VII. Il valore della necessità
p. 149-168
Texte intégral
1Cerchiamo di riannodare i fili. Quello che emerge dalle occasioni di riflessione di Bassani sul proprio operato cinematografico è l’indubbia attrazione che la scrittura per il cinema ha esercitato proprio in quanto necessariamente segnata da una radicale rinuncia alla sole possibilità artistiche e creative offerte dalla scrittura letteraria. Il lavoro di sceneggiatore, così come è stato percepito da Bassani, ha comportato un costante confronto con il “fuori”, ha significato infatti per lo scrittore dare piena disponibilità alla ridefinizione del proprio operato in relazione almeno a tre diversi fronti di interlocuzione. In primo luogo ha significato rispondere all’esigenza di una concreta forma di messa a punto delle idee e della scrittura con gli altri soggetti coinvolti nell’iter di realizzazione del film, dagli sceneggiatori, ricordiamo come questa pratica soprattutto negli anni in questione sia esperienza di gruppo, alle diverse personalità registiche e tecnico-produttive1. In seconda istanza, si sa come per lo scrittore questa esperienza abbia significato lavorare con la scrittura per un’altra “struttura”, quella filmica, che la sceneggiatura prefigura, vuole essere ma non è compiutamente, tesa in un perenne desiderio di adeguamento all’orizzonte visibile. E infine lavorare per il cinema ha facilitato Bassani in una radicale uscita da sé verso la dimensione dell’altro, nella fattispecie di uno spettatore/pubblico in grado di vincolare ciò che vede a un discorso condiviso sul reale e sulla propria contemporaneità. In questo senso, percorrendo le dichiarazioni di Bassani che si racconta come uomo di cinema, si intuisce che il passaggio attraverso questo modo alternativo della scrittura, che l’ha visto misurasi con una dimensione oltre la mera parola, ha significato, quasi come in una forma di terapia discreta, lavorare sulla scelta, sulla scarto, sul faticoso adeguamento al fuori da sé, in una direzione tutta legata al senso di necessità.
2La crisi che segnò la nostra letteratura a metà degli anni Cinquanta e che trova perfetta corrispondenza in un cinema fortemente interrogativo, costruito su continue prove ed errori, su modalità di ridefinizione della propria identità, del proprio curriculum, trova, infatti, nel valore della necessità qualcosa di risolutivo, una spinta per rendere l’arresto momento di partenza. Una necessità che dà ragione al perché della scrittura, alla sua utilità in termini di relazione con ciò che le sta attorno, al suo essere testimone e agente del proprio oltre. E allora diventa facile ritornare a una delle dichiarazioni più forti che lo scrittore fece al termine di quel decennio e che viene spesso ricordata come formulazione di chiara poetica. Alla domanda:
Il problema del linguaggio nel romanzo è prima di tutto il problema del rapporto dello scrittore con la realtà della sua narrativa. Credete che questo linguaggio debba essere trasparente come un’acqua limpida in fondo alla quale si distinguono tutti gli oggetti, in altri termini credete che il romanzo debba lasciar parlar le cose? Oppure credete che il romanziere debba prima di tutto essere scrittore ed anche persino vistosamente scrittore?
3Bassani risponde:
Non è simpatico polemizzare con le domande. Tuttavia, una volta tanto, mi sia concesso chiedere: “Perché questa domanda?”. Siamo nel 1959, ben avanti nel secolo, abbastanza adulti, direi. E ancora a dover baloccarci con questi falsi problemi? Ancora a dover scegliere tra la via di Svevo e quella di Gadda o della Banti, tra quella di Moravia e quella di Soldati, quando invece si sa che tutte le strade vanno bene, o male, e che l’unica cosa necessaria ad un romanzo perché funzioni, l’unica che l’acqua del suo linguaggio deve lasciar trasparire, è la ragione per la quale fu scritto, la sua necessità?2.
4Ebbene, i casi di sceneggiatura analizzati portano le tracce di questa scrittura necessaria. Cerchiamo allora di definire la condotta del lavoro di sceneggiatura di Bassani, raccogliendo gli spunti emersi dai film presi in esame. Appare chiaro come nel tessuto complessivo delle sceneggiature, per lo più orchestrate a più mani, si emancipino dei frammenti, dei passaggi, che si fanno momenti di sospensione, pause inattese, vere e proprie sottrazioni al procedere della narrazione. Questi squarci nell’architettura complessiva e articolata dei film di Soldati diventano immediatamente degli intermezzi, che in modo forte consuonano con la sensibilità creativa di Bassani.
5In particolare lo stagliarsi di questi momenti aporici si avverte in relazione alla dimensione temporale: la durata che sostiene lo sviluppo, lo svolgimento della vicenda, perde consistenza, lasciando spazio a frammenti temporalmente astratti, attimi di assoluto presente, che paiono svincolati da ogni fenomeno di stretta consequenzialità. La necessità è quella dettata dall’urgenza di uscire allo scoperto, bucando, per così dire, la coltre della storia, con l’irrompere di una riflessione sull’altrove, su ciò che sta al di là della narrazione e che, come suggerito, intende lavorare sull’esperienza del limite e sulla dimensione memoriale. Ecco che Bassani predilige questi momenti per emergere, per sottoscrivere la propria presenza e per esercitare il proprio pensiero nella materia del cinema.
6Il limite sta nell’inquadratura, ne segna la misura, la porzione. Ne marca la consistenza stessa. Ma questo limite, così già proprio della scrittura letteraria di Bassani, si trasmette, mettendosi quasi alla prova, in brandelli di sceneggiatura, prendendo sì le mosse dalla naturale finitudine del quadro, racchiuso dai suoi molteplici bordi, ma diventando essenza stessa dell’immagine. Questo avviene a due livelli: da una parte la parcellizzazione drammaturgica e dall’altra la parola dialogata che si fa ultima. Su questi due versanti si gioca l’intervento di Bassani: lo scrittore raccoglie il potenziale limitante della misura filmica e lo rieccheggia nel fare sceneggiatura, optando per soluzioni di miniaturizzazione del narrato ( Il ventaglino) e per un dialogo che si fa estremo, lapidario, a tratti proverbiale, a tratti profetico (il parlato del Dottor Vivaldi ne La mano dello straniero). E questo fenomeno di ecolalia del limite, dalla misura del quadro alla scrittura di sceneggiatura, viene sottolineato dal coincidere con la messa in scena di stati di visione: i personaggi abbandonano l’agire per mettersi a guardare, fermarsi a osservare ora la sfilata e il passeggio di uomini in divisa ( Il ventaglino), ora da una finestra e da un oblò la veduta di Venezia (La mano dello straniero). La scrittura di sceneggiatura raccoglie dalla visione la natura limitata, parziale, difettosa e la esprime nei suoi modi, nella sua forma.
7Quindi la memoria. Tema attraversato da studi recenti e da affascinanti riscoperte per quanto concerne la teoria dell’immagine, sembra trovare nell’analisi dell’operato di Bassani per il cinema una possibile e giusta dimora. Naturalmente il tema risulta fondante per la narrativa stessa dello scrittore, ma nei casi filmici studiati mostra tutta l’esuberanza creativa e la forza di una proposta nuova per il cinema del periodo. Dice Barbara Grespi, riferendo della memoria nel cuore delle immagini:
Il modo in cui i gesti si fissano sulla tela (lastra, pellicola) è intricato e molteplice, perché da un lato l’artista li fa apparire, estraendoli dalla propria memoria, cioè lasciandoli sgorgare e precipitare sulla tela attraverso il proprio atto creativo, dall’altro è anche possibile che il soggetto ritratto (la modella, l’attrice, il passante fotografato) riporti alla luce nella sua stessa carne antiche pose che ha incise nella memoria e che l’artista si limita a cogliere. Le due cose insieme3.
8Da qui si può intraprendere un singolare percorso nella rilettura dei casi analizzati. Il ricordo è, nuovamente, stimolato dalla scrittura cinematografica perché trova in essa la misura della propria composizione. Ricordare significa, infatti, portare alla luce, sottrarre alla transitorietà del tempo, che, (s)correndo consuma, corrode, fa necessariamente invecchiare i corpi e la materia. La ripresa, azione preliminare alla visione, racchiude questa forma di esorcismo dall’oblio: ferma in immagine il tempo in uno stato potenzialmente incorruttibile ed eterno. Ecco che Bassani sotto questa spinta propone una scrittura di sceneggiatura che rielabora tale intenzione, scegliendo di venir meno alla dimensione strettamente testimoniale delle immagini – testimonianza per il futuro, a eterna memoria –, ma enfatizzando il ricordo che le stesse immagini portano in sé: l’esperienza di visione, il racchiudere nel quadro una porzione di esistente, significa di per sé sconvolgere la continuità temporale, il procedere incessante del tempo, in quanto il gesto cinematografico della raccolta e della creazione di immagini non fa altro che rapprendere un frammento di tempo, assolutizzarlo, dando vita così a fantasmi, nei quali inscritta è la memoria di un tempo che è già andato altrove. Anche per questo Bassani lega indissolubilmente ai suoi passaggi nella sceneggiatura questa sostanziale congiunzione tra memoria e visione, perché ogni forma di recupero dall’oblio, dallo scorrere del tempo, diventa di per sé evocazione di qualcosa che non c’è più. Rendere visibile significa creare spazi per la memoria. Ecco allora che per La provinciale Bassani asseconda pienamente lo spirito di Soldati nell’orchestrazione della vicenda in un susseguirsi di flashback, ma ispessisce la trama di questi, rendendoli ricordi non solo relativi a singoli soggetti, ma ricordi di un romanzo. Questo, come abbiamo analizzato, è possibile attraverso una particolare scrittura di sceneggiatura, che enfatizza l’attraversamento delle soglie temporali, definendo cornici contenitive assolutamente poco salde, e optando per una piena associazione giustappositiva di frammenti. Nella sequenza del gioco del nascondino de La donna del fiume questa tensione ad attribuire valore memoriale all’esperienza di visione viene esplicitata. I corpi celati vengono chiamati e appaiono così in immagine. E così restano per sempre. Uno a uno tornano a ricomporre porzioni di visibile, decretando la propria natura memoriale, fermando la propria sagoma in un tempo imperituro. Bassani, assolutamente da sottolineare con Pasolini , firma questa sequenza come una prova esemplare della scrittura cinematografica della memoria, giocando a nascondino, tra assenza e presenza, sottoscrive, grazie a quei corpi bambini, la creazione di fantasmi vivi.
9In sostanza, questo nostro percorso analitico alla scoperta delle tracce che la scrittura bassaniana lascia nelle prove di sceneggiatura viene a definire una precisa attenzione nei confronti dell’esperienza cinematografica dello scrittore. La sua adesione è motivata da una vera e propria folgorazione. Una scrittura necessaria che mette a fuoco almeno due delle grandi prospettive che attraversano come lische di pesce la sua narrativa: il limite e la memoria. Per forza di cose l’abilità della scrittura per la visione è quella di confrontarsi con queste esperienze. Bassani ne coglie il potenziale e lo usa piegandolo alla propria scrittura. Come dire che l’eccezionale esigenza della scrittura di sceneggiatura di confrontarsi e di definirsi in rapporto a un’immagine, percepita da Bassani come luogo di costante esercizio del limite e della memoria, conduce lo scrittore a trovare spazio in quel luogo, a estirparne la radice e la ragion d’essere, per provare ancora una volta a misurarsi con uno stato di provvisorietà, di incompiutezza, di precarietà.
10Questo significa che i frammenti di cinema che vedono Bassani al lavoro, e nella fattispecie quelli analizzati di paternità soldatiana, sono momenti di estremo interesse perché svolgono la necessità, l’urgenza di confrontarsi con un’altra misura della parola proprio a partire da traiettorie estremamente connaturate alla scrittura letteraria del nostro. In questo senso si schiudono precise intersezioni, che ben poco hanno a che fare con una rapporto adattivo tra letteratura e cinema, e men che meno si risolvono in un travaso di strategie letterarie nel fare sceneggiatura. Il confronto necessario tra misure di parole, tra mezzi espressivi differenti, produce in questi frammenti aporici una speciale esperienza intermedia di scrittura, che trova la propria ragion d’essere nell’essere al contempo scritta, in quanto propriamente parola di sceneggiatura, e parola della visione, perché si esprime attraverso riproposizioni continue di esercizi dello sguardo, momenti di osservazione e stati di contemplazione. Quello che si vuole dire è che Bassani sceglie l’esperienza di sceneggiatura esaltandone i connotati, proprio in virtù dell’importante possibilità che trova nello scrivere per il cinema “qualcosa che serve” alla propria scrittura, qualcosa che sta sempre latente, ma che la concretezza dell’immagine cinematografica sprigiona. Questa urgenza che trasuda nella scrittura letteraria e che si fa “cosa” nella sceneggiatura è, appunto, il continuo lavoro di patteggiamento con il limite e l’ossessivo andirivieni dallo spazio memoriale. Il cinema, in buona sostanza, è questo per Bassani. Ed è ancor maggiormente chiaro che questa possibilità datagli diventa per lui cogente necessità nel momento in cui, non pago della naturale dimensione visiva della sceneggiatura, ecolalicamente la eleva al quadrato, scrivendo per la visione, appunto, stati di visione, esperienze dello sguardo, frammenti in cui il vedere diventa protagonista.
11Una scrittura dal valore necessario, dunque. Una possibilità che si rivela poi quasi irrinunciabile in quegli anni, già «avanti nel secolo». L’esperienza del limite e il lavoro della memoria sono, infatti, fatalmente relati anche al cinema italiano degli anni Cinquanta, che esperisce continuamente forme sincopate di racconto, parcellizzazioni del narrato che matureranno nel modulo del “film a episodi”, e d’altro canto sviluppano una forte sensibilità per il racconto “a incastro” veicolato dall’emergere di flashback, racconti alla seconda, derive memoriali. Tutto favorisce un progressivo allontanamento dalla linearità pura, dallo scorrere delle cose, dal naturale divenire degli eventi. La narrazione si squassa, diventa prismatica, si apre a diversi livelli, si frange in capitoli, si fa, sostanzialmente, a pezzi. In diverse occasioni ci si è voluti soffermare su questa capacità del cinema degli anni Cinquanta di essere puro esercizio di sperimentazione per un progressivo smaltimento dell’utopia neorealista. Bassani, naturalmente con Soldati – che, come più volte anche recentemente è stato ricordato, rappresenta «un ripensamento del cinema del dopoguerra contropelo rispetto alla centralità del paradigma neorealista»4 –, attraverso la strozzatura necessaria che la propria scrittura ricerca nelle pieghe della sceneggiatura, quella cioè di fare della visione l’esperienza primigenia del limite e della memoria, risponde, in una certa maniera, anche al proprio tempo. Un tempo fatto di possibili aperture, smentite da slanci troppo corti, limitati, subito sclerotizzati in forme stereotipiche. Linearità che si aprono, temporalità che si sfaldano, memorie che esondano, ma che non giungono a riempire le lacune del presente, a coscientizzare un dopoguerra così esuberantemente fragile, a dargli una direzione. Memoria che non è, dunque, testimonianza, come nei capolavori neorealisti, ma presenza di una diversità che si schiude, che si emancipa dal passato, ma che resta mirabilmente sospesa nel presente, senza dover per forza di cose essere gesto rivoluzionario.
Notes de bas de page
1 Interessante a riguardo è la storia legata al trattamento bassaniano dei Promessi Sposi, che non venne mai realizzato in film. La storia, come già accennato, è stata recentemente portata alla luce da Salvatore Silvano Nigro, e rappresenta un formidabile esempio di come Bassani, lavorando per il cinema, abbia dovuto fare i conti con un orizzonte politico-produttivo che segnò profondamente gli esiti del suo operato. Si veda a riguardo l’interessante saggio-premessa di Salvatore Silvano Nigro I mancati sposi al recente Giorgio Bassani, I Promessi Sposi. Un esperimento, cit., pp. 9-25.
2 In «Nuovi Argomenti», 38-39, maggio-agosto 1959, pp 2-5, con il titolo Nuove domande sul romanzo, poi in Le parole preparate insieme a In risposta (II) con il titolo complessivo Due interviste, pp. 239-243. Ora in In risposta (I), presente in Giorgio Bassani, Opere, cit., p. 1171.
3 Barbara Grespi, Lo specchio e l’impronta. I ricordi dell’immagine analogica, in Barbara Grespi (a cura di), Memoria e immagine, «Locus Solus», 7, Mondadori, Milano, 2009, p. 9.
4 Emiliano Morreale (a cura di), Mario Soldati e il cinema, cit., p. 4.
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