Gli archivi e la polis (problemi nuovi e vecchi alla luce di alcuni recenti documenti)
p. 53-71
Texte intégral
1La recente pubblicazione di un’iscrizione rinvenuta nel corso degli scavi di Iaso ha aggiunto un nuovo interessante documento al ricco dossier di testi che gettano luce sul tema, oggi vivacemente discusso, degli archivi pubblici e delle pratiche archivistiche nelle città greche1. Di tale dossier l’iscrizione significativamente riassume in sé tutti i caratteri generali e, attraverso le questioni che pone, le problematiche, al punto da poter rappresentare un utile punto di partenza per la nostra analisi. Essa riporta infatti il testo, purtroppo lacunoso, di un decreto di Iaso attribuibile su base paleografica e storica ai primi anni del ii sec. a. C., che a sua volta ordinava la ripubblicazione di un decreto ateniese in onore di tre cittadini della stessa Iaso approvato, secondo la convincente proposta degli editori, nell’inverno tra il 412 e il 411 a. C., quindi più di 200 anni prima, prescrivendone inoltre l’incisione “su uno stipite delle parathyrides dell’archeion prostatikon” (ἀναγρά[φω]σιν ἐπὶ μιȃς παρα[στ]άδος τῶν παραθ[υρ]ίδων τῶν τοῦ ἀρχε(ί]oυ τοῦ προστατικο[ῦ] τò ѱήφισμα τò γραφ(ὲν] ὑπò τοῦ δήμου [τ]οῦ Ἀθηναίων ὑπὲρ τιμῶν Ἀναξαγóραι καὶ Ἀ[ρ]τέμωνι καὶ Κυδίαι. οὖ ἐστιν ἀντίγραφον τóδε) (l. 5-16). Esempi, pur sporadici, di ripubblicazione epigrafica di documenti d’archivio, anche a lunga distanza di tempo, non sono sconosciuti nel mondo greco, a cominciare dalla stessa Iaso2, ma in questo caso un elemento induce ad una certa cautela: il Kydias autore della mozione, data l’omonimia, era infatti con ogni verisimiglianza un discendente di uno dei tre onorati e, a voler essere scettici, nulla esclude che il testo dello psèphisma ateniese fosse stato rintracciato non negli archivi cittadini bensì tra le memorie private della famiglia di Kydias.
2Allo stesso modo, rimane ambigua, nell’iscrizione, l’interpretazione del riferimento all’archeion prostatikon. R. Fabiani propone infatti di individuare in quest’ultimo “una sezione specializzata all’interno di quello che doveva essere l’archivio ‘centrale’ cittadino” (p. 97), ma, nuovamente, nulla impone di escludere l’ipotesi che esso vada più semplicemente identificato con il locale che costituiva la sede ufficiale dei προστάται (e che, come tale, poteva anche – e anzi doveva – custodire documenti pubblici, ma non era necessariamente l’“archivio centrale” della città). Aggiungo che un esame sistematico del corpus delle iscrizioni di Iaso non mi ha consentito di trovare un solo riferimento esplicito a documenti d’archivio (o all’archivio pubblico), fatta forse eccezione per IK, 28.1-Iasos, 54, l. 12-13, in cui viene allusivamente prescritto di énagrãcai di ἀναγράψαι δὲ αὐτòν (scil. l’onorato) καθάπερ καὶ τοὺς ἄλλους προξένους3.
3Tutto ciò non serve ovviamente a dimostrare che a Iaso non vi fossero ambienti e funzionari preposti alla custodia dei documenti pubblici, bensì ad evidenziare come ogni indagine sull’organizzazione e, ciò che più importa, sulla funzione degli archivi nelle poleis debba necessariamente essere di carattere indiziario e non possa quindi che procedere, come a suo tempo suggerito da Cl. Nicolet in rapporto agli archivi nel mondo romano, attraverso l’inventario sistematico di tutti i riferimenti presenti nelle fonti alle diverse categorie e tipologie di documenti esistenti in antico, anche quando di questi non sia conservato alcun esemplare4. Il risultato, come nel caso di Roma, sarà quello di un’immagine delle pratiche archivistiche nel mondo greco ben più complessa e articolata di quanto generalmente assunto dagli studiosi. Per usare le efficaci parole di J.-M. Bertrand, “[l]es cités grecques... écrivaient beaucoup”5.
4Alcuni punti devono essere tenuti sullo sfondo di ogni tentativo di analisi della documentazione antica. Il primo è costituito da quella continua e costante compresenza e complementarità, in ambito politico, di oralità e scrittura che rappresenta una delle caratteristiche della civiltà greca e che, negli anni più recenti, è stato soprattutto merito di R. Thomas di avere sottolineato e – se anche non sempre in maniera convincente – analizzato6. Le testimonianze sulla lettura pubblica ad alta voce di documenti ufficiali coprono tutto l’arco della storia greca dall’arcaismo all’età ellenistica ed è qui sufficiente menzionare il caso, celeberrimo, della nuova iscrizione delle Teiorum Dirae (SEG, 31, 985 = van Effenterre & Ruzé 1994, 105), databile ai primi decenni del v sec. a. C., che imponeva ai magistrati della polis di proclamare pubblicamente ogni anno “perché ne rimanga il ricordo e affinché le disposizioni abbiano efficacia” (ἐπὶ μνήμηι καὶ δυνάμει) il contenuto della stele (τὰ γεγραθμένα), pena la maledizione da parte della comunità (D, l. 11-23)7. Ciò che importa qui sottolineare è peraltro il fatto che tale pratica è attestata non soltanto in relazione a testi, come quello di Teo (e Abdera), il cui contenuto aveva, si potrebbe dire, valore fondante per l’identità politica della comunità, bensì rientrava nella normale prassi amministrativa della polis. Se ci atteniamo alla testimonianza dell’Athenaiôn Politeia aristotelica, emerge infatti che il demos ateniese eleggeva annualmente un γραμματεὺς specificamente responsabile della lettura pubblica dei documenti tanto nell’assemblea quanto nel consiglio–ma, viene precisato, non di altro! (καὶ οὖτος οὐδενός ἐστι κύριος ἀλλ’ ἢ τοῦ ἀναγνῶναι)–(54.5)8, che gli apodecti erano incaricati di registrare su una tavoletta (ἐν οανίδι) le modalità della ripartizione dei fondi (μερισμός) tra le diverse archai, in altri termini, tra i diversi capitoli di spesa9, e quindi di darne pubblica lettura nel bouleutèrion (48.2), o che nell’assemblea kyria di ciascuna pritania si doveva procedere alla lettura delle liste (ἀναγραφαί) dei beni confiscati dalla città e delle istanze (λήξεις) relative alle eredità e alle ereditiere (43.4)10. E, per fare un ulteriore esempio, scendendo cronologicamente fino all’ellenismo inoltrato, un decreto, frammentario, di Amizone relativo all’incorporazione di neo-cittadini stabiliva che si redigesse innanzitutto una lista dei beneficiari del provvedimento (τὴν ἀναγραφὴν τῶν ὀνομάτων ποιήσας ὁ [...]), che il segretario della boulè dovesse quindi procedere alla lettura pubblica dei nomi della lista (ὁ δὲ γραμματεὺς τῆς βουλῆς ἀναγνώτῳ [τὴν παραδο]θεῖσαν αὐτῶι τῶν ὀνομάτων ἀναγραφήν) e soltanto successivamente alla loro registrazione in archivio (ἀναγραψάτω εἰς τò δημόσιον) (l. 2-6)11. In questo stesso contesto va inoltre sottolineata la grande rilevanza, nelle città greche, delle figure dei κήρυκες, la cui funzione Aristotele a tal punto considerava espressione dell’essenza stessa delle consuetudini di vita dei Greci da ritenere che là dove non poteva esservi un araldo non poteva esservi neppure la polis (Pol., 1326b 2-9). Kerykes sono attestati nel mondo greco sin dai poemi omerici12, ma è nuovamente soprattutto sui loro compiti in ambito amministrativo che dobbiamo qui soffermarci. Nel decreto ateniese sulla moneta, i pesi e le misure (IG, I3, 1453 = ML, 45) viene prescritto ad es. l’invio di un araldo per ciascuno dei distretti in cui era diviso l’impero con l’incarico di rendere noto il contenuto dello psèphisma (§ 9)13 e, sempre nel v sec. – per quanto la datazione precisa, e l’interpretazione, del documento rimangano ancora controverse –, una stele di Chio, relativa in questa parte del testo, come io credo, alla vendita di immobili confiscati, disponeva che gli araldi bandissero tanto per la campagna quanto in città un pr∞xma non esplicitato, presumibilmente da identificare con la vendita pubblica stessa degli immobili (DGE, 688, B, l. 5-20: τòς δὲ κήρυκας διαπέμψαντες ἐς τὰς χώρας κη[ρ]υσσόντων καὶ διὰ τῆς πόλεως ἀδηνέως γεγωνέοντες, ἀποδεικνύντες τὴν ἠμέρην ἢν ἂν λάβωισιν, καὶ τò πρῆχμα προσκηρυσσόντων, ὄτν ἂμ μέλληι πρήξεσθαι)14. Il ruolo degli araldi nelle operazioni di asta pubblica è del resto ben documentato (cfr. Hesych. e Phot.s.v. πρατίας)15 ed emerge indirettamente anche dalla nuova legge ateniese sulla tassazione del grano, in cui viene imposto per l’aggiudicazione di ciascuna μερίς il pagamento di 20 dracme a titolo di ἐπώνια e κηρύκεια (l. 27-29)16.
5In tutti i casi fin qui considerati oralità e scrittura appaiono intimamente legate e complementari perché il flusso dell’informazione scritta giunge ai destinatari in forma orale. Forse già dalla fine del vi sec. risulta peraltro documentata in Grecia la lettura “silenziosa”17 e questo ci introduce al nostro secondo punto, ovverossia il rapporto tra l’uso pubblico e l’uso privato della scrittura. Tale rapporto è qui rilevante non nel senso che, come è stato recentemente osservato per Roma – in particolar modo con riferimento al caso della documentazione scritta elaborata in occasione del processo penale in età repubblicana –, bisogna parlare di una sorta di continua osmosi tra i due ambiti, al punto che diviene talora difficile stabilire quando un documento sia “pubblico” e quando “privato”18, bensì per il fatto che il ricorso al parallelo dei documenti privati può aiutarci a porre in una diversa prospettiva la pressoché totale assenza, nelle fonti, di tracce di documentazione d’archivio fino alla metà del v sec.
6E’ noto, sempre restando fermi al caso, meglio documentato, di Atene, che la produzione di iscrizioni fa registrare un significativo incremento, anzi una sorta di esplosione, a partire dagli anni Cinquanta del v sec.19 e che parallelamente iniziano ad apparire con una certa frequenza, soprattutto in rapporto alla gestione finanziaria della lega delio-attica, allusioni a documentazione scritta su πινάκια, γραμματεῖα, σανίδες, σανίδια ecc.20, ma il problema per noi si pone per il periodo precedente. Per quanto sia ragionevole l’ipotesi che le esigenze amministrative dell’impero avessero realmente determinato un moltiplicarsi delle registrazioni scritte ed un affinarsi delle tecniche contabili21, l’idea che documentazione analoga su materiale deperibile, per quanto quantitativamente più limitata, non fosse esistita anche prima risulta tutto sommato assai poco plausibile. E questo anche alla luce del parallelo di quel corpus di lettere private su lamine di piombo o altro materiale che con il passare degli anni si va facendo sempre più cospicuo e consistente22.
7E’interessante infatti notare che, se la maggior parte dei testi sembra iscriversi nel iv sec., quattro di essi sono stati con sicurezza attribuiti al secolo precedente e nell’ambito di questi quattro testi si discute se due, e più precisamente una lettera proveniente da Emporion (SEG, 42, 972 = Van Effenterre & Ruzé 1995, 74) e la “lettera di Berezan” (Dubois 1996, 23), possano essere fatti risalire al vi23. Di essi colpisce l’ampiezza e l’uso tutt’altro che sprovveduto della scrittura per descrivere situazioni e questioni giuridiche connesse all’esercizio delle attività commerciali e si rimane pertanto con l’impressione che tali forme di corrispondenza e di comunicazione dovessero essere abbastanza frequenti24. Non va inoltre trascurato il fatto che tra i reperti venuti alla luce con il relitto di nave del Giglio, datato dagli specialisti al decennio 590-580 a. C., figurano anche una tavoletta scrittoria, originariamente parte di un dittico, e uno stilo25, il che richiama inevitabilmente alla mente il φόρτου μνήμων di Hom., Od., 8.163.
8Questo dovrebbe già a priori indurre ad una certa cautela nel sottovalutare la capacità (e la necessità) di una polis greca arcaica di tenere registrazioni scritte a fini amministrativi, ma ciò che più conta è che dal naufragio totale della documentazione su materiale deperibile si sono salvati alcuni documenti iscritti su altro materiale che ce ne forniscono la prova concreta. Un esempio significativo ci viene dall’Attica dove, come è noto, a livello centrale, le liste delle sessagesime dei tributi e, più in generale, il ricchissimo corpus dei rendiconti finanziari epigrafici non iniziano prima del 454/453. Al livello locale dei demi si va peraltro delineando un nuovo quadro dopo la pubblicazione di una tavoletta di piombo rinvenuta nel santuario di Nemesis a Ramnunte che registra in 14 linee, per un certo non precisabile periodo, si potrebbe dire il flusso di cassa tra gli epistatai e i hieropoioi del santuario stesso (SEG, 38, 13 = IG, I3, 247bis)26.
9Il nuovo testo è stato collocato cronologicamente a cavallo tra la fine del vi e l’inizio del v sec. e viene pertanto a precedere di circa una cinquantina d’anni gli analoghi documenti di Ikarion (IG, I3, 253-254) e, ancora una volta, di Ramnunte (IG, I3, 248), che, assieme a IG, I3, 258 (Plotheia), ci offrono le più ampie testimonianze sull’amministrazione delle finanze sacre di un demo nel v sec.27. Va inoltre rilevato che se questi ultimi testi epigrafici con tutta evidenza contengono la registrazione, anno per anno, dei totali riepilogativi pertinenti all’ammontare delle risorse finanziarie a disposizione per il culto di Dioniso e dell’eroe Icaro, da un lato, e di Nemesis, dall’altro, rivelando come le finanze amministrate nell’ambito dei demi fossero tutt’altro che modeste, ma presupponendo anche nello stesso tempo una più minuta contabilità in relazione alle entrate e alle uscite28, la nuova tavoletta plumbea di Ramnunte, per quanto estremamente sintetica e stringata, ci attesta proprio questa seconda tipologia documentaria29.
10Tale nuova acquisizione, certamente suggestiva e di grande significato, non giunge tuttavia del tutto inattesa, bensì piuttosto conferma quanto poteva essere inferito, al livello dell’amministrazione centrale di Atene, da tre statue, ritrovate sull’Acropoli e databili agli anni 530-510 a. C., che ritraggono, in posizione seduta con una tavoletta sulle ginocchia, personaggi identificabili con γραμματεῖς, o forse, meglio, con figure di tesorieri di Atena30. La possibile obiezione che la documentazione fin qui considerata riguarda esclusivamente l’ambito dell’amministrazione sacra non ha in questo caso valore perché, da un lato, come è stato opportunamente osservato da J. P. Sickinger, l’esistenza di γραμματεῖς è testimoniata ad Atene già dalla metà del vi sec. da alcune iscrizioni, per quanto tutte piuttosto frammentarie (IG, I3, 508, 509 e, forse, 507)31, dall’altro perché analoghe figure sono attestate anche in altre poleis del mondo greco, a cominciare dal γροφεύς Patrias ad Olimpia, quale che sia il significato che si vuole attribuire nel testo all’espressione τὰ ζίκαια (I. Olympia, 2)32, e dal ποινικαστάς Spensithios, il cui compito, come è noto, era quello di ποινικάζεν τε καὶ μναμονεύϝην per la città “le cose pubbliche, tanto quelle divine che quelle umane” (SEG, 27, 631)33. Al di là dei problemi connessi all’introduzione, o all’invenzione, nel mondo greco di un sistema grafico per la notazione dei numerali34, emerge quindi ben prima della creazione della lega delio-attica l’importanza della rendicontazione finanziaria quale fattore determinante in rapporto alla produzione di registrazioni scritte.
11In questa stessa prospettiva, ma con riferimento a diverse tipologie documentali, mi sembra utile richiamare l’attenzione su un documento, anch’esso di recente pubblicazione, che ci porta questa volta in terra siciliana. Si tratta di una laminetta di bronzo rinvenuta ad Imera presso il tempio D35, in origine con ogni probabilità destinata all’affissione pubblica36. Va subito detto che tanto il testo, databile forse all’inizio del v sec. e piuttosto frammentario, quanto la sua interpretazione rimangono caratterizzati da un elevato grado di incertezza, che neppure il dibattito intercorso dopo la prima edizione del documento è per ora riuscito del tutto a dissipare37. Si riescono nondimeno ad individuare riferimenti ad una (ri)distribuzione di terre (l. 14: γέες ἀναδαιθμõ), o quanto meno di οἰκόπεδα, in altri termini di “terreni edificabili” (l. 1-2)38, e alla creazione di nuove tribù come probabile conseguenza dell’integrazione di un contingente di Zanclei nella comunità della polis (l. 2-3). Proprio in rapporto a questo secondo provvedimento sembra in particolare che preliminare ad esso dovesse essere l’esposizione, da parte delle fratrie, di qualcosa di scritto (τὰ καταγεγραμ(μ)ένα) che, alla luce del contesto, appare difficile non identificare proprio con gli elenchi dei nuovi coloni (l. 2-5: [φῦ]λα δανκλαῖα ποιέσαι ἄ[φ]αρ ἢ hαι φρατρίαι ἀ[ν]έδενξαν τὰ καταγεγραμ(μ)ένα)39.
12Il ruolo delle fratrie quali depositarie e garanti di registri degli aventi diritto alla cittadinanza è ampiamente noto per Atene40 e viene indirettamente testimoniato per la Sicilia dalle tessere di piombo di Camarina, le quali, oltretutto, si collocano cronologicamente soltanto a qualche decennio di distanza dalla “legge” di Imera41. L’inferenza che anche qui, per lo meno al livello della fratria, se non anche a quello della tribù, esistessero copie d’archivio di tali liste appare quindi tutt’altro che azzardata, e rimane anzi la possibilità, per quanto la documentazione che si può portare come confronto sia tutta cronologicamente più tarda42, che, parallelamente ad esse, venissero redatti e custoditi anche analoghi registri degli assegnatari di terra43.
13Sulla base dei pochi, ma indicativi, esempi fin qui menzionati, appare pertanto lecito concludere che, anche lasciando da parte l’ovvia necessità di preservare i testi di leggi e decreti e–un aspetto che è stato generalmente trascurato–di custodire una qualche memoria scritta degli esiti dell’attività giudiziaria prima dei magistrati e poi dei tribunali44, le città greche, sin dall’epoca arcaica – e con crescente intensità fino all’età ellenistica – dovettero produrre per finalità amministrative una mole non trascurabile di documentazione scritta e che tale documentazione doveva riguardare certamente il diritto di cittadinanza e la gestione, ai vari livelli, delle finanze pubbliche e sacre, verisimilmente, come ho cercato di dimostrare altrove, l’assetto della proprietà fondiaria45, ma insieme anche tutta una imprevedibile e quanto mai ampia varietà di aspetti della vita della comunità46. Come ha tuttavia sottolineato il Nicolet, l’aspetto della produzione dei documenti, ossia l’insieme dei meccanismi e delle procedure istituzionali e amministrative che portano alla redazione ed eventuale pubblicazione di documenti pubblici, non può in nessuna maniera essere disgiunto da quello della loro conservazione e consultabilità47, ciò che ci porta al problema, centrale nella nostra analisi, dell’organizzazione e della funzione degli archivi nelle poleis greche.
14La prima questione è naturalmente quella di come si presentasse materialmente un archivio. E qui, nonostante i frequenti riferimenti presenti nelle fonti letterarie e soprattutto nelle iscrizioni a τò δημόσιον ο τὰ δημόσια (γράμματα)48, siamo tutto sommato poco aiutati dalla documentazione disponibile. Le fonti parlano talora genericamente di κιβωτοί (IG, II2, 1174, l. 4-7 [Atene]; SEG, 33, 679, l. 47-48 [Paro]; Segre & Pugliese Carratelli 1949-1951, 110, l. 9-18 [Camiro])49 e ζύγαστρα (CID, II, p. 312, s.v. ζύγαστρον; Phot. s.v.), cioè di “casse” per lo stivaggio e la conservazione dei documenti, ma è forse significativo, e indicativo di tale situazione di incertezza, che l’allusione dell’Athenaiôn Politeia agli ἐπιστύλια dai quali lo schiavo pubblico “prendeva giù” (καθελ[ώ)]ν) i registri (γραμματεῖα) relativi alle scadenze dei pagamenti (47.5) non abbia finora avuto una spiegazione univoca da parte degli studiosi50. Gli scavi archeologici, per quanto mi risulta, neppure nel caso del Metroon di Atene51, hanno inoltre finora portato all’individuazione di ambienti chiaramente identificabili come “archivi” e, in certi casi fortunati, ci si può tutt’ al più affidare alla testimonianza indiretta offerta dal ritrovamento di ampie concentrazioni di sigilli52.
15Tutto ciò dipende senza alcun dubbio dalla natura “volatile” e, da un punto di vista archeologico, sfuggente delle strutture e degli arredi di simili locali, ma riflette anche un fatto fondamentale a suo tempo già rilevato, con riferimento ad Atene, da F. Jacoby, e cioè che nelle città greche non esisteva di norma un unico “grande” archivio centrale bensì la documentazione scritta di carattere amministrativo doveva risultare dispersa tra un numero di archivi distinti tenuti dai singoli magistrati, tanto al livello della polis che a quello locale, ciascuno per lo più limitatamente al proprio ambito di competenza53. Si è sostenuto, a dire il vero, che Atene avrebbe in questo senso rappresentato un’eccezione “negativa” e che nelle altre città sarebbe riconoscibile nel corso del tempo una tendenza verso archivi centralizzati54. Questo può tuttavia valere forse per i registri di cittadinanza ma non per l’insieme della documentazione. Un esame sistematico città per città non è qui ovviamente possibile, ma questo emerge bene, ancora in età ellenistica, ad es. a Paro, dove nella celebre iscrizione sugli μνημονικὰ γράμματα si fa riferimento a due luoghi di conservazione dei documenti contemporaneamente attivi già prima della pubblicazione del provvedimento (SEG, 33, 679)55; a Mileto, dove secondo Milet I. 3, 33 (cfr. Milet VI. 1, p. 160-162, 33), accanto alla documentazione conservata nell’archivio delle boulè, vi era, in rapporto all’assetto della proprietà fondiaria nella città, una parallela raccolta di tavolette (λευκώματα), questa volta custodita dagli ὠνοφύλακες, i “custodi delle vendite” (e, l. 2-6: καὶ τὴν γενομένην διαίρεσιν ἀναγράψαι εὐ[θὐς με]τὰ τῶν ὀνομάτων καὶ παραδοῦναι τῶι γραμματεῖ τῆς βουλῆς, [ἵνα] ὑπάρχη(ι) ἐν τοῖς δημοσίοις·δοῦναι δὲ τòγ γραμματέα τò ἀντί[γρα]φον καὶ τοῖς ὠνοφύλαξι, τοὺς δὲ παραλαβόντας καταχωρίσαι εἰς [τὰ] λευκώματα, ἐν οἷς καὶ αἱ ὠναὶ ὑπάρχουσι)56; e ad Efeso, dove nella famosa “legge sull’appianamento dei debiti” approvata dopo la “guerra sociale” (c. 297/296) era prescritto che i giudici stranieri incaricati di risolvere i contenziosi insorti tra creditori e debitori relativamente alla divisione dei terreni gravati da ipoteca dovessero trasmettere le sentenze ai magistrati ἐπὶ τοῦ κοινοῦ πολέμου mou “avendo registrato i nomi delle persone, i luoghi e i limiti delle divisioni” (ἀναγράψαντες τά τε ὀνόματα τῶν ἀνδρῶν καὶ τοὺς τόπους καὶ τοὺς ὅρους τῶν μερισμῶν) e che tali magistrati dovessero a loro volta prepararne una seconda copia εἰς λευκώματα da consegnare ai neopi perché la custodissero nel tempio; e che ulteriori ἀντίγραφα dovessero poi essere redatti per l’antigrapheus perché questi potesse assicurare agli arbitrati la massima pubblicità (IK, 11.1-Ephesos, 4, l. 14-24)57.
16Una pluralità di archivi è inoltre nota anche per Sparta, Delfie Delo58 e deve essere considerata per lo più la norma nell’ambito delle città greche, al punto che, per quanto sia innegabile che nei singoli centri l’archivio della boulè, considerata la centralità del Consiglio e delle sue attribuzioni nel sistema istituzionale della polis, dovesse di fatto essere quello più importante e più ricco di documenti, risulta nondimeno sempre più appropriato parlare di “policentrismo” e di complementarità e interazione tra la documentazione custodita nelle sedi dei diversi magistrati.
17In questa prospettiva, proprio ad evidenziare la complessità dei meccanismi amministrativi all’interno della polis e il loro riflesso sul piano della produzione di testi scritti, mi sembra utile introdurre nella discussione la nozione di “catena documentaria”59, il fatto cioè che da un medesimo testo potessero in maniera tutt’altro che infrequente essere ricavate e circolare contemporaneamente più copie o documenti, anche su materiali diversi. Un primo significativo esempio, pressoché senza confronti in quanto offertoci da una fonte letteraria, è rappresentato dall’ “appendice documentaria” posta in coda alle Vite dei dieci oratori dei Moralia plutarchei60, dove vengono riportati in extenso tre documenti relativi alla concessione dei “massimi onori”, le μέγισται τιμαί, a Demostene, al nipote di questi Democare, e a Licurgo (Mor., 850F-852E). Il fatto interessante che qui importa rilevare è che tutti e tre i testi, per i quali è inevitabile dover postulare un’origine d’archivio, e in particolare dal Metroon ateniese61, presentano delle anomalie rispetto al “formato” dei corrispondenti modelli della tradizione epigrafica, che potranno apparire di piccolo conto ma che, ai nostri fini, sono nello stesso tempo altamente significative. I primi due documenti non costituiscono infatti i decreti con cui il dèmos ateniese formalizzava l’attribuzione degli onori a Demostene e Democare, bensì le “richieste” (αἰτήσεις) di concessione delle timai postumamente presentate dai familiari dei due personaggi onorati e, secondo una procedura istituzionale brillantemente ricostruita da Ph. Gauthier62, da essi a tal fine depositate “presso la boulè e il dèmos” (cfr. SEG, 25, 112 [= ISE, 33], l. 31-37: Cefisodoro (di Xypete?)63 richiede (αἰτεῖ[ται])) la concessione dei massimi onori e a tal fine τὴν άἴτησιν δέδωκεν πρòς [τὴν βουλὴν καὶ τòν δῆμον]. Si capisce quindi come nell’archivio del Consiglio dovessero essere custoditi tanto il testo del decreto definitivamente approvato quanto quello della relativa άἴτησις e come quest’ultimo potesse per qualche via essere poi confluito nella raccolta delle biografie dei dieci oratori. E’anche degno di nota che una simile procedura di formale “richiesta” di onori sembra essere attestata per il v sec., in relazione alla sitesis nel Pritaneo e alla proedria attribuite a Cleone dopo la vittoria di Sfacteria, dai Cavalieri di Aristofane (Eq. 573-576: καὶ στρατηγòς οὐδ’ ἂν εἶς τῶν πρò τοῦ σίτησιν ἤτησ’ ἐρόμενος Κλεαίνετον· νῦν δ’ ἐὰν μὴ προεδρίαν φέρωσι καὶ τὰ σιτία, οὐ μαχεῖσθαί φασιν), il che rivela come pratiche documentarie di questo tipo dovessero esistere già ben prima dell’età ellenistica.
18Ugualmente istruttivo è il terzo documento dell’“appendice”, lo psèphisma in onore di Licurgo – qui le Vite ci hanno tramandato il testo del decreto vero e proprio (Mor., 851F-852E). Esso viene testimoniato, seppure in forma piuttosto mutila, anche da due frammenti epigrafici (IG, II2, 457 [= SIG3, 326]), cosicché siamo nella fortunata quanto rara condizione di poter mettere a confronto le due diverse tradizioni del testo64, tanto in relazione al prescritto, più ampio nella versione letteraria65, quanto al nucleo centrale del documento, la cui formulazione risulta all’opposto dilatata e quasi amplificata nel testo epigrafico (cfr. b, l. 9-21 con Mor., 852C-D)66. Tali differenze potrebbero trovare una spiegazione sulla base dell’annotazione che, nell’“appendice” delle Vite, introduce la citazione dello ψήφισμα (Λυκόφρων Λυκούργου Βουτάδης ἀπεγράψατο αὐτῷ εἶναι σίτησιν ἐν πρυτανείῳ κατὰ τὴν δοθεῖσαν δωρεὰν ὑπò τοῦ δήμου Λυκούργῳ Βουτάδῃ), ipotizzando che la tradizione manoscritta avesse per qualche ragione recepito non il testo del decreto stesso, bensì un documento, una sorta di promemoria, “allegato” dal figlio di Licurgo, Licofrone, nell’atto della “richiesta” di subentrare al padre nel godimento dei privilegi a questi concessi a titolo perpetuo.
19Dall’esame delle αἰτήσεις per Demostene e per Democare così come da quello delle due versioni del decreto per Licurgo diventa in ogni caso possibile non soltanto l’inferenza che nel Metroon ateniese venivano conservati, come prodotto delle diverse procedure istituzionali, più documenti (o diverse redazioni dello stesso documento) in relazione al medesimo provvedimento, ma anche, come dimostrato dal loro stesso apparire nelle Vite, che tali testi dovevano essere accessibili e consultabili anche a qualche (per noi imprecisabile) distanza di tempo (e che essi non erano quindi destinati a vita breve).
20Ad una situazione analoga ma più complessa per la maggiore mole del materiale documentario coinvolto ci introduce a sua volta un’iscrizione del demo di Halasarna a Cos della fine del iii sec. a.C.67 Si tratta di un decreto delle tribù partecipanti al culto di Apollo ed Eracle a Halasarna: esso stabiliva che si procedesse ad un censimento e alla redazione di un nuovo catalogo delle persone aventi diritto a prendere parte ai riti, in sostituzione di una lista precedente che non consentiva ormai più una sicura “verifica” (su δυσεπίγνωστος [l. 9-10] cfr. LSJ, s.v., p. 456). A tal fine si prescriveva che gli aventi diritto, residenti e non, si registrassero, verisimilmente nel demo presso i napoiai68, “dichiarando” tutti i propri dati anagrafici (tribù, nome del padre, nome della madre e nome del padre di quest’ultima), mentre a coloro cui la cittadinanza era stata conferita per decreto era fatto obbligo di rendere noto anche “in base a quale legge o dogma comune di tutto il demos ciò era avvenuto” (l. 37-41: οἷς ˂δὲ˃ δέδοται ἁ πολιτεία, κατὰ τίνα νόμον ἢ δόγμα κοινòν τοῦ παντòς δάμου)69. Si precisa inoltre che tali dichiarazioni dovevano essere registrate negli archivi secondo la prassi normalmente riservata ai documenti (l. 72-77: καὶ τòς ἀπογραψαμένος καταχρηματιζόντω καθότι καὶ τἆλλα γράμματα χρηματίζοντι)70. I napoiai dovevano inoltre custodire nella propria sede, ἐν λευκώματι, in ordine alfabetico, un elenco delle persone che si erano registrate – il quale doveva in futuro costituire la base per consentire di accertare che soltanto gli aventi diritto ricevessero le μερίδες delle vittime sacrificali e partecipassero al sorteggio per l’attribuzione del sacerdozio – e poi, “affinché la registrazione sia resa nota in modo più chiaro” (ὅπως δὲ καὶ εὐσαμοτέρα ὑπάρχη ἁ ἀναγραφά), curarne la trascrizione, assieme al decreto, su una stele (l. 96-97). Se, oltre a tutto ciò, si considera che allo scopo di far sì che venisse ad esso assicurata la massima pubblicità, si disponeva che l’ordine di procedere ad una nuova registrazione venisse in più occasioni “bandito” mediante araldo e, contemporaneamente, che il decreto venisse esposto su leukôma per tutto il tempo delle ἀπογραφαί tanto in città, nell’agorà, quanto nel demo, emergerà nel modo più evidente, da un lato, quella complementarità tra oralità e scrittura su cui ci abbiamo già avuto l’occasione di soffermarci, dall’altro la complessità e l’articolazione dei meccanismi “burocratici” che potevano far sì che un solo decreto determinasse la produzione e la conservazione, spesso in più copie, e per diverse finalità, di una notevole quantità di documentazione scritta.
21Tali esempi illustrano il caso di “catene” di documenti custoditi nello stesso archivio. Come abbiamo già visto parlando di “pluralità” dei depositi documentali, la necessità che il contenuto di informazione delle registrazioni scritte “circolasse” tra le istituzioni all’interno della polis poteva peraltro far sì che più copie del medesimo testo interessassero contemporaneamente magistrati e archivi diversi. Ciò può essere riscontrato con una certa frequenza ad Atene, il cui sistema istituzionale ci è meglio noto, ed era, in questo caso, in parte una conseguenza del fatto che gli “archivi di cittadinanza”, i ληξιαρχικὰ γραμματεῖα, erano tenuti nei singoli demi – ed erano quindi fisicamente dispersi in tutto il territorio attico71–, ma sembra, nello stesso tempo, anche rispondere ad una prassi generalizzata. Sempre ad Atene, ancora nel v sec., il decreto sulle ἀπαρχαί eleusinie stabiliva che le singole quote offerte dai demi e dalle città alleate dovessero essere registrate su πινάκια da custodire in duplice copia, uno ad Eleusi ἐν τõι Ἐλευσινίοι e l’altro nel bouleuterion (IG, I3, 78 [= ML, 73], l. 26-30)72. E, allo stesso modo, il primo decreto di Callia, disponendo la restituzione dei χρήματα presi in prestito dagli Altri Dei, prescriveva che i trenta logista¤ calcolassero innanzitutto con esattezza (ἀκρ[ιβõ]ς) l’ammontare delle somme dovute e che i pritani, alla presenza della boulè, procedessero quindi al pagamento, provvedendo contestualmente alla cancellazione di tavolette, registri e altri supporti scrittori (τά τε πινάκια καὶ τὰ γραμματεῖα καὶ ἐάμ π[ο ἄλ]λοθι ι γεγραμμένα) su cui erano annotati i debiti stessi. Importa peraltro qui rilevare che, stando alla lettera del testo, queste ultime registrazioni, che era compito dei sacerdoti, dei hieropoioi e di chiunque altro ne fosse a conoscenza di mettere a disposizione (ἀποφαινόντον δὲ τὰ γεγραμμένα hοί τε hιερ[ές κ]αὶ hoι hιεροποὶο καὶ εἴ τις ἄλλος οἶδεν), avevano, a quanto sembra, in primo luogo la funzione di fornire un riscontro ai calcoli dei logistai, che dovevano perciò essere stati ottenuti in maniera del tutto indipendente (IG, I3, 52 [= ML, 58], l. 7-13). Diventa così inevitabile dover pensare all’esistenza di due copie parallele di registrazioni relative agli stessi debiti73.
22Un ulteriore interessante esempio sotto questo punto di vista ci viene offerto, con riferimento, questa volta, all’Arcadia, da un decreto di simpolitia tra Mantinea e Helisson databile alla prima metà del iv sec. (prima del 385 o dopo il 370)74, in cui vengono precisate le modalità delle procedure di censimento necessarie per l’integrazione dei cittadini del secondo più piccolo centro nel corpo civico di Mantinea (l. 16-21). Esse prevedevano, in particolare, che tutti i membri della comunità di Helisson si registrassero presso una commissione di ἐπιμεληταί con il nome del padre e l’età, entro dieci giorni dall’arrivo degli σταλογράφοι e che gli epimelètai portassero quindi la lista a Mantinea e ne facessero una copia per i “guardiani delle leggi” (o i “preposti alle leggi”) (θεσμοτόαροι). Questi ultimi dovevano a loro volta trascriverla su λευκώματα ed esporre il documento nell’edificio del Consiglio (τòς Ἑλισϝασίος πάντας ἀπυγράψασθαι ἰν τòς ἐπιμελητὰς πατριãφι κὰτ [ἀ]λικίαν ἰν δέκ’ ἀμέραις ἃμαν oἱ σταλογράφοι μόλωνσι. τòς δὲ ἀπυγράψέντας ἀπ(ε)νιγ[κ]ῆν τòς ἐπιμελητὰς ἰμ Μαντινέαν καὶ ἀπυγράψαι τοῖς θεσμοτοάροις ἐπὶ Νικῆι δαμιοργοῖ, τòς δὲ θεσμοτοάρος γράψαντας ἰν λευκώματ[α] δεϝαλῶσαι πòς τò βωλήιον). Prescindendo dalla questione se fosse la pietra iscritta a costituire il documento “originale”75, o non piuttosto la lista redatta dagli ἐπιμεληταί, risulta che, senza dubbio in considerazione dell’importanza dell’atto politico e amministrativo deciso dalle due comunità, dovevano essere elaborate, su materiali diversi, ben quattro copie dello stesso documento e che di esse due erano verisimilmente destinate ad essere custodite in archivio, una a Mantinea e una a Helisson76.
23Dovrebbe a questo punto essere emerso in maniera abbastanza chiara come nell’ambito delle ricostruibili “catene documentarie” non manchi spesso la menzione di documenti su tavolette imbiancate, in altre parole di λευκώματα destinati all’affissione in luogo pubblico. E’noto ad esempio che per una prassi che sembra soprattutto riflettere esigenze o consuetudini locali molti decreti ellenistici di Mileto terminano con una clausola che ne dispone la “pubblicazione” non soltanto su una o più stele ma anche su λεύκωμα (Milet I. 3, 37, f, l. 94; 138, l. 40-41; 139, l. 58-59; 141, l. 54; Didyma II, 480, l. 25-26, ecc.)77. Tale fenomeno, già studiato in maniera illuminante dal Wilhelm nel suo fondamentale studio sulle forme della registrazione e dell’esposizione pubblica dei documenti78, e poi ripreso in esame con importanti ulteriori precisazioni da parte del Klaffenbach79, merita oggi di essere nuovamente evidenziato alla luce di un recente contributo di Ch.W. Hedrick dedicato alla formula, dalle palesi connotazioni democratiche – ma sorprendentemente assai più rara di quanto si sarebbe portati a pensare – σκοπεῖν τῶι βουλομένωι, riferita ovviamente alla possibilità offerta a chi ne fosse interessato di prendere visione di un documento pubblico80. Sulle orme di Wilhelm, lo studioso americano ha ben mostrato come in tutti i casi in cui tale formula ricorre, essa non deve intendersi riferita alla trascrizione del documento su materiale lapideo, in altre parole alla sua incisione su stele, bensì, come succede nel decreto di Halasarna sopra esaminato (l. 66-72), ad una copia del testo su λεύκωμαί ο σανίς, che doveva essere temporaneamente esposta in luogo pubblico in modo da consentire a chiunque lo volesse di prenderne conoscenza. Già nel v sec. un’iscrizione ateniese relativa all’esazione di una tassa sull’imbarco (ἐπιβατικόν), come tale gravante su ναύκληροι e forse ἔμποροι, da destinare al culto dei Dioscuri stabiliva che il conto totale del ricavo dovesse essere registrato su un πινάκιον e quindi esposto, dopo la celebrazione della festa in onore delle due divinità, “per chi ne volesse prendere visione” (IG, I3, 133, in part. l. 9-11)81, e il decreto sulla moneta, i pesi e le misure faceva obbligo agli epistatai della zecca di mettere a disposizione del pubblico davanti alla loro sede su tavolette di legno (ἐς λευκώματα(?), secondo l’integrazione di Erxleben) le registrazioni concernenti le somme di denaro versate dalle singole città (IG, I3, 1453 [= ML, 45], § 12)82. Non sorprende quindi che, in maniera del tutto analoga, il decreto di Tisameno citato da Andocide prevedesse che le nuove leggi proposte dai nomoteti, prima di essere discusse e definitivamente approvate83, dovessero essere esposte su sanides presso il monumento degli Eroi eponimi “per chi ne volesse prendere visione” (ἀναγραφέντας ἐν σανίσιν ἐκτιθέντων πρòς τοὺς ἐπωνύμους σκοπεῖν τῷ βουλομένῳ) (Andocide 1.83-84).
24Questa prassi, che è lecito considerare per nulla eccezionale, non è ai nostri fini priva di rilevanza perché dimostra come la discussione sul significato – simbolico o “funzionale” – dei testi incisi su pietra non possa risolversi nella dialettica tra documento d’archivio e testo iscritto84, bensì debba tener conto anche di questo ulteriore livello di registrazione scritta e, in ultima analisi, di tutti gli esiti e le dinamiche redazionali possibili per un documento in relazione alle diverse finalità85. In questa prospettiva, se anche si vuole sottolineare soprattutto la funzione “simbolica” e “monumentale” dei testi iscritti86 – giova qui ricordare che l’Acropoli ateniese doveva apparire in età classica come una specie di “giungla” di iscrizioni in cui il reperimento di un testo specifico doveva risultare tutt’altro che agevole–non bisogna mai dimenticare che la decisione di procedere all’iscrizione di un testo rappresenta sempre una sorta di “incidente” storico, legato o all’importanza intrinseca del documento stesso o a particolari esigenze o interessi del momento, e che parallelamente ai testi iscritti esisteva una mole quantitativamente ben più ampia e significativa di testi conservati su materiale non lapideo. Con riferimento ai compiti amministrativi dei poleti ateniesi, il Davies ha ad es. notato che, pur avendo essi competenza in relazione a quattro ambiti specifici (appalto delle concessioni per lo sfruttamento delle miniere del Laurion, appalto dei contratti per la riscossione dei τέλη, vendita dei beni confiscati, affitti di terre sacre), le attestazioni epigrafiche della loro attività sono alquanto irregolarmente distribuite nel tempo e, se vi è una totale assenza di documenti in relazione all’appalto della riscossione delle imposte, e la vendita all’asta dei beni confiscati è testimoniata già per la fine del v sec. soprattutto dalle “stele attiche”87, per i due restanti ambiti bisogna aspettare fino al iv sec. inoltrato per averne traccia attraverso le iscrizioni88. Ciò non riflette peraltro fedelmente il quadro delle attribuzioni dei poleti nel v sec. perché, come è noto, lo sfruttamento delle miniere d’argento del Laurion e il regime degli appalti descrittoci da Arist., Ath. Pol., 47.2, sono già attestati, ben prima dell’inizio della documentazione epigrafica, da Ar., Eq., 362. In considerazione della complessità del lavoro amministrativo connesso alle concessioni minerarie, diventa quindi inevitabile dover pensare a forme di registrazione e di conservazione della documentazione su materiale diverso da quello lapideo.
25Tutto ciò ha peraltro la conseguenza di collocare l’elemento della comunicazione scritta all’interno della città in una dimensione più ampia in cui l’epigrafe può rappresentare soltanto il punto terminale di un processo non necessariamente unilineare, bensì complesso e spesso ramificato nei suoi esiti documentali concreti. Tale conclusione ci introduce perciò all’ultimo problema che dobbiamo qui esaminare, al problema cioè dell’accessibilità e della consultabilità dei documenti d’archivio e, in ultima analisi, alla questione dell’esistenza o meno nel mondo greco di una “mentalità documentaria”, della quale, secondo R. Thomas, sarebbe possibile parlare soltanto a partire dalla fine del v sec., se non addirittura dal iv89. Tale questione, investendo in modo diretto, a livello più generale, anche il tema del modus operandi degli storici antichi e, di fatto, le stesse categorie di pensiero dell’uomo greco, è ovviamente troppo vasta per poter essere trattata qui in maniera soltanto adeguata e mi limiterò pertanto a qualche considerazione più da vicino pertinente al ruolo e alla funzione degli archivi nell’amministrazione della polis, di cui qui ci occupiamo. L’interrogativo che dobbiamo porci è fondamentalmente quello – ancora una volta sollevato da R. Thomas – del perché traspaia dalle fonti antiche una spiccata preferenza a citare i documenti “dalla stele”, cioè dalla loro redazione epigrafica, che, come è noto, costituiva per lo più soltanto un estratto del testo originale “depositato”, a fronte di una certa riluttanza, o persino disinteresse, a utilizzare direttamente, ai fini dell’argomentazione, i documenti d’archivio90. In effetti, abbiamo visto all’inizio che se non mancano di certo i casi di ripubblicazione epigrafica di decreti e altri documenti anche a distanza di secoli dalla redazione dell’originale – e, per fare un ulteriore interessante esempio, And. 2.23-24 ordina la lettura di un decreto che lo riguardava, custodito nel bouleutèrion (ἔτι γὰρ νῦν ἐγγέγραπται ἐν τῷ βουλευτηρίῳ), che non aveva in quel momento più alcuna validità, essendo stato nel frattempo abrogato91 – è anche vero che le iscrizioni, che pure spesso riproducono la disposizione di procedere alla registrazione in archivio del documento (e.g. ἀναγράψαι εἰς τò δημόσιον[ο εἰς τὰ δημόσια (γράμματα)]), raramente, specie nel periodo pre-ellenistico, fanno riferimento a documenti d’archivio come fonte di informazione per il presente o il futuro. Nelle ricerche che ho dedicato alle registrazioni fondiarie, pur con qualche significativa eccezione92, mi è ad es. soltanto occasionalmente capitato di trovare indicazioni esplicite circa l’utilizzazione della documentazione scritta disponibile nelle sedi dei magistrati per casi di contestata titolarità (o questioni connesse alla incerta identificazione dei confini) di un lotto, sebbene le relative registrazioni dovessero di fatto contenere molti elementi utili alla risoluzione della controversia93. Un fenomeno parallelo è inoltre rappresentato dal fatto che, nel caso di transazioni in cui era intervenuta direttamente una delle ἀρχαί della polis, nell’oratoria attica si preferisca di norma ricorrere alla testimonianza orale del magistrato effettivamente in carica al momento dell’evento che si vuole documentare piuttosto che procedere alla consultazione dei documenti scritti disponibili presso la sede dell’ἀρχαή stessa94.
26Proprio quest’ultimo modo di procedere nella prassi probatoria degli oratori può tuttavia forse metterci sulla buona strada nel nostro tentativo di trovare una spiegazione per il problema che qui ci interessa. Da un lato, e questo vale come considerazione generale, i testi epigrafici per la loro stessa natura “monumentale”, sono quelli in cui meno ci si devono attendere rinvii a (meno monumentali) documenti su materiale deperibile, dall’altro, e con ciò ci inoltriamo in un ambito più specifico, non bisogna dimenticare che la documentazione d’archivio antica, per la natura del materiale scrittorio utilizzato con maggior frequenza, le tavolette di legno, si prestava ad essere facilmente manipolata e manomessa, e a fini probatori, in sede giudiziaria, poteva perciò comprensibilmente ispirare scarsa fiducia. Come si preferiva dunque ricorrere alla testimonianza diretta del magistrato, che, tra le altre cose, si esponeva in tal modo ad una δίκη ψευδομαρτυριών, diventa evidente come si preferisse far riferimento alla stele, la cui “autorità”, oltre che dall’aspetto monumentale e dalla collocazione in luogo pubblico che inevitabilmente ne esaltava l’importanza, derivava anche dal carattere di permanenza inerente alla trascrizione su pietra del testo95, che costituiva di per sé garanzia contro ogni tentativo di falsificazione del contenuto.
27E’ da notare infatti come questo sembri essere stato un motivo di preoccupazione frequentemente presente nella prassi amministrativa greca, al punto che le testimonianze in proposito sono tutto sommato abbastanza numerose96. Lisia ad es. notava nell’orazione Per Mantiteo che “voler verificare chi ha servito in cavalleria sulla base del registro è davvero da ingenui (ἐκ τοῦ σανιδίου τοὺς ἱππεύσαντες σκοπεῖν εὐηθές ἐστιν): in esso mancano i nomi di molti che pure ammettono di essere stati cavalieri e vi sono iscritti invece alcuni che allora erano fuori città” (16.6) e un decreto di Taso della prima età imperiale faceva esplicito divieto, in relazione a quanto prescritto dallo psèphisma stesso, di apportare modifiche al documento conservato nell’archivio, ferma restando la loro non validità (Dunant & Pouilloux 1958, 185, l. 11-14 ἐὰν δέ τ[ις εἰση]γήσηται περί τ[ι]νος τούτων ἢ γράψῃ ἢ ἐπιψ[ηφίσῃ ἢ ἀ]ναγράψῃ εἰς τò τῆς πόλεως γραμματοφυλά[κιον τ]ὰ μὲν γραφέντα καὶ τὰ ψηφισθέντα ἄκυρα εἶναι)97. Non a caso le città potevano, con regole più o meno severe, porre restrizioni all’iterazione della carica di γραμματεύς (Lys. 30.29; IK, 1-Erythrai, 1) ed è per evitare o porre rimedio a possibili inconvenienti di questo tipo che, già nel v sec., il decreto di Clinia, regolamentante le modalità della riscossione del φόρος degli alleati di Atene, prescriveva rigide norme in relazione ai γραμματεῖα a contenenti l’indicazione dell’ammontare del tributo versato da ciascuna comunità (IG, I3, 34 = ML, 46)98. Un altro decreto ateniese del 353/352 disponeva inoltre, ai fini di un censimento straordinario (ἐξετασμός) del tesoro custodito nella Chalkotheke, deciso verisimilmente in una situazione di sospetto disordine, che si redigesse innanzitutto, alla presenza di numerosi magistrati, un inventario degli oggetti sacri effettivamente presenti e quindi, dopo averne fatto una copia, che si procedesse al riscontro di questa con gli ἀντίγραφα degli inventari degli anni precedenti che – si specifica – dovevano però essere ricavati ἐκ τῶν στηλῶν, dalle stele iscritte (IG, II2, 120, l. 7-32)99, evidentemente perché queste apparivano più affidabili della parallela documentazione su altro materiale100. Un’iscrizione ellenistica di Calcedone (III-II sec. a.C.) stabiliva, infine, che si dovesse preparare non soltanto una copia del documento, per l’esposizione davanti al santuario, su una stele, ma anche iscriverne un’altra, da collocare nella sede della βουλή, su tavoletta lignea con “lettere incise” (IK, 20-Kalchedon, 10, l. 14-17: γρά[ψαι δὲ κ]αὶ εἰς σανίδα κοῖλα γράμματα καὶ ε[ἰ] στάλαν, [καὶ στᾶσαι] τὰν μὲν στάλαν πρò τοῦ ἱεροῦ, τὰν δὲ σα[νίδα εἰς] τò βουλεῖον)101.
28Ed è ovviamente in questa stessa prospettiva che va interpretata la celebre legge ellenistica di Paro mirante alla realizzazione di copie su papiro (εἰς βυβλία) dei μνημονικὰ γράμματα, copie che sarebbero state depositate al sicuro nel santuario di Estia per essere consultabili soltanto in caso di necessità (SEG, 33, 679)102. Gli archivi, d’altra parte, potevano servire a risolvere situazioni di confusione e di grande incertezza, come appare da un decreto onorario di Camiro in cui si narra come l’onorato, più volte magistrato della città, causa lo stato di disordine in cui versava la documentazione di uso corrente (χρηματισμοὶ oἱ ἐν τοῖς προχείροις), avesse fatto aprire le “cassette” (κιβωτοί) in cui erano custodite le copie degli atti (ἀπό(λ)ογοι), le quali poterono in tal modo essere trascritte consentendo alla polis di recuperare non poca terra pubblica la cui titolarità era divenuta oggetto di contestazione (Segre & Pugliese Carratelli 1949-1951, 110, l. 9-18).
29Tutti questi episodi, di cui abbiamo notizia soltanto per il fatto che si riferiscono a situazioni in qualche modo eccezionali, non devono tuttavia indurci a enfatizzare eccessivamente il disordine e lo stato di abbandono in cui erano tenuti gli archivi delle città greche, bensì, all’opposto, dimostrano come l’uso sistematico della documentazione scritta facesse parte della prassi corrente dell’amministrazione delle poleis, e come si fosse di conseguenza ben consapevoli degli inconvenienti che tali pratiche potevano comportare e della necessità di porvi rimedio. Come ha bene evidenziato il Sickinger nel suo recente libro sugli archivi e le registrazioni scritte ad Atene, l’organizzazione del Metroon nel iv sec. era tutt’altro che rudimentale e il compito di custodire e reperire i documenti era affidato ad uno schiavo pubblico (δημόσιος) (Dem. 19.129; Arist., Ath. Pol., 47.5 e 48.1), presumibilmente dotato di speciali competenze103.
30In conclusione, anche sulla sola base della scelta, necessariamente limitata, di esempi qui presentati, mi sembra lecito inferire che le registrazioni scritte e la custodia dei documenti, con intensità crescente dall’epoca arcaica a quella ellenistica, ebbero parte importante e imprescindibile nei meccanismi dell’amministrazione delle città greche. In questa prospettiva, ritornando al caso di Atene, non si potrà dunque individuare nella creazione del Metroon nell’ultimo decennio del v sec. un momento di cesura nella storia degli archivi della città, bensì appare più giustificato guardare a tale evento come al semplice e naturale risultato del progressivo accumularsi ed espandersi della documentazione custodita dalla boulè e della conseguente necessità di trovare per essa una collocazione più adeguata. Emerge in particolare da questa analisi – anche in assenza di un apparato amministrativo stabile e permanente – un’immagine della polis più complessa e più “burocratica” di quanto gli studiosi siano generalmente disposti ad ammettere, in cui, pur in un contesto in cui la “fruizione” di ciò che è scritto può, a livello pubblico o collettivo, non raramente avvenire attraverso la lettura ad alta voce, la scrittura è nello stesso tempo anche lo strumento attraverso cui, per riprendere la formulazione del titolo di questa Tavola Rotonda (ma con tutti i distinguo necessari quando la si applichi alla forma politica della città greca), si attuano la circolazione e la conservazione dell’informazione nell’ambito delle “strutture del potere”. Come diceva Aristotele nella Politica, la scrittura, i γράμματα, sono “utili”, ma evidentemente anche necessari, “per l’esercizio di molti degli affari politici” (πρòς πολιτικὰς πράξεις πολλάς) (1338a15-17).
31Su un piano più generale, il riconoscimento di tale complessità amministrativa, di cui gli archivi, che ne sono l’espressione, costituiscono un importante indicatore, dovrebbe guidarci ad un nuovo, più articolato, approccio nella definizione delle categorie interpretative per lo studio della città greca, alla quale non fà giustizia un’impostazione – e un irrigidimento–del dibattito in termini di antitesi tra posizioni “primitivistiche” miranti a descrivere la polis come una “comunità senza Stato” (stateless community), e quindi sostanzialmente acefala, e posizioni “modernistiche” che ne enfatizzano, all’opposto, in maniera forse eccessiva i caratteri della statualità104. Come ho già avuto modo di sostenere altrove, ciò che rende la polis un oggetto di studio autonomo e tutto sommato irripetibile è che essa non era né una “comunità senza Stato” né uno Stato nel senso moderno del termine105.
Notes de bas de page
1 Maddoli 2000, 16-22 (A); Fabiani 2000. Cf. anche Habicht 2001, con alcune importanti proposte per la restituzione del testo di IG, II2, 3.
2 Per Iaso cfr. Pugliese Carratelli 1987 (SEG, 38,1059) e Habicht 2001, 116; per Atene, oltre al decreto, ancora soltanto parzialmente edito, proposto da Alcibiade nel 422/421 e poi ripubblicato circa una ventina d’anni dopo (IG, I3, 227bis [Addenda et Corrigenda, 956]; cfr. SEG, 41, 9, e Sickinger 1999, 89-90, 225-226 n. 136), v. IG, II2, 583 (su cui Wilhelm 1909, 289-292), 971 (= Osborne 1981-1983, I, 213-216; II, 189-191, D 102) e 1132 (con Sickinger 1994, 289-292). Per ulteriori esempi di probabile consultazione di documenti d’archivio più antichi cfr. Sickinger 1999, 171-176. Si veda anche il caso di IC, I, IX, 1, l. 137-164 (= van Effenterre & Ruzé 1994, 48).
3 Sull’esistenza, negli archivi delle poleis, di liste di πρóζενοι cfr. Wilhelm 1909, 234-236, e, soprattutto, Gschnitzer 1973, 694-705; v. anche Walbank 1978, 8-9; Marek 1984, Sachregister, s.v. Archivierung e Listen v. Proxenoi, 469 e 473.
4 Nicolet 1994a; cfr. anche le considerazioni di Cl. Moatti e Cl. Nicolet in Mémoire perdue II 1998, rispett. 1-3 e 201-204; e, ora, Moatti 2000.
5 Bertrand 1999, 110.
6 Thomas 1989, 1992 e 1995.
7 Cf. anche Bertrand 1999, 102-103, con un altro significativo esempio.
8 Allo stesso modo ogni δικαστήριον disponeva di un segretario (γραμματεύς) incaricato di dare lettura del testo delle leggi, delle testimonianze o di altri documenti durante i processi ([τινὰ ἢ] νόμον ἢ μαρ[τυρίαν ἢ τοιοῦτόν τι ὁ γραμμ]ατεὺς ἀναγι[γνώσκειν]) (67.3).
9 Sul μερισμός cfr. Hansen 1991, 260-264; Faraguna 1992, 177-194.
10 Sui verbi καταλέγω e ἀναγιγνώσκω indicanti nei passi citati l’atto della “proclamazione”, della “lettura ad alta voce” cfr. da ultimo Svenbro 1991b.
11 Robert & Robert 1983, 212-215, 26, con le successive osservazioni di Savalli 1985, 406.
12 Per una rassegna delle testimonianze v. Oehler 1921. Sullo statuto degli araldi e sulle loro funzioni cfr. Lewis 1996, 51-74; Goblot-Cahen 1999.
13 Cf. ora il commento di Figueira 1998, 380-388.
14 Si veda il commento all’iscrizione di Koerner 1993, 62, la cui esegesi “unitaria” dei quattro lati della stele non mi sembra peraltro condivisibile. Conto di ritornare in futuro su questa iscrizione in un altro contributo.
15 Ulteriore documentazione in Oehler 1921, 357, e Migeotte 2002, 29-32.
16 Cf. in proposito Stroud 1998, 61-63, con esame esaustivo delle fonti; sul significato di μερίς in tale documento v. Faraguna 1999, in part. 90-97.
17 Knox 1968, con le successive osservazioni di Svenbro 1991a, 161-187. Cf. anche, in generale, Knox 1985, 5-10.
18 Moreau 2000, 693-721, in part. 718-719.
19 Da ultimo Hedrick 1999, 389-408. Come evidenzia Millar 1984, 94, “il decreto ateniese riguardante Calcide, probabilmente degli anni 450-440, rimane la più antica documentazione di prosa attica continua” (corsivo mio).
20 Thomas 1994, 45-49; cfr. anche Pébarthe 2000, 58-64; Rhodes 2001, 35-36.
21 Faraguna 1994, 572-574; Kallet-Marx 1994.
22 Alla lista dei testi fornita da Jordan 2000, 91-103, in part. 91-92, e al nuovo documento ivi pubblicato, adde SEG, 37, 665 (cfr. anche Ampolo 1994, 245-246) (Kerkinitis), e il “piombo di Pech-Maho” (SEG, 38, 1036; cfr. van Effenterre & Ruzé 1995, 75; e, da ultimo, Pébarthe & Delrieux 1999; Decourt 2000).
23 Discussa rimane soprattutto la datazione della lettera di Emporion: per una datazione “alta” v. van Effenterre & Ruzé 1995, 268-271, che addirittura rialzano (“milieu (?) vie s.”) la proposta dei primi editori (530-500), e A.W. Johnstone ap. Jeffery 1990, 464 (c. 500); per una datazione al v sec. cfr. Slings 1994. Bibliografia completa in Paz de Hoz 1997, 39-41.
24 Sul rapporto tra scrittura e commercio cfr. ora Bresson 2000, 141-144; Faraguna 2002.
25 Cristofani 1992-1993, 205-232, in part. 219-220 e, per la datazione del relitto, 225-229, ove anche la precedente bibliografia.
26 Sul caso parallelo, ma cronologicamente più tardo (422/421-419/418), di epistatai e hieropoioi nel santuario eleusinio (IG, I3, 391) cfr. Cavanaugh 1996, in part. 5-6.
27 Cf. anche, per il iv sec., IG, II2, 1174, l. 4-7: [τòς δημάρχος κ]αὶ τòς ταμίας τòν λόγ[ον τῶν λημμάτων] καὶ τῶν ἀναλωμάτων ἐίμβάλλειν ἐς τήν] κιβωτòν κατὰ μήν[α ἕκαστον].
28 Whitehead 1986, 43.
29 Si veda il commento di Petrakos 1984, 192-195.
30 Payne & Young 1950, 47 e tav. 118; Ridgway 1977, 137 con fig. 36, secondo cui “it is conceivable that the scribe pose symbolizes a treasurer of the goddess keeping the accounts”. Diversamente Shapiro 2001, 94-96, interpreta ora le statue come figure di chresmologoi.
31 Sickinger 1999, 36-37.
32 Cf. anche Koerner 1993, 37; van Effenterre & Ruzé 1994, 23, entrambi con ampia discussione dei problemi interpretativi posti dal testo; si veda inoltre Hölkeskamp 1999, 100-102.
33 Jeffery & Morpurgo Davies 1970; van Effenterre & Ruzé 1994, 22; v. anche Thomas 1995, 66-71. Per la documentazione relativa ad altri simili personaggi in altre città del mondo greco si veda Ruzé 1988.
34 Lombardo 1988, 170-171; cfr. anche Guarducci 1967, 417-428.
35 Sull’impianto urbanistico di Imera e sull’organizzazione degli spazi pubblici in questa polis cfr. ora Allegro 1999.
36 Brugnone 1997.
37 Dubois, Bull. ép., 1999, 644; Manganaro 2000; Lombardo 2001, 78-80 e 120-121 (4a-b).
38 Sul significato di oikopedon cfr. la discussione di Nenci 1993, che propone di tradurre il termine con “presella edificatoria”; v. anche Hellmann 1994, 142.
39 Dubois, Bull. ép., 1999, no 644, 712, che sostanzialmente accoglie la proposta di integrazione del passo in questione avanzata da Manganaro 1997, 318 n. 57.
40 E’ sufficiente qui rimandare a Lambert 1993, in part. 25-57.
41 Cordano 1992; cfr. anche Cordano 1996, 179-184, secondo cui, nel caso di Camarina, sarebbe possibile “ipotizzare una segreteria della phratra, dove si prendevano le tessere e si deponevano quando non servivano più, e dove un grammateus, oppure uno mnamon, interveniva quando necessario” (p. 182).
42 Brugnone 1997, 297-299; Faraguna 2000a, 108-112.
43 Questo al di là dell’interpretazione che si vuole attribuire alle l. 11-17 e, in particolare, del significato e della funzione di μνέσεται alla l. 15; cfr., per una sintesi delle posizioni emerse al riguardo, Lombardo 2001, 78-80 e 120-121.
44 Cf., per fare un esempio che ci riporta al vii sec., Arist., Ath. Pol., 3.4, secondo cui i tesmoteti sarebbero stati creati ὅπως ἀναγράψαντες τὰ θέσμια φυλάττωσι πρòς τὴν τῶν ἀμφισβητούντων κρίσιν. Su questo discusso passo si vedano Gagarin 1981; Rhodes 1981, 102-103; Ruzé 1988, 86-88; Robertson 1989. Sul problema degli archivi giudiziari nelle città greche sono fondamentali le considerazioni di Thür 1987 (con sistematica raccolta dei testi e relativa discussione). Si vedano inoltre Arist., Pol., 1321b 24-49 e 1331b 6-11; IK, 11.1-Ephesos, 4, l. 14-33 (cfr. Asheri 1969, 44-47 e 108-111), e, limitatamente al caso di Atene, Sickinger 1999, 131-133.
45 Faraguna 2000a.
46 Si noti ad es. che liste di proxenoi sono con ogni probabilità attestate ad Atene già dalla metà del v sec. : IG, I3, 27, l. 7-10: ἀνα]γράψαι τòν [γραμματέα τɛÞς β]ολɛÞς ἐμ πόλε[ι ἐστέλει καὶ ἐν] τõν βουλευτε[ρίοι προχσένος], con Gschnitzer 1973, 704-705. Per una ulteriore serie di interessanti esempi cfr. And. 1,73-79, in part. 77-79, con Boegehold 1990.
47 Nicolet 1994a, VII-IX.
48 Per una ricca selezione di testi v. Klaffenbach 1960, 5-25; cfr. anche Boegehold 1972.
49 Ulteriori riferimenti in Lambrinudakis & Wörrle 1983, 346-350.
50 Cf. Chambers 1990, 365, che, sulla scorta di una proposta di S. Dow, pensa ad una sorta di soppalco ligneo raggiungibile mediante una scala. Si vedano anche Posner 1972, 112 con n. 62; Sickinger 1999, 148.
51 Su questo si vedano Shear 1995; Valavanis 2002.
52 Invernizzi 1996, con sintetica presentazione e discussione tanto della documentazione relativa al caso specifico di Seleucia sul Tigri quanto di quella parallela di altre città greche.
53 Jacoby 1949, 383-384 n. 27; v. anche Georgoudi 1988, 227-233.
54 Savalli 1985, 400-408.
55 Lambrinudakis & Wörrle 1983, 299-308 e 344-346. Circa l’idea, sostenuta dal Wörrle, che l’archivio del tempio di Estia fosse il solo archivio pubblico a Paro e che i μνημονικὰ γράμματα fossero esclusivamente atti di natura privata (p. 320-321 e passim) si vedano le giuste riserve di Georgoudi 1988, 243 con n. 64.
56 V. in proposito Klaffenbach 1960, 18-23. Per la datazione dell’iscrizione (234/233 a. C.) cfr. Milet VI.1, 161.
57 Asheri 1969, 44-47 e 108-114.
58 Sparta: Boring 1979, in part. 31-36; Richer 1998, 489-490; e, ora, Millender 2001, 121-164, soprattutto 127-141; rimane sempre fondamentale Cartledge 1978. Delphi: Roux 1979, passim. Delo: Vial 1984, 111-112 e 201-251.
59 Attingo questa nozione, di cui spero risulterà chiara l’utilità euristica, da Moreau 2000, 693-721, in part. 717-718.
60 Sulle Vite dei dieci oratori, oltre all’Introduzione all’edizione di Cuvigny 1981, 25-34, si veda ora Schamp 2000.
61 Ho affrontato nel dettaglio i problemi posti da tali testi in Faraguna 2003; cfr. anche l’eccellente studio di Prauscello 1999.
62 Gauthier 1985, 79-112.
63 Sul personaggio cfr. Paus. 1.36.5-6 con Habicht 1998, 92-94; si veda ora anche Golan 2000.
64 Versione manoscritta e versione epigrafica del decreto sono giustapposte e convenientemente messe a confronto da Conomis 1970, 13-17, e da Oikonomides 1986.
65 Manca nel testo epigrafico l’indicazione della pritania, fatto piuttosto raro ma non del tutto senza confronti: v. IG, II2, 463, datata anch’essa, come lo psèphisma per Licurgo, al 307/306, con Henry 1977, 61-62.
66 Si vedano in proposito Curtius 1866 e Prauscello 1999, 47-55.
67 Pugliese Carratelli 1963-1964, 183-201, 26 (SIG3, 1023; Sokolowski 1969, 173).
68 Su questi magistrati, che avevano a Halasarna la funzione di demarchi, cfr. Sherwin-White 1978, 182-183; Jones 1987, 240-241.
69 Allo stesso modo, un decreto di Mileto che stabiliva la simpolitia tra la polis ionica e Kios (Milet I. 3, 141) prescriveva che i politai di quest’ultima potevano acquisire la cittadinanza milesia ἐὰν ἀπομαρτυρῶσι... μετὰ ψηφίσματος, ὅτι εἰσὶν αὐτῶμ πολῖται (l. 39-41) (cfr. Savalli 1985, 407-408 n. 153a).
70 Sul significato del verbo καταχρηματίζειν zein cfr. Sokolowski 1969, 304 (“enregistrer dans les archives publiques”); Savalli 1985, 402 (secondo cui esso rimanda “ad una qualche pratica di archiviazione”); e, nello stesso senso, Migeotte 1992, 152-153. Lo studio fondamentale sulla terminologia delle pratiche archivistiche nel mondo greco rimane quello di Wilhelm 1909, 229-299 (in part., sul testo qui in esame, 290-292).
71 A questo proposito, con particolare riferimento al problema dei “registri fondiari”, cfr. Faraguna 1997; v. anche Ostwald 1995.
72 Sul coinvolgimento della boulè nell’amministrazione del culto delle dee eleusinie cfr. Rhodes 1972, 93-95 e 127-129; v. anche Parker 1996, 123-125.
73 In tal senso Sickinger 1999, 68-70. Sul decreto di Callia cfr. Kallet-Marx 1989; Mattingly 1997, e, da ultimo, Samons 2000, in part. 113-138, con ampia discussione della precedente bibliografia.
74 te Riele & te Riele 1987; Thür & Taeuber 1994, 9; Heine-Nielsen 1996, 67-70, cui rimando per i problemi connessi alla datazione e all’interpretazione del testo.
75 Così Bertrand 1999, 111-112.
76 Per un caso in qualche modo analogo cfr. Milet I. 2, 10, un decreto del koinon degli Ioni, datato al 289/288 a. C., in onore di Ippostrato di Mileto, in cui si dispone ἀπενεγκεῖν δὲ ἑκαστους τῶν βουλευτῶν τὰ ἐγνωσμένα ’Ίωσι εἰς τὰς ἰδίας πόλεις, ὅπως ὑπάρχηι ἐν τοῖς δημοσίοις ἀναγεγραμμένα τὰ ἐγνωσμένα ὑπò Ἰώνων (l. 17-20). Ogni città doveva poi curare la trascrizione del testo εἰς στήλην λιθίνην (l. 22-24).
77 Kawerau & Rehm 1914, 197; Rhodes & Lewis 1997, 379 e 526; cfr. anche Müller 1976, 41.
78 Wilhelm 1909, 229-299 (in part. per la formula qui sotto in discussione p. 285).
79 Klaffenbach 1960.
80 Hedrick 2000.
81 Sull’iscrizione e sui problemi ad essa connessi si veda Schlaifer 1940, 234-235, e ora, da ultimo, Mattingly 1999, 121.
82 Hedrick 2000, 130; cfr. l’apparato critico ap. IG, I3, 1453, ad G, l. 14-16, 898. Diversamente, Figueira 1998, 414-418, ritiene – ma a questo punto, dopo le considerazioni di Hedrick, senza adeguato fondamento – che il rendiconto avrebbe dovuto essere pubblicato su una stele di pietra.
83 Ciò che doveva comportare l’iscrizione εἰς τòν τοῖχον, ἵνα περ πρότερον ἀνεγράφησαν, σκοπεῖν τῷ βουλομένῳ (And. 1.84). Sui problemi legati all’identificazione del τοῖχος v. Robertson 1990; Rhodes 1991.
84 Su questa cfr. ora Osborne 1999; si vedano anche Klaffenbach 1960, 34-36; Sickinger 1999, 64-72; Rhodes 2001, 37-40.
85 Come ben evidenziato da Boffo 1995 e Davies 2003.
86 In tal senso, Thomas 1989, 38-94; 1992, 74-100 e 128-157; 1994; e Hölkeskamp 2000, 73-96, soprattutto 83-91, con ulteriore bibliografia. Si vedano peraltro ora Tracy 2000 e Richardson 2000, entrambi con considerazioni che, per quanto di portata limitata e di validità specifica, dovrebbero indurre ad una certa cautela di fronte a posizioni troppo generalizzanti e rigidamente definite. Sui luoghi di esposizione dei decreti attici si veda ora Liddel 2003.
87 Cf. Langdon 1991, P 1 (v. anche P 2), con la sintetica trattazione degli aspetti istituzionali alle p. 58-60; si veda anche Langdon 1994.
88 Davies 1994, in part. 209-211.
89 Thomas 1989, 38-94.
90 Thomas 1989, 45-53, che pone l’accento sul carattere simbolico (o addirittura semi-magico) di cui l’iscrizione e la stele venivano in tal modo a caricarsi; per una posizione più sfumata e più attenta ai singoli contesti v. peraltro Rhodes 2001, 136-144. Come mi è stato suggerito da Chr. Pébarthe, non bisogna a questo proposito sottovalutare la funzione “retorica” del riferimento diretto alla stele. Dalla Contro Leptine demostenica emerge ad es. in maniera molto chiara il significato ideale di cui venivano investite le stelai recanti il testo dei decreti onorari (64); ciò non impedisce tuttavia che nella medesima orazione si possa fare riferimento alle stele definendole ἀντίγραφοι dei decreti stessi (36-37) (in tal senso Georgoudi 1988, 240-242; Boffo 1995, 100-102). Sulla questione cfr. anche Sickinger 1999, 160-169.
91 Un altro caso di notevole interesse è rappresentato dal documento, comprendente decreto della boulè e relativo verdetto di condanna (καταδίκη) per tradimento contro gli oligarchi ateniesi Archeptolemo, Onomacle e Antifonte, riportato nella biografia di Antifonte nelle Vite dei dieci oratori del corpus dei Moralia plutarchei (833D-834B), documento che continuava evidentemente ad essere conservato nel Metroon, dove venne ricopiato da Cratero (Harpocr. s.v. Ἄνδρων), pur risalendo al periodo del governo dei Cinquemila (in tal senso Ostwald 1986, 397-400)–e quindi ad una fase di “congelamento” del sistema democratico – e ad un momento anteriore alla creazione del Metroon stesso. Cf. n. 44. Per alcuni interessanti casi di dossiers epigrafici, v. Davies 2003, 333-335.
92 Ad es. I.Priene 361, l. 1-3: Ἀριστομένεος αἱρεθεὶς ὑπò τõ [δήμο] ἀποκατέστησε τοὺς ὅρους [ἐκ τῶν] λευκωμάτων.
93 Faraguna 2000a.
94 Humphreys 1985, 322-325, le cui conclusioni, su questo punto specifico, non sono modificate da Rubinstein 2005. Per alcune significative eccezioni alla regola cfr. Dem. 20.31-32, con riferimento all’ἀπογραφή disponibile παρὰ τοῖς σιτοφύλαξιν; 34.7 e 35.29-30, in cui la dimostrazione si fonda su elementi riscontrabili nell’ἀπογραφή dei πεντηκοστολόγοι.
95 Si vedano in proposito le considerazioni di Boffo 1995, 97-103.
96 Per un esame della problematica, parallela a quella cui si fa qui riferimento, posta dalla falsificazione e dalla manomissione dei documenti a Roma cfr. Moreau 1994.
97 Cf. Rhodes & Lewis 1997, 526.
98 Su questo decreto e sulle sue implicazioni nell’ambito dell’uso della scrittura ai fini dell’amministrazione dell’impero ateniese cfr. Pébarthe 2000, 58-61.
99 Per la data dell’iscrizione cfr. Schweigert 1938, 281-289, in part. 286. Sulla Chalkotheke v. La Follette 1986.
100 In questo senso Sickinger 1999, 125-126. Il carattere di “autenticità” in questo caso attribuito alla stele è sottolineato anche da Georgoudi 1988, 242.
101 Wilhelm 1909, 242: “augenscheinlich zum Zwecke grösserer Sicherheit und längerer Geltung, da bei solchen Buchstaben das bequeme ἐξαλείφειν ausgeschlossen war”.
102 Per un ampio commento v. Lambrinudakis & Wörrle 1983.
103 Sickinger 1999, 139-187, in part. 140-157.
104 Cf., rispettivamente, Berent 2000a e Hansen 1998. Cf. anche Berent 2000b. Un’utile rassegna dei problemi in Giangiulio 2001.
105 Faraguna 2000b, 217-229, in part. 229. Nello stesso senso, con riferimento specifico alla dimensione economica della vita delle città greche, v. Bresson 2000, 243-307, soprattutto, per una sintesi delle posizioni sostenute, 304-307. Sulla parabola della nozione di “Stato” nella storia della civiltà europea cfr. ora Reinhard 2001.
Auteur
Université de Trieste.
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