Per una rilettura del «secondo prologo» dei Lithica orfici
p. 161-173
Texte intégral
Analisi letteraria
1Il contenuto didascalico dei Lithica orfici1, breve poema anonimo composto probabilmente verso la metà del IV secolo2 e dedicato alle virtù di ventinove pietre, è preceduto da un lungo proemio (v. 1-171) suddiviso in due parti.
2Nella prima (v. 1-90), dopo aver dichiarato di aver ricevuto da Hermes l’incarico di diffondere tra i mortali i doni celati nell’antro del dio, il narratore lamenta la miseria morale dei propri contemporanei, che non perseguono più la conoscenza e la virtù, ma anzi disprezzano e addirittura uccidono chi vi si dedichi3.
3La seconda parte del proemio (v. 91-171), indicata talora come «secondo prologo»4, spiega invece le circostanze che hanno permesso al narratore di conoscere le virtù dei minerali. Essa è ambientata in un contesto pastorale5, come rivelano le riprese delle Talisie di Teocrito poste in apertura e in chiusura del brano6: si tratta dei v. 91-4, dove l’incontro del narratore e Teiodamante ricorda quello di Simichida e Licida7, e dei v. 159-63, nei quali la descrizione del paesaggio che circonda l’altare di Helios è influenzata da Teocrito 7, 7-9 e 135-1398.
4Il «secondo prologo» presenta inoltre una struttura tripartita. La prima sequenza individuabile (v. 93-104) è costituita da un flashback: dopo due versi di transizione dalla prima alla seconda parte del proemio (v. 91-2), nei quali il narratore si auspica di trarre conforto dalla frequentazione di un uomo saggio, egli prende a raccontare un aneddoto che si colloca in un passato non ben definito. Si stava recando a celebrare un sacrificio in onore di Helios, quando si imbatté in Teiodamante; dopo averlo esortato a unirsi a lui, egli si sentì in dovere di spiegare al compagno i motivi della sua devozione per il dio del Sole.
5Comincia a questo punto una nuova sequenza (v. 105-150), la più estesa del «secondo prologo»; si tratta di un vero e proprio flashback nel flashback, giacché, parlando con Teiodamante, il protagonista evoca un drammatico episodio della propria infanzia. Non era che un bambino quando, inseguendo due pernici per un sentiero in salita, egli fu minacciato da un pericoloso serpente dal quale poté salvarlo solo l’intervento di due cani attirati dalle sue grida.
6In questa lunga sequenza il poeta si prodiga per creare una scena quanto più possibile dinamica e movimentata: le azioni dei protagonisti sono infatti scandite da un ritmo serrato, e gli eventi si succedono incalzanti senza soluzione di continuità; a più riprese, inoltre, l’autore sottolinea esplicitamente la velocità con la quale agiscono i personaggi.
7La scena si apre con il fanciullo che insegue le due rapide pernici in fuga (v. 106 λαιψηρὼ πέρδικε μετασπόμενος προφυγόντε); egli è sul punto di afferrarle, ma esse riescono a evitarlo e a scappare nuovamente (v. 109 ἀλυσκάζων προφύγεσκεν). Nell’impeto della corsa (v. 110 σπουδῇ) il protagonista cade a terra, ma ben presto si slancia (v. 111 ἀναΐξας) ancora una volta verso le sue prede, inseguendole (v. 112 μετασπόμενος) fino alla cima dell’altura su cui si svolgono i fatti.
8A questo punto, improvvisamente (v. 113 ἐξαπίνης), la scena cambia. Le due pernici schizzano su una quercia con la rapidità di un giavellotto o di un dardo (v. 114 αἰγανέης ἔσσυντο θοώτερον ἠὲ βελέμνου): si sono infatti accorte della presenza di un terribile serpente, i cui movimenti non sono meno scattanti (v. 115 ἐπεσσύμενον, 117 ἀΐξαντα).
9Le pernici erano rapide come il vento (v. 122 ἀελλοπόδεσσιν), ma le minacce del pericoloso rettile inducono ora il bambino a correre anche più velocemente di prima: di fronte al serpente, per la paura egli si si slancia all’indietro (v. 121 σπεύδοντα παλίσσυτον), simile a un’aquila in volo o al soffio del vento (v. 124-5 τανύπτερον αἰετὸν…/ καὶ πνοιὴν ἀνέμου).
10Con il serpente alle calcagna, il protagonista trova la prontezza di spirito per balzare su un altare consacrato a Helios (v. 128 νόος ὦρτο θοῶς ἐπὶ βωμὸν ὀροῦσαι), sul quale rinviene i resti di un ceppo d’olivo semiconsunto dal fuoco; afferrata quest’arma di fortuna9, egli si volta per affrontare il serpente. Il poeta si sofferma qui soprattutto sulla frenesia di combattere che anima sia la bestia (v. 133 μαίμησε) che il fanciullo (v. 134 μάρνασθαι μεμαῶτα), ma il ritmo degli eventi è mantenuto incalzante dalla vivace rappresentazione del poderoso corpo del rettile che si avvolge su se stesso, spira dopo spira (v. 135-136 αὐτὰρ ἐπ᾿ ἄλλῳ / ἄλλος, ἔπειτα δέ τ᾿ ἄλλος ἑλισσομένου τροχὸς ἦεν).
11Nel tentativo di difendersi, il narratore colpisce la testa del serpente con il ramo d’olivo, che però si spezza; sembrerebbe quindi non esserci per lui più speranza, ma di nuovo lo scenario viene repentinamente ribaltato. Tratti in allarme dalle urla del bambino, da un lontano pascolo accorrono infatti (v. 144 ἐπεδραμέτην, 145 ἐπέδραμον) i suoi due cani; avendoli notati, subito (v. 145 αἶψα) il serpente si scaglia loro contro (v. 146 ἀντίον ἔσσυτο), permettendo al protagonista di balzare precipitosamente a terra (v. 146-147 ἐς γαῖαν ὀρούσας / προτροπάδην) e di andare a confondersi tra i capretti di un gregge10 come una lepre che balza tra i cespugli per sfuggire all’aquila di Zeus (v. 147-150).
12Il dinamismo di questa lunga scena, tuttavia, non è ottenuto dall’autore solo mediante le scelte lessicali e il ricorso a una rapida successione di immagini sempre più incalzanti: anche l’attenzione per i dettagli sonori contribuisce a creare un’atmosfera concitata. Se all’inizio della sequenza il silenzio del sentiero montano su cui si svolge l’azione è interrotto solo dalle grida isolate del protagonista che invoca i nomi delle pernici fuggite (v. 107 ἀκούων οὔνομ᾿ ἕκαστος) per richiamarle a sé, e dalla ἰαχὴ ὀξεῖα (v. 113) emessa dai due volatili alla vista del serpente, durante la lotta tra il fanciullo e il rettile la caotica agitazione della scena è portata all’esasperazione dalle urla del bambino e dal sibilare del serpente, che addirittura le sovrasta (v. 138 συρίζων βοόωντος ἐμοῦ πολὺ μεῖζον ἀϋτῆς); ai versi dei due contendenti si sovrappone ben presto anche l’ululato dei cani accorsi in aiuto del loro padroncino (v. 145 ὑλάσσοντες).
13Sempre all’interno di questa seconda sezione del «secondo prologo», il susseguirsi degli eventi è inoltre scandito attraverso il sapiente dosaggio di versi tetracoli, raffinati esametri di sole quattro parole11 molto apprezzati dall’epica tarda, che ne sfrutta in particolar modo la solennità a fini espressivi12. La scena dell’inseguimento delle pernici si apre infatti con un esametro di sole quattro parole, il già citato v. 106; successivamente un verso dello stesso tipo sottolinea la natura ingannatrice dei due volatili (v. 108 ἱστάμενος μίμνεσκεν ὀρεξάμενον δὲ δοκεύσας), mentre ben due tetracoli consecutivi sottolineano la loro reazione impaurita all’improvviso comparire del serpente (v. 114-15 αἰγανέης ἔσσυντο θοώτερον ἠὲ βελέμνου/ὑψίκομον ποτὶ φηγόν, ἐπεσσύμενον προϊδόντε). Due tetracoli danno poi inizio ad altrettante sequenze decisive: la prima è quella in cui il bambino, spezzato il ramo d’olivo sulla testa del δράκων, rimane disarmato (v. 139 καὶ τύπτων ἄρρηκτον ὀρεσκῴοιο κάρηνον); la seconda quella in cui, udite le urla del loro padrone, compaiono i cani (v. 142 τοὔνεκεν αἰπολίοισιν ἀπόπροθι βοσκομένοισιν). Un verso tetracolo sancisce infine allo stesso tempo la conclusione della disavventura del fanciullo e quella della sezione in cui essa è raccontata (v. 150 ἐκρύφθην μέσσοισιν ἐνὶ πτήξας ἐρίφοισιν).
14Con la terza e ultima sezione del «secondo prologo» (v. 151-171), si torna all’incontro tra Teiodamante e il protagonista, diretto con un corteo di compagni verso l’altare di Helios per celebrarvi un sacrifcio annuale. L’ara si situa in un vero e proprio locus amoenus, allietato da verdi prati, dolci brezze, fronde ombrose, e da una fonte perenne, il cui gorgogliare è simile a un canto (v. 163 εἴκελον ᾠδῇ). Il quieto paesaggio in cui è ora immerso l’altare si contrappone alla caotica atmosfera da cui esso era stato investito durante la scena precedente: il confronto dello scorrere melodioso dell’acqua con un suono educato come il canto sarà quindi da leggere in opposizione allo sguaiato sovrapporsi di urla umane e versi ferini rilevato nella seconda sequenza. A questo punto Teiodamante si aggrega alla comitiva e, durante il cammino, comincia a rivelare all’amico le virtù delle pietre, dando così inizio alla trattazione didascalica che costituisce l’oggetto dei Lithica (v. 172-761).
Proposta di interpretazione della simbologia
15Il resoconto della disavventura giovanile del narratore dei Lithica è, come si è visto, concepito con particolare accuratezza; l’impegno profuso dal poeta nella composizione di questa sezione narrativa e il fatto che essa si situi dopo un primo proemio di carattere misterico-soteriologico e prima della trattazione litologica vera e propria inducono a pensare che l’autore intendesse assegnare all’episodio un particolare rilievo: il significato del breve excursus narrativo e dei singoli particolari della diegesi non si esaurisce dunque nella lettera del testo, ma è al contrario suscettibile di una più profonda dimensione interpretativa.
16La posizione di assoluto rilievo occupata dal «secondo prologo» assegna quindi una certa importanza alla cornice bucolica che lo delimita ed è decisamente desueta nell’ambito della poesia tardoantica: l’autore sembra attribuire una particolare valenza iniziatica alla imagerie e all’ambientazione pastorali, e di esse si serve per veicolare un importante messaggio attraverso la creazione poetica13. Tale visione iniziatica della poesia bucolica si concilia del resto molto bene con l’ambientazione montana della vicenda, sottolineata a più riprese (v. 104 ἀκρώρειαν, 112 κορυφήνδε… ἄκρην, 157 ἀκρώρειαν, 170 εἰσαναβαίνεις): scenario privilegiato di incontro tra Dio e l’uomo, nel mondo antico il monte è infatti luogo per eccellenza propizio alle rivelazioni14.
17Che il «secondo prologo» dei Lithica celi degli elementi simbolici non è del resto una novità: alcuni dettagli della narrazione sono già stati persuasivamente interpretati in tal senso. Nella cultura antica, sia pagana che cristiana, la pernice è simbolo di astuzia, slealtà, perversione: nel poema litologico essa rappresenta quindi le passioni terrene, che lusingano l’uomo ma lo fanno precipitare nel peccato. È infatti inseguendo le due pernici che il fanciullo si imbatte nel minaccioso serpente, esplicito simbolo del male e della morte spirituale di cui esso è reponsabile15. La scena conclusiva della vicenda, nella quale il fanciullo è finalmente in salvo tra i capretti, contiene invece un’esplicita allusione ai riti misterici, che soli garantiscono la salvezza dell’anima: «capretto» era infatti uno dei gradi dell’iniziazione orfico-dionisiaca16.
18I simboli finora messi in luce dischiudono dunque una prospettiva escatologica che sembra emergere anche da altri particolari della narrazione di cui voglio ora proporre una possibile interpretazione, senza avere tuttavia la pretesa di spiegarli in modo definitivo o quella di ricostruire l’eventuale trama allegorica dell’episodio. È del resto assai probabile che sull’uomo di cultura tardoantico, abituato all’esegesi allegorica dei testi letterari, certi simboli agissero anche inconsapevolmente, esentandoci così dal dover ipotizzare nel nostro autore un preciso programma allegorizzante17.
19Mi voglio per prima cosa soffermare sui v. 124-125, dove il fanciullo, incalzato dal δράκων, corre sempre più velocemente e viene paragonato a un’aquila dalle ali spiegate (v. 124 τανύπτερον αἰετὸν) e al soffio del vento (v. 125 πνοιὴν ἀνέμου). Questa similitudine in apparenza così prevedibile sembra assumere un significato più profondo in considerazione del fatto che l’aquila dalle ali spiegate e il soffio del vento sono entrambi simboli escatologici piuttosto diffusi nel mondo antico.
20Sia in Oriente (in particolare in Siria), sia in Occidente, dove tali credenze si propagarono grazie all’influenza dei flussi migratori e delle rappresentazioni delle cerimonie di apoteosi imperiale, l’aquila dalle ali spiegate è un simbolo molto diffuso nell’arte funeraria. Essa può rappresentare l’anima appena spirata dal defunto o, come più spesso accade, rivestire la funzione di uccello psicopompo: l’aquila è infatti l’uccello del Sole, e dal Sole discendono le anime, che l’aquila scorta dunque verso la loro dimora originaria18. Su numerosi monumenti funebri l’immagine di un’aquila, spesso rappresentata con le ali spiegate, sostituisce l’effigie del defunto19; altre volte il busto del defunto è invece appoggiato sulla schiena del rapace che, in volo, si dirige verso il Sole20.
21Oltre che dalle testimonianze materiali, tale concezione escatologica emerge anche dalla poesia funeraria. Prendiamo ad esempio l’epigramma fittizio (AP VII, 62)21 che un anonimo poeta di età imperiale ha composto sulla tomba di Platone, figurandosela decorata dall’immagine di un’aquila:
Αἰετὲ, τίπτε βέβηκας ὑπὲρ τάφον ἢ τίνος, εἰπὲ,
ἀστερόεντα θεῶν οἶκον ἀποσκοπέεις;
–Ψυχῆς εἰμὶ Πλάτωνος ἀποπταμένης ἐς Ὄλυμπον
εἰκών· σῶμα δὲ γῆ γηγενὲς Ἀτθὶς ἔχει.
22Evidentemente attribuendo all’aquila la stessa valenza escatologica che essa assume nei numerosi monumenti funebri appena ricordati, il poeta le chiede perché essa se ne stia appollaiata sulla lapide del filosofo, e il rapace risponde di essere l’immagine dell’anima di Platone, appena volata in cielo22.
23Significativa a tal proposito è anche una stele funeraria di inizio III secolo rinvenuta ad Albano Laziale: Eutychos, morto all’età di due anni, è raffigurato in groppa a un cavallo sulla cui testa vola un’aquila; l’epitafio ci informa che la sua anima si trova in cielo (v. 1 οὐρανὸν ἦλθεν), dove l’ha condotta l’aquila di Zeus (v. 8 Διὸς πάρεδρος ἀετὸς ἥρπασέ με)23.
24Quanto al vento, è noto che per gli antichi l’anima è di natura aerea e che il vento rappresenta un principio vitale: tale concezione traspare ad esempio dall’etimologia stessa della parola ψυχή e del latino anima o animus, ed è presente nel rito ateniese dei Tritopatores, anime degli antenati venerate come venti e propizie alla procreazione24. Nella scultura funeraria anche i Venti, rappresentati perlopiù sottoforma di teste alate dalle sopracciglia aggrottate e dalle guance gonfie d’aria, rivestono spesso la funzione di psicopompi. L’anima cerca di raggiungere le dimore celesti attraversando l’atmosfera, e i Venti la scortano, agevolandone la salita se essa, durante l’esistenza terrena, ha praticato la virtù, e ostacolandola se invece si è dedicata al vizio25.
25Anche in questo caso le iscrizioni chiariscono il significato di immagini così diffuse sulle sepolture antiche. Su ognuno dei lati corti del sarcofago di Droseris, morta a Roma all’età di due anni26, è rappresentata una piccola maschera alata, il cui valore simbolico sembra illustrato dall’epitafio della bimba: essa è stata sollevata in aria dalle Moire (v. 1-2 τίς βροτὸς οὐκ ἐδάκρυσε ὅτι τὸ σὸν κάλλος ἀπῆλθεν ἰς ἀέρα / ἣν ἥρπασαν ἀπὸ γονέων Μοῖραι)27. Il senso dell’iscrizione appena citata è integrato dall’epitafio metrico di un neonato romano, P. Elio Pio (CIL, VI 10764): aurae etulere paruolum… / accessit astris28.
26Tuttavia, l’elemento che mi induce a scorgere nella similitudine impiegata dall’autore dei Lithica un possibile significato escatologico è la presenza di entrambi i simboli funerari, l’aquila dalle ali spiegate e il Vento, nello stesso contesto figurativo. Che io sappia ciò avviene in almeno tre occasioni. La prima è costituita dall’urna cineraria di Ti. Claudio Vittore, un bambino romano morto a sette anni (CIL, VI 15315). Sopra il ritratto del fanciullo un’aquila dalle ali spiegate è affiancata da due teste alate di Venti che soffiano verso l’alto nel chiaro intento di aiutarla a spiccare il volo: in questo contesto essi rappresentano infatti i veicoli dell’anima del fanciullo nella sua salita verso il cielo29.
27Un’iconografia molto simile caratterizza la stele funeraria di C. Cecilio Celere, un legionario morto a Carnuntum alla fine del I secolo. Al di sopra dell’epitafio compare una corona di alloro, emblema della vittoria conseguita dal giusto sulla morte, al centro della quale vola un’aquila; ai quattro angoli della rappresentazione incontriamo le teste dei venti, che anche stavolta devono agevolare l’ascesa dell’aquila psicopompa verso la volta celeste30.
28L’aquila in volo e i Venti coesistono infine sull’unico pannello superstite di un piccolo dittico in avorio della prima metà del V secolo, dove è rappresentata l’apoteosi di un imperatore pagano non identificato con certezza. Due aquile spiccano il volo dalla pira funebre del sovrano per scortare in cielo l’anima dell’imperatore e quella di un secondo personaggio, forse raffigurato sul pannello oggi perduto; al di sopra di questa scena due geni alati da identificare con altrettanti Venti sollevano l’imperatore in cielo, dove stanno ad attenderlo cinque divinità o cinque antenati31.
29Se l’interpretazione in chiave escatologica della similitudine dei v. 124-5 coglie nel segno, il fatto che il protagonista dei Lithica venga paragonato a un’aquila dalle ali spiegate e al soffio del vento, assimila in un certo senso le sue vicende a quelle di un’anima che ha ceduto alle lusinghe del mondo sensibile, ma che si è poi redenta. Che le cose possano stare effettivamente così mi sembra suggerito da un altro elemento della narrazione connotato da una forte carica simbolica, il ramo d’olivo trovato dal fanciullo sull’altare del Sole.
30Nell’Antro delle Ninfe Porfirio afferma infatti che l’olivo è una pianta particolarmente adatta a simboleggiare le conversioni delle anime nel cosmo: come le anime scendono nella generazione in corrispondenza del solstizio d’estate e risalgono al cielo in corrispondenza del solstizio d’inverno32, così l’olivo, pianta solare, in estate volge verso l’alto la parte bianca delle foglie, in inverno rivolge al suolo quella più bianca33. Alla luce di una tale interpretazione, la menzione di un ramo d’olivo in corrispondenza dell’evento centrale della narrazione (l’arrivo all’altare di Helios) non può certo essere casuale, ma sembra al contrario disvelare con le sue chiare valenze simboliche il senso dell’intero aneddoto.
31Forse non va trascurato nemmeno il fatto che il protagonista-anima trovi la forza di affrontare il serpente-male solo dopo aver impugnato il ramo d’olivo: pur non appartenendo del tutto allo stesso ambito semantico, il verbo μάρνασθαι, utilizzato dal poeta al v. 134 a proposito del fanciullo, ricorda infatti la metafora neoplatonica della vita come competizione agonistica (ἀγών) e lotta (πόνος) sostenuta dall’anima contro l’irrazionalità, il piacere, i beni materiali, nel tentativo di conquistare la serenità della contemplazione intellettuale34. Ora, proprio come gli atleti vincitori ricevono in premio una corona di olivo, così la saggezza divina, di cui l’olivo è simbolo, dispensa i premi della vittoria agli atleti della vita35.
32In tale prospettiva interpretativa anche altri elementi della narrazione potrebbero celare un significato più profondo di quello letterale, anche se l’individuazione e la spiegazione di ulteriori simboli nel «secondo prologo» dei Lithica sono meno agevoli rispetto ai casi appena proposti.
33L’immagine del serpente-male che sfiora con i denti il lembo della veste del fanciullo-anima (v. 126), ad esempio, potrebbe alludere alla concezione, del resto diffusissima nella cultura antica, del corpo come tunica dell’anima: come cerchiamo di mantenere incontaminata la veste che ricopre il nostro corpo, così dobbiamo mantenere incontaminato il corpo, che racchiude l’anima36. Ancora più arduo è il tentativo di interpretare il significato dei due cani che con il loro arrivo permettono al fanciullo di riparare tra i capretti (v. 142-146). Essi rappresentano naturalmente il corrispettivo positivo delle due insidiose pernici, responsabili della perdita del bambino, e il loro improvviso sopraggiungere conduce il protagonista verso la consolazione dei misteri (i capretti); tale ruolo salvifico si spiega forse con la funzione di psicopompo rivestita dal cane in tutte le mitologie37, o con la considerazione di cui esso godeva in Siria nell’ambito dei riti iniziatici38.
34Vengo infine alle due similitudini che chiamano in causa un’aquila. Della prima (v. 124) mi sono già occupato, ma voglio ora mostrare come il serpente che incalza l’aquila (alla quale il bambino è stato equiparato) non sia privo di rapporti con l’aquila che attacca una lepre alla fine della seconda sequenza del nostro testo (il fanciullo, balzato giù dall’altare, si acquatta tra i capretti come una lepre si nasconde tra i cespugli per sfuggire all’aquila di Zeus, v. 147-148). Il poema litologico presenta anche stavolta punti di contatto con le arti figurative: un rilievo romano di ispirazione dionisiaca raffigura infatti un serpente che si avvolge lungo il fusto di un albero dirigendosi minaccioso verso degli uccellini; a destra di questa scena un’aquila in volo stringe tra gli artigli una lepre39. Ancora più significativo è il confronto con un bassorilievo bizantino dell’XI secolo: a un’aquila con un serpente tra gli artigli se ne affiancano altre due appoggiate su altrettante lepri40.
35La presenza della duplice relazione aquila-serpente e aquila-lepre in contesti figurativi di chiara ispirazione religiosa, se da un lato costituisce una riprova dell’opportunità di interpretare in chiave escatologica il «secondo prologo» dei Lithica, dall’altro chiarisce almeno in parte il senso più profondo della movimentata scena concepita dall’autore.
36La lotta tra il serpente e l’aquila, universalmente diffusa nel mondo antico, incarna l’eterno conflitto tra potenze ctonie e potenze celesti, tra oscurità e luce, tra male e bene41. Nel bassorilievo bizantino appena ricordato l’aquila simboleggia il Cristo, mentre il serpente è il demonio e le lepri sono metafora della caduca natura umana: la salvifica immagine del Cristo vincitore sovrasta dunque sia il simbolo delle potenze demoniache sia quello dell’essere umano42.
37Nei Lithica l’inseguimento dell’aquila da parte del serpente sembra quindi significare un momentaneo trionfo del male sul bene43: l’anima, caduta nel peccato, sta per soccombere alla morte spirituale che a questo sempre si accompagna, ma la situazione viene ribaltata dall’intervento di Helios e dalla fede nei riti misterici, momento risolutivo dell’episodio forse non a caso messo in evidenza proprio dalla similitudine dell’aquila e della lepre.
Osservazioni conclusive
38Per finire, vale la pena di soffermarsi sulla datazione dei Lithica, considerati quasi all’unanimità un’opera del IV secolo44, con l’eccezione dell’ultimo editore del poema, che lo fa invece risalire alla prima metà del II45. Ora, mi sembra che dal presente studio siano emersi due elementi che parrebbero effettivamente collocare i Lithica nel IV secolo.
39Il primo è rappresentato dalle considerazioni sui versi tetracoli in parte già espresse nel primo paragrafo. Benché l’indagine qui presentata sia parziale, l’alta concentrazione di questo tipo di esametri in soli ottantuno versi46 rappresenta un dato piuttosto significativo. I versi tetracoli caratterizzano infatti il gusto tardoantico, e la percentuale ‘relativa’ dell’11% calcolata per il «secondo prologo», se confermata o accresciuta da una ricerca condotta sull’intero poema, mostrerebbe nei Lithica la stessa tendenza stilistica poi sviluppata appieno da Nonno di Panopoli e dai suoi imitatori (Pamprepio, Giovanni di Gaza, Paolo Silenziario, Agazia), presso i quali incontriamo percentuali di tetracoli comprese tra il 18 il 20%47.
40L’altro elemento che mi sembra implicare una datazione bassa del poema è invece rappresentato proprio dalla rete di significati simbolici che ho cercato di mettere in luce con questo studio. Pur vantando un’antichissima tradizione, il ricorso a letture allegoriche che scavano nei testi poetici, specialmente omerici, alla ricerca di significati celati sotto quelli più espliciti, sembra consolidarsi e diffondersi proprio a partire dal III-IV secolo sotto l’influenza del Neoplatonismo48. Nel caso del «secondo prologo» dei Lithica, ho già rilevato la corrispondenza tra alcuni dei simboli qui individuati e l’esegesi allegorica neoplatonica. Significativa in questo senso mi sembra anche la rilettura simbolica di due scene dell’Odissea operata dall’autore: il ramo d’olivo trovato dal protagonista sull’altare di Helios e poi usato come arma costituisce infatti un’allusione al ramo d’olivo con cui Odisseo acceca il Ciclope, mentre l’immagine del fanciullo che si rifugia tra i capretti riprende l’espediente messo in atto da Odisseo e compagni per fuggire dalla grotta dello stesso Ciclope49. Come si è visto, si tratta di due momenti narrativi estremamente importanti all’interno del «secondo prologo», carichi entrambi di precise valenze simboliche: mi sembra quindi che una tale risemantizzazione di situazioni omeriche possa essere accostata alle reinterpetazioni allegoriche del naufragio di Odisseo come lotta contro la materia sviluppate dalla filosofia neoplatonica50. I punti di contatto tra i Lithica e le speculazioni del tardo neoplatonismo potrebbero inoltre non rappresentare solo un generico appiglio di collocazione cronologica, ma anche un indizio dell’effettiva appartenenza del nostro poema al milieu dell’imperatore Giuliano. Un’ipotesi di Tyrwhitt ripresa in seria considerazione negli ultimi anni suggerisce infatti di identificare con Massimo di Efeso, filosofo neoplatonico, teurgo, e maestro dell’Apostata, il δῖος φὼς la cui esecuzione è appassionatamente descritta dall’anonimo poeta (v. 71-4) come emblema della miseria morale dei propri tempi51.
Notes de bas de page
1 Per il testo dei Lithica, Ορφέως Λιθικά, ed. G. Giannakis, Ioannina 1982 (che viene qui citato); R. Halleux, J. Schamp, Les Lapidaires grecs, Paris 1985, 3-123; per il testo dei v. 91-164, E. Livrea, « Perdix a perdendo », SIFC 15 (1997), 231-241, 232-235.
2 Sulla datazione del poema, vd. III, Osservazioni conclusive.
3 Halleux, Schamp, Lapidaires, op. cit., 4-12.
4 Halleux, Schamp, Lapidaires, op. cit., 12-20; Livrea, «Perdix », op. cit., 236-241.
5 Halleux, Schamp, Lapidaires, op. cit., 12-20.
6 G. Agosti, «Visioni bucoliche tardoantiche», CentoPagine 2 (2008), 49-57, 55 (http://www.openstarts.units.it/dspace/handle/10077/3222).
7 Thcr., Idyl. 7, 10-4, Theocritus, I-II, ed. A. S. F. Gow, Cambridge 1952, I, 56.
8 Thcr., Idyl. 7, 7-9 e 135-9, ed. Gow, op. cit., I, 56; 64.
9 Si tratta di una reminiscenza omerica: è infatti con un palo di legno d’olivo che Odisseo acceca il Ciclope (Hom., Od. IX, 319-335 e 375-394, Omero, III, Odissea. Libri IX-XII, ed. A. Heubeck, G. A. Privitera, Milano 1983, 28-31, 32-35).
10 Nuova reminiscenza omerica: per fuggire dall’antro del Ciclope, Odisseo e compagni si confondono tra i montoni di un gregge (Hom., Od. IX, 424-436, ed. Heubeck, Privitera, op. cit., 36-39).
11 Ho considerato tali anche gli esametri con un solo adpositiuum (preposizioni, congiunzioni, particelle elise e non).
12 E. Magnelli, Studi su Euforione, Roma 2002, 85-87; Nonnos de Panopolis. Les Dionysiaques, XVIII, Chant XLVIII, ed. F. Vian, Paris 2003, 215-219; Nonno di Panopoli. Le Dionisiache, III, Canti 25-39, ed. G. Agosti, Milano 2004, 42-44; G. Agosti, «Eisthesis: divisione dei versi, percezione dei cola negli epigrammi epigrafici in età tardoantica», S & T 8 (2010), 67-98, 90-95. Vd. III, Osservazioni conclusive.
13 Agosti, «Visioni», op. cit., 55.
14 Halleux, Schamp, Lapidaires, op. cit., 18 e n. 3; D. Accorinti, «La montagna e il sacro nel mondo greco», in A. Grossato (ed.), La Montagna cosmica, Milano 2010, 17-42; R. Franchi, «La simbologia del monte e l’importanza del verbo ὑψόω nella Parafrasi del Vangelo di S. Giovanni di Nonno di Panopoli», Augustinianum 51 (2011), 473-499, 473-475.
15 Livrea, «Perdix », op. cit., 236-239.
16 Livrea, «Perdix », op. cit., 241.
17 È quanto avviene ad esempio in [Orph.] Arg. 643-8, Les Argonautiques orphiques, ed. F. Vian, Paris 1987, 120-121: l’episodio di Ila che si perde nel bosco, arriva ad un antro, e viene reso immortale dalle Ninfe sembra alludere alla vicenda dell’anima che si libera dalla materia. Più che all’originalità dell’anonimo poeta, tale lettura simbolica dell’aneddoto va attribuita all’influsso delle speculazioni allegoriche contenute in un testo assai diffuso come l’Antro delle Ninfe di Porfirio: G. Agosti, «Ila nella caverna», MD 32 (1994), 175-192.
18 F. Cumont, Études syriennes, Paris 1917, 35-118; F. Cumont, Lux perpetua, Torino 2009, 342-347.
19 Cumont, Études, op. cit., 38-56.
20 Cumont, Études, op. cit., 85-87; D. Boschung, Antike Grabaltäre aus den Nekropolen Roms, Bern 1987, 50-51.
21 AP VII, 62, Anthologie Palatine, IV, Livre VII (Epigr. 1-363), ed. P. Waltz, A.-M. Desrousseaux, A. Dain, P. Camelot, E. des Places, Paris 19602, 83.
22 Cumont, Études, op. cit., 89-90.
23 A.-M. Verilhac, ΠΑΙΔΕΣ ΑΩΡΟΙ, I-II, Athina 1978-1982, I, 284-286 (num. 201) e tav. 23; II, 328-330.
24 Suid. T 1023 s. u. Τριτοπάτορες, Suidae Lexicon (Π-Ψ), IV, ed. A. Adler, Lipsiae 1935, 594.
25 F. Cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire des Romains, Paris 1942, 104-176; Cumont, Lux, op. cit., 250, 347; Vérilhac, ΠΑΙΔΕΣ, op. cit., II, 293-297 e 303-304. Sui venti e il loro ruolo nell’ascesa dell’anima (in ambito neoplatonico) vd. inoltre P. Chuvin, Chronique des derniers païens, Paris 20093, 161, 261.
26 Il sarcofago è datato al II/III secolo da W. Peek, «Drei Griechische Epigramme von der Westküste des Pontos Euxeinos», in J. Bingen, G. Cambier, G. Nachtergael (ed.), Le monde grec. Hommages à Claire Préaux, Bruxelles 1975, 457-463, 460; vd. anche H. Solin, Die Griechischen Personennamen in Rom. Ein Namenbuch, II, Berlin-New York 2003², 746.
27 L. Moretti, Inscriptiones graecae Urbis Romae (III), Romae 1979, 58-59 (ad IGUR, III 1199).
28 Esempi suggeriti da Cumont, Recherches, op. cit., 170-171. Contra R. Turcan, Messages d’outre-tombe, Paris 1999, 13.
29 Cumont, Recherches, op. cit., 162 e tav. XI; W. Altmann, Die Römischen Grabaltäre der Kaiserzeit, Berlin 1905, 156 (num. 188), interpreta le due teste come «Hermesköpfen».
30 Cumont, Études, op. cit., 69-70; Cumont, Recherches, op. cit., 153-154; E. Vorbeck, Militärinschriften aus Carnuntum, Wien 1980, 65 (num. 164).
31 Cumont, Études, op. cit., 101-102; Cumont, Recherches, op. cit., 176 e tav. XIV/2; Cumont, Lux, op. cit., 346-347; K. Weitzmann, Age of Spirituality, New York 1979, 70-71; Chuvin, Chronique, op. cit., 262-263.
32 Porph., Antr. 22, Porfirio. L’antro delle Ninfe, ed. L. Simonini, Milano 1986, 66-67: δύο οὖν ταύτας ἔθεντο πύλας καρκίνον καὶ αἰγόκερων οἱ θεολόγοι… τούτων δὲ καρκίνον μὲν εἶναι δι᾿ οὗ κατίασιν αἱ ψυχαί, αἰγόκερων δὲ δι᾿ οὗ ἀνίασιν. Vd. ibid., 193-196.
33 Porph. Antr. 33, ed. Simonini, op. cit., 80-81: ἀειθαλὴς δὲ οὖσα ἡ ἐλαία φέρει τι ἰδίωμα οἰκειότατον ταῖς ἐν τῷ κόσμῳ τροπαῖς τῶν ψυχῶν, αἷς τὸ ἄντρον καθιέρωται. Διὰ μὲν γὰρ τοῦ θέρους τὰ λευκὰ τῶν φύλλων ἀνανεύει, διὰ δὲ τοῦ χειμῶνος μεταστρέφει τὰ λευκότερα. L’interpretazione simbolica dell’olivo si basa sull’ambivalenza del sostantivo τροπαί, allo stesso tempo «conversione» e «solstizio». Vd. ibid., 236.
34 Porph., Abst. 1, 31, 3, Porphyre. De l’abstinence. Livre I, I, ed. J. Bouffartigue, M. Patillon, Paris 1977, 66 γυμνοὶ δὲ καὶ ἀχίτωνες ἐπὶ τὸ στάδιον ἀναβαίνωμεν τὰ τῆς ψυχῆς Ὀλύμπια ἀγωνισόμενοι; 1, 35, 1, ibid., 69 διὸ πολὺς μὲν ὁ ἀγὼν τούτων καθαρεῦσαι, πολὺς δὲ ὁ πόνος ἀπαλλαγῆναι αὐτῶν τῆς μελέτης, καὶ νύκτωρ καὶ μεθ᾿ ἡμέραν ἐκ τῆς κατὰ αἴσθησιν ἀναγκαίας συμπλοκῆς ἡμῖν παρούσης.
35 Porph., Antr. 33, ed. Simonini, op. cit., 80-81 φύσει μὲν οὖν ἀειθαλεῖ ἡ ἐλαία συνέχεται… τοῖς ἀθληταῖς ἐξ αὐτῆς δίδοται νικήσασι στέφανος… διοικεῖται δὲ καὶ ὁ κόσμος ὑπὸ νοερᾶς φύσεως αἰδίῳ καὶ ἀειθαλεῖ ἀγόμενος, ἀφ᾿ ἧς καὶ τὰ νικητήρια τοῖς ἀθληταῖς τοῦ βίου δίδονται καὶ τῶν πολλῶν πόνων τὸ ἄκος. Vd. ibid., 238-239.
36 Vd. Porphyre. De l’abstinence, ed. Bouffartigue, Patillon, op. cit., 37-41; Porfirio. L’antro, ed. Simonini, op. cit., 149-152.
37 J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dictionnaire des Symboles, Paris 19822, 239-241.
38 «Al-Nadim afferma che i cani erano sacri agli abitanti di Harran, in Siria, nei riti misterici; erano considerati fratelli degli iniziati ed era proibito cibarsene»: cf. J. C. Cooper, Dizionario degli animali mitologici e simbolici, trad. it. L. Perria, Vicenza 1997, 71.
39 R. Merkelbach, I misteri di Dioniso, trad. it. E. Minguzzi, Genova 1991, 58 § 54 e 271 ill. 44.
40 R. Wittkower, Allegoria e migrazione dei simboli, trad. it. M. Ciccuto, Torino 1987, 47 ill. 44.
41 Wittkower, Allegoria, op. cit., 13-83.
42 Wittkower, Allegoria, op. cit., 47-48.
43 Un’aquila soccomberebbe tra le spire di un serpente se non la salvasse l’intervento di un contadino in Aelian., NA 17, 47, Aelianus. De Natura animalium, ed. García Valdés, Llera Fueyo, Rodríguez-Noriega Guillén, Berolini-Novi Eboraci 2009, 428-429. In Nonn., Dion. V, 171-4 il fermaglio della collana di Armonia è costituito dalle due teste di un’anfisbena che stringono il corpo di un’aquila: Nonnos de Panopolis. Les Dionysiaques, II, Chants III-V, ed. P. Chuvin, Paris 1976, 83-87; Nonno di Panopoli. Le Dionisiache, I, Canti 1-12, ed. D. Gigli Piccardi, Milano 2003, 402-403. In Dion. XXXVIII, 26-9 un’aquila in volo stringe tra gli artigli un serpente che poi precipita nell’Idaspe (~ M 200-50); l’apparizione preannuncia la vittoria di Dioniso: Nonnos de Panopolis. Les Dionysiaques, XIV, Chants XXXVIII-XL, ed. B. Simon, Paris 1999, 187-188; Dionisiache, III, ed. Agosti, op. cit., 770-773. In Dion. XL, 478-91 i due animali sono infine coinvolti in una lotta senza fine nel corso della quale né l’uno né l’altro prende il sopravvento; mentre nei Lithica il fuoco ha consumato il ramo d’olivo che giace sull’altare di Helios (v. 130-1), in Nonno lo scontro aquilaserpente si svolge su un olivo circondato da un fuoco che non brucia: Dionysiaques, XIV, ed. Simon, op. cit., 154-155; Nonno di Panopoli. Le Dionisiache, IV, Canti 40-48, ed. D. Accorinti, Milano 2004, 138-142.
44 giannakis, Λιθικά, op. cit., 11-13; E. Livrea, ΚΡΕΣΣΟΝΑ ΒΑΣΚΑΝΙΗΣ, Messina-Firenze 1993, 174-178; N. Zito, «Massimo di Efeso e i Lithica orfici», RFIC 140 (2012), 134-166.
45 Halleux, schamp, Lapidaires, op. cit., 51-57.
46 Aggiungere i v. 93 e 100 a quelli citati in I, Analisi letteraria.
47 Vd. Dionisiache, III, ed. agosti, op. cit., 42, dove vengono considerati anche i versi con un adpositiuum. Occupandomi della metrica del Περὶ καταρχῶν, un poemetto astrologico di cui sto curando l’edizione critica e che deve forse essere attribuito a Massimo di Efeso (N. Zito, «Sull’autore del poemetto Περὶ καταρχῶν attribuito a Massimo di Efeso», Eikasmos 23 (2012), 259-276), ho calcolato una percentuale di tetracoli del 14% (considerando anche i versi con un adpositiuum): il dato riveste una certa importanza perché il Περὶ καταρχῶν presenta molti punti di contatto stilistici, tematici e contenutistici con i Lithica: Zito, «Massimo», op. cit.
48 Porfirio. L’antro, ed. Simonini, op. cit., 9-24; G. Agosti, «Interpretazione omerica e creazione poetica nella tarda antichità», in A. Kolde, A. Lukinovich, A.-L. Rey (ed.), Κορυφαίῳ ἀνδρί. Μélanges offerts à A. Hurst, Genève 2005, 19-32; Chuvin, Chronique, op. cit., 160-162.
49 Vd. n. 9 e 10.
50 Agosti, «Interpretazione», op. cit., 26-30.
51 G. Hermann, Orphica, Lipsiae 1805, LIII-LXIV; Giannakis, Λιθικά, op. cit., 9-13; Livrea, ΚΡΕΣΣΟΝΑ, op. cit., 174-178; Zito, «Massimo», op. cit., 151-161.
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