Le occorrenze dell’io
p. 129-140
Texte intégral
1Comincerò senz’altro dal termine «occorrenza che apre il titolo del mio intervento per chiarirne l’accezione qui intesa, che non è quella di «presenza», quindi anche di «ricorrenza», che esso ha in sede linguistica.
2Chi si occupa delle forme di scrittura primaria – diari, lettere, autobiografie – sa bene infatti che la presenza dell’io pur se ribadita non è garanzia e condizione «sufficiente» per investire un testo della patente di veridicità. Se d’altro canto la finzione insidia e incalza anche le scritture dell’io, come avrò modo di ricordare più avanti, quando si voglia tenere come discrimine la presenza del pronome di prima persona singolare è noto che qualsiasi discorso sulle scritture autobiografiche rischia di sconfinare indebitamente nell’autobiografismo, per andare ad annegare nei terreni e generi più diversi, in prosa come in poesia.
3La ricorrenza dell’io, peraltro, non è neppure condizione «necessaria’perché un testo possa riscuotere in questa sede la nostra attenzione: se nel Novecento Italo Svevo poteva scrivere a Eugenio Montale che La coscienza di Zeno «è un’autobiografia e non la mia. Molto meno di Senilità»1, tornando all’arco temporale che qui interessa è noto che per narrare la propria vita ci fu chi scelse la terza persona, come accade in tutte le scritture autobiografiche che nei primi decenni del secolo xviii vennero scritte nell’ambito del Progetto ai letterati d’Italia per iscrivere le loro Vite, proposto dal nobile friulano Giovanartico di Porcìa nel primo numero del giornale letterario «Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici» uscito nel 1728. Tra queste, la Vita di Giambattista Vico scritta da sé medesimo, pubblicata ad inaugurare il Progetto nel 1729 ma stesa forse nel 17232.
4Può essere inoltre interessante ricordare che la tensione protagonistica propria dell’io e comunque l’impulso autobiografico può invadere anche territori esterni a quello della memoria personale strictu senso, quali ad esempio il genere della trattatistica. Se, all’estremo lembo cronologico del territorio che qui stiamo esplorando e che per quanto riguarda il mio ambito di pertinenza viene a coincidere con la figura di Vittorio Alfieri, il trattato Del Principe e delle lettere – scritto fra il 1778 e il 1786 e pubblicato a Kehl nel 1788 – può essere letto come un’autobiografia in terza persona3, quelli Dell’oreficeria e Della scultura di Benvenuto Cellini contengono squarci autobiografici piuttosto ampi, e il primo di essi sarà utile, come avrò modo di spiegare più avanti, per penetrare in alcuni dei meccanismi che hanno presieduto alla composizione della Vita.
5Di ulteriori elementi di complessità si arricchisce il quadro che stiamo tracciando qualora si tenga presente che la voce verbale maggiormente deputata all’atto della memoria, e di quella personale qualora sia coniugato al singolare, cioè «ricordare», non sempre viene a coincidere con una soggettività che riflette sul proprio passato a beneficio di sé e/o di altri, e che dal momento che su quel passato riflette va anche a modificarlo, necessariamente, dal punto di vista del tempo presente nel quale sta ricordando, per fletterlo nelle direzioni lungo le quali gli eventi che ne sono seguiti hanno condotto i suoi percorsi esistenziali. Questo risulta con evidenza nella scrittura dei «libri di famiglia», forma non letteraria, di destinazione privata, sviluppatasi in ambito mercantile a partire dal XIV secolo pressoché in tutta la penisola italiana e proseguita almeno in certe zone fino al secolo XIX, seppure il suo declino sia cominciato nel secolo XVIII4. Caratterizzati dal ricorso ad una sorta di formulario fisso, in bilico fra la scrittura documentaria di registrazione e quella diaristica, in tali libri l’enunciazione è di frequente caratterizzata da un incipit verbale al tempo presente e alla prima persona singolare, e appartenente all’area semantica della memoria: il verbo «ricordare», come si diceva, e anche, per esempio, «notare».
6Trarrò qualche esempio da colui che è certamente il più noto estensore di tali libri di famiglia, cioè Francesco Guicciardini, che cominciò a redigere il suo libro delle Ricordanze il 13 aprile 1508, data nella quale egli fonda la sua famiglia:
Ricordo come a dì 22 di dicembre in detto anno io confessai havere ricevuto da Alamanno Salviati per parte di dote della Maria mia donna e sua figliuola, fiorini 1040 di sugello […].
Ricordo come a dì 20 di dicembre 1513 la notte a hore 9 venendo e’21, piacque a Dio chiamare a sé la benedecta et santa anima di Pietro mio padre, di che tornando io dalla ambasceria di Spagna et essendo in Piacenza, hebbi nuove a tempo, non avevo notitia alcuna della malattia.
Ricordo questo dì 4 di febraio 1527 come insino a dì… di maggio prossimo la Maria mia donna con tre delle mie figliuole andò a Vinegia per fuggire e’pericoli delle risse di Firenze, di mia commissione, chè andavo in campo5.
7Ebbene, quanto risulta di interesse in questo momento è osservare che il verbo «ricordare» alla prima persona singolare, ma potrebbe anche essere «fo ricordo, noto» e simili, si riferisce certo sempre, in questo e negli altri libri di famiglia, a chi, a partire dalla prima annotazione, si è nominato come l’estensore del libro, ma non per esprimere la soggettività di un io che ricorda, bensì come attestazione di attendibilità, che alla memoria individuale sostituisce l’oggettività della registrazione: qualcosa, si vuol dire, di simile all’atto notarile6.
8La ricorrenza di formulari, aree semantiche, convenzioni definisce, si sa, l’esistenza di un genere, e tale è ormai ritenuto quello dei libri di famiglia. Riconoscimento, questo, tanto più interessante quanto incerto, dai confini sfumati, contraddistinto dalla libertà del codice, e dal rischio continuamente corso di trasformarsi in qualcosa d’altro è l’autobiografia7. Si tratta, inoltre, di un riconoscimento che ci trasporta dentro un altro aspetto proprio delle scritture della memoria personale, quello cioè che induce a interrogarsi su cosa può mutare nella definizione del sistema dei generi, e più in generale nel panorama della letteratura italiana, attestare l’imponenza di fenomeni tenuti ai margini da una cultura che per secoli ha usato la censura e l’esclusione e che in questo senso ha il proprio capostipite in Pietro Bembo. Ma su questo, più avanti.
9Per il momento, attenendomi al solo rapporto tra le forme di scrittura primaria ricordo la tendenza costante che esse hanno a contaminarsi a vicenda, a invadere i reciproci territori di pertinenza: così accade per l’«attrazione» che la scrittura epistolare subisce sia verso il diario che verso l’autobiografia. Verso il primo l’attrae fatalmente la situazione stessa dell’atto enunciativo, che per entrambe le forme di scrittura vede il situarsi dell’io nello spazio-tempo del presente; inoltre, la continuità nel tempo, seppure per gli epistolari tale continuità venga ristabilita a distanza e intermittenza con destinatari diversi. Verso la seconda, la tentazione costante all’autoritratto, che in molti casi rappresenta il fine stesso dell’epistolario8.
10Si tratta di condizioni, quelle elencate nel capoverso precedente, che vengono a trovarsi tutte compresenti negli epistolari che cominciarono a venire pubblicati nei decenni centrali del Cinquecento, cioè i «libri di lettere d’autore». Due date possono essere utili per esemplificare in breve una questione piuttosto complessa: il 1538 e il 1548, che sono rispettivamente l’anno d’uscita del primo libro di lettere di Pietro Aretino, e del primo di Pietro Bembo, pubblicato postumo per le cure dei suoi esecutori testamentari ma secondo la precisa volontà dell’autore9. Vale a dire, del libro di lettere di Aretino, che esprime con forza uno dei temi centrali del Rinascimento, cioè la centralità del soggetto, anticipando l’istanza autobiografica alla quale darà compiuta realizzazione Benvenuto Cellini con la sua Vita, e di quello di Bembo, che sul versante del «canone» linguistico sarà, com’è noto, uno dei punti di riferimento indiscussi del Rinascimento, tanto da continuare a restare tale per i secoli a venire. Avvicinare questi due autori, allora, trova ragion d’essere nel fatto che essi possono venire assunti, ognuno a modo suo, come i traghettatori, per così dire, delle risultanze più alte del Rinascimento verso l’irrigidimento dei decenni successivi nell’Italia della Controriforma. Certo, l’accostamento fra i due autori può sembrare stridente, se li si vede come i rappresentanti a livello linguistico rispettivamente della norma (Bembo) e dell’antinorma (Aretino), ma lo parrà di meno qualora si tenga presente che di opposizione si tratta ma di tipo speculare, che non mette in realtà in discussione da parte del poligrafo toscano le ragioni dell’altro: non si tratta solo di riconoscere che la dimensione verbale di Aretino è quella della caricatura e della parodia, smisurate «nell’iperbole come nell’ipobole», cioè verso l’alto e verso il basso10, ma anche il fatto che identificare linguisticamente personaggi popolari mediante il linguaggio comico, come egli fa nella sua scrittura teatrale, significa da parte sua confermare la validità del canone bembiano.
11Seppure militando su fronti almeno apparentemente opposti, dunque, sia Aretino che Bembo contribuiscono alla nascita del «libro di lettere» e ne anticipano già le successive trasformazioni. Entrambi, cioè, fanno da padrini alla nascita di un genere vero e proprio che ben presto si appellerà all’eredità classica delle Familiares del mondo classico per motivare a livello di poetica l’irrigidimento e la distanza sempre più netta rispetto alla dimensione del quotidiano, dimensione che nutre invece, ancora nei primi decenni del Cinquecento, la feconda scrittura epistolare, e strettamente privata, di un Ariosto e di un Castiglione. Bembo e Aretino, ancora, ne sanciscono ciascuno a suo modo, l’involuzione imminente: Bembo teorizza in alcune delle sue lettere la «sprezzatura» che deve dissimulare le tensione stilistica, così che esse vengono a rappresentare «la forma e lo essempio» per coloro che intendono «scrivere ornatamente»11. Aretino dedica le sue lettere ai reggitori di stati, e addirittura a Enrico VIII re d’Inghilterra, per costruire di sé l’immagine di uomo libero ma ben fornito di solidi appoggi politici. La naturale evoluzione di simili posizioni sarà la figura del «Segretario»: del 1564 è il trattato di Francesco Sansovino intitolato appunto Del segretario, che sancisce la funzione utilitaristica che devono assolvere i libri di lettere, cioè quella di rappresentare un campionario pratico di scrittura; del 1627 è l’edizione postuma delle Lettere del Marino, ordinate per «capi», cioè per argomenti, secondo un criterio che sarà sempre più privilegiato già a partire dal secondo Cinquecento.
12Già concepita per la pubblicazione sarà però, ben prima, già la maggior parte degli epistolari che vennero dati alle stampe negli ultimi decenni del secolo XVI: non senza, però, che si levassero voci dissenzienti, e ci basti ricordare qui l’esempio di Sperone Speroni (intellettuale padovano vissuto tra il 1500 e il 1588) che in una lettera a Benedetto Rambeschi osserverà la paradossalità dello status stesso della lettera a stampa, e sceglierà l’autocensura totale non autorizzando mai la pubblicazione delle sue lettere in un volume autonomo.
13Ma è tempo di tornare al punto dal quale sono partita, e dichiarare quale significato riveste per me, all’interno di questa indagine, il termine «occorrenza», che non è, come si diceva, «ricorrenza» ma «essere necessario». La domanda che sorge, allora, è la seguente: cosa «occorre», cosa è necessario all’io per esprimere la propria soggettività, per depositare la propria memoria personale nella scrittura in una cultura della selezione, dell’esclusione, della censura quale è stata per buona parte dell’età moderna quella italiana12?
14Restiamo ancora, per un po’, nel terreno degli epistolari, per ricordare la pubblicazione postuma, tra 1572 e 1573 delle Lettere familiari di Annibale Caro, in due tomi curati rispettivamente dai nipoti Giovan Battista e Lepido Caro, e stampati a Venezia presso Aldo Manuzio il Giovane con il titolo di De le lettere familiari, portando così a compimento una volontà a lungo accarezzata dal Caro e troncata dalla morte. Nel quadro dello sviluppo della scrittura epistolare tracciato sopra per sommi capi, tale pubblicazione pare andare a incrinarlo, perché testimonia il progetto da parte del loro estensore di far convivere la scelta di genere – qui di registro comico-burlesco – con la tradizione del capitolo che avvicina la lettera familiare al saggio e, in taluni luoghi, alla «cicalata»13. Ne risulta un impasto espressivo interessante, che testimonia la notevole forza espressiva di questo marchigiano che in merito alla questione della lingua dichiarava di non voler «esser tenuto d’usare nè la Boccacevole nè la Petrarchevole, ma solamente la pura, e pretta toscana d’oggidì, e della comune quella parte, che ancora da essi Toscani è ricevuta14».
15A titolo di esempio riporto di seguito un breve passaggio da una lettera di Caro al fiorentino Luca Martini, dalla quale emerge con evidenza l’impasto linguistico adottato dall’autore:
E’possibile che quei de’Martini che sono balzati ne la Ficaia siano vostro padre, e vostro zio? O, io ho riso tanto che avrei portato maggior pericolo del brachiero, se l’avessi, che quel vostro de gli occhiali. E ancor rido a pensare come a nominare Martini non mi sia venuto un minimo pensier di voi […] Ma vi arei ben fatto un’altra tresca intorno, la quale per aventura sarebbe stata con più mia e vostra soddisfazione, perché non mi arebbono tenuto le catene ch’io non vi avessi dipinto a mio modo, come ho fatto del Bernia, di Trifone e di quelli altri padri, che vi sono. E di questo non mi posso dar pace, che avendone avuta occasione, me l’abbia così bubolata15.
16Soluzione linguistica interessante, questa di Annibale Caro, tanto più per il fatto di apparire alle stampe nei primi anni Settanta – per quanto gli estremi di nascita e morte dello scrittore (1507-1561) collochino la maggior parte della sua attività nella prima metà del secolo – ma che tende, nel suo complesso, ad attestarsi sulla linea di una «medietas», soprattutto a livello di conoscenza della realtà, che non va ad incidere in profondità al di là e oltre il tessuto del quotidiano.
17E’opportuno, allora, retrodatare ancora l’indagine, per cercare nel primo Cinquecento possibilità non raccolte per l’espressione dell’io, realizzazioni censurate, percorsi possibili che potevano essere alternativi alla censura e al criterio dell’esclusione che la cultura italiana ben presto avrebbe messo in opera, e che anzi già stava facendo scegliendo gli imperativi bembiani: le Prose della volgar lingua appaiono, ricordo, nel 1525, ma già da tempo l’opera di normalizzazione era in atto secondo le direttive dell’intellettuale veneziano, e su quelle Ludovico Ariosto preparava la seconda edizione dell’Orlando Furioso che apparirà nel 1521.
18Ho accennato, sopra, alle lettere «familiari» scritte da Castiglione e Ariosto, prolifici epistolografi entrambi che verso la scrittura epistolare mantennero sempre un approccio rigorosamente privato. Ebbene, delle lettere private che Niccolò Machiavelli scriveva «non se ne salvava registro16». Non è perciò possibile parlare di epistolario in quanto corpus sufficientemente compatto e unitario da sottoporre al giudizio critico17, ma quanto è giunto sino a noi consente di verificare una volta di più quel trapasso continuo tra le forme di scrittura primaria che ho ricordato sopra: nello specifico basti ricordare la nota lettera di Machiavelli all’amico Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 dove per la prima volta si trova menzione della composizione del libello De principatibus, e nella quale lo scrittore, seguendo il «modulo responsivo» che governa molta della sua scrittura epistolare, stila a beneficio del corrispondente una sorta di diario della sua «giornata tipo», come si potrebbe dire.
19Ma non solo: le lettere di Machiavelli agli amici e colleghi della cancelleria delineano ad un tempo un tessuto quotidiano di rapporti intonato al comico, allo scherzo, allo scambio anche di ingiurie che nello spazio della lettera si modella su esempi burchielleschi e pulciani18, e testimoniano l’apertura della lettera anche ad altri generi non di natura privata quali il capitolo, la novella, il trattato dialogato, la poesia amorosa e quella burlesca. Sono peraltro, questi, elementi propri non solo della scrittura epistolare di Machiavelli e della sua cerchia, che avevano già una tradizione classica e che, in prospettiva, avranno una naturale evoluzione nel romanzo epistolare. Quello su cui vogliamo attirare l’attenzione è piuttosto una particolare disposizione di Machiavelli nei confronti della realtà, disposizione di tipo conoscitivo e perciò anche linguistico, che soggiace peraltro alla composizione delle sue opere maggiori, sia letterarie che storiche e politiche.
20Torno perciò alla lettera già menzionata del 10 dicembre 1513 a Vettori, per mera questione di praticità dovuta alla diffusa conoscenza che essa gode; ricordo, brevemente, che essa si apre con un preambolo che assolve la funzione fàtica di ripristinare il rapporto epistolare con l’amico, che si trova a Roma, e anche di introdurre il contenuto della lettera in virtù delle considerazioni sul rapporto tra uomo e Fortuna con le quali esso si chiude:
Et poiché la Fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto et non le dare briga, et aspettar tempo che la lasci fare qualche cosa agl’uomini; et allhora starà bene a voi durare più fatica, veghiare più le cose, et a me partirmi di villa et dire: eccomi19.
21Segue la descrizione della sua giornata secondo il modulo responsivo già ricordato, elencando cioè i diversi momenti di essa in rapporto con quanto a lui narrato di sé da parte del corrispondente: la caccia, la sosta nel bosco, la rissosità dei dipendenti, la lettura di poesia d’amore, la sosta all’osteria, il ritiro serale nel proprio studio, «rivestito condecentemente» per prepararsi al colloquio con gli antichi, ciascun momento narrato secondo il registro linguistico che gli compete. Si trascorre così dal comico al medio al tragico, secondo una compresenza che caratterizza molte di queste lettere, e basti come esempio la nota descrizione della sua sosta in osteria: «Così rinvolto entra questi pidocchi traggo el cervello di muffa, et sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi20». Ora, ciò che è proprio di Machiavelli, e che esprime il suo personalissimo modo di percepire la realtà, è la capacità di vivere senza sfasature, senza iati, la complessità e contradditorietà della realtà, perché, come egli scriverà sempre a Francesco Vettori il 31 gennaio 1515, «noi imitiamo la natura, che è varia; et chi imita quella non può essere ripreso21».
22Ora, il significato e il ruolo più profondo, non ancora abbastanza posto in evidenza, che Machiavelli incarna nell’Umanesimo-Rinascimento consiste proprio nell’utilizzare, per esprimere la realtà, una lingua che vorremmo definire «laica», nel senso di assenza di mediazioni e di censure, percettive come linguistiche come ideologiche: una lingua anche, perciò, non data a priori, non tramandata, ma, se necessario, inventata di volta in volta22.
23Alla luce di queste considerazioni non stupisce perciò che Ariosto, il quale aveva già fatto evidentemente le sue scelte, non menzioni Machiavelli, che pure ben conosceva23, nel lungo elenco di intellettuali, cortigiani e cortigiane che nell’ultimo canto del’Orlando furioso attendono a riva il narratore di ritorno dal suo lungo viaggio. Così Machiavelli esprimerà, seppur scherzosamente, il proprio risentimento in una lettera del 17 dicembre 1517 a Lodovico Alamanni:
Io ho letto a questi dí Orlando Furioso dello Ariosto, e veramente el poema è bello tutto, et in molti luoghi è mirabile. Se si truova costí, raccomandatemi a lui, et ditegli che io mi dolgo solo che, havendo ricordato tanti poeti, che m’abbi lasciato indrieto come un cazo, et ch’egli ha fatto a me quello in sul suo Orlando, che io non farò a lui in sul mio Asino24.
24Passo ora agli anni centrali del Cinquecento, un po’oltre la soglia di metà secolo: 1558-1566. Sono gli anni durante i quali il fiorentino Benvenuto Cellini in parte detta ad un garzone di bottega e in parte scrive direttamente la propria vita, forse come reazione alla sua esclusione dalle Vite de’più eccellenti pittori, scultori ed architettori di Vasari, uscite in prima edizione nel 1550 per i tipi dell’editore Torrentino, di Firenze, e in seconda nel 1568 presso Giunti. A queste Vite, e inoltre, tra le altre scritture autobiografiche di contemporanei, al Memoriale di Baccio Bandinelli, artista ufficiale nella corte del duca Cosimo I a Firenze e suo rivale, e anche alla tradizione della scrittura mercantile certamente questa Vita si riallaccia. Ma uno dei nodi critici fondamentali di quest’opera, che per opinione concorde della critica viene indicata come la prima autobiografia moderna per il forte senso dell’individualità che l’impronta, riguarda la cultura di Cellini e la «letterarietà» o meno di quest’opera, caratterizzata da un uso costante della deformazione linguistica mediante iperboli, meccanismi di derivazione e alterazione e da una sintassi che si dipana per scorci e scarti improvvisi, in un contesto di circostanze e personaggi che l’autore relaziona in rapporto a se stesso mediante netti rapporti contrastivi di tipo positivo e negativo. Velocemente segnalo casi come «un certo vecchione orefice», l’iterazione a distanza ravvicinata di superlativi anche di forme avverbiali ecc.25
25Ora, senza addentrarci troppo addentro queste problematiche critiche, offro alla lettura l’ incipit della Vita: «Tutti gli uomini d’ogne sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa, o sì veramente che le virtù somigli, doverieno, essendo veritieri e da bene, di lor propia mano descrivere la loro vita26» e propongo di confrontarlo con quello del Principe di Machiavelli: «Tutti gli stati, tutti e’dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati27».
26Si tratta in entrambi i casi di due affermazioni categoriche, che in comune hanno sia il sintagma incipitario «tutti gli» + sostantivo plurale, sia il verbo della relativa che segue immediatamente coniugato al passato prossimo: «hanno fatto» nel primo esempio, «hanno avuto» nel secondo. E, ancora, si veda la presenza in entrambi gli incipit della disgiuntiva «o», presenza dotata di una forte connotazione teorica, com’è noto, nel Principe, come peraltro il verbo «dovere», presente anche nell’affermazione di Cellini. Tutti questi elementi concorrono in entrambi i casi a costruire un ritmo sintattico ascendente nella prima parte, e una più rapida chiusura discendente nella seconda parte del periodo.
27E ancora: nella sua Vita Cellini si descrive come un personaggio a tutto tondo perennemente in lotta con la Fortuna mediante la propria Virtù, e già Cesare Pavese poneva nel suo diario l’autobiografia celliniana all’origine del romanzo moderno. Tale rapporto tra Fortuna e Virtù non risulta peraltro particolarmente pregnante ai fini di poter ipotizzare un legame diretto fra Machiavelli e Cellini, trattandosi di una tematica tipicamente rinascimentale, ma può essere utile spostarsi al Trattato dell’oreficeria, che insieme a quello Della scultura lo scrittore stenderà dopo l’interruzione della Vita, e in particolare al capitolo XII, dove egli stabilisce un preciso rapporto di causalità fra potere e «virtù» dell’artista: laddove c’è un principe che dà l’«occasione» all’artista di esprimere le proprie capacità, l’arte potrà fiorire, in caso contrario decaderà. L’«occasione», si ricorderà, appartiene alla terminologia tecnica, per dir così, del Principe, e rappresenta la parte calcolabile, prevedibile della Fortuna, che solo chi è dotato di «virtù» saprà cogliere e sfruttare a proprio vantaggio. A tale argomento Machiavelli dedicherà il capitolo VI del Principe, secondo la consueta tecnica di fornire esempi dal passato che dimostrino la giustezza delle «regole» enunciate.
28Riporto di seguito un passo particolarmente significativo nella direzione che sto tracciando dal Trattato dell’oreficeria di Cellini:
La causa di fare gli uomini virtuosi si è quando e’s’abbatte in una età, nella qual sia un buon principe che si diletti di tutte le sorti delle virtù; come intervenne ne’tempi del primo Cosimo de’Medici, il quale le favorì grandemente: per la qual cosa e’ dette l’occasione a Filippo di ser Brunellesco e a Donatello e a Lorenzo Ghiberti. Il detto Filippo architettò tanto bene quanto si possa immaginare; Donatello sculpì in marmo, in bronzo e ancora dipinse tanto eccellentemente, quanto si possa arrivare con la difficile arte. Lorenzo Ghiberti fece le porte di San Giovanni di bronzo, le quali non hanno mai aùto pari al mondo. Di poi venne Lorenzo de’Medici, sotto il quale si fece il meraviglioso Michelagnolo Buonaroti, il quale non aveva potuto ancora dar saggio della sua gran virtù; ma volse Iddio che papa Giulio secondo, il quale avea non tanto il dilettarsi grandemente, ma egli se ne intendeva, perché e’messe in opera Bramante architetto, il quale era un pittoruccio di poco credito, ma egli avea per natura tanta buona inclinazione alla bella maniera dell’architettura che conosciutolo il buon papa Giulio gli dette grandissimo animo, non tanto al mettergli grand’opere innanzi quanto fu il darli mille scudi d’entrata28.
29Segnalo, nel passo in questione, oltre alla presenza del termine «occasione» – che non è un «hapax» e compare anche altrove nel testo29 – l’espressione «come intervenne ne’tempi», che pare riecheggiare pressoché letteralmente il passo del capitolo vi del Principe «come ne» nostri tempi intervenne a fra Ieronimo Savonarola30. Più in generale, però, è l’articolazione del discorso celliniano, che procede per concatenazioni ed esemplificazioni storiche sorrette da un legame di necessità, a richiamare i procedimenti logici che Machiavelli mette in atto nel Principe, e che peraltro governano tutta la sua scrittura. L’ipotesi di lavoro che qui propongo, come credo risulti evidente, è in sostanza che Cellini abbia modellato il personaggio di se stesso, sul versante artistico, sulla figura del principe in perenne lotta tra Virtù e Fortuna, tra il rischio continuo di «ruinare» e la tensione opposta a conquistare e mantenere il potere («felicitare») che Machiavelli aveva descritto nel suo trattato, che esce postumo, ricordo, nel 1532, e che perciò l’artista-scrittore fiorentino, nato nel 1500, molto probabilmente conosceva.
30Non è inoltre da trascurare il fatto che entrambi attingevano ad una lingua comune – il fiorentino – secondo modalità affatto distanti, seppure certo a livelli diversi di consapevolezza e cultura, caratterizzate dalla sostanziale «aproblematicità» nei riguardi della morfologia31 e dal libero uso della lingua in tutti i suoi strati.
31Seguendo la traccia celliniana, procedo ora avanti nel tempo per approdare al secolo xviii: com’è noto, infatti, la Vita rimase interrotta e inedita fino al 1728, trovando solo ora, nell’attenzione per l’individualità che caratterizza a livello europeo tutto il periodo, l’ambiente culturale che meglio poteva recepirne l’originalità. Non solo un ambiente in generale, ma lettori particolarmente inclini ad accogliere e attualizzare il modello autobiografico che Cellini aveva costruito.
32Tralascio l’entusiasmo fragoroso che Baretti esprime dalle pagine della «Frusta letteraria» nel 1764, per chiamare in causa invece Vittorio Alfieri. Nobile, piemontese, francofono nella sua formazione culturale, quindi molto distante, almeno apparentemente dal sanguigno, popolare e fiorentino Cellini, di questi non compare traccia nell’autobiografia che Alfieri cominciò a stendere a Parigi pare nel 1790, quindi nella fase iniziale della Rivoluzione francese32; sappiamo però che nel 1789, sempre a Parigi, egli si fa leggere dal segretario la Vita33, come sappiamo, peraltro, che anche altri stimoli portano in questi anni a maturazione l’inclinazione verso il diario che egli aveva manifestato assai presto34: tra gli altri, ricordo Rousseau e lo stesso Goldoni, i cui Mémoires escono a Parigi 1787.
33Ora, se la Vita di Cellini era stata la storia di un destino35, della propria vocazione all’arte faticosamente conquistata a dispetto dapprima del «buon padre» che lo voleva musicista, e poi via via di tutte le insidie della vita e degli uomini, anche la Vita di Alfieri è la storia di una vocazione alla poesia. Ma, soprattutto, la storia della faticosa conquista di sé a se stesso si identifica con la conquista della lingua italiana, cioè toscana, che va in direzione esattamente opposta sia all’ambiente di origine, che alle tendenze generali della sua età, e tra i suoi contemporanei mi limito a menzionare il «trilinguismo» di Goldoni36, che dal veneziano passerà all’italiano e poi al francese.
34Della direzione inversa del suo procedere Alfieri era peraltro ben consapevole, come si legge in vari luoghi della sua Vita, tra i quali mi limito a citare il seguente passo:
E certo, se questi ultimi famosi uomini francesi, come Voltaire e Rousseau, avessero dovuto gran parte della loro vita andarsene erranti in diversi paesi in cui la loro lingua fosse stata ignota o negletta, e non avessero neppur trovato con chi parlarla, essi non avrebbero forse avuto la imperturbabilità e la tenace costanza di scrivere per semplice amor dell’arte e per mero sfogo, come faceva io, ed ho fatto poi per tanti anni consecutivi, costretto dalle circostanze di vivere e conversare sempre con barbari; che tale si può francamente denominare tutta l’Europa da noi, quanto alla letteratura italiana; come lo è pur troppo tuttavia, e non poco, una gran parte della stessa Italia, sui nescia. Che se si vuole anche per gl’Italiani scrivere egregiamente, e che si tentino versi in cui spiri l’arte del Petrarca e di Dante, chi oramai in Italia, chi è che veramente e legga ed intenda e gusti e vivamente senta Dante e il Petrarca? Uno in mille, a dir molto. Con tutto ciò, io immobile nella persuasione del vero e del bello, antepongo d’assai (ed afferro ogni occasione di far tal protesta) di gran lunga antepongo di scrivere in una lingua quasi che morta, e per un popolo morto, e di vedermi anche sepolto prima di morire, allo scrivere in codeste lingue sorde e mute, francese ed inglese, ancorchè dai loro cannoni ed eserciti elle si vadano ponendo in moda37.
35Tra i morti che Alfieri preferisce come interlocutori rispetto ai contemporanei c’è Machiavelli, più volte citato nella Vita con venerazione, del quale conosce il Principe nel 1768 nel corso del suo soggiorno all’Haja grazie ad un nuovo amico, allora ministro del Portogallo in Olanda38, uomo di grande cultura e fondamentale stimolo agli studi in questa fase della sua giovinezza. Definito come «il nostro profeta politico39», l’immagine che di Machiavelli Alfieri dà nella Vita è quella di un grande pensatore e scrittore, vittima di «quei pregiudizi con cui nelle nostre educazioni ce lo definiscono senza mostrarcelo, e senza averlo i detrattori di esso né letto, né inteso se pur mai visto l’hanno40». Più avanti, nell’Epoca quarta, il Machiavelli delle Istorie fiorentine, con «quel suo dire originalissimo e sugoso» avrebbe «invasato» lo scrittore piemontese costringendolo, secondo le sue stesse parole, ad abbandonare qualsiasi altro studio e «come inspirato e sforzato a scrivere d’un sol fiato i due libri della Tirannide»41.
36Opportunamente Gianfranco Folena ha parlato per Alfieri di «violenta riconquista della tradizione linguistica42», perché l’aggettivo «violenta» esprime con precisione l’uso che lo scrittore fa della lingua nella Vita, che si caratterizza, com’è noto, per il polimorfismo e la «vertiginosa inventiva» a livello lessicale43, e per una sintassi che alterna strutture tradizionali e talvolta iperletterarie a tratti innovativi. Mi limito ad una veloce schedatura lessicale, come le forme derivative «gallicheria», «burattinesco»; parasindetiche come «disceltizzarsi», «disvassallarsi», «insperanzire»; neoformazioni tramite la fusione di voci già esistenti, come «scimiotigri», «servi padroni», ecc.
37Se per «quella spontanea e triviale naturalezza» che Alfieri voleva per la sua autobiografia44 uno dei modelli è stato dunque Benvenuto Cellini, a questi deve senz’altro essere accostato anche Machiavelli, che aveva già, da tempo, forgiato la lingua per esprimere, senza mediazioni e censure, tutta la complessità e contradditorietà del sentire e dell’agire umano.
Notes de bas de page
1 Svevo, Epistolario.
2 Tale retrodatazione viene proposta da A. Battistini, che ne fornisce le motivazioni nell’edizione delle Vico, Opere, pp. 1231-1232. Lo studioso tornerà sulla questione nel volume Battistini, 1995, p. 41.
3 Tale secondo Fubini si può considerare il trattato in questione: Fubini, 1954, p. 110.
4 Si tratta di un vasto materiale è a tutt’oggi solo parzialmente edito. La parte edita riguarda per lo più l’area geografica toscana e tre-quattrocentesca. Per la problematica inerente ai libri di famiglia si rinvia in particolare agli studi ad essi dedicati da A. Cicchetti e R. Mordenti: Cicchetti, Mordenti, 1984; degli stessi autori è il volume Id., 1985. Entrambi gli studiosi sono ancora intervenuti sulla questione nel numero dei Quaderni di retorica e poetica, 2, 1985; Mordenti, 2001, pp. 11-18; Cicchetti, 1985.
5 Si rinvia a Cicchetti, Mordenti, 1985, pp. 62, 64 e 67. Nelle citazioni sopra riportate e in quelle successive, i corsivi e i puntini di sospensione posti fra parentesi quadra sono da intendersi come miei, salvo avvertenza contraria.
6 Come afferma Mordenti nel saggio già citato (Mordenti, 2001, p. 15).
7 Su questi aspetti propri dell’autobiografia si veda Starobinski, 1975, p. 204. Per un inquadramento di base dei problemi teorici e critici relativi all’autobiografia si segnalano almeno i seguenti fondamentali studi e le relative bibliografie: Guglielminetti, 1977; Id., 1986; Lejeune, 1986; Battistini, 1990; Anglani, 1996a; Id., 1996b; Caputo, Monaco, 1997; D’intino, 1998; Tassi, 2007. F. D’Intino è recentemente tornato sul problema in D’intino, 2011: si legge in Tinterri, Tortora, 2011, pp. 17-45.
8 Di «attrazione» della scrittura epistolare nei confronti della scrittura diaristica parla Basso, 1985, pp. 41-47.
9 Uscito per le cure di C. Gualteruzzi e G. Quirini: Bembo, Delle lettere di M. Pietro Bembo, Primo volume apparve a Roma nel 1548 per i tipi di Dorico; nel 1551 venne stampato a Venezia il Secondo volume presso gli eredi di A. Manutio. Sempre a Venezia, presso Scotto, nel 1552 uscì l’edizione completa in quattro volumi. Per una essenziale bibliografia sui «libri di lettere» in volgare del Cinquecento si rinvia Quondam, 1981; Braida, 2003, pp. 273-292; Id., 2009; Genovese, 2009. Si veda inoltre lo studio di Schiavon, 2009-2010.
10 Come precisa Folena, 1991, p. 211.
11 Così A. Manutio nella dedicatoria «al Clarissimo M. Girolamo Quirino» del Secondo volume delle Lettere di Bembo (1551, c. n. n. 7r).
12 Fondamentale, su questo aspetto della cultura italiana, il volume di Prosperi, 1996.
13 Come precisa Folena, 1991, pp. 202 sq. E in particolare la p. 207 e n.
14 Caro, Commento di Ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima ficata del Padre Siceo, p. 19.
15 Caro, Lettere familiari, vol. 1 (Dicembre 1531-Giugno 1546), pp. 156-157.
16 Così G. de Ricci, Apografo: la citazione si legge nella Introduzione a Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini, p. 5 e n.
17 Come precisa G. Inglese in Machiavelli, ibid., pp. 5-7.
18 Per questi aspetti della scrittura epistolare di Machiavelli si rinvia a Ferroni, 1972, pp. 215-264.
19 Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini, p. 193.
20 Ibid., p. 194.
21 Ibid., p. 284.
22 Secondo E. Giammattei, è individuabile un filone di ‘ lingua laica’, da intendersi in accezione retorica, nella cultura italiana otto-novecentesca: si rinvia al suo: Giammattei, 2008.
23 Come precisa C. Bologna nella sua lettura dell’Orlando Furioso dell’Ariosto che si legge in Bologna, 1993, p. 233.
24 Si legge in Machiavelli, Opere, p. 357.
25 Su Cellini scrittore sia qui sufficiente il rinvio ai saggi di Borsellino («Cellini scrittore») e Altieri Biagi («La “Vita” del Cellini») che si leggono in Convegno sul tema: Benvenuto Cellini artista e scrittore, 1974, rispettivamente alle pp. 17-31 e pp. 61-163.
26 Cellini, Opere, p. 59.
27 Machiavelli, Il Principe, p. 7.
28 Cellini, Opere, pp. 674-675.
29 Si veda ibid., p. 677.
30 Machiavelli, Il Principe, p. 36.
31 Per quest’ordine di problemi si rinvia a Chiappelli, 1952.
32 Fa il punto sui problemi filologici inerenti alla stesura dell’autobiografia alfieriana Dossena nella sua Prefazione a Alfieri, Vita scritta da esso, 1951, pp. xxiv sq.
33 Fassò, «Introduzione» a Alfieri, Vita scritta da esso, p. xv.
34 Sull’attitudine alfieriana alla scrittura diaristica, si rinvia a Dossena, «Prefazione» a Alfieri, ibid., pp. vii-xxii.
35 Come sottolinea Guglielminetti, 1977, pp. 314-316.
36 Come Folena definisce l’esperienza linguistica di Goldoni in Folena, 1983, p. 96 sq.
37 Alfieri, Vita scritta da esso, 1951, pp. 241-242.
38 Così a me pare di evincere da quanto Alfieri racconta, ibid., p. 86.
39 Ibid., p. 248.
40 Ibid., p. 86.
41 Ibid., p. 174.
42 Folena, 1983, p. 30.
43 Tomasin, 2009, p. 219.
44 Come egli afferma in Alfieri, Vita scritta da esso, p. 7: «Quanto poi allo stile, io penso di lasciar fare alla penna, e di pochissimo lasciarlo scostarsi da quella triviale e spontanea naturalezza, con cui ho scritto quest’opera, dettata dal cuore e non dall’ingegno; e che sola può convenire a cosí umile tema».
Auteur
Università Ca’Foscari-Venezia
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
La gobernanza de los puertos atlánticos, siglos xiv-xx
Políticas y estructuras portuarias
Amélia Polónia et Ana María Rivera Medina (dir.)
2016
Orígenes y desarrollo de la guerra santa en la Península Ibérica
Palabras e imágenes para una legitimación (siglos x-xiv)
Carlos de Ayala Martínez, Patrick Henriet et J. Santiago Palacios Ontalva (dir.)
2016
Violencia y transiciones políticas a finales del siglo XX
Europa del Sur - América Latina
Sophie Baby, Olivier Compagnon et Eduardo González Calleja (dir.)
2009
Las monarquías española y francesa (siglos xvi-xviii)
¿Dos modelos políticos?
Anne Dubet et José Javier Ruiz Ibáñez (dir.)
2010
Les sociétés de frontière
De la Méditerranée à l'Atlantique (xvie-xviiie siècle)
Michel Bertrand et Natividad Planas (dir.)
2011
Guerras civiles
Una clave para entender la Europa de los siglos xix y xx
Jordi Canal et Eduardo González Calleja (dir.)
2012
Les esclavages en Méditerranée
Espaces et dynamiques économiques
Fabienne P. Guillén et Salah Trabelsi (dir.)
2012
Imaginarios y representaciones de España durante el franquismo
Stéphane Michonneau et Xosé M. Núñez-Seixas (dir.)
2014
L'État dans ses colonies
Les administrateurs de l'Empire espagnol au xixe siècle
Jean-Philippe Luis (dir.)
2015
À la place du roi
Vice-rois, gouverneurs et ambassadeurs dans les monarchies française et espagnole (xvie-xviiie siècles)
Daniel Aznar, Guillaume Hanotin et Niels F. May (dir.)
2015
Élites et ordres militaires au Moyen Âge
Rencontre autour d'Alain Demurger
Philippe Josserand, Luís Filipe Oliveira et Damien Carraz (dir.)
2015