Epigrafia e lingua etrusca fra Pauli e Buonamici
p. 93-103
Texte intégral
1Tracciare la storia della linguistica etrusca nei primi decenni del xx secolo significa, in buona sostanza, raccontare la storia di un fallimento: un fallimento categorico, nei presupposti e nei metodi. Se andiamo a scorrere la bibliografia storica sulla lingua etrusca che ancora oggi consultiamo, salterà subito all’occhio come si passa dalla fine dell’Ottocento – primi del Novecento, con gli ultimi prodotti della generazione che aveva sviluppato il metodo combinatorio, direttamente alla nuova generazione che comincia dagli anni Trenta. Il periodo intermedio è di crisi, di incertezza, di conflitti di metodo che sono più che altro conflitti di idee.
2Questa situazione fu causata in prima istanza dalla crisi del metodo combinatorio, che già aveva cominciato a entrare in difficoltà sullo scorcio del xix secolo. A marcare questa crisi sta soprattutto il caso clamoroso rappresentato dal sesto quaderno degli Etruskische Forschungen und Studien, pubblicato da Wilhelm Deecke nel 1884, che contiene una clamorosa palinodia1, che era stata già preparata nell’anno precedente, al momento del divorzio scientifico da Pauli, con l’uscita dell’inatteso quarto quaderno della medesima serie2. La palinodia di Deecke è tanto più impressionante, in quanto, come è noto, era stato proprio Deecke, nella sua famosissima recensione all’opera di Wilhelm Paul Corssen a fondare, nel 1875, appena nove anni prima, il metodo combinatorio3.
3Il metodo combinatorio rappresentava un modo di procedere di ispirazione tipicamente positivista; le iscrizioni venivano scomposte e analizzate in relazione fra di loro come formule matematiche, nella certezza che, applicando il metodo con rigore, prima o poi si sarebbe spiegato tutto. I problemi di questo metodo, che portarono alla clamorosa palinodia di Deecke, stavano nei testi lunghi, che non si riuscivano a spiegare agevolmente, anche perché molte parole erano degli hapax, e non disponevano di confronti contestuali. È vero che, in effetti, alcuni testi lunghi erano già conosciuti (primo fra tutti il cippo di Perugia) ma con questi in qualche modo si era venuti a patti. Poi, però, nel 1882, arrivò il piombo di Magliano, che in un primo tempo, fu ritenuto un falso, proprio perché il testo sfuggiva agli strumenti del metodo combinatorio. Non è certo un caso che la rottura fra Pauli e Deecke sia sia consumata proprio nel 1883, anche perché i due quaderni che abbiamo citato sono centrati proprio sullo studio del piombo di Magliano4; per tradurlo, Deecke ritornò al metodo etimologico di Corssen, considerando, come Bugge, l’etrusco lingua indoeuropea non italica, e traducendo quindi le parole di conseguenza.
4Deecke sarebbe morto nel 1897, quindi in tempo per vedere emergere un altro testo lungo che segnò la fine degli ottimismi dei combinatoristi, il liber linteus di Zagabria, riconosciuto come etrusco nel 18925. Pauli e Torp, che continuarono in qualche modo nel solco del combinatorismo, vennero a mancare rispettivamente nel 1901 e nel 1916; con questo poteva sembrare che il combinatorismo avesse chiuso la propria parabola: ma non fu così, come vedremo più avanti, anche a seguito del fallimento ancora più clamoroso dei neo-etimologisti. Nel frattempo, nel 1899, era venuta alla luce anche la tegola di Capua; anche di questa all’inizio si era detto che fosse un falso, ma non per motivi linguistici, ma perché in terra napoletana era attiva in quegli anni una fiorente bottega di falsari specializzati in iscrizioni (osche soprattutto) che avevano messo a segno dei colpi clamorosi, e quindi il sospetto faceva presto a nascere. È anche per questo che si permise abbastanza a cuor leggero la vendita al Museo di Berlino, salvo poi rimpiangerne la perdita6.
5L’epitafio più toccante della grande fase combinatorista si legge in apertura del primo volume degli Etruskische Beiträge di Torp, del 19027:
Die etruskische Forschung scheint jetzt, nachdem sie vor etwa 20 Jahren namentlich durch Deecke und Pauli eine Blütezeit erlebte, fast nicht mehr in Deutschland betrieben zu werden. Die zahlreichen Versuche, die von seiten sowohl wirklicher Gelehrten wie auch unberufener Dilettanten angestellt wurden, das Etruskische durch den Vergleich mit anderen Sprachen aufzuklären, haben zuletzt bei dem gelehrten Publikum einen gewissen Unwillen gegen das Studium selbst hervorgerufen und das Ansehen desselben sehr herabgesetzt. ‘Etrusca sunt, non leguntur’.
Und wenn man, alle diese gescheiterten Deutungsversuche stillschweigend zur Seite lassend, diejenigen Ergebnisse mustert, die als wissenschaftlich gesichert gelten können, so muss man zugeben, dass diese nicht eben bedeutend sind.
6A credito del Torp va notato che fu l’unico della vecchia generazione dei combinatoristi ad affrontare i testi lunghi con il metodo combinatorio, aprendo la strada alla nuova generazione che avrebbe iniziato ad operare più di un ventennio dopo; fra le sue ultime opere la più influente furono senz’altro le Etruscan Notes, pubblicate eccezionalmente in inglese invece che in tedesco nel 1905, che sono un vero e proprio saggio di metodo combinatorio applicato ai testi lunghi più complessi8.
7A contribuire alla crisi del combinatorismo non va dimenticato l’apporto, fondamentale soprattutto in Italia, di Elia Lattes, senz’altro il più grande dei neo-etimologisti9. Lattes aveva un vecchio conto da regolare con Pauli, perché quest’ultimo si era reso autore di quella che, nell’ambiente accademico italiano, era stata considerata una vera e propria rapina. Quando ci si era resi conto che le schede epigrafiche del CII erano ormai inadeguate alla ricerca moderna, si cominciò a progettarne un rifacimento; Lattes, che aveva un ruolo di spicco nel mondo accademico italiano, nonostante si fosse dovuto ritirare dall’insegnamento per gravi motivi di salute nel 1886, si era assunto il ruolo di redigere il nuovo corpus, con il solo aiuto dell’allievo Bartolomeo Nogara. Ma, contemporaneamente, l’Accademia delle Scienze di Berlino era già al lavoro, e, sapendo che l’iniziativa non sarebbe stata ben accolta in Italia, e che ne sarebbero potuti risultare dei conflitti, che avrebbero potuto portare al divieto di accesso ai materiali, l’operazione fu occultata dietro degli incarichi piuttosto fumosi. La comparsa del primo fascicolo del CIE, nel 1893, fu un fulmine a ciel sereno, e da allora in poi Lattes sarebbe stato critico attentissimo di tutti gli errori e le imprecisioni dei vari fascicoli. La frattura si sarebbe ricomposta dopo la morte di Pauli nel 1901; il suo successore naturale sarebbe stato Olof August Danielsson, che già aveva fatto buona parte del lavoro dei fascicoli pubblicati a nome di Pauli, tra l’altro rivelando una capacità straordinaria nell’apprezzare gli aspetti tecnici e materiali delle iscrizioni (una capacità che invece al linguista Pauli spesso mancava). Ma l’accademia berlinese non poteva tollerare che a capo di un progetto così prestigioso ci fosse uno straniero, e nominò quindi a dirigere l’opera Gustav Herbig. Herbig fu però ben più generoso di Pauli, riconobbe a Danielsson un ruolo di condirettore alla pari, e, soprattutto, decise di associare al progetto anche Bartolomeo Nogara, ricomponendo così la frattura fra Italia e Germania10. Alla luce di tutto questo, si può capire facilmente come mai Lattes avesse lanciato le sue straordinarie capacità di glottologo nell’analisi proprio di quei testi che più imbarazzavano la scuola combinatoria, dal piombo di Magliano al liber linteus di Zagabria.
8Questa premessa serve a dare un’idea di quale fosse il quadro della linguistica etrusca al principio del xx secolo: il metodo combinatorio era considerato in crisi, e la ricerca aveva ripreso le strade più prettamente linguistiche dell’etimologia. Il problema, è che con l’etimologia si andava poco lontano; perché l’uso di un metodo etimologico presuppone l’esistenza di una parentela linguistica, la possibilità di inserire con certezza una lingua all’interno di una famiglia nota e ben definita. Cosa che per l’etrusco non era possibile allora, così come non è possibile ancora oggi, a cento anni di distanza (a parte i casi che conosciamo del retico e del lemnio, che però non aiutano a spiegare l’etrusco, anzi, in caso, vengono essi stessi spiegati tramite l’etrusco).
9Per dare un’idea del clima del primo decennio del Novecento, basterà notare che lo stesso pessimismo radicale che abbiamo trovato in Torp, che pure persiste per lo più lungo le linee del combinatorismo, lo troviamo tale e quale in un esponente della scuola rivale, Giulio Buonamici, che scrisse nel 1908 il suo primo breve saggio sulla lingua etrusca11. Queste sono le sue parole:
Se si tien conto degli innumerevoli tentativi che da più di 200 anni si sono succeduti per interpretare le iscrizioni etrusche, restiamo colpiti da 2 fatti: 1 ° gli sforzi erculei che i dotti han dovuto fare per rendere meno improbabili le loro conclusioni; 2 ° l’ostinazione colla quale la sfinge etrusca ha mantenuto il suo segreto.
Da molti furon poste in rilievo le difficoltà quasi insormontabili che presenta la questione, e per non ripetere cose note, ci limiteremo a domandare quali siano i risultati veramente certi e indiscutibili ottenuti dopo tanti studi. Ben pochi, anzi pochissimi, e di scarso valore.
10L’unica voce discordante, che tiene alta la fiaccola del combinatorismo più puro, è quella del grande danese Søren Peter Cortsen, erede in qualche modo di una tradizione scandinava già rappresentata dai norvegesi Bugge e Torp. Il problema di Cortsen è che inizialmente è un isolato, anche perché scrive in danese12; per farsi capire dai colleghi europei si volgerà inizialmente al latino, con un articoletto del 191713, che fa il punto delle acquisizioni certe o ragionevolmente certe ottenute dai combinatoristi, che, nota, non sono poi così poche. Cortsen sarebbe rimasto a margine della ricerca fino a quando, in pieni anni Venti, avrebbe cominciato a scrivere in tedesco, soprattutto sulla rivista Glotta, diventando in breve la massima autorità riconosciuta sulla lingua etrusca: ma questo sarebbe avvenuto più tardi, con il collasso finale del neo-etimologismo e il ritorno dei metodi combinatori, che in fondo usiamo ancora oggi14.
11L’altro grande scandinavo che lavora indefessamente in questo periodo difficile è naturalmente lo svedese Olof August Danielsson, la vera anima del CIE, nonostante sulla sua testa vi fosse sempre un’altra persona con il ruolo di direttore, prima Gustav Herbig, e poi Ernst Sittig. Ma, al primo convegno internazionale etrusco del 1928 fu Danielsson a riferire sullo stato dei lavori del CIE, e questo dice tutto15. Danielsson completò, insieme a Nogara, i lavori del volume I, rimasto incompiuto alla morte di Pauli; poi, in accordo con Herbig, modificò in modo sostanziale la struttura stessa del CIE; nel giro di un ventennio Herbig avrebbe pubblicato due fascicoli, mentre Danielsson ne preparò ben quattro; due di questi furono pubblicati integralmente da lui stesso, un terzo fu completato da Sittig dopo la sua morte, mentre della notevole massa di appunti per la redazione del quarto si persero completamente le tracce. Resta infatti ancora ignoto il motivo per cui il corposo archivio di appunti e schede preparatorie di vari volumi del CIE, che era in possesso di Danielsson al momento della sua morte, sia giunto, non sappiamo per quali vie, all’Università di Uppsala, dove è stato riscoperto solo poco più di un decennio fa16. I direttori che succedettero a Sittig (E. Norden dal 1935, e poi J. Stroux dal 1937) non sembra sapessero nulla dell’esistenza di questi appunti, né si preoccuparono particolarmente di mandare avanti il progetto, che nel 1940 fu ceduto di fatto all’Istituto di Studi Etruschi ed Italici.
12Ma, a parte queste eccezioni, che cosa è successo nel primo quarto del xx secolo, nel venticinquennio neo-etimologista? Come abbiamo detto, è la cronaca di un fallimento. Che senso può avere oggi studiare un periodo che non ha prodotto nulla, se non vuote chiacchiere? Studiare i fallimenti può essere utile a capire le strade ermeneutiche che sono sicuramente sbagliate. Perché, anche se sembra incredibile, il neo-etimologismo non è mai morto, ma si continua a riaffacciare ancora oggi. E non penso qui al mare magnum della letteratura amatoriale, che pretende di collegare l’etrusco praticamente con qualunque lingua del globo, ma che lascia il tempo che trova, perché, appunto, è amatoriale, finché non viene sfruttata a fini politici come sta succedendo in alcuni paesi confinanti con la Grecia, alla ricerca di identità nazionalisticamente competitive con quella dell’ingombrante vicino. Tuttavia, anche all’interno del mondo scientifico si riaffacciano oggi numerose correnti neo-etimologiste. Il problema, naturalmente, è esattamente sempre quello indicato dalla critica combinatorista già a metà degli anni Venti: osservando separatamente ognuno di questi sistemi, tutti sembrano funzionare perfettamente; peccato che ognuno di essi parta da presupposti differenti. Se, applicando lo stesso metodo a partire da postulati completamente diversi otteniamo risultati ugualmente coerenti, evidentemente l’errore è nel metodo: è quello che in matematica si chiamerebbe equazione indeterminata. Il che, naturalmente, ha come conseguenza che ognuno di questi autori sia eminentemente autoschediastico, dato che non può trovare sostegno alle proprie ipotesi che nelle proprie ipotesi stesse.
13In Italia il neo-etimologismo (quello scientifico naturalmente, escludendo l’immensa produzione di letteratura amatoriale) acquisisce soprattutto i volti di Alfredo Trombetti e Francesco Ribezzo. Trombetti morì nel 1929, subito dopo aver pubblicato la summa del suo pensiero in materia di lingua etrusca17. Ribezzo, celebre anche per i suoi studi sul messapico, oltre che sull’etrusco, diffuse il suo pensiero soprattutto grazie alla Rivista indo-greco-italica, da lui fondata nel 1916, e proseguita fino al 193718.
14Dei due, Trombetti è sostanzialmente un isolato; le sue ricostruzioni sulla monogenesi linguistica non trovarono grande consenso nel mondo dei glottologi. Tra l’altro, proprio in ossequio al principio della monogenesi, Trombetti si vedeva autorizzato a ricercare i confronti per le parole etrusche in qualunque lingua del mondo. Praticamente tutto è valido, anche proposizioni apparentemente fra loro incompatibili.
15Ribezzo, al contrario, era un glottologo ben inserito nel mondo accademico; lo sforzo principale della sua ricerca era quello di ricostruire una famiglia linguistica (alla quale ascrive l’etrusco) diffusa in tutto il Mediterraneo prima delle invasioni indoeuropee. La ricostruzione delle caratteristiche di questa famiglia linguistica viene tentata da Ribezzo soprattutto attraverso l’etrusco stesso, accostato a frammenti linguistici sparsi qua e là in tutto lo spazio mediterraneo, in parte ricavati da letture per lo più problematiche di iscrizioni in lingue indigene dell’Asia minore, in parte dalla toponomastica (un campo, come è noto, abbastanza scivoloso, nel quale è possibile affermare tutto e il suo contrario), e in parte tramite presunti relitti di sostrato nelle lingue indoeuropee del Mediterraneo. La circolarità del processo è piuttosto evidente.
16Nel mondo germanico, la corrente neo-etimologista seguiva in parte strade diverse: Emil Goldmann continuava a ritenere l’etrusco una lingua indoeuropea19, mentre, ad esempio, Paul Kretschmer, uno dei linguisti più autorevoli del tempo, nonché fondatore della rivista Glotta, lo considerava un relitto di una fase proto-indoeuropea, dalla quale si sarebbe evoluto in modo parallelo e indipendente rispetto alle lingue indoeuropee classiche: un’idea che avrebbe avuto un certo successo anche al momento della rinascita del combinatorismo.
17Dobbiamo dire che la nuova generazione dei combinatoristi fu abbastanza onesta nel riconoscere i (sia pur molto limitati) successi dei neo-etimologisti: anche se, naturalmente, tutte le volte che si accettava un’interpretazione proposta da un neo-etimologista si faceva notare come quella interpretazione derivasse in realtà da un’applicazione del metodo combinatorio. In questo modo, alcune acquisizioni di Ribezzo (e, più limitatamente, di Trombetti) entrarono così nella storia dell’ermeneutica etrusca. Il caso limite è forse rappresentato da un articolo di Georg Sigwart, apparso sul numero 8 di Glotta. Sigwart era essenzialmente uno storico e un filologo, ed è noto soprattutto per i suoi studi su Diodoro e su Ennio; nel periodo caotico di inizio secolo si buttò anche lui nell’arena dell’ermeneutica etrusca, con un articolo nel quale comparve per la prima volta la scriteriata comparazione fra etrusco e sumero, che avrebbe avuto purtroppo parecchi continuatori. In un paragrafo, applicando un metodo squisitamente combinatorio, Sigwart colse per la prima volta il significato corretto della parola flere, accettato ancora oggi, cosa che gli fu onestamente riconosciuta20. Certo, il pensiero dei combinatoristi su questo pernicioso articolo di Sigwart appare chiaramente se si guarda uno dei numerosi articoli di Cortsen apparso sul numero 18 di Glotta, nel quale si trova un incipit identico a quello del famoso capitolo di Sigwart dedicato alla parentela etrusco-sumerica21. La citazione è evidente e non casuale, e Cortsen va ovviamente in tutt’altra direzione.
18Fra i neo-etimologisti, quello che la generazione successiva rispettò di più fu senz’altro Elia Lattes; perché in effetti Lattes non fu un etimologista puro: e questo lo troviamo riconosciuto a malincuore anche dall’ultimo dei combinatoristi della prima generazione, Torp, che salva, fra gli etimologisti, solo Deecke, Bugge (cioè il suo maestro), e Lattes, notando come questi tre autori abbiano usato spesso procedure che in realtà sono combinatorie22.
19Tra l’altro, Lattes non si era limitato a lavori di carattere linguistico. Uno dei suoi campi di indagine principali fu il sistema onomastico etrusco, spesso trascurato dai linguisti, concentrati solo sul lessico. Inoltre, Lattes, nell’ultimo periodo della sua attività, aveva iniziato la redazione di un dizionario etrusco, con lemmi che contenevano tutta la discussione pregressa su ogni singola parola, riuscendo a portare il lavoro fino alla lettera L. Anche quest’opera fu molto apprezzata dalla generazione successiva, dato che, in un periodo che era stato caratterizzato da un grave stallo, la raccolta e l’esame sistematico delle conoscenze acquisite erano considerati giustamente presupposto imprescindibile per il rilancio degli studi.
20La fine del neo-etimologismo, e la rinascita degli studi, hanno una data precisa. Nel 1927 apparve sulla rivista Glotta il primo Literaturbericht sull’etrusco redatto da Emil Vetter, che aveva ereditato l’incarico da Gustav Herbig, appena scomparso23. La posizione di Vetter è netta e dura contro i fantasmi del neo-etimologismo; l’articolo è di una modernità impressionante e, come metodo, potrebbe essere scritto anche oggi. È interessante una sezione abbastanza ampia che Vetter dedica alla copiosissima letteratura amatoriale, per lo più italiana, ma non solo; a parte le curiosità, quello che stupisce è l’inclusione anche dei saggi di Giulio Buonamici fra la letteratura di carattere non scientifico24.
21Ma, in realtà, la più straordinaria rivoluzione stava per farla proprio Buonamici. Il saggio citato da Vetter risale al 1924, quando ancora Buonamici seguiva le sirene neo-etimologiste. Poi, nel 1925, morì Lattes; non è chiaro se ci sia un nesso, ma già nel 1926 Buonamici compì una incredibile inversione di rotta. Nel 1927 uscì il primo volume della rivista Studi Etruschi, dove Buonamici curava la Rivista di Epigrafia Etrusca: e già il titolo, “epigrafia” e non “lingua”, è molto significativo. Ma Buonamici riservò il suo capolavoro all’anno successivo, il 1928, con la sua relazione al primo congresso internazionale etrusco: un pezzo di una modernità sconcertante, che scavalca addirittura tutto quello che stava cominciando a fare la nuova generazione dei linguisti25. Non a caso, dal 1930 in poi, nei Literaturberichte di Glotta Buonamici non solo uscì dalla sezione degli amatori, ma entrò a far parte senza più incertezze del gruppo considerato di punta nella disciplina.
22Tutta la parte iniziale della sua relazione è dedicata a una petizione di principio molto chiara: le edizioni delle iscrizioni etrusche sono parziali e insoddisfacenti, e, visto lo stallo nella ricerca linguistica, che non è in grado di produrre nulla di certo, l’attenzione degli studiosi deve rivolgersi soprattutto a una nuova edizione, più completa, più accurata, più attenta, in modo da evitare errori banalissimi commessi dai linguisti semplicemente per aver usato letture errate o chiavi di interpretazione testuale improponibili. Queste sono le parole di Buonamici (Buonamici 1929,235-236):
Non ho dunque bisogno di insistere oltre sulla necessità di questo controllo [cioè il controllo delle edizioni delle iscrizioni], ma credo opportuno di esporre alcuni criteri da seguirsi per coordinare l’epigrafia colle altre discipline, in modo che essa venga a servire come di passaggio, o di strumento ad una più razionale applicazione o verifica del processo combinatorio, il solo che fin qui abbia condotto a risultati ermeneutici sicuri: dopo aver ottenuto conclusioni certe con questo metodo – non prima – sarà lecito, se mai, tornare all’etimologia, la quale non deve già considerarsi come un punto di partenza, ma come un punto di arrivo.
E, più avanti (Ibid., 237):
Il Poggi rimproverava al Corssen di non avere atteso nelle sue ricerche ermeneutiche alla natura e alla destinazione dei monumenti, canone ‘consono ai dettati della più sana critica epigrafica’: ma anche a taluni dei più moderni si potrrebbe rivolgere la medesima accusa, della tendenza cioè quasi ‘sistematica di considerare le iscrizioni come affatto indipendenti dai monumenti ai quali furono consegnate’.
E, ancora, verso la conclusione (Ibid., 240):
Volere o no, bisogna riconoscere che l’epigrafia ha reso grandi servigi all’ermeneutica, anche perché il metodo combinatorio ha ricevuto più incremento, per un certo tempo, da epigrafisti che da glottologi veri e propri. Prescindendo dal Lanzi, dal Conestabile e da altri, basta citare il Fabretti, a cui si devono ricerche e congetture geniali, che han servito di ispirazione – talora precorrendoli – ai più moderni, non escluso il Deecke, che in fatto di epigrafia non era inferiore alla fama che seppe acquistarsi come glottologo. E lo stesso Pauli, propugnatore deciso e costante del metodo riassunto nella formula: studiar l’etrusco coll’etrusco, diede prova della stessa convinzione professata dal Lanzi coll’iniziare e condurre a buon punto la pubblicazione di quell’insigne monumento che è il Corpus Inscriptionum Etruscarum.
Che se il Bugge, il Torp, il Cortsen e altri han potuto far progredire mirabilmente la conoscenza dell’etrusco, intensificando l’applicazione del metodo combinatorio, non bisogna dimenticare che la via era già aperta, e che essi hanno continuato, ripetendone talora i resultati – qualche volta senza saperlo o senza volerlo –, l’opera del Fabretti, del Poggi e sopratutto del Lattes. Quest’ultimo, malgrado la sua propensione per il procedimento etimologico, dimostrò una perizia tale che nessuno potrà mai disconoscere nell’epigrafia etrusca, di cui a buon diritto deve ritenersi come il vero restauratore.
23Questi sono tutti principi metodologici che ancora oggi potremmo sottoscrivere in larga parte.
24Ancora più avanti, il Buonamici dà la prima formulazione compiuta della necessità di definire l’epigrafia etrusca come disciplina autonoma; i suoi principi fanno ampio riferimento al metodo dell’epigrafia quale era stato fissato in modo canonico dal Cagnat per l’epigrafia latina. Addirittura, sono citate intere frasi dal Cagnat, per illustrare come lo stesso metodo della ricerca epigrafica sia valido per l’etrusco esattamente come per il latino26. Sottilmente, in modo non esplicito, dato che il pragmatico Buonamici, nella sua piena maturità scientifica, non indulgeva volentieri a elucubrazioni teoriche, qui si afferma un concetto che per l’epoca era rivoluzionario: che cioè la struttura della civiltà etrusca può, anzi deve, essere analizzata con gli stessi strumenti ermeneutici usati per le civiltà del mondo classico. Gli Etruschi vengono strappati in questo modo da quella condizione quasi ultraterrena di civiltà alternativa, diversa e aliena, alla quale erano stati consegnati (insieme, per esempio, ai Celti, agli Egiziani, e a tutte le altre civiltà considerate in qualche modo “anticlassiche”) da gran parte della storiografia romantica e idealista della prima metà dell’Ottocento, che era stata recuperata con notevole vigore nel difficile periodo fra le due guerre, in un’Europa che di nuovo andava a cercare, come cento anni prima, la sostanza dell’indole dei popoli, nel quadro dell’affermazione di nazionalismi violenti e sciovinistici. La sottile rivoluzione silenziosa di Buonamici, che usa Cagnat per studiare l’epigrafia etrusca, non è altro che il primo passo di un movimento, inizialmente eterodosso, che porterà all’etruscologia di Pallottino. Questo movimento si riallaccia non casualmente alle acquisizioni fondamentali dei decenni del positivismo (positivismo che, in linguistica etrusca, coincise con il combinatorismo), che il neo-etimologismo, che marciava di pari passo con il neo-idealismo, aveva creduto di aver sepolto per sempre.
Non potrebbe esserci epitaffio più chiaro della frase di Cagnat citata dal Buonamici (Ibid., 242):
L’epigrafia non è affare d’intuizione, bensì di scienza e di pratica: non la si divina, la si apprende.
E conclude:
L’epigrafia rispetto all’ermeneutica etrusca è come la matematica per la fisica e l’astronomia, come la perizia delle note per l’arte musicale.
25C’è da domandarsi quanto questa frase non fosse anche rivolta in modo sarcastico al Trombetti, che sedeva in platea.
26Ma perché c’era stata la parentesi neo-etimologista? Che cosa aveva motivato il ritorno a metodi che già in passato si erano rivelati fallaci? In parte, lo abbiamo visto, la crisi del metodo combinatorio, che aveva aperto la strada a qualunque nuova proposta, venendo a mancare un punto di riferimento metodologico tanto autorevole da essere indiscutibile. Ma c’è dell’altro, delle esigenze che per qualcuno saranno anche state di carattere puramente scientifico, ma che per molti erano di carattere ideologico e politico. Perché i nazionalismi del periodo fra le due guerre sono ossessionati dalla genealogia dei popoli, perché dalla posizione genealogica discende il loro carattere, e di conseguenza la loro posizione gerarchica all’interno di una scala di valori che attribuisce precisi diritti di supremazia. Non dimentichiamoci che quello che la scienza del tempo chiama “indoeuropeo”, la politica del tempo lo chiamava “ariano”. L’archeologia e la linguistica non erano affatto, in quegli anni, scienze neutre; anche i risultati prodotti dallo studioso più onesto e distaccato dall’ideologia del suo tempo potevano essere, da altri, usati in modo efficace in chiave ideologica.
27Solo pensando a questo possiamo capire quanto sia stata rivoluzionaria la posizione di metodo espressa da Buonamici al convegno del 1928, che negava in modo reciso validità scientifica proprio a quel filone di ricerca che in quegli anni incontrava il più ampio consenso anche a fini non proprio scientifici. E il testo di riferimento di questo nuovo approccio sarebbe poi stato il monumentale Epigrafia etrusca del 193227; un testo che oggi è ovviamente del tutto superato, ma che all’epoca fece scuola. Il presupposto di metodo che sta dietro Epigrafia etrusca è in rottura netta con la tradizione che faceva degli Etruschi una civiltà anticlassica per eccellenza, e che subordinava ogni ricerca alla preventiva individuazione del loro “carattere”, della loro “indole”; il “carattere” è del tutto assente in un testo che è dedicato alla analisi sistematica dell’evidenza con strumenti già ampiamente collaudati per lo studio delle civiltà classiche. E certo questo non dovette mancare di influenzare profondamente il giovane Massimo Pallottino (all’epoca aveva 23 anni), dato che la sua etruscologia storica non può capirsi senza pensare a questa rivoluzione profonda e strutturale operata dal Buonamici.
28Tra l’altro non mancherò di ricordare come, forse non a caso, molti degli innovatori ebbero qualche problema con le autorità del tempo. Eva Fiesel dovette fuggire nel 1933, trovando rifugio dapprima in Italia, presso Giorgio Pasquali, e poi negli Stati Uniti, dove purtroppo andò incontro a una prematura scomparsa28. Franz Leifer fu cacciato dall’Università di Vienna nel 194029, riavendo la cattedra solo dopo la fine della guerra: e la figura di Leifer, stimato giurista, è molto interessante, perché pubblicò un saggio di straordinaria modernità sulla società etrusca, usando strumenti interpretativi già collaudati negli studi sulla storia sociale classica, e quindi comportandosi, dal punto di vista metodologico, esattamente come aveva fatto Buonamici per l’epigrafia30. Leifer probabilmente era troppo innovatore per il suo tempo, perché il suo scritto scatenò una violenta polemica con Cortsen31 che, nonostante la sua acribia ermeneutica sul piano linguistico, restava pur sempre attaccato al postulato neo-idealista della civiltà etrusca come radicalmente anticlassica e strutturalmente aliena al mondo greco-romano, cosa che si vede molto bene scorrendo le pagine del suo scritto più famoso32.
29In conclusione, che cosa ci insegna la storia della ricerca sulla lingua e l’epigrafia etrusca nel primo quarto del xx secolo? In primo luogo, quello che non bisogna fare. Il metodo etimologico non può, semplicemente, funzionare33; se non si riescono a ottenere risultati con metodi più solidi, vuol dire semplicemente che questi risultati non si possono ottenere. Questo è un insegnamento del quale oggi dobbiamo fare tesoro: perché proprio oggi probabilmente ci troviamo alla vigilia di un momento di stallo simile a quello vissuto un secolo fa. Il metodo grammaticale di Rix, che ha letteralmente sconvolto la linguistica etrusca dalla fine degli anni Settanta, ha ormai esaurito le proprie possibilità; tutto quello che si poteva indagare si è indagato, le novità possibili sono solo piccole cose di dettaglio. Ma lo stallo, a questo punto, è nella logica delle cose: l’evidenza, semplicemente, non può dire di più. Gli errori dei nostri predecessori ci sono utili per capire che ciò non significa che il metodo deve essere abbandonato; semplicemente, fin tanto che l’evidenza non si sarà ampliata in modo significativo, non si può andare più avanti. Nuove avventure etimologiste non possono portare da nessuna parte; il lavoro dell’epigrafista etrusco oggi non può che essere quello, tedioso, ma certamente apprezzato dai posteri, di raccolta, revisione, analisi contestuale, come fecero, silenziosamente ma con costanza, studiosi quali Cortsen, Danielsson, Buonamici, o Vetter: gli unici, in quella generazione problematica, le cui opere hanno valore ancora oggi.
Notes de bas de page
1 Deecke 1884.
2 Bugge 1883; il divorzio da Pauli è indicato da una laconica Bemerkung in una pagina non numerata alle spalle del frontespizio.
3 Deecke 1875.
4 In Deecke 1884 l’analisi del piombo di Magliano è posta addirittura nella premessa metodologica (Deecke 1884, VI-VIII).
5 Krall 1892.
6 Sulla storia del documento: Cristofani 1995, 13-21.
7 Torp 1902, III-IV.
8 Torp 1903; Id. 1905. In seguito Torp, sul solco del suo maestro Bugge, si sarebbe in parte rivolto anche a un moderato etimologismo.
9 Il peso accademico di Lattes si può misurare soprattutto negli imbarazzati necrologi immediatamente successivi alla sua scomparsa che, pur nel clima di crescente antisemitismo dell’Italia del tempo, non poterono mancare di riconoscerne lo straordinario apporto (oltre al fatto che Lattes era stato costretto all’esilio in quanto patriota): cf. il lavoro, più neutro, di Berzolari 1925, e quello di Ceci 1927, molto più orientato, dove un apparente elogio di Lattes è usato a fini del tutto personali, che sviluppano un’impostazione ideologica ormai pienamente aderente alla dottrina di regime. Un caso fra molti è il paragrafo dedicato da Ceci al ruolo della donna in Etruria (Ceci 1927,106-109), che altera in maniera radicale il pensiero di Lattes: cf. Lattes 1910, 5-6, con un’analisi epigrafica di straordinaria modernità. All’opera di Lattes è anche dedicata l’ampia prefazione di Buonamici 1932, 7-12, scritta dal suo allievo Bartolomeo Nogara.
10 Per una biografia di Danielsson, e per la storia del CIE, si veda Wikander & Wikander 2003, 11-27.
11 Buonamici 1908.
12 Cortsen 1908.
13 Cortsen 1917.
14 Le varie correzioni terminologiche (metodo “filologico” secondo Vetter, “bilinguistico” secondo Olzscha e Pallottino, “grammaticale” secondo Rix) non cambiano la sostanza di fatto, che ancora oggi la ricerca scientifica sull’etrusco è sostanzialmente combinatoristica.
15 Danielsson 1929.
16 Wikander & Wikander 2003.
17 Trombetti 1928.
18 I testi più importanti della vasta opera del Ribezzo sono: Ribezzo 1928a; 1929a (spesso citato nell’edizione separata Ribezzo 1929b); id. 1932, con le risposte alle critiche di Cortsen e Vetter (Ribezzo 1932,175, nota 1). Frequente nei testi del Ribezzo la lamentela di essere ignorato dagli “etruscologi” (ossia gli specialisti di lingua etrusca della nuova scuola combinatoria, quali, appunto Cortsen e Vetter): si veda per esempio Ribezzo 1928b, 184.
19 Goldmann 1929-1930.
20 Sigwart 1917,159-165.
21 Cortsen 1930,171.
22 Torp 1902, III, nota non numerata.
23 Vetter 1927.
24 Vetter 1927,233-235.
25 Buonamici 1929.
26 Per esempio, Buonamici 1929,235: Anche riguardo all’etrusco, almeno in parte, si deve intendere per scienza epigrafica – come notava il Cagnat per il latino – “non solo il sapere pratico necessario per definire il monumento, ma anche quello, più importante ancora e più difficile ad acquistarsi, che è indispensabile per interpretare i monumenti che si sono letti e trarne le informazioni che contengono”.
27 Buonamici 1932.
28 Su Eva Fiesel cf. Häntzschel 1994; Pass Freidenreich 2002,167-168.
29 Leifer, insieme a Vetter, fu sottoposto a indagine in vista di un’eventuale espulsione dall’Istituto di Studi Etruschi ed Italici a seguito delle leggi razziali; gli unici espulsi, alla fine, furono E. Goldmann e C. F. F. Lehmann-Haupt (Capristo 2002, 86).
30 Leifer 1931.
31 Cortsen 1935,169.
32 Cortsen 1925; si veda ad esempio (Cortsen 1925, 63-64) la dottrina ormai superatissima sulle classi dipendenti etrusche (che ripete posizioni risalenti al primo Ottocento, già da tempo fortemente criticate, se non del tutto abbandonate).
33 Per una critica moderna al metodo etimologico si vedano: de Simone 2008; de Simone 2011.
Auteur
CNR-ISMA ; enrico.benelli@isma.cnr.it
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