fuggire ai loro assalitori. Sono tutte immagini che sembrano girate all’insaputa dei soggetti ripresi, e su di esse scorrono i titoli di testa, soavemente accompagnati da una dolce musica, fin quando lo stacco ci porta invece nell’inquadratura in alta definizione del protagonista in automobile, che parla tranquillamente al telefono. Siamo alla vigilia dello sfogo, e la calma serafica dell’uomo, contrapposta alle violente immagini precedenti, produce un effetto di discrasia: quella violenza è normale, codificata, socialmente e culturalmente accettata e assimilata.
La notte del giudizio

79Tale accettazione è dovuta all’intenso e inarrestabile lavoro di propaganda, su cui la serie di film pone l’accento progressivamente, fino al prequel (l’ultimo della saga, che oggi vanta anche una parallela serie tv) ove compare un video di sponsorizzazione del primo sfogo.
80Il video è composto da una serie di inquadrature commentate da una calda e rassicurante voce fuori campo. Inizialmente immagini di persone felici si susseguono mentre la voce dà il benvenuto ai cittadini di Staten Island dichiarandoli pionieri di una nuova era. La parola “pionieri” è enfatizzata sia dal tono di voce del commentatore che dalla comparsa della scritta a caratteri cubitali nel centro dell’inquadratura, come accade per altre locuzioni che formano idealmente una capitolazione narrativa del sintagma filmico, fornendo i pattern valoriali necessari a creare engagement:
- PIONIERI
- FARETE LA STORIA
- SFOGO
- 12 ORE
- TUTTI I CRIMINI
- LEGALI
- NESSUN SERVIZIO DI EMERGENZA
- RINASCITA
81Ognuno di questi snodi sdoppia la narrazione valorizzandola sia funzionalmente (fornendo le indicazioni necessarie alla partecipazione) che utopicamente (virtualizzando anticipatamente le sanzioni positive per chi parteciperà). Nel mentre vengono fornite le istruzioni basilari per il compimento dello sfogo e il regolamento, sempre con tono cordiale, suggerisce l’utilizzo di una maschera e motiva lo sfogo come modo per “risolvere questioni personali” o anche solo per purgare la propria rabbia. Viene anche esplicitato che i mezzi di informazione resteranno operativi, e infine si ha con il classico tono da propaganda elettorale la benedizione comune: «Dio benedica tutti voi e coloro che si sfogano, e Dio benedica gli Stati Uniti d’America». L’appello finale a Dio e al paese, uno slogan archetipico che eleva l’esperimento a uno statuto morale più alto, è demarcato dall’immagine di una giovane ragazza che sventola la bandiera americana, prima, e dalla bandiera stessa in campo totale, subito dopo. È la bandiera che consacra l’impresa, e che corona la strategia retorica giustapponendo il contenuto orripilante del messaggio a immagini gioiose, come nel caso in cui l’invito a partecipare come singoli o come gruppi è giustapposto all’inquadratura di un gruppo di amici che giocano sulla spiaggia. È l’invito all’omicidio come pratica di coesione sociale.
82L’operazione retorica è dunque costruita a partire da una mitizzazione dello sfogo come modalità catartica e liberatoria capace di parificare, almeno apparentemente, le condizioni di tutti. Ciò emerge dagli schermi, ma pure dalla grammaticalizzazione della cultura del film fondata sul manifesto dei padri fondatori, che così recita:
We, the people, in order to form a more perfect union… When our original Founding Fathers first set these words to paper, they strove to “establish Justice,” “insure domestic Tranquillity” and “promote the general Welfare.” Today, the world is a much different place, but the New Founders of America battle for the very same American ideals and refuse to let them fade. Much like the Patriots of old, followers of the NFA recognize that big problems require big solutions. The same complacent thinking that dragged America into an era of poverty, violence, and crime will not fi x our nation. This is why the NFA established The Purge, the night that saved our country. By recognizing the inherently violent nature of mankind, the NFA has succeeded in creating a lawful, healthy outlet for American outrage. We pride ourselves on being the only party that will never ask you to deny your true self. We, the New Founders of America, revived our great nation with policies rooted in evolutionary truths of humanity. We are by design violent, vengeful and combative, and denial of our true selves is what led us to collapse. By accepting this and empowering you, the citizens, to purge and cleanse your souls, we’ve rebuilt America as the safe and prosperous union our Old Founding Fathers envisioned. America is only as strong as our weakest individual. We continue to defend the individual’s rights to personal security, including the 2nd Amendment right to bear arms set forth by our original founders and the 28th Amendment right to purge. These constitutional freedoms of self-defence have shaped a new era for America, a nation reborn. We are now a stronger and more peaceful union than our Old Founding Fathers could ever have dreamed. Since its inception, The Purge has been backed by scientists, law enforcement and economists alike. With your support and vigilance, the NFA can continue making America a “more perfect Union.” Blessed be the New Founders. And blessed be America, a Nation Reborn!
La notte del giudizio

83Il manifesto è a tutti gli effetti il programma che soggiace allo sfogo, costruito per suggerire il parallelo ucronico con la realtà spettatoriale a partire dalla citazione diretta della Costituzione americana (“Noi, Popolo degli Stati Uniti, allo Scopo di formare una più perfetta Unione…”), rivendicandone i principi ma destituendone le fondamenta in forza di una presunta violenza intrinseca all’essere umano, che necessita periodicamente di essere espletata. Il nesso finzione-realtà non è solo suggerito qui, ma anche dalla citazione del secondo emendamento (il diritto di detenzione di armi per i cittadini), e dagli apparati paratestuali, come i teaser poster, che spesso topicalizzano i film non tanto a partire dai contenuti violenti ma con bandiere americane, maschere distorte della Statua della Libertà, e così via. L’obiettivo è quello di amplificare la “impressione di realtà”, attraverso un calibrato accostamento di diegetizzazione e movimento59. Retoricamente il manifesto è inoltre costruito su toni patriottici, fa sempre riferimento al paese che “viene salvato” proprio grazie alla notte del giudizio, si rivolge non alle persone ma ai “cittadini”, i quali vengono riconosciuti nel loro “true self”, identità altrimenti repressa. Non è quindi scopo del manifesto polemizzare con i Padri Fondatori originali, ma piuttosto squalificarne i metodi accettandone la visione, quella di un’America unita e feconda, che si può realizzare unicamente con lo sfogo, e infatti la citazione iniziale è ripresa in chiusura, come a completare un cerchio, prima del richiamo a Dio e alla nazione, accomunati sul piano sovrastruttural-destinale. I Nuovi Padri Fondatori mirano a non stabilirsi come frattura del passato ma a collocarsi in una condizione di continuità, come naturale evoluzione del percorso intrapreso dai Padri Fondatori originari. È presente inoltre, a confermare il contenuto ideologico con ragioni probanti, un riferimento non meglio precisato a scienziati, avvocati ed economisti che avrebbero approvato la soluzione considerandola valevole.
84Questa filosofia è poi ulteriormente amplificata dai dati sbandierati dai media interni ai film che descrivono la nazione come drasticamente migliorata dall’introduzione dello sfogo. La povertà e la criminalità sarebbero pressoché scomparse. In realtà, ovviamente, la povertà è scomparsa perché ogni anno i poveri vengono massacrati impunemente, e la criminalità non è scomparsa, ma semplicemente viene convogliata in dodici ore, dove esplode tutta assieme (e anzi potrebbe addirittura essere aumentata, producendo lo sfogo un turismo apposito e le premesse anche per i non potenzialmente criminali di diventarlo).
85Lo Stato qui tiene sotto scacco i destini del popolo con modalità affini a quelle di Arancia meccanica o di Brazil; non potendo più di tanto eliminare le devianze, le assorbe, e anzi le fomenta guadagnandoci in vari interessi. La sovrastrutturalità è tale da poter senza eccessive rivolte elaborare un sistema di repressione perverso che esacerba nelle dodici ore dello sfogo ma che, inevitabilmente, permea e condiziona la vita di tutti per tutto il resto dell’anno. Anche chi è contrario vi è invischiato, volente o nolente, partecipe o obiettore. Quest’ultimo infatti non è un ruolo che va a detrimento del sistema ma che gli è connaturato, che è previsto, e che quindi rientra in un paradigma destinale codificato senza minarlo come forma di hacking semiosico60, cioè di elaborazione di un modello di semiosi che si distacchi dal percorso predeterminato.
86Quella de La notte del giudizio è in questo senso la distopia maxima, se si adotta come criterio quello che suggeriamo: la distopia come struttura destinale si realizza tanto più le possibilità di autodeterminazione degli attanti rispetto al destinante (lo Stato) sono annichilite in quanto assorbite e/o integrate a livello sistemico. Inoltre essa si presenta a tutti gli effetti come un’utopia, per chi la abita. Fatte salve le vittime, che sono previste, il sistema è presentato come funzionale e accettato “dai più”. Come in ogni distopia è lo scarto, l’anomalia, la scoria residuale a costituire la presa di consapevolezza. La notte del giudizio è l’utopia radicale che svela il suo fantasma, l’utopia – cioè, lacanianamente, il desiderio – realizzata, laddove invece doveva rimanere ideale. La rabbia verso il vicino di casa che guarda la tv a volume alto la notte non può certo tradursi nel suo accoltellamento, anche se ogni tanto ci piacerebbe “perfezionare il mondo” con certi sistemi. «L’utopia è certo realizzabile, ma non è affatto desiderabile, […] il paradiso evocato dall’utopia dissimula un inferno, […] un benessere passivo e paralizzante, [...] [un] livellamento degli individui ormai inadatti a fondare e dirigere il loro destino»61.
87Da un punto di vista biologistico poi The Purge suggerisce una biodeterminazione. La tesi hobbesiana dell’homo homini lupus che cagiona lo sfogo, e cioè la tesi di una barbarie insita indistintamente nell’uomo, ne fa di per sé un essere la cui determinazione è inscritta su una dimensione specista, come se la convergenza destinale non portasse che a un unicum selvaggio e vandalico. L’idea di una prevaricazione definitiva di un presunto stato di natura su quello di cultura è una fattispecie lombrosiana e in nuce neopositivistica che, pur se filosoficamente ricorrente (non solo Hobbes, ma anche Erasmo da Rotterdam, Francesco Bacone, John Owen e altri), costituisce una risposta sdrucciolevole e pessimistica alla definizione dell’essenza umana. Eppure non solo La notte del giudizio, che tratta la questione come pretesto, attinge da questa impostazione filosofica, usualmente trattata più come questione sociale che non, come in questa sede, metafisica. In molti dei film menzionati in precedenza – specie in quelli fondati sulla logica “battle royale” – vi sono varianti sul modello bellum omnium contra omnes, che diviene famoso in concomitanza con una fattispecie videoludica basata su questo schema, soprattutto nel mondo online62. Come dicevamo, i film nei quali lo Stato avalla questa concezione biodeterministica, imponendo ai suoi cittadini di uccidersi a vicenda, si configurano come distopie e pertanto prevedono sistemi di assorbimento delle anomalie.
88Forme di hacking semiosico in questo senso sono rappresentate per esempio dal finale del primo Hunger Games, che vede Katniss (Jennifer Lawrence) e Peeta (Josh Hutcherson) come ultimi rimasti al sanguinoso gioco escogitato dallo Stato, costretti a doversi infine affrontare finché non ne rimanga solo uno. I due tuttavia decidono con delle bacche velenose di suicidarsi simultaneamente, mettendo in crisi l’intero sistema che è costretto a proclamarli entrambi vincitori, onde evitare un collasso generale. Nel seguito della serie tuttavia questo twist of fate sarà a sua volta inglobato dal sistema e declinato a tornaconto dello Stato.
89Sullo sfondo fantascientifico/fantapolitico/di fantascienza sociologica poi il pattern dell’umano lupo per l’altro umano è ulteriormente politicizzato volgendosi a qualcosa come “l’umano è lupo per l’altro (non necessariamente umano)”. In Starship Troopers (Starship Troopers – Fanteria dello spazio, Paul Verhoeven, 1997), eccezionale esempio di distopia tratta dal romanzo omonimo di Heinlein (1959) con l’obiettivo di satireggiare gli Stati a «matrici militaristiche e reazionarie»63, l’altro sono degli alieni insettoidi che vengono sterminati a opera di forze umane dall’aspetto paranazista, e l’intero mondo è succube della propaganda anti-aliena a tal punto da vivere unicamente allo scopo della vittoria della guerra, anche dopo essersi resi conto che le creature aliene provano paura. In District 9 (Neill Blomkamp, 2009) gli alieni sono metafora dei neri all’epoca dell’apartheid sudafricano, e vivono confinati in ghetti nella periferia di Cape Town. Similmente in Alien Nation (Graham Baker, 1988) degli immigrati alieni umanoidi (newcomers) vengono trattati come schiavi una volta giunti sulla Terra e ghettizzati.
90Ma la potenza destinale dello Stato distopico non è unicamente espressa dalla sua capacità di decidere sulla vita e sulla morte, bensì dalla sua pervasività in tutte le dimensioni del vivere personale e sociale. Un esempio calzante è The Lobster (Yorgos Lanthimos, 2015), tutto ambientato in un mondo dai colori spenti dove le persone single vengono portate a forza in un hotel ove dovranno trovare un partner entro quarantacinque giorni (giorni nei quali è proibito qualsiasi atto autoerotico – pena punizioni fisicamente dolorose, in pieno regime nuovamente biopolitico), termine oltre il quale saranno altrimenti trasformati in un animale a loro scelta. Anche qui compare il tema della “caccia umana”, poiché agli “ospiti” dell’hotel è concesso di andare a caccia di fuggiaschi, come si trattasse una battuta al fagiano; ciò in una sorta di macabro processo di gamification che gli consente, di vittima in vittima (un sistema quindi che impone alle anomalie di “fare pulizia” di se stesse) di guadagnare giorni di permanenza nell’hotel e così garantirsi più tempo. Di contro esiste una Resistenza di reietti che pratica dogmaticamente la vita da single, in opposizione al regime tirannico che si impone sulle persone andando a intaccare la loro intimità e le loro scelte più personali. Il film coniuga così un’atmosfera grottesca e a tratti quasi comica con un sottofondo cupo che riflette una distopia spietata e meccanica, generando unicamente infelicità e abulia, costringendo ad accoppiamenti coatti e implicando una solitudine generalizzata nell’unire la massa sotto le stesse rigide normative socio-esistenziali.
The Lobster

91È, per certi versi, quanto accade nel film che utilizziamo per suggellare significativamente la fine di questa sezione distopica, a riprova di come il tema del rapporto fra sovrastruttura e destino sia per davvero trasversale e diagonalmente percepito da chiunque.
92Antz (Z la formica, Eric Darnell e Tim Johnson, 1998) è il primo film animato prodotto dalla DreamWorks, casa di produzione che oggi vanta successi planetari come la saga di Shrek (Andrew Adamson e Vicky Jenson, 2001) e Madagascar (Eric Darnell e Tom McGrath, 2005), e il secondo film statunitense girato in CGI (Computer-generated imagery, cioè sostanzialmente animazione in computer grafica), uscito tre anni dopo il boom globale di Toy Story (Toy Story – Il mondo dei giocattoli, John Lasseter, 1995), produzione Disney-Pixar. Proprio in concomitanza con Z la formica la Pixar fece uscire nel 1998 A Bug’s Life (A Bug’s Life – Megaminimondo, John Lasseter), a sua volta a vocazione entomologica e con protagonista una formica, che però ci pare non abbia la stessa attitudine speculativa del prodotto DreamWorks (che con Disney ebbe un contenzioso per via della similarità contenutistica dei due film, nonostante la seconda producesse animazioni di livello tecnico indubbiamente più elevato). Se in A Bug’s Life infatti il registro è impostato precipuamente su un target bambinesco, e così la sceneggiatura è costruita su uno script canonico (sostanzialmente una rivisitazione della cicala e della formica di Esopo) e l’immagine risulta sgargiante e “pastellosa”, in Z la formica i temi affrontati sono palesemente più adulti, e le chiavi di lettura maggiormente stratificate.
93Z è una formica operaia doppiata nella versione originale da Woody Allen (in quella italiana dalla controparte Oreste Lionello), con cui condivide intertestualmente ed extradiegeticamente nevrosi e intellettualismi, che per affascinare la principessa Bala (Sharon Stone) si finge soldato pur se impacciato, come una specie di versione insetto del buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hašek (1921). Egli finisce tuttavia nel bel mezzo di un tentativo di golpe, a opera del generale Mandibola (Gene Hackman), che assume fattezze tetre e comporta la morte – tema tendenzialmente bandito dalle produzioni Disney più recenti o comunque edulcorato – di molte formiche, fra cui l’amico di Z Barbatus (Danny Glover) con la cui testa decapitata il protagonista intrattiene un dialogo strappalacrime, attorno a un desolato panorama di corpi straziati. Solo dopo numerose e goffe peripezie Z riuscirà a ottenere lo sposalizio con Bala e a far regnare la pace nel formicaio.
Z la formica

94Il film dunque sovrappone una certa giocosità a tratti decisamente cupi, amplificati da un disegno squadrato (al contrario delle formiche arrotondante di A Bug’s Life), e a scenografie spesso opprimenti e asfittiche, come lo scuro interno del formicaio. Il tema di fondo rimane però quello della società di massa, omologata, emblematizzata dalla stigmergia delle formiche, «un metodo di comunicazione nel quale gli individui interagiscono, nell’ambito di sistemi decentralizzati e auto-organizzati, attraverso la modificazione del loro ambiente locale […]»64. Tale modello comunicativo, basato su forme di “intelligenza dello sciame” (swarm intelligence), prevede la presenza di molti attori che cooperino nella gestione dell’ambiente e della comunicazione, di fatto annullando la propria individualità. In sostanza: perché il formicaio funzioni a pieno regime le formiche si impegnano in quanto forza unitaria. Esse sono lo Stato, che si reifica nel formicaio, e la perdita del singolo assume quindi socialmente un valore minore rispetto al “bene comune”. La logica di funzionamento della società delle formiche è in sostanza equiparabile a quella della guerra, ove un insieme di apparati sociosemiotici calmierano le differenze individuali (si pensi alla rasatura rituale dei capelli, così ben emblematizzata da Full Metal Jacket, ai sistemi di casacche e uniformi, e così via) così deumanizzando il singolo in forza della potenza di gruppo. Tale prospettiva, se applicata a una società umana, è chiaramente distopica, e Z la formica di fatto compie proprio questa operazione, antropomorfizzando gli imenotteri65.
95Z dal canto suo rappresenta l’anomalia, colui che quando ci si appresta alla missione suicida di attacco contro le termiti suggerisce causticamente di destabilizzarle politicamente mediante il voto. È l’individuo che rifiuta di massificarsi, cioè di cedere la propria esistenza, di piegarsi a una destinalità appiattente ed eusociale, cioè a elevatissimo tasso di mansioni predefinite che surdeterminano l’individualità, esemplificata dalle parole del generale Mandibola: «Un soldato sa che la vita di una singola formica non conta, ciò che conta è la colonia».
96Guerra ed eusocialità come catalizzatori destinali di ordine statale non sono chiaramente prerogative uniche delle distopie, e anzi attraversano trasversalmente la storia del cinema. Nel cinema delle origini e nel cinema muto molti film riflettevano su come la condizione sociale impedisca o meno ai personaggi di adempiere alle proprie aspirazioni. Ciò vale per casi come Buster Keaton, antieroe perennemente al verde, o per la figura di Charlie Chaplin, che su Charlot, il vagabondo, ha costruito un’intera mitologia fondata sull’empatia verso un personaggio avversato dal mondo e privato della possibilità di essere qualcos’altro da sé. Basti pensare, uno fra tanti, a The Kid (Il monello, 1921), primo lungometraggio dell’attore-regista tutto giocato sulle disavventure di quello che è, prima di tutto, un poveruomo. Anche in Italia il tema è capitale, come dimostrano film muti quali Gli spazzacamini della Valle d’Aosta (Umberto Paradisi, 1914), in cui il piccolo Tonio è costretto fin dalla tenera età a un duro lavoro che lo priva dell’infanzia per colpe non sue.
97E, com’è chiaro, in concomitanza di determinati avvenimenti storici la questione si amplifica. Un caso peculiare, di cui il cinema si è ampiamente nutrito, è la guerra del Vietnam, globalmente percepita come insensata e illecita, e spesso rappresentata come evento che in prima istanza ha privato della vita molte persone e ancora di più della possibilità di immaginarsi (cioè di proiettarsi un destino) oltre lo scenario bellico. Se ovviamente il film per eccellenza nel merito è Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979), altre opere si sono ritagliate un posto d’onore nella storia (non solo del cinema) per aver problematizzato la guerra e le sue conseguenze nefaste su uomini e donne che, avendola vissuta sulla propria pelle o di riflesso, ne sono risultati compromessi in termini psichici, fisici, e di percezione del controllo sul proprio destino. The Deer Hunter (Il cacciatore, Michael Cimino, 1978) racconta per esempio con toni drammatici il ritorno in patria di Nick Chevatorevich (Christopher Walken), veterano del Vietnam, con i suoi amici con i quali prima della guerra condivideva una pacifica e goliardica esistenza. Ora invece è un uomo traumatizzato dagli orrori che ha visto e vissuto, incapace di reinserirsi nella sua società di provenienza al punto di scomparire per essere ritrovato a Saigon tempo dopo dall’amico Mike Vronsky (Robert De Niro). La follia si è ormai impadronita di lui, intrappolandolo nella guerra per sempre, cioè destinalmente rendendolo incapace di proiettarsi in un futuro autodefinito, e ora è un professionista della roulette russa, apatico fino alla catatonia, che finisce per suicidarsi di fronte all’amico di sempre. Sarà commemorato con le note ironiche di God Bless America intonate al suo funerale dagli amici. Full Metal Jacket è la storia bipartita dell’addestramento militare per la guerra prima, e della guerra stessa poi, di un gruppo di giovani uomini che si vedrà man mano spogliato della propria identità e asservito, come Z la formica, “alla colonia”. Molti di loro periranno in battaglia e sul finale i superstiti rientreranno alla base cantando la Marcia di Topolino, simbolo della perversione statunitense che li ha mandati dall’altra parte del mondo per una guerra inutile, così come lo era God Bless America ne Il cacciatore. Anche nel recente e controverso American Sniper (Clint Eastwood, 2014) il finale con la sfilata di bandiere americane, dopo l’uccisione dell’ex cecchino Chris Kyle (Bradley Cooper) per mano di un reduce che tentava di aiutare, pone in essere una riflessione simile.
98Trattare in una sola sede la congerie abnorme di dimensioni sociopolitiche che questi temi comportano è impresa decisamente oltre la nostra ambizione qui. Quel che ne dedurremmo sarebbe certo di estremo interesse, ma per ora abbiamo delineato i rapporti fra Stato e destinalità nel cinema adeguatamente, e ci apprestiamo a concludere il capitolo con un paragrafo dedicato a un contesto sovrastrutturale meno esplorato di quelli coinvolti in precedenza, eppure di stimolante rilievo: l’universo impiegatizio.
Ozu e Fantozzi feriti nell’onore66
99Uno dei registi che hanno sviluppato con più perizia il “cinema impiegatizio” è certamente Yasujiro Ozu67. Regista di caratura globale, Ozu ha attraversato tutte le principali tappe della storia del cinema giapponese, dal muto, al sonoro ai colori, unendo una spiccata sensibilità stilistica con una profonda conoscenza cinefila che lo portava a esplorare generi e specifiche hollywoodiani come il comico e la commedia, il melodramma, il gangster film e il film sociale, spesso interpolati secondo le declinazioni giapponesi del gakusei mono (film ad ambientazione studentesca), l’ero guro nansensu (film grotteschi con gag a sottofondo erotico), e soprattutto lo shomin-geki (film sulle persone comuni di stampo realista) e il sararimen eiga (film a sfondo impiegatizio). Ozu così è riuscito a imporre la sua cifra, spesso addirittura realizzando sorte di remake non ufficiali di opere americane (Chaplin e Keaton per il comico, Lubitsch per la commedia brillante, e così via)68. Tale consonanza era dovuta anche a contingenze sociopolitiche: il Giappone viveva negli anni ’20, prima dei regimi nazionalisti e fascisti, un processo di forte occidentalizzazione e americanizzazione, che Ozu documentava spesso con tono parodico, attraverso figure che scimmiottavano i modelli statunitensi, come i piccoli gangster di periferia che anziché rifarsi al modello yakuza imitavano in modo posticcio i divi americani, le Moga (Modern Girl) che copiavano lo stile visivo delle donne occidentali, e molti altri.
100In questo contesto si staglia uno dei capolavori universalmente riconosciuti del regista, Otona no miru ehon - Umarete wa mita keredo (Sono nato, ma..., 1932). Questo film, una «storia di tutti di tutti i giorni»69, è oggi dalla critica internazionale considerato uno dei più rappresentativi del cinema muto di Ozu, e anche alla sua uscita fu accolto con commenti estremamente positivi70. Originariamente il film era stato concepito come una commedia, ma Ozu intervenne in modo marcato sulla sceneggiatura, eliminando una serie di gag e inserendo di proprio pugno l’episodio dello sciopero della fame, il nucleo drammatico dell’intera storia.
101Il piccolo Yoshi (Tatsuo Saitō) si trasferisce con la famiglia a Tokyo per motivi di lavoro del padre. Assieme al fratellino cerca di farsi degli amici ma inizialmente si scontra con dei bulli, che gradualmente impara a conoscere. Un giorno assieme ai nuovi amici si intrufola a casa del direttore del padre, ove si sta assistendo a un filmino che vede proprio lo stesso padre fare il buffone per compiacere il proprio capo come un giullare di corte farebbe con il suo re. Per i figli ciò è umiliante, e così costoro improvvisano uno sciopero della fame. Infine essi sono però costretti a rivedere le loro motivazioni, comprendendo il genitore e incoraggiandolo a inchinarsi davanti al suo superiore.
Sono nato, ma…

102L’esile trama del film contiene tutti gli elementi per farne un’opera neorealista, molto in anticipo rispetto alla sistematica presa di coscienza sul topic da parte di altre cinematografie, come quella italiana che si consacrerà ai temi del lavoro e della classe solo vent’anni più tardi (vantando però già casi “sparsi” sulla questione sin dal cinema muto, come il già citato Gli spazzacamini della Valle d’Aosta).
103In Sono nato, ma… la struttura destinale non è manifestamente statale, ma certamente sovrastrutturale. Esistono delle classi, e a tali classi sono associate possibilità di realizzazione, economiche e personali, e ordini di dignità, sostanzialmente inemendabili. Il dramma non è tanto collocato nell’universo adulto (tanto che del figlio conosciamo il nome, Yoshi, mentre dei genitori no), ormai sedimentato su un habitus incontrovertibile, quanto su quello giovanile, che incontra l’età adulta proprio nel momento in cui si trova costretto ad accettare l’inevitabile destino legato alla condizione sociale, in cui ogni individuo si ritrova (verbo riflessivo che esclude l’intenzionalità). Come sostiene Schrader «il più grande conflitto (e di conseguenza il più grande motivo di delusione) nei film di Ozu non è politico, psicologico o famigliare, ma, in mancanza di un termine migliore, ‘ambientale’»71. Tale termine migliore, ci permettiamo di suggerire qui, potrebbe essere «destinale».
104Lo sciopero della fame dei due fratellini è quindi solo superficialmente “contro” il padre che si umilia, ma più lateralmente rappresenta la non accettazione dei ruoli prestabiliti, con il carico esistenziale che essi comportano dentro e fuori la vita lavorativa. Si manifesta così una dimensione centrale in tutto il cinema di Ozu (dagli anni ’20 agli anni ’60), e cioè quella familistica, nella fattispecie relativa al rapporto genitori-figli. In quasi tutti i film del regista la famiglia è sottoposta a una minaccia, vi è la crisi dell’istituzione familiare (che spesso è una crisi dell’autorità della figura paterna). Ciò che concretizza questa minaccia in Sono nato, ma… è la scissione che si viene a creare fra immagine famigliare e immagine sociale del padre. Questo scollamento fra le due immagini del padre, autoritario in famiglia e sottoposto nella società, genera la rabbia dei figli, che si risolve solo con l’accettazione di una sorta di ineluttabile destino legato al ceto.
105Così emerge una precisa idea di destino dal film impiegatizio, poiché esso non è mai unicamente collocato nella sfera lavorativa, ma sfocia in tutte le altre dimensioni del vivere, in primis nell’ambito famigliare, come conseguenza diretta dello stato sociale e delle capacità economiche dei personaggi.
106Il nucleo drammatico, che instilla la consapevolezza della prigionia destinale, è la scoperta da parte dei fratellini dell’umiliante atteggiamento che assume il padre nei confronti dell’uomo che lo stipendia (e quindi mantiene anche loro). Se dunque nel mondo dell’infanzia loro si sono conquistati un potere pari o superiore a quello degli altri, avendo fronteggiato i bulli, nel mondo degli adulti non è così per il padre. Essi tenteranno di ribellarsi a questa triste verità ma alla fine si arrenderanno spingendo il padre ad andare a salutare il suo capo. Loro manterranno solo nella dimensione del gioco il loro potere, una dimensione simulacrale che prima della rivelazione della perdita di dignità del padre ritenevano autentica, ma che ora riconoscono come costruita. Un mondo a parte dove possono percepire una meta-destinalità che si sono creati ad hoc, ma che comunque è contenuta in una destinalità su cui non hanno nessun controllo.
107Nel mondo dei bambini i conflitti sono apertamente espressi (attraverso litigi e scazzottate) mentre in quello degli adulti i conflitti sono repressi e celati. Eppure tra questi due mondi esiste una similitudine che suona un po’ come una epifania, facendo percepire come la spensieratezza dei bambini non sia che una concessione dalla destinalità adulta: anche nel mondo dei bambini sono poi i soprusi (come le logiche di potere legate al denaro in quello degli adulti) a farla da padroni. I due mondi risultano così entrambi segnati dagli stessi conflitti e contraddizioni, come dimostrano alcuni episodi.
108Un primo caso ha a che fare proprio con il denaro: nel mondo dei bambini possedere le uova di passero, nutrirsene, rende chi lo fa più forte e più potente degli altri, di una forza e potenza che sono riconosciute simbolicamente, tanto quanto nel mondo degli adulti il denaro, e infatti per assistere alle esclusive proiezioni dei filmini che i ragazzi guardano per intrattenimento – le stesse che porteranno i fratellini alla scoperta dell’amara verità – è necessario pagare con le uova suddette. E ancora, nel giorno di paga di Yoshi i due fratelli, sapendo che la madre quel giorno ordinerà sicuramente qualcosa al fattorino del sakè, chiedono a questi di dare una lezione al bullo con cui sono in conflitto, e il fattorino infatti impartirà a costui una bella lezione. Ma quando poi i bambini gli chiedono di fare altrettanto con il figlio del direttore, lui non lo farà dicendo che la sua famiglia ordina molta più birra, esplicitando nuovamente il ruolo predominante del denaro nel rapporto sociale fra individui.
109Anche formalmente il passaggio alla consapevolezza della propria condizione è sancito da alcune specifiche. Il film è diviso nettamente in due parti, sancite dal passaggio della scena dei filmini amatoriali in cui si vede il padre fare il buffone. La prima parte è più leggera, comica e ricca di gag di tipo slapstick, con episodi comici raramente fini a loro stessi, ma al contrario instauranti un rapporto organico con la struttura complessiva dell’opera. Per esempio la scena in cui il padre rimprovera i figli quando viene a sapere che questi hanno marinato più volte la scuola vede il genitore in mutande, dato che suscita ilarità ma che è già simbolico e predittivo della crisi famigliare che si consumerà. La seconda parte assume invece drasticamente toni più drammatici. Anche questo mutamento di registro dal comico al drammatico è una peculiarità del cinema di Ozu.
110La prima parte del film è inoltre destinalmente rilevante poiché anziché ricorrere a un meccanismo di causa-effetto Ozu ricorre a una semplice successione episodica: le cose accadono una dopo l’altra, non una in conseguenza dell’altra. Non c’è una diretta causalità di ordine metafisico, ma l’avvenire temporale delle cose è reinserito in un ordine destinale a partire dalla classe, capace di retrocedere le cause senza manifestarsi direttamente come effetto. Tutto ciò è ancora più evidente data la volontà di Ozu di adoperare unicamente stacchi netti, senza dissolvenze (che ermeneuticamente suggeriscono un nesso logico, tonale, argomentativo), che pure erano state considerate. Sarà poi invece nella seconda parte che si stabiliranno maggiormente i nessi causali, cioè la sovrastruttura manifesterà se stessa spietatamente. Inoltre sussiste anche in questa suddivisione un particolare uso della focalizzazione, che vede tutta la prima parte del film enunciativamente costruita sul punto di vista dei due fratellini, mentre nella seconda si aggiungerà anche il punto di vista del padre.
111La sensazione di intrappolamento destinale è resa anche da altri ausili stilistici, come la posizione bassa della macchina da presa, prediletta da Ozu a tal punto da venire ribattezzata tatami shot, capace di rendere un punto di vista soverchiato dal mondo. Si tratta di una posizione dissimile, per esempio, da quella tipica di Orson Welles. Egli infatti pone la cinepresa in basso ma poi la angola verso l’alto, come nelle note inquadrature della campagna elettorale di Quarto potere. Ozu usa la camera bassa, senza angolarla, la punta anzi parallelamente al terreno, e il primo film in cui sistematicamente ricorre a questa soluzione è proprio Sono nato, ma...
Sono nato, ma… (2)

112È indubbio che tale principio sia nato per esprimere un punto di vista, e cioè quello dei suoi protagonisti bambini, ma la prospettiva bassa permane anche quando i bambini sono assenti. Questa scelta è stata indicata dalla critica come un tentativo di attribuire ai suoi personaggi un andamento quasi rituale, ma ci pare che destinalmente serva a uniformare, anche in misura prolettica, i rapporti di dominanza e sudditanza nell’universo (pro)filmico. Il punto di vista infatti non è mai quello del superiore, ma quello del sottoposto, e la sua condizione è rimarcata dall’immagine cinematografica del mondo che abita, che gli è piazzato – a lui come allo spettatore – di fronte senza che egli abbia un significativo margine di intervento sullo spazio, che è lo spazio dell’immagine e quindi dell’esistenza del personaggio. E infatti anche il campo/controcampo riproduce una certa asfissia, poiché Ozu evita programmaticamente le classiche inquadrature di tre quarti, ponendo invece i personaggi frontalmente, come a guardare la macchina da presa, inchiodandoli di fatto al loro spazio, obbligandoli a una certa azione e rivolgendo il loro agire direttamente allo spettatore. Anche sul livello della profondità di campo Ozu tende a esaltare la dimensione “scatolare” del profilmico e quindi del mondo in cui i personaggi possono muoversi. Se infatti la profondità di campo moltiplica gli spazi di azione nell’immagine, di contro diminuisce quelli di immaginazione, enfatizzando il punto di fuga e la struttura chiusa e afosa dell’inquadratura. Per Ozu dunque l’estetica degli spazi, specie degli interni, è fondamentale:
In tutti i suoi film l’estetica dell’interno non è solo un semplice sfondo per ambientare microdrammi e microcommedie del quotidiano, ma l’asse portante di una vera e propria etica del comportamento e della narrazione. Il senso di vuoto, di spietatezza del destino [corsivi miei] che si svolge davanti agli occhi impotenti e indebiti di una famiglia, in un film come Tokyo boshoku [Crepuscolo di Tokyo] del 1957, è comunicato proprio dagli spazi (sia quelli domestici, sia i locali, dove si svolge gran parte dell’esistenza dei giapponesi, con i rituali del te e del sakè), così come – al contrario – in una commedia di due anni dopo, Ohayo [Buon giorno], l’agglomerato di case tutte uguali alla periferia di Tokyo, è la giusta cornice per raccontare una vicenda sull’emulazione consumistica72 .
113E ancora la progressiva riduzione del lessico e della sintassi cinematografica (movimenti di macchina, obiettivi grandangolari, primi e primissimi piani, e così via) definiscono i film e il cinema di Ozu eliminando ausili tecnici che possano fornire scappatoie immaginifiche ai personaggi tramite l’interpretazione dello spettatore. Si tratta di un cinema fondato su una rarefazione visiva e una economia formale, ove l’artificio sarà programmaticamente dismesso. Non ancora in Sono nato, ma..., dove permangono per esempio alcuni stilemi come i movimenti di macchina, spesso curiosi e sperimentali, come alcune inquadrature di transizione che vedono la macchina da presa muoversi in concomitanza con le porte scorrevoli della scuola, alcune soggettive desuete, la famosa “carrellata degli sbadigli”, da intendersi come gag di discorso, che vede l’effetto comico non nel contenuto ma nella soluzione discorsiva che lo veicola, e che attraverso la reiterazione di un comportamento surrettiziamente suggerisce una destinalità condivisa, il sōjikei cioè le pose parallele per estensione e gesti all’unisono, o il cosiddetto “montaggio per dominanti e armonici”, identificato da Bordwell, in cui «ogni oggetto inquadrato viene riproposto in funzione diversa dalla precedente creando una serie di rimandi spazio-temporali»73.
Sono nato, ma… (3)

114Tutti questi elementi contribuiscono a corroborare l’ineluttabilità del principio di realtà nel cinema di Ozu, un cinema dove l’universo impiegatizio si spande ovunque e dove una situazione parabolica tipica, armonia rottura ricucitura, esiste solo in funzione dell’accettazione del sé come detenuto in (più che detentore di) una destinalità definitiva. Il tema sarà così caro all’autore da ripresentarsi costantemente in tutta la sua opera, anche in film di decenni dopo come Sōshun (Inizio di primavera, 1956), ancora una volta di genere impiegatizio, in cui durante il rito del sakè un personaggio dice «Il mondo di oggi non è molto interessante», e l’amico gli risponde: «Questo è il destino che ci aspetta. Solo sconforto e solitudine».
115Non è solo in Giappone tuttavia che emerge con vigore l’universo impiegatizio come intelaiatura destinale. In Italia per esempio, una lunga tradizione di cinema sociale e del lavoro che viene consacrata nella fase neorealista e dura nei decenni a seguire attraverso l’opera di autori quali Elio Petri (si pensi al famoso La classe operaia va in Paradiso, 1971), Ugo Gregoretti (Omicron, 1963), Mario Monicelli (I compagni, 1963), fino al cinema contemporaneo con opere drammatiche quali Tutta la vita davanti (Paolo Virzì, 2008) o dal sapore caustico come Smetto quando voglio (Sydney Sibilia, 2014)74. Un personaggio iconico si staglia in questo contesto come rappresentazione di una vita su cui ogni forma di controllo viene a mancare per via di un’imposizione sovrastrattural-lavorativa. È il ragioniere Ugo Fantozzi, ideato e interpretato da Paolo Villaggio e protagonista di una saga cinematografica e letteraria di pregio, iniziata con Fantozzi (Luciano Salce, 1975), che mette le basi della fortuna del personaggio proprio a partire dalla sua proverbiale sfortuna, ma soprattutto dal suo ruolo di individuo deprivato di ogni libertà personale, costretto in vesti ridicole a sottostare a una vita grigia e ad adempiere al suo ruolo nella “Megaditta”, un’azienda strutturata rigidamente secondo una gerarchia di superiori e sottoposti, che si propala anche fuori dal contesto lavorativo75.
La figura di Fantozzi […] fornisce diversi spunti per comprendere i rapporti di potere che possono instaurarsi all’interno delle imprese. Sebbene attraverso un tono iperbolico e grottesco, i libri e, ancor più, i film di Fantozzi forniscono una nitida fotografia del modello di direzione fortemente gerarchico tipico delle grandi imprese italiane, almeno fino agli anni Ottanta. Esso si traduceva nella presenza di status symbol e privilegi di vario genere che venivano associati alle posizioni di comando76.
116Fantozzi nel film vive costanti peripezie, che rilevano del suo animo semplice e a tratti malizioso, e della sua condizione di assoluta reclusione destinale. Fantozzi rappresenta «il cinico accanirsi del destino contro un perdente nato, oggetto estraneo in un mondo che procede in un’altra direzione»77. L’escalation di disavventure culmina proprio nella presa di coscienza, prima repressa, del ragioniere, che in seguito all’ennesima delusione e dopo aver conosciuto un collega comunista schivato da tutti, decide di ribellarsi al sistema, in uno dei finali più deprimenti della storia del cinema. Dopo aver infatti subìto un visibile mutamento identitario, che passa anche attraverso un cambio di vestiario e di capigliatura (dall’abbigliamento contrito da ufficio a eskimo e sciarpa rossa, dal capello pettinato alla scapigliatura simbolica), Fantozzi scaglia un sasso contro una vetrata dell’azienda, così venendo convocato dal Megadirettore Galattico (Paolo Paoloni). È questo l’incipit della sequenza finale, che si configura come una compagine di temi e sperimentazioni, che andiamo ad analizzare nel dettaglio.
117La drammaticità della sequenza è introdotta dal cambio musicale, non più retto su toni scherzosi ma fatto di sonorità inquietanti. Fantozzi ha appena scagliato il sasso e tutti i suoi colleghi sono scappati dentro l’azienda, lasciandolo da solo, dopo averlo prima osservato, aprendo un varco alla sua corsa contro i vetri. Emerge sin dall’inizio la prima tematica: il ragioniere è l’unico a sobbarcarsi una battaglia che però compie in fondo nel nome di tutti. Egli è ripreso in campo lungo, al centro dell’inquadratura che è invece dominata dalla superficie plastica della Megaditta, a formare davanti una parete e dietro una sorta di semicerchio che simboleggia un mondo chiuso e invalicabile, annichilendo il cielo azzurro che si vede solo per dei piccoli squarci a destra e sul bordo superiore del quadro: «il Palazzo, la Burocrazia diventano sinonimi di Destino, Fato»78. Fantozzi è qui ridotto a un puntino isolato e impotente, in qualche misura in un’anticipazione figurale di quel che avverrà narrativamente a breve. Un impressionante silenzio, rotto solo dal fiatone del personaggio, corona l’effetto di senso di coercizione e impotenza. Uno stacco ci mostra prima il personaggio in primo piano, con il volto nauseato dalla cognizione del proprio statuto destinale, e poi un controcampo mostra i vetri dell’azienda con dei cactus dentro. Qui uno zoom ottico e l’inserzione della musica danno il segno di come l’azione di Fantozzi sia stata recepita. L’inquadratura reifica un’eterotopia: i vetri sono parzialmente riflettenti, e così il riflesso di Fantozzi rimane in campo, ma dall’oscurità emerge un figuro distinto che si avvicina e dice con fare perentorio a Fantozzi di entrare. Senza alcuno stacco la cinepresa si muove mostrando ora l’impiegato prelevato a forza e condotto dentro l’edificio, mentre il signore dietro al vetro così come era emerso scompare nel nulla arretrando.
Fantozzi

118Fantozzi viene condotto da due guardie in ascensore, mentre la sua voce off, che ha narrato il film da un punto di vista al contempo esterno e interno fino a ora, specifica che la figura dietro i cactus era nientemeno che il Megadirettore. Una figura avvolta dal mistero, che in pochissimi avevano sinora visto, a tal punto da diffondersi la leggenda che fosse unicamente un’entità astratta. Il Megadirettore, sia per il modo in cui è descritto dalla voce off che per le modalità della sua comparsa-scomparsa, è in effetti la personificazione di un potere sovrastrutturale invisibile eppure presente, un’absentia in præsentia, o viceversa. Il fatto che si manifesti fisicamente sancisce la sua esistenza ontologica ed eleva Fantozzi a un impiegato sopra gli altri, non in senso positivo, ma come anomalia da re-incasellare. Egli intanto si trova in un ascensore, che effettua una lunga ed estenuante salita enfatizzata dall’indugio sui numeri dei piani che man mano progrediscono nel pannello superiore, così come dalle inquadrature dal basso e del volto man mano più corrucciato del personaggio, che arriva ad avere una “allucinazione punitiva”.
119In una buia sala mensa, illuminato da un tenue fascio di luce, si vede crocifisso in abiti da ufficio, ripreso da un’inquadratura vertiginosa che da lontano si avvicina sino in primo piano, per poi con uno stacco diventare una soggettiva sulla folla di colleghi che, seduti ordinatamente e in angoscioso e impassibile silenzio, lo osservano come agnello sacrificale79. La metafora cristologico-religiosa si perpetua anche a seguire. Giunto al ventottesimo e ultimo piano il ragioniere viene condotto per una buia e vuota sala dalle due guardie. L’inquadratura è in controluce e si individuano solo le sagome, riprese da dietro, che attraversano in silenzio coi passi scanditi dal loro rumore un corridoio illuminato a fasce dalle lunghe finestre verticali, che tagliano come lame l’immagine e simboleggiano le sbarre di una cella, mentre la macchina da presa segue in semisoggettiva – come un occhio imperturbabile – e viene colpita dal rimpallo accecante della luce solare.
120Fantozzi si ritrova così di fronte a una porta bianca, che apre dall’esterno, per finire in una stanza claustrofobica, ripresa da una prospettiva centrale. È la stanza dello stesso Megadirettore, un luogo di un bianco candido e compassato. La composizione plastica dell’immagine è rilevante. La prospettiva è centrale, e al posto del punto di fuga sta il Megadirettore. La volumetria dell’immagine si evince più per i tratti dei pochi oggetti che vi sono disposti che non per le linee delle pareti, che illuminate dal bianco sembrano come estendersi lateralmente verso l’infinito, a enfatizzare il portato trascendente del luogo.
Fantozzi (2)

121Sul lato destro giace una panca in legno, su quello sinistro una sedia in legno e poco più avanti, vicino alla scrivania centrale, un inginocchiatoio. Dietro al Megadirettore è appeso un unico quadro, con dipinta la figura del caritatevole San Francesco. L’atmosfera eterea e volatile introduce quindi Fantozzi in una dimensione altra, quella del potere fermo, sacerrimo e immutabile, con il quale è chiamato a un confronto che risulta però fittizio.
Fantozzi (3)

122Fantozzi va in profondità di campo e chiede al Megadirettore come mai la stanza non sia come gliel’hanno sempre descritta, e quest’ultimo lo fa accomodare proprio nella sua poltrona, offrendogli del cibo austero come gli arredi della stanza, «un sorso d’acqua, un tozzo di pane». Il Megadirettore si pone con Fantozzi in maniera paritetica, e si presenta a lui come se fosse un uomo umile, e quando il ragioniere tenta di fargli capire che c’è una differenza fondamentale fra gli sfruttati e i padroni il Megadirettore con sapienza retorica gli fa intendere come sia tutta una questione di terminologia, e come in realtà si trovino pienamente concordi. Mentre fa ciò gira attorno alla scrivania per raggiungere il ragioniere e, posandogli le mani sulle spalle, porsi dietro di lui. Il suo giro è una rima filmica con le perifrasi con le quali ha imbastito la sua strategia retorica. In realtà tuttavia la scena è configurata in maniera per cui non è necessaria una dialettica stringente da parte del Megadirettore. Tutto intorno a Fantozzi, dal suo arrivo alla Megaditta, traspira un potere che è piramidalmente concentrato nell’evanescente padrone, ed egli non necessita di sforzi per confermare il suo statuto. Più che un tentativo di convincimento si conferma nelle parole del Megadirettore il germe della derisione classista.
123Nel porsi dietro Fantozzi l’inquadratura si centralizza e i due conversano guardando in macchina, realizzando un’interpellazione che è chiaramente una chiamata in causa allo spettatore stesso. L’inquadratura assume di nuovo una portata religiosa, quasi soteriologica. Il piano è ravvicinato come in un raccordo sull’asse rispetto al campo totale precedente. Fantozzi è in centro, seduto sulla poltrona, le mani del Megadirettore ambiguamente lo proteggono ma anche lo inchiodano al suo posto, e così al suo ruolo. Il dipinto dietro di loro fa sì che un’aureola circondi il capo dell’uomo, mentre la simmetria verticale è retta dalla brocca e il bicchiere da un lato e il pane dall’altro. Tutto assume un sapore metafilmico, che si fa palese quando Fantozzi chiede al Megadirettore se egli non sia “comunista”, e l’inquadratura – pronunciata l’impronunciabile parola – si destabilizza come se violenti lampi e fulmini avessero colpito l’ambiente, per poi ritornare com’era prima.
Fantozzi (4)

124Si tratta di una figura metalinguistica di matrice satirica, che tuttavia non destabilizza il portato drammatico della scena. Il megadirettore si definisce un “medio progressista”, formula centrista sostanzialmente priva di significato, e con fare sicuro detronizza Fantozzi prendendo posto nella sua poltrona e invitandolo, cioè costringendolo, ad accomodarsi all’inginocchiatoio. Ecco dunque che si verifica il punto di cuspide in cui la vena rivoluzionaria di Fantozzi viene spietatamente annichilita.
125Il Megadirettore infatti, con la consueta calma, dice che egli auspica in una serie di riunioni in cui capi e sottoposti possano discutere civilmente le reciproche istanze, sostenendo che egli (ed enfatizzandolo) ha tutto il tempo, e Fantozzi arriva addirittura a ringraziarlo, persuaso dall’ars oratoria dell’uomo che non ha fatto altro che confermare il proprio status quo. L’anomalia così rientra pacificamente nei ranghi, del tutto inascoltata, e l’entità può rivelarsi per quello che è, dimostrando infine la verità di alcune delle leggende che circolavano sul suo conto. Quella dietro la scrivania è effettivamente una poltrona in pelle umana, simbolo tragicomico di un potere assoluto. La poltrona è l’emblema oggettuale del potere, il posto desiderato per antonomasia, il trono postmoderno su cui intere formule discorsive sono culturalmente sedimentate (“i politici sono solamente interessati alla poltrona”, “Chi va a Roma perde la poltrona”, e via dicendo).
126E l’acquario per gli impiegati, prelevati a sorteggio, esiste davvero, dietro il dipinto religioso. È proprio Fantozzi, alla fine, a umiliarsi, come il padre di Sono nato, ma…, chiedendo di poter nuotare assieme agli altri dipendenti (alcuni dei quali si vedono nella vasca, riportando la questione dalla dimensione personalistica di Fantozzi a quella universale del conflitto di classe) per compiacere il suo capo.
Fantozzi (5)

127Così finisce il film, con Fantozzi che nuota nell’acquario umano, facendo una sorta di inchino, allo spettatore e al Megadirettore, inchino che viene ripetuto diverse volte con una tecnica di rewind, sancendo una coazione a ripetere che è la condanna a una vita senza cambiamento, imposta dall’alto, e che non propone alcuna via di scampo nonostante gli sforzi personali. Così Fantozzi diviene:
[…] sinonimo antonomastico di uomo sopraffatto dal destino di fronte al quale pare inerte, in una miscela di servilismo e fobie persecutorie, vinto dall’arrivismo e dalle angherie di colleghi, conoscenti e di una società sfruttatrice che lo porta alla rappresentazione delle sue volgarità, nelle parole e negli atteggiamenti80.
128Fantozzi è così il neorealismo radicalizzato a partire dalla sua componente fondamentale, l’intersezione che è tutta destinale fra classe e sfortuna, dove la seconda è conseguenza connaturata della prima. In Fantozzi convivono i Ladri di biciclette di Vittorio De Sica (1948) con Il cappotto di Alberto Lattuada (1952), tratto dal racconto di Nikolaj Gogol’, che Zaccagnini descrive giustamente come un esempio emblematico di cinema impiegatizio81; e ancora Il posto (Ermanno Olmi, 1961), Totò e i re di Roma (Steno e Mario Monicelli, 1951), questa volta ispirato a Čechov, Le miserie del signor Travet (Mario Soldati, 1945), Policarpo, ufficiale di scrittura (Mario Soldati, 1969), L’impiegato (Gianni Puccini, 1960), Impiegati (Pupi Avati, 1985), e la lista potrebbe andare avanti ancora molto, accomunata dallo stesso pattern destinale. Un pattern che si infrange solo quando le due classi coinvolte, padroni e sottoposti, sono costrette da un fato più grande della sovrastruttura lavorativa a confrontarsi e smascherarsi, come accade in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (Lina Wertmüller, 1974), dove la borghese e dispotica Raffaella Pavone (Mariangela Melato) e il marinaio Gennarino Carunchio (Giancarlo Giannini) si spogliano delle loro rispettive identità quando naufragano su un’isola deserta. In questo luogo ove le strutture decadono i due scopriranno l’amore, un amore impossibile e che infatti cesserà una volta tratti in salvo e indossati nuovamente i rispettivi habitus, come moderni Giulietta e Romeo il cui amore non è impossibilitato dalle famiglie, ma dai ruoli sociali.
Notes de bas de page
1 Cesare Musatti, Psicologia degli spettatori al cinema, «Rivista di psicologia», 2, 1961, pp. 143-149.
2 Ciò non vale, per esempio, per i film catastrofici, ove invece la Morte diviene un fatto squisitamente collettivo, anche se solitamente sono un singolo o un gruppo di pochi a tentare di sventare la crisi (cfr. Vincenzo Idone Cassone, Bruno Surace, Mattia Thibault (a cura di), I discorsi della fine, cit.).
3 Si pensi alla branca della semiotica giuridica, o più largamente alla cosiddetta sociosemiotica, che “esce dal testo” per rivolgersi all’universo delle pratiche condivise, anche in termini di statalità (cfr. per esempio Landowski, Vérité et véridiction en droit, cit.).
4 Cfr. Giacomo Manzoli, Marco Cucco (a cura di), Il cinema di Stato. Finanziamento pubblico ed economia simbolica nel cinema italiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna, 2017.
5 Cfr. almeno Pierre Sorlin, Sociologie du cinéma. Ouverture pour l’histoire de demain, Aubier Montaigne, Paris, 1977.
6 Iosif Vissarionovič Stalin, Rapporto organizzativo del Comitato Centrale, in XIII Congresso del P.C. (b), resoconto stenografico, Opere complete, vol. VI, tr. it. Rinascita, Roma, 1952, pag. 264.
7 Cfr. Daniela Manetti, «Un’arma poderosissima». Industria cinematografica e Stato durante il fascismo. 1922-1943, FrancoAngeli, Milano, 2012.
8 Cfr. Bruno Surace, Le intenzioni della memoria. Ipotesi per una teleologia semiotica da Das Ghetto a A Film Unfinished, «Lexia, Intenzionalità/ Intentionality», 29-30 (a cura di Jiang Zhang e Massimo Leone), 2017 e Bruno Surace, Il selfie nel lager. Estetologia di Austerlitz di Sergei Loznitsa, «La valle dell’Eden», 34, 2019.
9 Cfr. George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, 1815-1933, tr. it. Il Mulino, Bologna, 1975.
10 Gianfranco Casadio, Il grigio e il nero. Spettacolo e propaganda nel cinema italiano degli anni Trenta (1931-1943), Longo Editore, Ravenna, 1989, p. 12.
11 Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, Bari, 1975, p. 321.
12 Maurizio Zinni, Fascisti di celluloide. La memoria del ventennio nel cinema italiano (1945-2000), Marsilio, Venezia, 2010.
13 Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino (a cura di), Il fascismo. Dizionario di storia, personaggi, cultura, economia, fonti e dibattito storiografico, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p. 210.
14 Fabio Bertini, Cineteca CLIO. Il film come riflesso della storia e come autobiografia sociale, Università di Firenze, Firenze, 2008.
15 Per approfondimenti su questo specifico tema si consiglia la visione del film contemporaneo Pays Barbare di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (2013). Cfr. anche Ruth Ben-Ghiat, Italian Colonialism, Palgrave Macmillan, New York, 2005 e della stessa autrice, Italian Fascisms Empire Cinema, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis, 2015.
16 Per esempio un intero capitolo sarebbe da aprirsi in merito alle scelte dei costumi effettuate da Blasetti in 1860. Egli infatti contrappone alle uniformi dei borbonici, e ai vestiti eleganti dei borghesi romani e genovesi, i panni di pelle di pecora indossati da Carmeliddu, conformi al ruralismo enfatizzato del suo paesino siciliano. Su paesaggio rurale e cinema fascista cfr. Deborah Toschi, Il paesaggio rurale. Cinema e cultura contadina nell’Italia fascista, Vita&Pensiero, Milano, 2009 e Michele Guerra, Gli ultimi fuochi. Cinema italiano e mondo contadino dal fascismo agli anni Settanta, Bulzoni, Roma, 2010.
17 Gian Piero Brunetta, Cinema italiano tra le due guerre. Fascismo e politica cinematografica, Mursia, Milano, 1975, p. 91.
18 «La figura di Kerenskij è nata anche dalla commutazione dei personaggi il maggiore “pavone” e il barone altezzoso e sprezzante Wilhelm von Ejrick, satiricamente effigiati da Maupassant in Mademoiselle Fifì. Del resto, di questa novella Ėjzenštejn ci parla in Forma e tecnica del film, a proposito dello scambio delle strutture» (Maurizio Del Ministro, Cinema tra immaginario e utopia, Dedalo, Bari, 1984, p. 190, nota 30). Cfr. anche Sergej M. Ėjzenštejn, La forma cinematografica, tr. it. Einaudi, Torino, 1986 (nello specifico il paragrafo La dialettica della forma cinematografica).
19 Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Bompiani, Milano, 2008, p. 159.
20 Ugo Volli, Il nuovo libro della comunicazione. Che cosa significa comunicare: idee, tecnologie, strumenti, modelli, Il Saggiatore, Milano, 2010, p. 53.
21 Alessandro De Filippo, 1860 di Blasetti, l’‘intenzione di andare al vero’, in Sebastiano Gesù (a cura di), Sulla strada dei Mille. Cinema e Risorgimento in Sicilia, Brancato, San Giovanni La Punta 2011, p. 79.
22 Utilizziamo l’espressione “sutura” prelevandola da Volli, che la adotta in diverse occasioni, come per esempio, Manuale di semiotica, Laterza, Roma-Bari, 2003; Semiotica della pubblicità, Laterza, Roma-Bari, 2012; Lezioni di filosofia della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 2014.
23 Marcia Landy, The Folklore of Consensus. Theatricality in the Italian Cinema, 1930-1943, State University of New York, Albany, 1998, p. 145.
24 Pierre Sorlin, “Il grido dell’aquila”, ultima tappa del primo cinema italiano in Michele Canosa (a cura di), A nuova luce. Cinema muto italiano 1, Atti del convegno internazionale, Bologna, 12-13 Novembre 1999, Clueb, Bologna, 2000, pp. 253-254.
25 Cfr. Marc Ferro, Cinéma et histoire, Denoël-Gonthier, Paris, 1977.
26 Cfr. Pierre Sorlin, Ombre passeggere. Cinema e storia, Marsilio, Venezia, 2013, ma pure Peppino Ortoleva, Scene dal passato. Cinema e storia, Loescher, Torino, 1991; Gian Piero Brunetta, Cinema italiano tra le due guerre, Mursia, Milano, 1975; Jacqueline Reich, Piero Garofalo (eds.), Re-viewing Fascism. Italian Cinema, 1922-1943, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis, 2002; Vito Zagarrio, Cinema e fascismo. Film, modelli, immaginari, Marsilio, Venezia,2004 e dello stesso autore L’immagine del fascimo. La re-visione del cinema e dei media nel regime, Bulzoni Editore, Roma, 2009; Steven Ricci, Cinema & Fascism. Italian Film and Society, 1922-1942, University of California Press, Berkeley, 2008; Pietro Cavallo, Cinema a passo romano. Trent’anni di fascismo sullo schermo (1934-1963), Liguori, Napoli, 2012.
27 Cfr. Giovanni Lasi, Garibaldi e l’epopea garibaldina nel cinema muto italiano. Dalle origini alla I guerra mondiale, «Storicamente. Rivista del Dip. di Discipline Storiche, Antropologiche e Geografiche», Università di Bologna, 2011.
28 «Blasetti himself has told Francesco Savio in 1974 that the coda was added in response to critcisms (from fascist gerarchi, one assumes) that he had not alluled to ‘the continuation of the garibaldini tradition among fascist youth’ and that he himself added it ‘without any difficulty or any shame. I admit this because I was a convinced fascist and I really believe it was right to point to the new generation as continuing the tradition of the garibaldini» (Albert Russell Ascoli, Krystyna Von Henneberg (eds.), Making and Remaking Italy: The Cultivation of National Identity around the Risorgimento, Berg, Oxford, 2001, p. 259).
29 Giancarlo Giraud, Dieci film sul Risorgimento, «Il tempietto», 2009, p. 79.
30 Da un’intervista a Blasetti in De Filippo, 1860 di Blasetti, l’‘intenzione di andare al vero’, cit., pp. 80-81.
31 Ibidem.
32 Gianfranco Gori, Alessandro Blasetti, La nuova Italia, Firenze, 1983, p. 41.
33 F. Sacchi, «Il Corriere della Sera», 30 Marzo 1934.
34 Gianfranco Gori, Alessandro Blasetti, cit., p. 44.
35 È la retorica del “fare” come programma e protocollo posto in opposizione con il dibattere, lo studiare, il leggere, il riflettere, che ancora oggi è adoperata in politica (ma pure in altri ambiti quali l’imprenditoria, per esempio) e dimostra una grande forza persuasiva.
36 Fabio Bertini, Cineteca CLIO, cit., p. 5.
37 Si tratta, naturalmente, non di una esclusiva prerogativa del cinema di ispirazione fascista, ma di una rilevazione che riguarda tutte le forme di cinema direttamente derivate da contesti di forte ingerenza statale. Per un’analisi in questa direzione relativa al cinema nazista cfr. Bruno Surace, Le intenzioni della memoria, cit. Un primo approccio comparativo fra le forme di cinema dei regimi novecenteschi in Francesco Fabiani, Cineprese di regime. Il cinema nei regimi fascista, nazista e sovietico, Temperino rosso, Brescia, 2017.
38 Cfr. Arrigo Colombo, Utopia e distopia, FrancoAngeli, Milano, 1987.
39 Lucien Sebag, Mitologia e realtà sociale, Dedalo, Bari, 1979.
40 Cfr. Vincenzo Idone Cassone, Bruno Surace, Mattia Thibault (a cura di), I discorsi della fine, cit. Cfr. anche Mirko Lino, L’apocalisse postmoderna tra letteratura e cinema. Catastrofi, oggetti, metropoli, corpi, Le lettere, Firenze, 2014.
41 Cfr. Chris Richards, Forever Young. Essays on Young Adult Fictions, Peter Lang, New York, 2008.
42 Sul rapporto fra distopia e young adult cfr. Balaka Basu, Katherine R. Broad, Carrie Hintz (eds.), Contemporary Dystopian Fiction for Young Adults: Brave New Teenagers, Routledge, New York-London, 2013.
43 Cfr. Massimo Leone (a cura di), Lexia – Complotto / Conspiracy, 23-24, Aracne, Roma, 2016.
44 Cfr. Lucia Ferrai, La soggettività cyborg. Filosofia e cinema cyberpunk, Tangram edizioni scientifiche, Trento, 2013 e Tommaso Meozzi, Visioni dell’alienazione. Dalla distopia d’inizio Novecento al cyberpunk, Pacini, Ospedaletto-Pisa, 2017.
45 Cfr. Peter Dendle, The Zombie Movie Encyclopedia, McFarland & Company, Jefferson-London, 2001 e Marcello Gagliani Caputo, Zombie al cinema, Fazi, Roma, 2014.
46 Francesco Muzzioli, Scritture della catastrofe, Meltemi, Roma, 2007, p. 21.
47 Cfr. Michelle Brown, The Culture of Punishment. Prison, Society and Spectacle, New York University Press, New York-London, 2009, pp. 66-7.
48 James Keller, V for Vendetta as Cultural Pastiche. A Critical Study of the Graphic Novel and Film, McFarland & Company, Jefferson-London, 2008, p. 207.
49 Sull’hactivismo una panoramica in Steve Ragan, Hacktivism: An Inside Look at the Motives and Methods of Cyber Activists, Syngress, 2012.
50 Riprendiamo nuovamente la categoria di “mito” agganciandoci alla recente teoria dei miti a bassa intensità, come chiave di lettura dei movimenti narrativi e culturali del Novecento e del secolo che stiamo vivendo, così come espressa in Peppino Ortoleva, Miti a bassa intensità, cit.
51 Robert Arp, V for Villain in Ben Dyer (ed.), Supervillains and Philosophy. Sometimes, Evil Is Its Own Reward, Open Court, Chicago-La Salle, 2009, p. 46.
52 David Denby, 2014, «The New Yorker».
53 Giulio Carlo Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano, 1968.
54 Velania La Mendola, Maria Villano (a cura di), Film da sfogliare. Dalla pagina allo schermo, EDUcatt, Milano, 2013, p. 65.
55 Vera Lomazzi, Inquietudini urbane. Metropoli e cinema allo specchio in Valerio Corradi, Enrico Maria Tacchi (a cura di), Nuove società urbane. Trasformazioni della città tra Europa e Asia, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 172.
56 Pierre Karli, L’uomo aggressivo, Jaca Book, Milano, 1990, p. 1.
57 C’è in questo senso un’ottima riflessione sul potere biopolitico in Ernesto Calogero Sferrazza Papa, Punire il verme. Il potere zootecnico e l’allevamento umano in Silvio Alovisio, Enrico Terrone (a cura di), Animot. L’altra filosofia, Cinema: animale razionale, II, 2, 2015, pp. 74-80, in cui si analizza la trilogia di Tom Six The Human Centipede (2009, 2011, 2015), ove la sfera biopolitica si fonde con quella zootecnica in ottica punitiva. Nessi stimolanti possono esseri stipulati con il misconosciuto Tusk (Kevin Smith, 2014).
58 Su questo tema, applicato a contesti non di fiction, cfr. Bruno Surace, Semiotica di 87 ore. Etica, estetica, semioetica delle immagini panottiche, «Carte Semiotiche», Annali 4, 2017. Numero monografico a cura di Maria Cristina Addis, Giacomo Tagliani, Le immagini del controllo. Governo e visibilità dei corpi.
59 Cfr. Roger Odin, De la fiction, De Boeck Université, Bruxelles, 2000.
60 Delineiamo la categoria dell’hacking semiosico, cioè del tentativo di uscire dai pattern di un senso determinato aggirando le regole strutturali imposte dall’alto, in Bruno Surace, Ragazzacci 2.0 o del cattivo gusto online. Note semiotiche su viralità alternative ed etichetta in Gabriele Marino, Mattia Thibault (a cura di), Viralità – Virality. Monographic issue of Lexia, 25-26, Aracne, Roma 2017, a proposito della cultura di internet.
61 Artemio Enzo Baldini, Utopia e distopia, FrancoAngeli, Milano, 1987, pp. 28-9.
62 I videogiochi “tutti contro tutti” spopolano online, come nel caso del recente Fortnite (2017) che presenta una specifica modalità battle royale, formula di gameplay fondata sul principio del last-man-standing del tutto simile a quella di testi come Hunger Games.
63 Daniela Guardamagna, Analisi dell’incubo. L’utopia negativa da Swift alla fantascienza, Bulzoni, Roma, 1980, p. 108.
64 Fortunato Sorrentino, M. Chiara Pettenati, Orizzonti di conoscenza. Strumenti digitali, metodi e prospettive per l’uomo del terzo millennio, Firenze University Press, Firenze, 2014, p. 90.
65 L’antropomorfizzazione è necessaria, specie nel caso degli insetti, per fare in modo che lo spettatore possa immedesimarsi. Come precisa Simon King, Insect Nations. Visions of the Ant World from Kroptkin to Bergson, InkerMen Press, London, 2006, p. 63, in film come Z la formica e A Bug’s Life le formiche non sono mai realmente “loro”, ma sono noi (anche e soprattutto in forza dell’antropomorfizzazione, giacché in realtà gli insetti non hanno vere e proprie facce).
66 Per la parte dedicata a Ozu desidero ringraziare Dario Tomasi. Conservo ancora gli appunti presi durante le sue lezioni di cinema orientale ormai diversi anni fa, che in questo paragrafo sono riversati e adattati, nella speranza di avergli reso buon servigio.
67 In Dario Tomasi, Yasujiro Ozu, Il Castoro, Milano, 1996 un’analisi completa dei film del regista, su cui ci concentriamo per via del suo carattere pionieristico.
68 Tokyo no onna (Una donna di Tokyo, 1933) contiene per esempio una esplicita riproposizione di una parte di If I Had a Million (Se avessi un milione, Ernst Lubitsch, Norman Taurog, Stephen Roberts, Norman Z. McLeod, James Cruze, William A. Seiter, H. Bruce Humberstone e Lothar Mendes, 1932).
69 Mutuiamo l’espressione da Woojeong Joo, The Cinema of Ozu Yasujiro. Histories of the Everyday, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2017, che coglie nel suo volume la poetica del quotidiano del regista giapponese.
70 La classifica annuale della più importante rivista di cinema nipponica, «Kinema Junpō», vide Ozu occupare posti di rilievo. Per la prima volta con Sono nato, ma... occupò il primo posto.
71 Paul Schrader, Il trascendente nel cinema, cit., p. 30.
72 Bruno Di Marino, Non aprite quella porta – Modalità e forme dell’abitare nella rappresentazione cinematografica in Fabio Briguglio, Patrizia Ferri (a cura di), Translating Rooms. Nuove ecologie dell’abitare, Gangemi Editore, Roma, 2012, p. 78.
73 Giovanni Casoli, Novecento letterario italiano ed europeo. Autori e testi scelti, Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 522.
74 Sul cinema del e sul lavoro cfr. Peppino Ortoleva, Un cinema del lavoro, un cinema sul lavoro, Feltrinelli, Milano, 2012. Per un ventaglio aggiornato e internazionale cfr. Roberto Lasagna, Da Chaplin a Loach. Scenari e prospettive della psicologia del lavoro attraverso il cinema, Mimesis, Milano-Udine, 2019.
75 Non quindi esclusivamente un film comico, ma un’opera capace di illustrare uno specifico contesto sociale con grande acume. Non siamo naturalmente gli unici a sostenere questo tipo di lettura. Cfr. per esempio Giacomo Manzoli, Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976), Carocci, Roma, 2012.
76 Agostino La Bella, Elisa Battistoni, Economia e organizzazione aziendale, Apogeo, Milano, 2008, p. 435.
77 Roberto Frini, Neri Parenti, Gremese, Roma, 2005, p. 15.
78 Christian Uva, Michele Picchi, Destra e sinistra nel cinema italiano. Film e immaginario politico dagli anni ’60 al nuovo millennio, Edizioni Interculturali, Roma, 2006, p. 99.
79 Queste e altre mutazioni mentali del protagonista ne fanno colui che in Emilio Cagnoni, Fantozzi Kafka. Il ragioniere sotto processo e le sue tragicomiche metamorfosi, L’epos, Palermo, 2007, è definito “Fantozzi-Kafka”.
80 Giuseppe Patota, Fabio Rossi, L’italiano al cinema, l’italiano nel cinema, Accademia della Crusca – GoWare, Firenze, 2017.
81 Edoardo Zaccagnini, I “mostri” al lavoro! Contadini, operai, commendatori ed impiegati nella commedia all’italiana, Sovera, Roma, 2009, p. 156.
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