Le rivolte dei poveri
Alcune considerazioni sulle forme di mobilitazione del popolo minuto nelle città comunali italiane (xiii-xiv secolo)
p. 263-278
Texte intégral
1Rivolte, sollevazioni e proteste di vario genere tendevano ad avere, nelle città italiane come nelle altre realtà tardomedievali, un carattere socialmente trasversale, a coinvolgere cioè persone appartenenti a diversi strati della società cittadina. Nonostante ciò, tanto le fonti narrative quanto quelle giudiziarie mostrano, per lo più, una partecipazione maggioritaria dei segmenti inferiori dei ceti produttivi, piccoli bottegai, artigiani, salariati. Questi gruppi, composti da individui di condizione economica piuttosto varia, possono essere considerati «poveri» solo nel senso che non appartenevano alla fascia benestante della popolazione, quella che alimentava in maniera prevalente le élite politiche. I poveri veri e propri, gli indigenti, non partecipavano in modo significativo alle diverse forme di mobilitazione che caratterizzavano i contesti urbani1. Nelle pagine che seguono mi riferirò a questi gruppi sociali con l’espressione «popolo minuto», che nel corso del Trecento si diffuse nelle cronache di diverse città ad indicare, appunto, i meno abbienti, gli strati inferiori del mondo produttivo2.
2La prima parte del contributo porterà l’attenzione sul fatto che dagli ultimi decenni del Duecento le sollevazioni di gruppi di cittadini appartenenti al popolo minuto divennero estremamente frequenti in molte città italiane; talmente frequenti che sembra fuorviante leggerle come eventi eccezionali, rotture imprevedibili dell’ordine politico. Sarebbe forse più opportuno considerarle parte integrante di quest’ordine, del normale funzionamento dei sistemi politici tardocomunali. Si proporranno anche alcune ipotesi sulle ragioni per cui le rivolte divennero così numerose proprio a partire dalla fine del Duecento. La seconda parte si soffermerà invece brevemente sulle nuove forme di protagonismo politico del popolo minuto che si manifestarono in alcune città nella seconda metà del Trecento, accanto alle sollevazioni, che comunque rimasero frequenti anche in questa fase. Anche in questo caso si proporranno alcune considerazioni sul contesto politico che può aver favorito il manifestarsi di questa nuova vitalità.
Le sollevazioni come forma di partecipazione politica del popolo minuto (fine xiii-xiv secolo)
3Nonostante, a partire soprattutto dagli ultimi due decenni del Duecento, i cronisti ricordino un numero molto elevato di sollevazioni, indagini più approfondite negli archivi giudiziari mostrerebbero probabilmente che si tratta solo di una parte di quelle che ebbero effettivamente luogo3. Lo studio della documentazione prodotta dalle curie del podestà e del capitano del popolo di Firenze portò Niccolò Rodolico, nel 1899, a identificare quattro sollevazioni del popolo minuto nell’anno che va dal marzo del 1343 al marzo del 1344, più un’altra nell’agosto 13464. Solo una di esse, quella guidata dal «folle e matto cavaliere popolano» Andrea Strozzi, è ricordata da Giovanni Villani, che pure fu un osservatore acuto di quegli anni5. Questi episodi erano probabilmente così frequenti che anche i cronisti più scrupolosi selezionavano solo quelli che ai loro occhi apparivano più significativi.
4È spesso difficile definire con precisione le ragioni delle proteste del popolo minuto. Nella maggioranza dei casi le sentenze trascritte nei registri giudiziari non riportano le motivazioni dei rivoltosi, e i racconti dei cronisti, quando ci sono, sono a volte confusi nella ricostruzione dei fatti. Anche quando i particolari non sono del tutto chiari, è comunque evidente che le mobilitazioni erano reazioni a un atto, un provvedimento o un comportamento, reale o presunto, delle autorità o di singoli esponenti dell’élite che venivano percepiti come ingiusti, contrari cioè a una giustizia ampiamente intesa, e in qualche modo lesivi della dignità e degli interessi del popolo. Il fine della sollevazione era ristabilire la giustizia, cancellare il torto, spingere le autorità a cambiare direzione, e in molti casi anche punire coloro che erano considerati responsabili dell’infrazione. Le sommosse seguivano un copione, che prevedeva in genere anche forme di violenza ritualizzata, sulle cose e a volte anche sulle persone6. Gli attacchi ai palazzi del potere non erano rari, ancora più frequenti erano gli assalti alle abitazioni di esponenti dell’élite, di persone notoriamente ricche o che comunque godevano di grande visibilità sociale, case che venivano saccheggiate e spesso date alle fiamme, in una sorta di personalizzazione del malcontento. Gli omicidi dimostrativi non erano frequenti ma nemmeno sporadici.
5Le cosiddette rivolte del grano scoppiavano ovviamente in momenti in cui il prezzo dei cereali era particolarmente elevato. Tuttavia, come è stato osservato anche per altre epoche storiche, non erano la disperazione e la fame a spingere i cittadini a sollevarsi, ma la convinzione che il rincaro del grano fosse causato dalla cattiva gestione e dal disinteresse delle autorità o, ancora più spesso, da ciniche speculazioni da parte dei grandi produttori o degli intermediari commerciali, che peraltro in genere facevano parte del ceto dirigente7. Anche in questo caso, dunque, la causa della mobilitazione era la percezione dell’ingiustizia, dell’infrazione delle norme sociali e morali che avrebbero dovuto regolare il rapporto tra le élite e il popolo.
6Mi limito a due tra i numerosi esempi possibili. L’anonimo cronista romano autore della Vita di Cola di Rienzo racconta che nel febbraio del 1353 si levò improvvisamente nel mercato del Campidoglio — il grande mercato settimanale della Roma medievale8 — il grido «puopolo, puopolo!»9. A questa parole d’ordine la folla si riversò al vicino palazzo dei senatori. Uno dei due ufficiali, Bertoldo Orsini, tentò di abbandonare l’edificio, armato dalla testa ai piedi10. La folla lo inseguì e lo lapidò a morte sul posto. A quel punto la rabbia del popolo si placò, e ognuno tornò alle proprie case. L’altro senatore, Stefano Colonna, fuggì travestito calandosi con una fune dalla parte posteriore dell’edificio. La ragione della sollevazione, spiega il cronista, è che, in un momento in cui il prezzo del grano era molto elevato, si era sparsa la voce che i due senatori, appartenenti entrambi a famiglie baronali di grandissimi proprietari fondiari, esportavano il grano per mare fuori da Roma11. Non solo quindi, come grandi produttori, adottavano comportamenti speculativi moralmente riprovevoli, ma in quanto pubbliche autorità venivano anche meno alla loro precisa responsabilità di provvedere ai bisogni della comunità. Il narratore conclude con tono sarcastico: «Vedi maraviglia! Saputa che fu la morte dello senatore lapidato, la carestia de sùbito cessao per lo paiese intorno e fu convenevole derrata de grano.» Almeno nell’interpretazione dell’Anonimo romano, quindi, l’azione dimostrativa del popolo minuto aveva avuto successo, intimorendo gli altri grandi proprietari e convincendoli a convogliare il grano sul mercato romano invece che venderlo al miglior offerente per sfruttare le opportunità speculative offerte dalla carestia. Il brano mette anche in luce come i mercati fossero, insieme alle botteghe e alle taverne, i luoghi nei quali prendeva corpo il dissenso, nelle chiacchiere quotidiane tra gli avventori che toccavano con mano le conseguenze del rialzo dei prezzi.
7Una poco nota sollevazione fiorentina, che rientra tra gli episodi non registrati da alcuna cronaca, presenta numerosi elementi in comune con gli avvenimenti romani del 1353. Nell’agosto del 1368 più di cinquecento persone si riversarono in una loggia dove si vendeva il grano e scaraventarono a terra i sacchi di cereali gridando «viva il popolo»12. Poi sottrassero una notevole quantità di grano, lo trasportarono fino all’ingresso del palazzo dei priori e lì, sempre al grido di «viva il popolo», lo gettarono a terra con violenza. Non contenta, la folla tornò di nuovo alla loggia del mercato, senza mai smettere di inneggiare al popolo, sottrasse una grande quantità di farina e rovesciò anch’essa davanti alla porta del palazzo dei priori. Infine gettò pietre contro le familie dei priori e del podestà, che presidiavano il palazzo. Gli atti del processo, come sempre, non forniscono elementi utili all’interpretazione delle azioni dei rivoltosi, che tuttavia sono molto eloquenti, e costituiscono una «messa in scena» facilmente leggibile per qualsiasi cittadino. Si trattava di un messaggio di protesta e di avvertimento nei confronti dei priori. Il rovesciamento di grano e farina davanti al palazzo dichiarava che la carestia era un inganno, che il grano c’era, e in abbondanza; i priori erano accusati di consentire che esso venisse venduto sul libero mercato (la loggia) a prezzi non accessibili ai segmenti più disagiati della popolazione, venendo meno alla loro precisa responsabilità di provvedere alle necessità dei più deboli. Si tratta quindi di un’azione dimostrativa attentamente orchestrata, non della reazione istintiva di una folla di disperati: nessuno si appropriò del grano, che al contrario venne di fatto reso inservibile.
8Il popolo minuto si sollevava con una frequenza sorprendente contro inadempienze reali o presunte delle autorità. L’ambito giudiziario era forse quello che più spesso attirava le vivaci proteste dei cittadini. Piuttosto comuni erano le mobilitazioni in caso di mancata persecuzione o di assoluzione, in particolare da parte del podestà e del capitano del popolo, che giudicavano i reati di sangue, di persone che l’«opinione pubblica» riteneva colpevoli, in genere appartenenti al ceto magnatizio o all’élite politica. A Firenze nel gennaio del 1295 il potentissimo magnate Corso Donati tentò di uccidere un proprio consorte, Simone Galastrone. L’episodio è narrato sia da Dino Compagni che da Giovanni Villani, con piccole differenze nei particolari, ma sostanziale accordo nell’interpretazione complessiva13. Nella mischia che ne derivò trovò la morte uno dei membri del seguito armato di Simone. Si trattava di un popolare: bisognava dunque applicare gli Ordinamenti di giustizia recentemente approvati14. Il podestà tuttavia assolse Corso Donati, che il popolo minuto riteneva colpevole, e condannò Simone Galastrone. Una folla si sollevò al grido di «Muoia la podestà!» e «A l’arme a l’arme, e viva il popolo!». A nulla valsero i tentativi di mediazione di Giano della Bella, il leader del fronte popolare radicale che nei due anni precedenti aveva dominato la politica cittadina15: il popolo in armi fece irruzione nel palazzo, si impossessò dei cavalli e delle masserizie del podestà, prese prigioniera la sua familia, distrusse gli atti giudiziari, mentre l’ufficiale trovava rifugio in una casa vicina e Corso Donati si dava a una fuga rocambolesca attraverso i tetti della città. In seguito gli oppositori di Giano della Bella, il quale non aveva avuto alcun ruolo nell’episodio, lo accusarono di essere il sobillatore della folla; il capopopolo non volle fare appello ai suoi sostenitori e, per evitare svolte drammatiche, preferì abbandonare la città, decretando di fatto la propria fine politica.
9Questi episodi sono estremamente frequenti in tutte le città. In quello stesso 1295 i calzolai di Bologna assaltarono il palazzo del comune e derubarono il capitano del popolo dei suoi cavalli16. Le cronache bolognesi non sono ricche di particolari come quelle fiorentine. Esse riportano comunque che la causa della sollevazione fu l’assoluzione, da parte del capitano, di un tale messer Ugolino Fogazzi, il cui titolo fa pensare che si trattasse di un cavaliere. Si può quindi ipotizzare che Fogazzi fosse ritenuto colpevole di una violenza contro un calzolaio, e che anche in questo caso fosse l’inadempienza dell’autorità preposta a fare giustizia, il capitano del popolo, a scatenare la mobilitazione. Ne seguì un’inquisitio portata avanti dallo stesso capitano; molti calzolai furono sottoposti a tortura e alla fine la loro arte fu multata per la rilevante cifra di 2000 lire bolognesi.
10Lo sdegno del popolo minuto poteva esplodere prima ancora che la macchina giudiziaria si fosse messa in movimento, solo per il sospetto che la posizione sociale del colpevole potesse inibire le autorità e impedire che fosse fatta rapidamente giustizia. A Pisa nel maggio del 1322 la signoria di Ranieri di Donoratico fu scossa da una serie di disordini17. Tutto nacque, ancora una volta, da una faida nobiliare con chiari retroscena politici. Corbino Lanfranchi uccise Guido da Caprona, figlio di uno dei favoriti del signore, Lippo da Caprona, e uomo che godeva di notevole popolarità. Una prima sollevazione impose la cattura immediata di Lanfranchi, sottoposto a processo lampo e decapitato insieme al fratello. L’irrequietezza delle famiglie nobiliari esplose in una serie di raid che portarono alla morte di tre «possenti popolani»18. Una nuova violenta mobilitazione popolare pretese, secondo il racconto di Giovanni Villani, la condanna di quindici esponenti delle maggiori casate nobiliari. La documentazione pubblica pisana mostra in realtà che nel luglio del 1322, in un clima politico completamente mutato, le magistrature cittadine accolsero le petizioni dei nobili coinvolti e ordinarono la chiusura senza conseguenze dei procedimenti aperti contro di loro presso la curia del capitano del popolo. Ciò non toglie nulla, ovviamente, alla forza della reazione popolare.
11Altrettanto numerose sono le sollevazioni determinate, al contrario, da arresti e condanne ritenuti iniqui, in genere di esponenti dello stesso popolo minuto. Da un episodio di questo tipo ebbe origine per esempio la celebre «rivolta del Bruco» a Siena, nel 137119. La compagnia del Bruco era nata nell’estate del 1370 nella contrada dell’Ovile, abitata soprattutto da artigiani e salariati lanieri, senza palesi intenti sovversivi, nel contesto del cosiddetto «regime dei riformatori», un governo popolare radicale instaurato nel 136820. Nell’estate del 1371 alcuni salariati dell’industria laniera si recarono per una questione salariale dai difensori del popolo, l’organo di vertice del riformato comune senese, composto da quattro dodicini, ovvero esponenti del regime dei dodici, che aveva governato la città dal 1355 al 1368, tre noveschi, scelti tra coloro che avevano seduto tra i nove fino al 1355 (o i loro discendenti), e otto esponenti del «popolo del maggior numero», in larga parte bottegai, artigiani e persino salariati21. I lavoratori non vennero ricevuti e scoppiò un tafferuglio, che portò all’arresto di tre scardassieri, che vennero sottoposti a tortura, mentre si diffondeva la voce che sarebbero stati condannati a morte. I tre appartenevano alla compagnia del Bruco. Tutti i membri della compagnia e altri esponenti del popolo minuto assaltarono allora il palazzo del senatore, il corrispondente del podestà nelle altre città. I tre scardassieri furono liberati, ma la furia della folla non si placò e si rivolse contro esponenti della nobiltà e dei dodicini. Sembra di capire infatti che i rivoltosi individuassero soprattutto nei dodicini che sedevano tra i difensori i responsabili del trattamento riservato ai loro compagni. Tra i dodicini, tra l’altro, c’erano numerosi lanaioli; è evidente quindi che il conflitto economico e il risentimento «di classe» si sommavano allo sdegno per le prevaricazioni giudiziarie. I rivoltosi pretesero infine l’espulsione dai difensori dei quattro rappresentanti dei dodici e anche dei tre dei nove.
12Quello dei riformatori era un regime eccezionalmente aperto e inclusivo22. Tra i riformatori e i difensori sedevano molti uomini assai vicini ai rivoltosi per condizione economica e fisionomia sociale. I primi disordini furono probabilmente determinati anche dalla frustrazione delle aspettative dei lavoratori, che credevano di trovare ascolto presso quello che era a tutti gli effetti un «governo amico». Ma la vera e propria sollevazione non si rivolse contro il regime né contro la magistratura dei difensori. Essa individuò dei bersagli ben precisi nel senatore, in alcuni magnati, nei dodicini e nei noveschi, tutte componenti politiche estranee al «popolo del maggior numero» che deteneva la maggioranza in tutte le istituzioni. Ciò dimostra che la contrapposizione popolo/élite nelle città comunali non dipendeva semplicemente ed esclusivamente dalla distribuzione del potere. L’attribuzione di una persona all’élite era determinata da un insieme complesso di fattori economici e sociali, oltre che politici. I magnati, i dodicini e i noveschi non cessavano di essere percepiti come élite perché si trovavano in una posizione di minorità politica, e non cessavano di conseguenza di essere oggetto di quella che non saprei come altro definire se non come ostilità di classe. Il fatto che, al contrario, una qualche solidarietà di classe legasse i rappresentanti del «popolo del maggior numero» che sedevano nelle magistrature ai rivoltosi è confermato dall’insolita mitezza della reazione alla sollevazione. Mentre in casi analoghi nelle altre città le autorità colpivano coloro che venivano individuati come i sobillatori della folla con pene esemplari, in genere con la condanna a morte, nessuno pagò per le violenze dell’estate del 1371.
13Il popolo minuto faceva sentire con forza e persino violenza la propria voce anche quando la città si trovava di fronte a decisioni di grande peso, destinate ad avere conseguenze rilevanti per la vita dei cittadini. Lo scopo della mobilitazione era in questo caso esercitare pressione sulle autorità perché si allineassero al sentimento popolare. Nel 1327 «i più ricchi e possenti di Pisa», che reggevano la città, secondo le parole di Govanni Villani, per una serie di valutazioni politiche si opposero all’ingresso di Ludovico il Bavaro23. Il Bavaro pose l’assedio, ma dopo un mese, nonostante lo spiegamento di forze, la situazione non si sbloccava. Alla fine il gruppo dirigente pisano, attraversato da conflitti interni, cedette e aprì le porte a Ludovico. Dopo pochi giorni, «non potendo altro per lo popolo minuto», i pisani trasmisero al Bavaro la signoria sulla città. Il popolo minuto, e le forti pressioni che esso esercitava sull’élite politica, si delineano sullo sfondo dell’intero racconto di Villani, che poco prima aveva già spiegato che gli uomini al potere non intendevano imporre nuove tasse per pagare i mercenari «perché il popolo minuto non si levasse contro a. lloro». Il popolo minuto, insomma, era favorevole ad accogliere il Bavaro, in parte per il suo tradizionale e sentito ghibellinismo, in parte, soprattutto, per il dispendio di risorse determinato dalla resistenza militare, che alla lunga era sostenibile soltanto attraverso nuove imposizioni fiscali.
14Dalla fine del Duecento le sollevazioni del popolo minuto sono talmente frequenti che risulta difficile considerarle eventi straordinari. Si trattava invece di una forma tutto sommato ordinaria di interlocuzione tra governati e governanti, di uno strumento tutt’altro che eccezionale utilizzato dai governati per controllare le élite, per fissare limiti precisi alla loro libertà di movimento, e farli rispettare, per richiamarle con forza alle proprie responsabilità politiche e morali. Le rivolte sono in effetti una vera e propria forma di partecipazione politica del popolo minuto, che era certo presente nei consigli più larghi ma non negli organi di vertice, se non, in poche città, in forme estremamente regolamentate e in posizione molto marginale. La maggior parte delle mobilitazioni non aveva come obiettivo il rovesciamento del regime, una trasformazione radicale del quadro politico. Per questo esse sono state spesso liquidate in passato come estemporanee esplosioni di rabbia irrazionale di folle inconsapevoli prive di chiari obiettivi politici. Al contrario, si trattava sempre di azioni organizzate che seguivano un copione preciso perfettamente leggibile agli occhi dei cittadini. Soprattutto, esse esprimevano una cultura politica tutt’altro che inconsapevole, che aveva una propria chiara idea di ciò che era giusto e ciò che non lo era, quali erano i doveri dei governanti, le norme etiche e morali alle quali essi si dovevano attenere, le loro responsabilità nei confronti della collettività.
15Parlare di una contrapposizione netta tra una supposta «cultura popolare» e una «cultura delle élite» sarebbe tuttavia del tutto improprio. La definizione di ciò che era equo e ciò che non lo era, dei compiti e delle responsabilità delle autorità, dei limiti della loro azione era contenuta prima di tutto negli statuti e nei provvedimenti legislativi che venivano periodicamente letti e tradotti in volgare a beneficio dei cittadini. La visione dei doveri dei governanti come emerge dalle rivolte non è in fondo diversa, nella sostanza, da quella che trapela dalle dichiarazioni retoricamente elaborate degli esponenti dell’élite che prendevano la parola nei consigli, nei collegi, nelle commissioni speciali. I fiorentini che si sollevarono nel 1295, i calzolai bolognesi che nello stesso anno attaccarono il capitano del popolo, i pisani che imposero l’incriminazione dei nobili nel 1322 vedevano nell’eccessiva compiacenza dei magistrati la mancata applicazione della legislazione antimagnatizia in vigore in tutte e tre le città. L’ostilità nei confronti dei magnati e la «vittimizzazione» dei popolari erano del resto attentamente coltivate dalle élite popolari attraverso ogni possibile strumento di comunicazione24. I gruppi dirigenti concordavano poi sul fatto che fosse loro dovere assicurare la distribuzione del grano a prezzi accessibili: erano proprio le politiche messe in atto dalle autorità cittadine per garantire il costante approvvigionamento delle città, e le enormi risorse finanziarie impiegate in tempo di carestia, a confermare e alimentare le aspettative del popolo minuto25.
16In tutta Europa dagli ultimi decenni del Duecento l’ampliamento e il rafforzamento delle funzioni e degli strumenti di governo, e dell’armamentario retorico e propagandistico con cui i diversi regimi giustificavano la propria azione, ebbero l’effetto solo apparentemente paradossale di aumentare le aspettative dei governati, e dunque la loro propensione a reagire anche con violenza in caso di reali o presunte mancanze dei governanti26. Si diffuse una cultura politica ampiamente condivisa che definiva in maniera sempre più puntuale le responsabilità dei governanti, il ruolo delle istituzioni politiche nella conservazione della pace sociale, i diritti dei governati, soprattutto dei soggetti economicamente e socialmente più deboli, il concetto di «bene comune». Nell’Italia comunale questi sviluppi si manifestarono in maniera amplificata nei maturi regimi di popolo, categoria nella quale tra la fine del xiii e l’inizio del xiv secolo si possono far rientrare senza sforzo, come ha sottolineato la storiografia più recente, anche molte esperienze signorili27. In altre parole, a mio parere la notevole frequenza delle sollevazioni del popolo minuto a partire dagli ultimi decenni Duecento non fu determinata in prima battuta da un peggioramento delle condizioni economiche di artigiani e salariati, ma fu piuttosto un «effetto collaterale» del consolidamento politico e «discorsivo» dei regimi popolari, della forza e della pervasività della propaganda popolare, che impregnava ogni scrittura pubblica, risuonava nei consigli, ritornava anche negli statuti delle corporazioni artigiane e delle società di popolo a base vicinale.
17Detto questo, insistere troppo sulla condivisione rischia di tracciare un quadro eccessivamente irenico. È evidente che la cultura politica popolare non contemplava e non ammetteva il diritto di resistenza o di protesta da parte dei governati. Al contrario, i rumores erano la vera ossessione dei regimi di popolo. Gli statuti sono pieni di norme volte a vietare gli assembramenti e le riunioni non autorizzate e a predisporre complicati piani di mobilitazione militare dei cittadini in caso di tumulti28. La preoccupazione dei governi di popolo crebbe costantemente a partire dalla fine del Duecento, in parallelo alla moltiplicazione delle rivolte. Nei primi decenni del Trecento, in particolare dagli anni ‘20, essi si dotarono di strumenti sempre più autoritari per mantenere l’ordine pubblico e controllare il dissenso. Spesso la repressione delle sollevazioni era seguita da condanne esemplari, che non sembrano tuttavia aver scoraggiato i protagonisti delle mobilitazioni. Qui si collocava in effetti la cruciale frattura, la divergenza insanabile se non tra due diverse culture politiche, di certo tra due diverse interpretazioni della stessa cultura politica: il popolo minuto, i gruppi sociali in gran parte esclusi dalle «stanze del potere», ritenevano un loro inalienabile diritto indirizzare, correggere e arginare l’azione delle élite, le quali consideravano invece la conservazione del «buono e pacifico stato», ovvero la difesa dello status quo politico e il mantenimento dell’ordine pubblico, altrettanto importante della tutela del bene comune29.
18Come si è detto, la maggior parte delle sollevazioni non aveva come obiettivo un cambio di regime. Il «colpo di stato», tuttavia, non era un’eventualità inconcepibile, un tabù insuperabile: in circostanze particolari il popolo minuto poteva mobilitarsi per ottenere un radicale mutamento politico. È indubbio che, quasi sempre, le rivolte di questo tipo erano organizzate e manovrate da singoli esponenti dei gruppi dirigenti o fazioni interne all’élite che intendevano colpire gli avversari e modificare gli equilibri di potere30. I responsabili del piano sovversivo facevano certo leva su un effettivo e diffuso malcontento, ma in molti casi l’indignazione del popolo minuto poteva essere istigata, o perlomeno fortemente amplificata. Nel 1329 i romani si sollevarono contro Guglielmo d’Eboli, vicario di Roberto d’Angiò, che deteneva la signoria sulla città in accordo con il papato avignonese31. Una grave carestia colpiva gran parte dell’Italia, e il prezzo del grano sul mercato romano era molto elevato. La mobilitazione era rivolta contro re Roberto, che agli occhi dei cittadini avrebbe potuto facilmente venire incontro ai loro bisogni facendo arrivare il grano dal regno meridionale, dove ce n’era in abbondanza. Guglielmo d’Eboli fu assalito e deposto, e fu sostituito dai due baroni Stefano Colonna e Poncello Orsini, eletti senatori a furor di popolo. A quel punto, osserva Giovanni Villani, che racconta l’episodio, i due «feciono venire in piazza» il loro grano e quello degli altri grandi proprietari, e sedarono il tumulto. Ciò che Villani suggerisce più o meno velatamente è cioè che i baroni, con una cinica speculazione politica, avessero a bella posta trattenuto il loro grano per cavalcare l’esasperazione dei cittadini e rivolgere la loro rabbia nei confronti del vicario forestiero, in modo da tornare a esercitare la carica di senatori.
19Episodi simili a questo sono numerosi; essi confermano comunque che, nella visione del popolo minuto, il rovesciamento del regime era un’eventualità contemplabile in determinate ed eccezionali circostanze, in particolare quando era portato — o indotto — a credere che i nuovi governanti avrebbero avuto un atteggiamento più attento ai suoi interessi e bisogni. In caso di offese o provocazioni ritenute particolarmente gravi e imperdonabili, tuttavia, il popolo minuto non aveva bisogno di sollecitazione esterne. A Firenze nel 1343, nel pieno della rivolta contro il duca d’Atene, si costituì un comitato provvisorio sotto la direzione del vescovo Angelo Acciaiuoli, composto da sette magnati e sette popolani esponenti delle famiglie più in vista del popolo grasso32. Dopo la resa del duca il comitato guidò la ricomposizione dell’ordine politico. Esso non solo sospese gli Ordinamenti di giustizia, ma riammise i magnati in tutte le cariche di vertice, compreso il priorato. Questo attentato ai fondamenti stessi del regime di popolo provocò una reazione infuriata. La folla si riversò nella piazza dei priori minacciando di appiccare il fuoco al palazzo se i priori popolani non avessero cacciato dall’ufficio i magnati33. Alla fine questi ultimi furono fatti uscire e condotti sotto scorta alle loro case «con grande paura». Nei giorni seguenti i magnati misero a ferro e fuoco la città, ma la resistenza di tutte le componenti popolari — compreso il popolo grasso, a quel punto terrorizzato — finì per avere la meglio. Qualcosa di analogo accadde a Siena nel 136834. La resa senza colpo ferire del regime dei dodici portò all’istituzione di una nuova magistratura, i consoli, composta da dieci esponenti delle famiglie magnatizie e tre dei nove. Anche in questo caso il popolo reagì con rabbia; nei giorni seguenti la resistenza dei magnati fu vinta grazie all’intervento dell’inviato di Carlo IV, Malatesta Ungaro dei Malatesta di Rimini, al comando di un contingente di cavalieri. Questi episodi confermano quanto già osservato per le sollevazioni «giudiziarie»: il forte attaccamento emotivo del popolo minuto alla legislazione antimagnatizia e agli altri principi fondamentali dei regimi popolari.
Nuove forme di protagonismo politico del popolo minuto (seconda metà xiv secolo)
20Determinare il rovesciamento di un regime non significa di per sé e automaticamente rivendicare una più diretta partecipazione politica. Si tratta al contrario di un’azione del tutto compatibile con una visione rigida della separazione tra governanti e governati: consiste in effetti nella sostituzione dei governanti contestati con altri governanti, proprio come accadde a Roma nel 1329. Le occasioni nelle quali il popolo minuto tentò di farsi forza di governo, di ottenere cioè una rappresentanza diretta negli organi di vertice del comune, sono assai meno numerose delle sollevazioni analizzate finora e, soprattutto, assai meno uniformemente distribuite nel tempo: in effetti, esse si concentrano in gran parte nella seconda metà del Trecento. Il caso più noto è senza dubbio quello del tumulto dei Ciompi fiorentini nel 137835. I Ciompi, tuttavia, non furono affatto gli unici, e nemmeno i primi a imprimere questa svolta alle ambizioni politiche degli strati inferiori del mondo produttivo. Al contrario, il tumulto seguì molte altre esperienze che andavano, magari in maniera meno radicale, ma non per questo meno decisa, nella stessa direzione.
21In effetti Firenze fu la prima città che conobbe questi sviluppi, più di trent’anni prima dei Ciompi. Le vicende convulse del 1342-43 — la signoria del duca di Atene, la sua deposizione, l’effimero governo «magnatizio», la rivolta che cacciò di nuovo i magnati dalle cariche di vertice — misero fortemente in crisi gli equilibri politici che avevano retto per qualche decennio, e la preminenza indiscussa del popolo grasso. Nella riforma del priorato si stabilì che almeno tre degli otto membri del collegio dovevano obbligatoriamente appartenere alle arti minori: era la prima volta nella storia del comune di popolo fiorentino che gli «artefici minuti» si vedevano garantita una rappresentanza stabile nel collegio di vertice36. Gran parte degli altri priori eletti tra il 1343 e il 1348 erano esponenti delle arti maggiori estranei alle famiglie dell’élite economica e politica cittadina, «uomini nuovi» perlopiù privi di esperienza politica. È il governo degli «artefici minuti idioti e ignoranti e sanza discrezione e avolontati» che suscitò il disprezzo di Giovanni Villani37.
22Dopo il 1348 la fase più radicale si concluse, ma nei decenni successivi il priorato mantenne una base sociale decisamente ampia38. I membri delle arti maggiori estranei all’élite e gli artigiani delle arti minori fecero spesso fronte comune, e in alcuni momenti, con il sostegno di esponenti del popolo grasso, appartenenti in particolare alle famiglie dei Ricci, dei Medici e degli Alberti, riuscirono a imporre scelte politiche di rilievo39. Nelle fonti questa coalizione socio-politica è indicata con espressioni come populares et artifices, populares, mercatores et artifices e simili. Agli inizi degli anni ‘70 la coalizione dei populares et artifices, che aveva trovato un leader in Salvestro Medici, prese di fatto le redini della politica cittadina, emarginando l’opposizione, guidata dai magnati e da potenti famiglie del popolo grasso come gli Albizzi, gli Strozzi, i Rucellai, che si riconosceva nella parte guelfa, l’organo politico rigidamente elitario preposto alla preservazione dell’«ortodossia» guelfa della città. È in questo contesto politico assai aperto che scoppiò il tumulto dei Ciompi.
23A Siena già il regime dei dodici, fondato nel 1355 dopo che una rivolta scoppiata in occasione dell’ingresso in città di Carlo IV aveva rovesciato il regime dei nove, che governava la città da settant’anni, aveva una base sociale assai più ampia di quello precedente40. Nel 1368, significativamente in occasione del nuovo passaggio in Toscana dell’imperatore, prese forma il regime dei riformatori, che, come si è già accennato, attribuiva la maggioranza politica al «popolo del maggior numero», composto da bottegai, artigiani e persino salariati41.
24Nello stesso anno Pisa viveva una delle esperienze politiche più interessanti della sua storia comunale, quella della compagnia di S. Michele. In quel momento la città era governata dal vicario di Carlo IV, Gualtieri di Hochschlitz42. La compagnia era un’associazione giurata fondata da esponenti del «ceto medio imprenditoriale», in particolare lanaioli e ritagliatori di panni, del tutto estranei all’élite mercantile cittadina e privi di esperienza politica. Alla compagnia aderì formalmente l’universitas delle sette arti, l’organizzazione che riuniva le sette corporazioni artigiane politicamente riconosciute, cuoiai, calzolai, pellicciai, fabbri, tavernai, vinai, notai. L’associazione aveva un proprio programma politico, incentrato in particolare sul contrasto alla lotta di fazione tra bergolini e raspanti, i due «partiti» che si contendevano il potere, e sulla pacificazione cittadina, ma anche sul contenimento delle pulsioni oligarchiche delle famiglie del gruppo dirigente e su chiare istanze di ampliamento della base sociale di reclutamento dell’organo di vertice del comune pisano, gli anziani del popolo. Ponendosi sotto la protezione imperiale la compagnia riuscì per breve tempo a dettare la linea politica, e all’inizio del 1369 a eleggere un collegio anzianale in totale autonomia. La compagnia si sciolse poco dopo il ritorno in città di Pietro Gambacorta, che esercitò da subito una forte influenza politica, formalizzata nel 1370 con l’assunzione della signoria. È interessante tuttavia notare che nei primi anni ‘70 Pietro promosse riforme fiscali e monetarie apertamente favorevoli al popolo minuto, che anticipavano per molti versi quelle introdotte dal governo delle arti minori che avrebbe retto Firenze tra il 1378 e il 138243.
25Dieci anni prima, alla fine degli anni ‘50, a Roma era stata fondata la «Felice società dei balestrieri», che assunse rapidamente un ruolo politico centrale nel comune romano44. Associazione giurata sul modello delle società armate popolari di inizio Duecento, come la compagnia di S. Michele, la Felice società presenta numerosi altri punti di contatto con l’omologa pisana, a cominciare dalla base sociale, espressione di una coalizione tra i più vivaci imprenditori estranei all’élite cittadina, i piccoli bottegai e gli artigiani, presenti questi ultimi in maniera rilevante nei suoi organi direttivi.
26A fronte di numerosi successi ci furono alcuni gravi insuccessi, che sono comunque ulteriori, evidenti testimonianze dell’esistenza di un nuovo orizzonte di aspettative per gli strati inferiori del mondo produttivo. Fu in questa fase che Lucca, da poco tornata città autonoma grazie a Carlo IV, che l’aveva sottratta al dominio pisano, conobbe quella che sembra essere l’unica rivolta artigiana della sua storia45. Il cronista Giovanni Sercambi data il tumulto al febbraio del 137146, ma le sentenze di condanna degli organizzatori, pronunciate dal podestà, collocano la vicenda alla fine di luglio del 137047. Tra i leaders della sommossa solo uno, Nuccino Sornachi, apparteneva a una famiglia di un certo rilievo. Gli altri erano Niccolao Lippi sarto, Pieretto del fu Giovanni tessitore, Stefano da Quarto battiloro, maestro Lorenzo calzolaio, Bindinello di Tadiccione e Lotto di Taldo tessitore. Il loro piano sovversivo avrebbe dovuto concretizzarsi il 25 luglio del 1370. Quel giorno essi avrebbero dovuto mobilitare i loro «amici» in armi, riuniti nella chiesa di San Giorgio, e assaltare il palazzo degli anziani, per cacciare gli anziani in carica e sostituirli con altri di loro scelta. In seguito i rivoltosi avrebbero dovuto attaccare e saccheggiare le case dei Guinigi e di altri potenti esponenti dell’élite mercantile.
27Nella contrada di S. Giorgio, nell’angolo nord-occidentale della città, nei pressi delle mura, si concentrava l’industria conciaria, che per ragioni di igiene pubblica doveva essere tenuta lontana dalle vie del centro. In questa zona erano confinate anche le attività legate all’industria cartaria e ad alcune fasi della manifattura laniera48. Si trattava cioè dell’area industriale di Lucca, destinata alle lavorazioni che producevano fetore e nuocevano al decoro della città e alla salute dei suoi abitanti. Nella contrada di S. Giorgio vivevano e lavoravano molti piccoli artigiani, ma anche numerosi lavoratori salariati addetti ad alcune delle mansioni più faticose, insalubri e logoranti della manifattura medievale.
28In ogni caso, la congiura fu svelata e la mobilitazione non ebbe luogo. Pieretto tessitore, tuttavia, piombò nel palazzo degli anziani con un coltello nascosto sotto il mantello e, una volta scoperto, fuggì attraverso la città sollevando un tumulto al grido di «Lunga vita al popolo49». Quando Nuccino Sornachi fu arrestato, una minacciosa folla armata si radunò nella piazza di San Michele in Foro. Il piano sovversivo alla fine fallì, ma l’obiettivo dei cospiratori era chiaro: essi intendevano modificare gli equilibri di potere e provocare un cambio di regime. La rivolta fu estesa, e fu sedata con difficoltà.
29Tutti i casi citati fin qui sono relativi a città che avevano continuato — o, nel caso di Lucca, avevano ripreso — a essere governate da regimi popolari. Esperienze simili tuttavia sembrano aver caratterizzato anche alcune città signorili, anche se hanno suscitato meno interesse nella storiografia. Nel maggio del 1385 a Ferrara una sollevazione del popolo minuto — populus seu plebs minor nelle parole di un cronista vicentino50 — guidata a quanto pare da un muratore e un macellaio portò all’uccisione del vicario di Niccolò e Alberto d’Este, signori della città, il cui corpo fu poi bruciato dopo essere stato oggetto anche di atti di cannibalismo51. Il vicario era ritenuto responsabile di una politica fiscale vessatoria. Le fonti sottolineano che i rivoltosi non misero in discussione il potere dei due signori; la mobilitazione si inserisce senza difficoltà nel quadro tracciato nella prima parte di questo lavoro. Tuttavia il giorno seguente gli Este accettarono di intavolare con il populus contrattazioni che, secondo la stessa cronaca vicentina, durarono addirittura due mesi e portarono a un forte alleggerimento dei carichi fiscali. Il popolo minuto, in altre parole, fu per la prima volta riconosciuto come interlocutore politico, e la necessità di trattare con i signori comportò probabilmente anche la definizione di richieste condivise e la nomina di rappresentanti. È in questo clima che, nel settembre dello stesso anno, fu scoperta una congiura che mirava all’abbattimento della signoria e all’istituzione di un governo popolare52. Tra i tredici proditores individuati c’erano tre notai, tre rigattieri (strazaroli), un sarto e due personaggi privi di cognome, Francesco di Gregorio e Alberto detto Nervoso, che appartenevano probabilmente allo stesso strato sociale53. Il successo di maggio aveva incoraggiato alcuni settori del popolo minuto a tentare un’azione decisamente più ambiziosa, e forse impensabile pochi mesi prima. Il piano sovversivo fu comunque scoperto, e i suoi ideatori impiccati in piazza: i signori dovevano rimediare all’immagine di debolezza che avevano mostrato nell’occasione precedente.
30In varie città dunque nella seconda metà del Trecento piccoli bottegai, artigiani, salariati, in diverse combinazioni e proporzioni, a seconda della struttura socio-economica, cercarono di infrangere il «soffitto di cristallo» che li teneva lontani dagli organi di governo dei comuni, o li ammetteva in forme del tutto subordinate. Dalla breve rassegna proposta dovrebbe apparire chiaro che il nuovo protagonismo del popolo minuto non fu determinato da una svolta autoritaria dei regimi comunali; al contrario, esso fu la conseguenza della crisi di forme di governo che, a partire soprattutto dagli anni ‘20 del Trecento, avevano assunto connotazioni più spiccatamente autoritarie, oltre che oligarchiche. I primi decenni del secolo erano stati infatti caratterizzati quasi ovunque da processi di concentrazione del potere nelle mani di gruppi piuttosto ristretti di famiglie appartenenti alle élite economiche, che avevano messo a punto strumenti istituzionali ed elettorali volti a controllare gli organi di vertice e a escludere o comunque marginalizzare le altre componenti sociali e politiche, dagli «uomini nuovi» che emergevano attraverso le attività commerciali e industriali ai bottegai e a tutto il variegato mondo dei mestieri54. Allo stesso tempo, i gruppi dirigenti si erano dotati di strumenti più efficaci per reprimere il dissenso e controllare l’opposizione politica55. Questi sviluppi, che sono parte di quel rafforzamento degli strumenti e delle ideologie di governo al quale si è fatto cenno nelle pagine precedenti, avevano caratterizzato tanto i regimi signorili quanto quelli che avevano mantenuto forme «repubblicane»56.
31In numerose città nella seconda metà del Trecento si riscontra un evidente indebolimento della capacità delle élite — e in alcuni casi del potere signorile — di controllare lo spazio politico. È questo in effetti il principale elemento che accomuna i contesti nei quali si manifestò il nuovo attivismo politico degli strati inferiori del mondo produttivo. Le cause, come si è visto, sono diverse e specifiche da città a città, ma il fenomeno è così generalizzato che meriterebbe ulteriori approfondimenti, che ne indaghino anche il possibile collegamento con i processi di redistribuzione della ricchezza conseguenti alla peste. Non sembra un caso che nell’unica città in cui tali sviluppi si delinearono prima della peste, Firenze, essi coincisero con la crisi irreversibile delle maggiori compagnie commerciali cittadine, i cui soci, soprattutto a partire dagli anni ‘20, avevano di fatto diretto la politica cittadina in una forma particolarmente diretta di «plutocrazia57».
32In ogni caso, la rottura di equilibri politici che sembravano ormai cristallizzati, e il conseguente disorientamento delle élite, alimentò le aspettative del popolo minuto e cambiò loro di segno, rendendo concepibile e quasi a portata di mano ciò che prima era difficilmente pensabile: non solo controllare i governanti e richiamarli alle loro responsabilità, ma anche affiancarli, quando non, più radicalmente, prendere il loro posto, infrangendo la linea di demarcazione invisibile ma non per questo meno reale tra governanti e governati.
33In conclusione, le mobilitazioni dei segmenti inferiori dei ceti produttivi divennero particolarmente frequenti a partire dagli ultimi decenni del duecento. Esse si intensificarono parallelamente al rafforzamento degli apparati e delle ideologie di governo. Man mano che aumentava la capacità delle élite di governare, e di giustificare sul piano discorsivo il proprio predominio, aumentavano anche le aspettative dei governati e il loro livello di frustrazione quando esse non venivano soddisfatte. Quando, a partire dalla metà del Trecento, per ragioni diverse e specifiche nelle diverse città, la presa politica delle élite si indebolì, il popolo minuto sviluppò l’ambizione di infrangere il confine tra governati e governanti, che bene o male fino a quel momento era stato rispettato, o perlomeno dato per scontato.
34È tuttavia un errore, a mio parere, enfatizzare eccessivamente le differenze tra gli episodi della prima metà del Trecento e le esperienze della seconda metà del secolo, anche quelle più rivoluzionarie come il tumulto dei Ciompi. Almeno dalla fine del Duecento gli strati inferiori del mondo produttivo dimostrano già una notevole consapevolezza politica, una visione complessa dei rapporti di potere e un’articolata interpretazione di concetti come giustizia e bene comune. Le sollevazioni non erano mai eventi improvvisati, reazioni irrazionali e scomposte di folle disperate, ma erano azioni organizzate e pianificate che seguivano un copione prestabilito. L’attitudine rivoluzionaria della seconda metà del Trecento non rappresenta tanto il manifestarsi di una consapevolezza politica nuova, quanto un mutamento di prospettive, aspettative e ambizioni, determinato in gran parte dalla crisi dei sistemi politici che si erano consolidati alla fine del Duecento.
Notes de bas de page
1 Stella, 1993, p. 94.
2 Anche a Firenze l’etichetta «popolo minuto» mantenne per gran parte del Trecento un’accezione ampia, a indicare le classi più umili, bottegai e artigiani, almeno i meno benestanti, oltre che salariati. Non lascia dubbi in proposito Giovanni Villani, che trattando del governo popolare radicale instauratosi nel 1343 scrive: «Nel detto anno del mese di giugno e di luglio, signoreggiandosi il reggimento di Firenze per lo popolo minuto […], cioè per le capitudini di tutte l’arti» (Villani, Nuova Cronica, XIII, 32). Qui egli intende in particolare gli iscritti alle arti minori, ammessi nel nuovo regime in percentuale sconosciuta fino a quel momento. Solo a partire dal tumulto dei Ciompi l’espressione tese a designare soprattutto gli esclusi dalla rappresentanza corporativa, cioè salariati, discepoli e sottoposti delle arti maggiori. La migliore definizione rimane quella di Samuel Cohn: «that more amorphus class, which corresponded roughly to the poorest half of working Florentine men and women and which Charles de la Ronciére has argued forcefully conceived of itself on the eve of the Ciompi in religious, social and political term as “the poor”»: Cohn, 1980, p. 73, riferendosi a La Roncière, 1974.
3 Cohn, 2004 presenta un’antologia di testimonianze cronachistiche e giudiziarie relative a un’ampia varietà di rivolte, tradotte in inglese. Questi testi costituiscono la base documentaria per Cohn, 2006.
4 Rodolico, 1968 [1899], nn. 8 (pp. 92-93), 9 (pp. 93-94), 14 (pp. 102-104), 15 (pp. 104-105), 19 (pp. 108-109).
5 Villani, Nuova Cronica, XIII, 20.
6 È interessante notare la notevole somiglianza tra gli episodi del Trecento e quelli dei secoli successivi: Beik, 1990.
7 È d’obbligo il riferimento a Thompson, 1971. Si veda anche Beik, 2007 e Walter, 2013.
8 Modigliani, 1998.
9 Anonimo Romano, Cronica, XXVI. L’episodio è narrato anche da Matteo Villani: Villani, Nuova Cronica, III, 67. Sull’atteggiamento dei cronisti nei confronti delle carestie si veda Palermo, 1984, che analizza anche questa rivolta.
10 Su Bertoldo Orsini Vendittelli, 2013.
11 Sulle famiglie baronali romane Carocci, 1993.
12 Rodolico, 1968 [1899], n. 11, pp. 97-99.
13 Compagni, Cronica, I, 15; Villani, Nuova Cronica, IX, 8.
14 Sugli Ordinamenti di giustizia si veda Diacciati, Zorzi, 2013, con riferimenti alla bibliografia precedente.
15 Su Giano della Bella mi limito a rimandare a Poloni, 2013a e 2013b per i riferimenti alla bibliografia precedente.
16 Corpus chronicorum bononensium, pp. 241-242.
17 Poloni, 2004, pp. 310-317; Ciccaglioni, 2009. Sulla signoria di Ranieri e degli altri membri dei Donoratico Id., 2013.
18 Villani, Nuova Cronica, X, 153.
19 Sulla rivolta del Bruco Wainwright, 1987; Franceschi, 2008. Si veda inoltre Poloni, 2016a.
20 Sul regime dei riformatori Wainwright, 1983; Poloni, 2016a; Id., in corso di stampa.
21 La principale fonte su questo episodio è la cronaca di Donato di Neri: Cronaca senese, pp. 639-641. Per un’analisi si vedano gli studi citati alla nota 19.
22 Si vedano gli studi citati alla nota 20.
23 Villani, Nuova Cronica, XI, pp. 34-35.
24 Raveggi, 1994.
25 Su queste politiche si veda ora Magni, 2015, anche per i riferimenti alla bibliografia precedente.
26 Watts, 2009, pp. 158-256, in particolare pp. 270-282.
27 La bibliografia sul comune di popolo e sulla sua cultura politica è sterminata. Mi limito qui a rimandare, per ulteriori riferimenti storiografici, alle sintesi di Artifoni, 2003; Poloni, 2010 e 2012; Milani, 2014. Per l’interpretazione «popolare» delle esperienze signorili a cavallo tra Due e Trecento si veda in particolare Rao, 2011b.
28 Poloni, 2007.
29 Ciccaglioni, 2005.
30 Maire Vigueur, 2008.
31 L’episodio è narrato da Villani, Nuova cronica, XI, 118. Si veda anche Palermo, 1984. Sulla signoria di Roberto d’Angiò su Roma Caciorgna, 1995.
32 Per una ricostruzione degli eventi Najemy, 2006, pp. 137-138.
33 Villani, Nuova Cronica, XIII, 19.
34 Cronaca senese, p. 619.
35 Tra i contributi più recenti sul tumulto dei Ciompi Lantschner, 2015, pp. 131-168; Poloni, 2016a; Petralia, 2019, ai quali si rimanda per la vasta bibliografia sull’argomento; la ricostruzione più chiara degli eventi si trova in Screpanti, 2008.
36 Najemy, 2006, pp. 138-139.
37 Villani, Nuova cronica, XIII, 43.
38 I riferimenti bibliografici essenziali sono Brucker, 1962, e Najemy, 2006, in particolare pp. 132-187.
39 Becker, 1962.
40 Wainwright, 1983; Poloni, in corso di stampa.
41 Wainwright, 1987; Poloni, in corso di stampa.
42 Ciccaglioni, 2010; Poloni, 2014; Id., in corso di stampa.
43 Silva, 1911, pp. 107-134.
44 Maire Vigueur, 2010, pp. 352-370.
45 Analizzata in Poloni, 2016a.
46 Le Croniche di Giovanni Sercambi, I, pp. 204-205.
47 Archivio di Stato di Lucca, Sentenze e bandi, n. 43, 1370, carte non numerate, a. 1370. Le sentenze sono riportate in regesto, in traduzione inglese, in Cohn, 2004, pp. 130-132, che tuttavia data erroneamente la vicenda al luglio 1369.
48 Su questi aspetti Poloni, 2016a.
49 Si veda il documento citato alla nota 42.
50 Conforto da Costoza, Frammenti di storia vicentina, p. 32.
51 Maire Vigueur, 2008, pp. 371-373.
52 Ibid., pp. 373-374.
53 Chronicon estense, col. 511.
54 Questi processi sono stati studiati particolarmente bene per Firenze, in particolare da Najemy, 1982. Per altri esempi Poloni, 2016a.
55 Vallerani, 2010.
56 A partire in particolare dagli anni ’20 nei regimi signorili si consumò quella che Andrea Zorzi ha efficacemente definito «mutazione signorile»: Zorzi, 2010.
57 Poloni, 2016b.
Auteur
Università di Pisa
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