Andrea Lombardi. Un intellettuale meridionale e il mito degli Italici nell’Italia del Risorgimentale
p. 71-81
Résumé
The paper deals with Andrea Lombardi, a “bourgeois” of the Regno delle Due Sicilie born in 1785 in Basilicata, to whom we owe a series of researches on pre-Roman remains belonging to the ancient Italic tribe of the Lucanians. Lombardi’s analysis of several monumental defensive walls of the Lucanian oppida, appeared in the years 1830 and 1832 in the publications of the Instituto di corrispondenza archeologica, the earliest institution of modern archaeology, is the first study of the antiquities of the indigenous people of region and follows the trend inaugurated few decades before by Giuseppe Micali with his momentous book L’Italia avanti il dominio dei Romani (Florence, 1810). Both Micali and Lombardi speak enthusiastically of all the Italic peoples of the Italian Peninsula, of which they have a semi-mythical view, presenting them as industrious and honest; their merit is however to have anchored their historical reconstruction to real archaeological facts.
Texte intégral
“I Sepolcri devono essere considerati come la maggiore ‘fonte’ della tradizione culturale retorica, che vede nei monumenti un motivo di esaltazione delle glorie nazionali. La ‘nazione’ non è il popolo, o il passato che continua nel ‘popolo’, ma è invece l’insieme delle cose materiali che ricordano il passato; strana deformazione che poteva spiegarsi ai primi dell’800, quando si trattava di svegliare delle energie latenti e di entusiasmare la gioventù, ma che è appunto ‘deformazione’ perché è diventata puro motivo decorativo, esteriore retorico”.
A. Gramsci, Letteratura e vita Nazionale, Torino 1954, 71 sq. (Quaderni dal carcere IX)
1Come è noto ed ampiamente dimostrato da varie ricerche da trent’anni a questa parte, la “riscoperta” degli Etruschi, se muove dall’isolata figura di Annio da Viterbo1, trova la sua prima e fondamentale ragion d’essere nell’assunzione, da parte dei Medici, del titolo di granduca di Toscana: l’ideologia del potere di Cosimo I si appoggiò non poco alle speculazioni di eruditi come Gelli e Giambullari, perché ne sortisse l’equazione, allora formulata per la prima volta nella geopolitica italiana, tra moderna Toscana e antica Etruria2: si tratta di una novità non da poco, se si pensa che l’unità antica dell’Etruria è continuata ad essere operante attraverso il medioevo non con il nome di Etruria, ma con il ricordo dell’antica provincia tardo-antica della Tuscia, vivo ancora oggi nelle denominazioni di Tuscia romana e Tuscia fiorentina. In questo senso il nome di Etruria attribuito nel latino delle cancellerie allo stato mediceo e il titolo di Magnus Dux Etruriae assunto dai Medici rappresenta una novità nel lessico politico italiano cinquecentesco, che senza dubbio si nutriva di una nutrita serie di riferimenti al dominio esercitato dagli Etruschi sull’Italia, dall’incipit della celebre digressione liviana3 sulle invasioni celtiche – Tuscorum ante Romanum imperium late terra marique opes patuere – alle parole di Catone ricordate da Servio4 – in Tuscorum iure paene omnis Italia fuerat. Non si deve però credere, come molti fanno, che l’autorappresentazione politica medicea si sia basata su di un programma mirato di valorizzazione di grandi monumenti etruschi, dal momento che tutto si è sostanzialmente fermato alla musealizzazione di alcuni oggetti-simbolo, come la Chimera, e alla formazione di quella “Wunderkammer” assai particolare che è stato il “Gabinetto dei bronzi”. Tuttavia, come ci ha ricordato assai di recente Cristiana Zaccagnino5, la prima vera sistemazione di questa raccolta è stato il frutto delle cure erudite dell’Abate Luigi Lanzi6, e questo ben dopo la fase medicea, e cioè al momento del fulgore della dinastia dei Lorena.
2Il senso profondo di questa fortunata equazione va comunque visto nella prospettiva della mera propaganda dinastica, evitando generalizzazioni fuorvianti sul significato reale di questo riandare ad un passato etrusco. Ricordo in proposito un commento molto tagliente espresso da Enrico Paribeni a proposito delle scelte compiute dalla principale mostra sui Medici del 1980: per illustrare la cultura della corte di Cosimo I gli espositori si gettarono a capofitto sui materiali del “Gabinetto dei bronzi”, dimenticando – ricordava Paribeni – che tra gli acquisti Medici c’erano due lastre dell’Ara Pacis e che la facciata di Villa Medici a Roma traboccava di marmi romani tra i quali erano parti rilevanti della c. d. Ara Pietatis. Nel Rinascimento il mito etrusco non è mai uscito dai confini dell’affermazione di prestigio del principe e solo nel Settecento è diventato fatto di cultura diffusa – s’intende nei ristretti limiti dell’élite dominante – con fenomeni abbastanza circoscritti, a metà strada tra il localismo e l’erudizione, che trovano il punto più alto con l’attività dell’Accademia di Cortona7.
3In altre parole, il gusto dominante e la cultura profonda della corte dei Medici e della Toscana tra Cinque e Seicento non furono mai condizionati da questo richiamo al glorioso passato della “Grande Etruria”. Ma ciò non vuol dire che il recupero del passato messo in atto da Cosimo I, nato per esigenze politiche e solo più tardi nutrito di vere speculazioni antiquarie, non abbia finito sul lungo periodo con l’incidere sull’immaginario collettivo toscano. La fortuna, per non dire il radicamento, dell’equazione tra Etruria e Toscana traspare con tutta evidenza dal fatto che essa ha trovato esiti ancora in tempi assai vicini a noi non solo nella cultura locale diffusa (ciò che venticinque anni fa ho potuto io stesso verificare contattando a partire dal 1985 le autorità locali per organizzare per conto della Regione Toscana le manifestazioni dell’“Anno degli Etruschi”), ma addirittura con riflessi diretti nella piena ufficialità dell’organizzazione dello Stato unitario. Basterà per questo pensare a quanto è accaduto tra Otto e Novecento con la costituzione degli organi di tutela del patrimonio archeologico della Toscana e del Museo di Firenze. La Soprintendenza Archeologica della Toscana ha assunto solo di recente questo nome. L’istituzione che ho conosciuto io si chiamava Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria, così come perno del Museo archeologico fiorentino è stato il Museo topografico dell’Etruria. Non senza un tratto di grandeur che cozzava con la più ridotta competenza della tutela esercitata rispetto all’estensione storica del territorio etrusco, quest’ultimo Museo, nel suo stesso impianto, aspirava a presentare l’Etruria nella sua interezza, un obiettivo che il suo fondatore Luigi Milani perseguiva senza sosta, facendo uso di una spregiudicata politica di acquisti. Tutto quanto finora detto andava premesso per spiegare il diverso destino che la “riscoperta” del passato etrusco ha avuto rispetto a quello delle popolazioni italiche.
4Il mondo degli Italici affiora per la prima volta nella sistemazione di Scipione Maffei, “Degli Itali primitivi”, del 1727, ripresa e ampliata poco più di dieci anni dopo nel 1739 con il “Trattato sopra la nazione etrusca e sopra gli Itali primitivi”: il documento di partenza è costituito sì dalle Tavole Iguvine, e quindi dalla regina delle iscrizioni italiche, ma il centro dell’interesse è e resta il mondo etrusco, del quale l’Umbria antica è sentita come una sorta di appendice. Per le sue stesse origini erudite e libresche, la nozione di italicità, fatta di genericità e vaghezze, è continuata a lungo a confondersi con quella di etruscità: ma, mentre ben presto l’antiquaria etrusca si è rivolta ai monumenti e alle testimonianze archeologiche, i materiali italici sono rimasti assai a lungo sconosciuti e deliberatamente ignorati, come vedremo fra poco. D’altro canto era luogo comune parlare d’Italia8 senza entrare nel merito della realtà etnica, ma accomunando sotto l’unico denominatore di “Italici” o “Italia” genti etrusche, apule e osco-umbre e finanche greche di Magna Grecia: lo stesso Vico, pur titolando uno dei suoi libri più impegnativi De antiquissima Italorum sapientia, vuole riferirsi alla filosofia greca, così come il grande affresco della “Scienza nuova” appare informato alla stessa visione dell’Italia. Gli Italici come realtà culturale sono in ombra, confusi con il popolo etrusco che aveva in epoca antichissima, prima dei Romani, dominato l’Italia, luogo comune della letteratura erudita italiana, dal quale non si distaccherà nessuno dei non molti autori che nella fase risorgimentale si occuperanno delle antichità della nostra penisola. Allo stesso modo in varie raccolte di antichità della penisola, come ad esempio accade per la collezione Santangelo9, oggetti greci o romani venivano accostati a materiali di cui solo vagamente si intuiva la pertinenza alle civiltà italiche, senza che questo interesse andasse oltre la curiosità di un’antiquaria minuta o la ricerca degli usi e dei costumi documentati dall’instrumentum antico: quando ci accingiamo a valutare il significato di questi interessi di collezione è sempre bene aver presente il dileggio di questi collezionisti messo in scena da Goldoni nella La famiglia dell’antiquario, il cui protagonista, Anselmo Terrazzani, è ossessionato dal possesso di materiali rari e “medaglie”, come la “moneta del Pescennio”, di documenti eccezionali, come “i trattati di pace fra la repubblica di Sparta e quella d’Atene… scritti di propria mano di Demostene”, o di oggetti che si voleva far credere appartenuti ai grandi del passato, come “il lume eterno trovato nelle piramidi d’Egitto”, “la perla di Cleopatra” o la “treccia di Lucrezia romana”.
5In definitiva gli intellettuali dell’epoca preunitaria hanno tributato modesta attenzione alle popolazioni italiche e alle genti dell’Italia preromana, dominati come sono stati dalle scelte classiciste prima e dalle pulsioni romantiche10 poi: tutto ciò ha finito per confinare la vicenda, complessa e articolata, che ha portato alla ribalta della storia i popoli italici, entro gli angusti limiti della tradizione contenuta nelle pagine degli autori classici. Questo sostanziale disinteresse cozza con l’avidità con la quale, ben prima del periodo napoleonico e poi per tutto il xix secolo, esponenti della classe dominante hanno saccheggiato tombe di tutte le terre in antico popolate dagli Italici, e soprattutto in area apula e lucana, traendone materiali che hanno formato il nucleo di collezioni regie e aristocratiche e persino di personaggi di grande rilievo politico, come il Museo, purtroppo assai poco studiato, del potente dignitario borbonico e ministro di polizia napoletana Marchese Nicola Santangelo. Che questi oggetti fossero deposti in tombe appartenute a popoli altri dai Greci e dai Romani non è argomento di riflessione: ciò che interessa i collezionisti dell’epoca è la qualità formale degli oggetti che hanno arricchito raccolte centrate nell’insieme sui valori dominanti del neoclassicismo. Date le loro intrinseche qualità artistiche, questi oggetti non sono stati visti (e per certi versi ancora oggi lo sono) come documenti delle civiltà italiche, ma come testimonianze dell’amata grecità. Corollario tutt’altro che nuovo di questa situazione, per l’intera fase preunitaria del nostro Paese non sono documentate indagini archeologiche tese a conoscere meglio i popoli italici come tali né collezioni di oggetti “indigeni” raccolti non come “curiosità”, ma come riconosciuta testimonianza delle civiltà antiche diverse da quelle greche, romane o anche etrusche.
6E’ opinione corrente che la “riscoperta” moderna del mondo preromano parta dal libro di Giuseppe Micali, L’Italia avanti il dominio dei Romani11. Dobbiamo a Paolo Desideri12 il più meditato e penetrante apprezzamento dell’opera del Micali, la cui genesi si iscrive a pieno titolo nel clima intellettuale determinatosi in Italia in concomitanza della presenza napoleonica. Di particolare interesse sono le propensioni politiche dell’autore, assai ben lumeggiate da Desideri: a ragione Desideri attribuisce il mancato ingresso di Micali nello staff dell’Archivio Storico Italiano di Giovan Pietro Vieusseux e Gino Capponi alla stroncatura che de L’Italia avanti il dominio dei Romani ha fatto il ben più informato Inghirami, non per caso allievo del grande abate Lanzi13. Dell’asprezza del confronto fra i due eruditi è documento chiaro il fatto, sottolineato da Desideri14, che nel suo opuscolo Inghirami non cita mai per nome Micali. Ma ben più rilevanti di queste considerazioni, tutte interne al mondo culturale fiorentino, sono le analisi che Desideri fa del retroterra politico del Micali, analisi molto acute dalle quali emergono con assoluta chiarezza le propensioni dell’Autore, incline al federalismo e nutrito di una manifesta avversione per il ruolo oppressivo svolto da Roma nei confronti delle popolazioni italiche. Questo dato rappresenta un punto fermo e una discriminante chiara tra quanti si sono occupati della più antica storia della Penisola nel periodo tra Restaurazione e nascita dello stato unitario. Come vedremo subito, il caso che intendo presentare ci offre la testimonianza di un primo, timido interesse per l’ethnos lucano, con alcuni elementi in comune con la personalità di Micali, per quanto attiene sia le inclinazioni culturali che le scelte politiche. L’aspetto più importante comune tra i due è l’assoluto dominio della documentazione tratta dalle fonti nella ricostruzione della storia delle popolazioni italiche, con un silenzio nei confronti delle testimonianze monumentali e archeologiche, che lo stesso Inghirami nella sua recensione non manca di sottolineare: “mentre abbondano troppo i monumenti della Nazione Etrusca, mancano del tutto i monumenti delle altre Nazioni che esistevano in Italia avanti il dominio de’ Romani”, un passo opportunamente citato dallo stesso Desideri15. La ricostruzione della storia dell’Italia antica, offerta da Micali, è essenzialmente una etnografia e riposa per intero sulla tradizione letteraria classica, che egli ripropone e amplia secondo la sua personale visione, fortemente dominata dalla speculazione dell’etruscologia settecentesca, la sola ad essere stata sviluppata proprio nella regione di provenienza del Micali, la Toscana.
7Nel Regno di Napoli, terra che nell’età preromana aveva ospitato alcune tra le genti più importanti delle popolazioni italiche, l’avvio degli scavi di Pompei ed Ercolano e la riscoperta della grecità magno-greca avevano di fatto polarizzato, non senza ragione, l’attenzione degli eruditi in direzione della civiltà greco-romana; anche la ricerca archeologico-epigrafica nei vasti territori del regno, che poteva contare su non pochi cultori, aveva ulteriormente concentrato soprattutto sulla storia e sulla topografia dell’età romana gli interessi dell’aristocrazia e della borghesia delle professioni del regno accomunate dalla formazione umanistica uniformemente condivisa. Alla borghesia delle professioni appartiene Andrea Lombardi, il personaggio di cui vorrei in questa sede delineare il profilo intellettuale. Lombardi, intellettuale e grand commis del regno delle Due Sicilie della prima metà del secolo xix, è autore di saggi eruditi presenti nelle pagine delle pubblicazioni dell’Instituto di corrispondenza archeologica, consultate ancora da quanti si occupano delle antichità della Basilicata antica; mi riferisco in particolare al Saggio degli antichi avanzi della Basilicata e alla Topografia ed antiche città nella Basilicata, rispettivamente contenuti nel Bollettino dell’Instituto del 183016 e nelle Memorie dell’Instituto del 183217. I due scritti del Lombardi sono un primo moderno approccio alla vasta documentazione archeologica della regione, di cui egli descrive sommariamente monumenti di età preromana e romana, sia quelli delle colonie greche nelle più accessibili regioni costiere, da Metaponto a Eraclea, che quelli dei centri lucani posti nelle più impervie regioni dell’interno, da Anzi a Baragiano, fino a quelli delle città romane grandi e piccole della regione, da Venosa a Grumento.
8Nato il 25 giugno 1785 a Tramutola, un piccolo paese al confine tra la Basilicata e la Campania, Andrea Lombardi18, dopo aver studiato lettere e filosofia in casa con lo zio paterno Lorenzo, inizia la sua carriera precocemente, nel 1803, chiamato ad insegnare lettere nella Badia di Cava dei Tirreni. La sua adesione al governo murattiano non gli impedisce l’ingresso nella carriera delle intendenze borboniche: Consigliere d’Intendenza a Cosenza fino al 1818 e a Potenza fino al 1833, di qui passa come Sottointendente a Palmi e Castrovillari; promosso nel 1837 a Segretario Generale di Intendenza di Cosenza, dal 1845 è con il grado di Intendente a Noto. Sempre come Intendente viene tosto trasferito a Campobasso, per diventare in rapida successione Intendente di Capitanata e, nel marzo 1848, di Basilicata a Potenza. Qui esprime pubblicamente la sua adesione alle posizioni liberali: la morte, sopraggiunta il 21 febbraio 1849, gli eviterà le conseguenze di questa sua scelta, mentre il suo amico e patriota Rocco Brienza, che oltre trent’anni più tardi scriverà di Lombardi un elogio molto sentito nel suo “Martirologio della Lucania”19, incorrerà nelle ritorsioni borboniche per averne pronunciato l’orazione funebre. Lombardi è uomo multiforme, con interessi volti sia al passato che al presente; divenuto Presidente della Società Economica della Basilicata nel 1830, promuove un dibattito sulle condizioni economico-sociali della regione, destinato a ricevere una vasta eco fra politici e intellettuali come Giuseppe d’Errico, altro personaggio di alto livello con interessi storico-archeologici, di cui sono noti contatti con Mommsen20; ha spiccati interessi giuridici e politici, pienamente riconosciuti da Giacomo Racioppi, assieme a Giustino Fortunato uno dei principali esponenti dell’intellighenzia della Basilicata della seconda metà dell’Ottocento, autore nel 1889, con ben altre informazioni dei suoi predecessori, della Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata21. Insomma, insieme a d’Errico, al Lacava e ad Ettore Ciccotti, Andrea Lombardi rappresenta una delle figure più significative della regione per gli studi di antichità dell’intero secolo xix.
9Personalità complessa dunque, quella di Lombardi, che esplora il passato con animo per molti versi ancora legato ai modelli del secolo xviii, da un lato con un’ispirazione ai modi della letteratura odeporica e dall’altro ai gusti dell’antiquaria, ma con interessi nuovi di ordine politico in sintonia con il clima della migliore intellettualità del Regno delle Due Sicilie. I suoi punti di riferimento sono sempre quelli dell’elaborazione erudita di fama consolidata, primo fra tutti il controverso personaggio dalla deprecabile propensione alla falsificazione Francesco Maria Pratilli22: queste fonti emergono soprattutto quando alcuni dei siti da lui menzionati non sono stati oggetto di visite autoptiche. Alcuni dei punti di vista consolidati nella letteratura antiquaria corrente sono da lui sposati come argomenti di fede. Lombardi, ad esempio, rifiuta23 come non autentica la notizia della scoperta di cinte “pelasgiche” in Basilicata, che, annunciata già nel secolo precedente e confermata da Louis Charles François Petit-Radel24, oggi è ben documentata da molti esempi. In quegli anni ogni buon antiquario definiva “pelasgiche” queste cinte, attribuendone la costruzione appunto ai Pelasgi: ora, poiché, a partire da Strabone, di cui nelle sezioni topografico-viarie e non solo in quelle della sua opera, è evidente la conoscenza diretta e non mediata del grande lavoro di Domenico Romanelli25, a quei tempi opera di riferimento per la topografia del Regno di Napoli, i suoi amati classici non collocavano la presenza dei Pelasgi in Basilicata, quelle cinte non potevano esistere. Va tuttavia detto che Lombardi si appoggiava non solo sui classici, ma anche sull’autorità del Gerhard, che egli cita motivando la propria posizione e che certamente in quegli anni era annoverato tra i soci più attivi del neonato Instituto di corrispondenza archeologica, di cui il Lombardi era membro: di meglio non c’era in Italia e in Europa. Tra l’altro nello stesso numero delle Memorie dell’Instituto di corrispondenza archeologica, nel quale Lombardi presenta la sua principale ricerca, viene pubblicata la memoria di Petit-Radel sulle cinte “pelasgiche”, seguita immediatamente, nello stesso volume, da una confutazione di quest’ultimo a firma di Eduard Gerhard26. Quanto all’ampiezza delle relazioni di Lombardi con gli specialisti migliori del momento, egli invia addirittura a Philipp August Böckh la copia di un’iscrizione lucana di Anzi27, i cui “caratteri… rimasero di oscuro significato”.
10Importanti sono le testimonianze di Lombardi circa la scoperta delle straordinarie (e dimenticate) tombe principesche lucane, della stessa Anzi come anche di Serra Lustrante28, di Roccanova29, di Marsiconuovo30, che possono agevolmente confrontarsi con le scoperte di questi ultimi decenni di Lavello31, di Melfi32 o di Roccagloriosa33, dalle quali abbiamo ricevuto importanti conferme, facendoci sempre meglio conoscere aspetti di grande momento della cultura della Basilicata antica. I brevi resoconti, spesso generici, di Lombardi talora contengono alcune osservazioni che oserei definire preziose per la ricostruzione del rituale funerario lucano, come quelle fatte a proposito degli spazi lastricati presso le tombe, con i resti di sacrifici animali o delle collocazioni dei materiali di corredo all’interno dei sepolcri della necropoli di Anzi34. Per questo motivo, i dati offerti da Lombardi vanno rivisitati alla luce dei rinvenimenti recenti, così come è opportuno completare con i dati apportati dal Lombardi molti elementi topografici, emersi negli ultimi trent’anni e presentati talora come vere e proprie scoperte, quando invece si tratta di mere “riscoperte”. Tanto per citare un esempio, parlando di Grumento, Lombardi compone una sintetica lista dei materiali scultorei romani rinvenuti nella città35: “tra gli oggetti superstiti sono meritevoli di particolare considerazione i seguenti: una statua di marmo rappresentante un guerriero, alta sei palmi, mancante della gambe e di un braccio; un’altra alta sette palmi che rappresenta una sacerdotessa, etc.” In queste due sculture, che egli pone in testa alla serie di sculture sono chiaramente le più significative, si può forse riconoscere la parte superstite di un ciclo di statue iconiche di principi giulio-claudi, ovvio in una città fiorente all’inizio dell’impero36.
11Come si è detto, la cultura di Lombardi ha molti tratti in comune con quella del Micali, anche se riposa su tradizioni abbastanza diverse. Il punto di partenza di Micali, abbiamo visto, è l’antiquaria toscana con i suoi spiccati interessi per il mondo etrusco, nella quale è notevole il peso del metodo e delle risultanze delle indagini dei suoi predecessori, dal Giambullari al Lanzi; per Lombardi i modelli sono la tradizione antiquaria coltivata dai circoli eruditi del Regno delle Due Sicilie, sia quelli legati al mondo ufficiale che quelli che spontaneamente si formavano in ambienti colti delle città piccole e grandi del regno, e soprattutto le imponenti ricerche di carattere topografico ed epigrafico portate avanti nel Settecento da personalità molto diverse, spesso con fama di falsari (una fama ora meritata, ora immeritata, a seconda dei casi), tutte però animate da un genuino interesse per le antichità locali, simile a quello che con esiti diversi muoveva gli antiquari toscani. Due erano gli elementi comuni all’ambiente toscano e a quello meridionale; il primo e più rilevante è costituito dalla matrice classicista dell’impianto da tutti dato alle ricostruzioni del passato, fermamente ancorate non solo all’etnografia antica, ma anche a tutte le vicende storiche riportate dalla tradizione letteraria antica con i suoi topoi, tra i quali quello più ricorrente è costituito dall’idea che la mollezza derivante dall’opulenza sia la causa prima della decadenza dei popoli; il secondo tratto comune è rappresentato dalla visione idillica dei diversi mondi epicori, frutto di un innegabile processo di autoidentificazione tra i vari autori e il passato glorioso delle loro terre.
12E’ interessante a questo punto mettere a confronto una pagina di Micali con una di Lombardi, ambedue dedicate alla rievocazione dei caratteri etici e politici dei Lucani. A proposito di questo popolo Micali scrive37:
“Prove di gran cuore meritarono dopo quel tempo ai Lucani la fama di popoli valorosi e forti, conforme allo spirito di un’età che alle virtù guerriere soltanto dispensava gli onori e la lode… A questo segno l’affetto della patria, passione sempre bella, benché rade volte moderata, produsse una razza d’uomini che parve superasse le forze istesse della natura; ma, mentre i costumi tendevano con perfetta armonia a dar l’essere ad utili cittadini, le leggi civili corroboravano quei coraggiosi sentimenti, ponendo l’ozio vile e la mollezze tra i capitali delitti. L’ardore di libertà che accendeva il cuore di popoli bellicosi, non ancora debilitati da bisogni inutili, né avviliti da quelle timide passioni che soggiogarono la lor posterità, par che si facesse con maggior forza sentire in quella porzione di Lucani, che abitavano intorno alla selva Sila sopra Cosenza…”.
13All’inizio della sua più celebre Memoria, sempre sulla scorta della tradizione letteraria antica, che egli però a differenza di Micali manca di annotare a proposito di ciascuna delle sue affermazioni, Lombardi propone questo rapido affresco della parabola storica della regione38:
“La Lucania occupava un posto luminoso tra le antiche regioni d’Italia meridionale. Ella distinguevasi principalmente per l’ampiezza del suo territorio, poiché comprendeva nel tempo di sua maggior floridezza tutto quel vasto tratto di paese, che si estende dalla foce del Silaro a quella del Lao sul mar Tirreno, e dalla destra del Bradano alla sinistra del Crati sul golfo di Taranto. Distinguevasi ancora per saggezza di politici ed economici ordinamenti, per inoltrata civiltà de’ suoi abitanti, e per copia e magnificenza di pubblici e privati monumenti ond’erano abbellite le numerose e splendide città che dappertutto sorgevano nel suo seno. I Lucani erano amanti della giustizia dell’ordine e del lavoro, gelosi della loro indipendenza ed ospitali: oltre di ciò erano prodi e bellicosi, e manifeste prove del loro indomito valore diedero mai sempre nelle tante guerre che sostennero ora coi Greci, ora con i Bruzi, ora con i Romani. Diventata la Lucania, dopo lunga e ostinata resistenza, preda di questi ultimi, decadde ben presto dal suo primero stato di grandezza e di splendore, e tale decadimento andò sempre più aumentando sotto la dominazione degl’Imperadori. Orde di popoli barbari e feroci avendo in seguito inondata la bella Italia, il suolo lucano fu per lunga stagione teatro miserando di stragi, di crudeltà e di devastazioni. Allora sparirono le città che il tempo aveva ancor rispettate, e con esse i monumenti, la gloria, e finanche il nome lucano. Sulle rovine di sì famosa regione sorse verso il decimo secolo l’odierna Basilicata”.
14I toni di Micali sono mitigati dalla distanza che si interpone tra lo scrittore livornese e una terra vasta e in larga misura a lui estranea, a lui nota di fatto solo dalle fonti, com’è il paese dei Lucani, che, fedele alla sua impostazione “federativa”, egli inserisce nel suo disegno storico su un piede di parità con tutte le altre genti italiche: i Lucani lo interessano soltanto un quanto parte di quell’Italia da lui vagheggiata. Per Lombardi invece il passato è prima di tutto quello della sua terra, e in quanto tale è felicemente luminoso, la civiltà dei Lucani “inoltrata”, i monumenti pubblici e privati “copiosi e magnifici”, le città “numerose e splendide”. Non c’è in lui quella visione di Micali, del tutto mitologica, dell’unità confederata dei popoli italici sotto la guida etrusca, ma tutto si restringe nell’ambito territoriale della sua regione natale; coerentemente con ciò, pur ricordando la conquista romana e la decadenza della Lucania che ne è scaturita, è assente la ferma condanna dei “superbi Romani” come responsabili dell’annientamento di quella confederazione. Anche se nella sua formulazione la decadenza italica segue alla sconfitta inflitta loro da Roma, tutto ciò sembra iscriversi nella visione ciclica della storia delle civiltà che Lombardi derivava dalla storiografia classica. A ragione Treves considera Micali un illuminista in ritardo39 e tale in fondo era anche Lombardi, se lo si considera non tanto nella sua qualità di amante delle antichità della sua terra, ma di uomo interessato alle questioni economiche e giuridiche, fedele ai dettami illuministici di un impegno volto al miglioramento delle condizioni della Basilicata dei suoi tempi.
15Se le posizioni di Micali circa il ruolo della nazione etrusca potevano trovare pieno riscontro nei monumenti prodotti in Etruria, divenuti famosi e ammirati grazie ai grandi progressi compiuti dalla ricerca etruscologica settecentesca, non si può dire lo stesso per le conoscenze antiquarie del Lombardi sui Lucani, dei quali, pur descrivendone alcune scoperte, come abbiamo visto, non sa però distinguere né i documenti archeologici “indigeni” da quelli importati dal mondo greco né leggere i documenti epigrafici: si è già detto della sua reazione alla scoperta di un’iscrizione lucana avvenuta ad Anzi, da lui definita “greca epigrafe” ed inviata “per competenza” al grande studioso Böckh40; in maniera del tutto analoga, nel ricordare la scoperta della Tabula Bantina avvenuta oltre quarant’anni prima al Lago della Noce presso Oppido Lucano41, le due iscrizioni, latina e lucana, vengono definite rispettivamente la prima un plebiscito de re vestiaria, e la seconda un testo “con caratteri greco, osco ed antico latino”. Lombardi, che per questo documento dipende interamente dall’esegesi pubblicata oltre trent’anni prima da R. Guarini42, non ha la minima idea di cosa siano la lingua e la scrittura dei Lucani.
16Ad onta delle differenti posizioni rispetto al passato, tanto Micali quanto Lombardi parlano di questi popoli italici in toni ammirati, ma pur sempre mitici. Funzionale ad un’esaltazione della propria stirpe, anche quando non è dimostrabile o dichiaratamente falsa la diretta discendenza da antenati vissuti su quella terra, il processo di mitizzazione del lontano passato classico è un motivo ricorrente nell’immaginario politico di ogni tempo fondato sullo schema del “Blut und Boden”, che giunge fino ai nostri giorni con l’invenzione della mitologia celtica della Lega Nord. Nel linguaggio di Umberto Bossi, che parla con successo di una patria mai esistita come la Padania o si rifà a simboli anch’essi inventati come il “sole delle Alpi”, i Celti, spacciati per antenati degli abitanti del nord della nostra penisola, assumono la fisionomia, del tutto priva di riscontri nelle fonti antiche, di “popolo laborioso e onesto”, esattamente la stessa caratterizzazione dei Lucani di Lombardi; non troppo diversamente l’oppressione romana degli Italici di Micali ricorda da vicino la “Roma ladrona” della propaganda della Lega Nord. Naturalmente qui si vuole sottolineare il fatto che i meccanismi di costruzione delle mitologie storico-politiche sono quasi automatici e possono prescindere da riscontri appena verosimili nei fatti o nella documentazione storica: ciò detto, è bene ricordare che Micali, Lombardi e tanti altri eruditi ottocenteschi si guardano bene dal costruire falsificazioni grossolane, del genere di quelle proposte dalla Lega Nord.
17Non ci debbono perciò ingannare le somiglianze degli archetipi psicologici e dei processi di ricostruzione del passato. Come è ovvio, i diversi immaginari storico-politici, che da questi modelli consciamente o inconsciamente derivano, non sono tra loro identici43: ciò che li distingue l’uno dall’altro sono gli obiettivi che le diverse costruzioni si prefiggono. Certamente la mitologia di Micali e quella di Lombardi avevano alle spalle un’idea, quella di nazione, capace di esprimere un tipo di organizzazione statuale di gran lunga più avanzato rispetto a quello degli stati preunitari risorti con la Restaurazione, capace ai loro occhi di consentire il riscatto di plebi altrimenti condannate alla povertà e all’ignoranza; tuttavia la sostanza delle loro affermazioni è e rimane esclusivamente ancorata alla tradizione letteraria. Il riscontro delle loro affermazioni nella documentazione archeologica è vago o addirittura poco attento, sì da meritare gli strali di un antiquario più informato come l’Inghirami, come nel caso di Micali, o si presenta in larga misura privo di una sia pur minima elaborazione, nella quale documentazione preromana e romana finiscono per essere confuse, come nel caso di Lombardi. Come si può dire per tutti gli antiquari di cultura settecentesca, l’approccio di entrambi, comunque lo si veda, appare fondamentalmente retorico, così come retorica è l’immagine stessa dell’Italia, che dalle personificazioni della letteratura antica, passando attraverso l’Italia petrarchesca, giunge fino a quelle di Foscolo e di Leopardi e dunque ai tempi di Micali e di Lombardi: di quella Italia, tutta letteraria, i monumenti antichi costituiscono una cornice, ora imponente, ora leggiadra, al più mero strumento ai fini di una rievocazione il cui carattere è rimasto sempre sostanzialmente retorico.
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Notes de bas de page
1 V. Pallottino 1981; Bonucci Caporali et al. 1982, 53-67.
2 Su tutto l’argomento, v. Cipriani 1980.
3 Liv. V, 33, 7.
4 Serv., Aen., XI, 567.
5 Zaccagnino 2010.
6 Sempre valido nella prospettiva di una valutazione archeologica il saggio di Cristofani 1983; v. ora Rossi 2006.
7 Barocchi & Gallo 1985.
8 Casini 1998.
9 La letteratura moderna su questa collezione è di fatto inesistente: si vedano intanto le brevi note contenute in: I Greci di Occidente. La Magna Grecia nelle collezioni del Museo di Napoli, Napoli 1996.
10 Anche se, come ha messo in rilievo Momigliano 1992, gli studi classici ottocenteschi italiani non sembrano essere stati influenzati dalle tendenze romantiche.
11 Micali [1810] (1821): come è accaduto a P. Desideri, mi è stato possibile consultare solo questa seconda edizione.
12 Desideri 2009, 222-266; v. qui stesso, infra.
13 Inghirami 1811.
14 Desideri 2009, 226.
15 Desideri 2009, 228.
16 Lombardi 1830.
17 Lombardi 1832.
18 Sulla vita e l’attività politica e intellettuale di Andrea Lombardi, le notizie più dettagliate sono in Durelli 1851; più di recente, v. Pedìo [1964] 1984, 96-99; la sua biografia manca dal Dizionario biografico degli Italiani.
19 Brienza 1882, 177-192; cf. anche Mondaini 1902, 290.
20 Cf. Ciccotti 1903.
21 Racioppi [1889] 1902.
22 Sul personaggio, v. Cilento [1966] 1971.
23 Lombardi 1832, 103-108.
24 Petit-Radel 1832.
25 Romanelli 1819.
26 Gerhard 1832 (con la relativa lista delle mura “ciclopiche” stilata dallo stesso Gerhard 1832, 79-83).
27 Lombardi 1832, 232, nota 1.
28 Lombardi 1832, 246.
29 Lombardi 1832, 249-258.
30 Lombardi 1832, 235-236.
31 Bottini 1982; Giorgi et al. 1988; Bottini et al. 1991; Giorgi & Martinelli 1992, 37-41; Russo 1992.
32 A. Bottini, in EAA Suppl. 1971-1994, III, 593-594 (con bibl. prec.).
33 Gualtieri 1990, 161-197.
34 Cf. nota 27.
35 Lombardi 1832, 239 sq.
36 V. la rassegna delle scoperte sette-ottocentesche di Bischirotto 2009.
37 Micali [1810] (1821), 214-215.
38 Lombardi 1832, 195.
39 Treves 1962, 296.
40 V. sopra nota 27.
41 Lombardi 1832, 218-219.
42 Guarini 1830.
43 Sulla costruzione di miti fondanti, v. ora Bettini et al. 2010.
Auteur
Docente di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana, Università della Calabria, Accademia Nazionale dei Lincei.
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