Tra ‘800 e ‘900: Veio e la moderna etruscologia
p. 15-37
Texte intégral
1La storia delle ricerche archeologiche effettuate a Veio nel corso dei secoli1 può essere considerata paradigmatica del lungo processo che ha contrassegnato il definirsi dell’etruscologia come ambito disciplinare specifico, processo giunto a conclusione solo nel ‘900 anche in seguito all’ interesse suscitato dalla scoperta della statua di Apollo nel santuario veiente di Portonaccio, scoperta che com’è noto determinò una rivoluzione nell’apprezzamento dell’arte etrusca2.
L’età barocca: tra curiosità, erudizione e ricerca topografica
2Tra le più significative tappe delle esplorazioni nell’antica città etrusca sono da ricordare gli scavi promossi poco dopo la metà del ‘600 dal cardinal Flavio Chigi, un personaggio di cui cronache di quel tempo danno una descrizione alquanto impietosa:
“[Il card. Flavio Chigi] è così poco avido d’affaticar nel negozio che trovando il suo comodo nell’obbedienza [al papa Alessandro VII] pensa alle caccie, alle conversazioni, alle tavole, e neglige tutto il restante a tal segno, che se si parla con lui degli affari più gravi, manifestamente si vede che con la mente va vagando lontano […].
Il cardinale […] è uomo di sensi più moderati, giovane ben formato, di buona presenza, dedito alle delizie, sfornito di lettere e di quella avvedutezza che insegna l’uso del regnare”3.
3Quelle esplorazioni, molto estese, furono infatti indirizzate non solo ai resti del municipio romano, già più volte rovistati e spogliati dei rivestimenti marmorei, ma riguardarono anche testimonianze di Veio etrusca. Da una memoria di Pietro Santi Bartoli si apprende che venne allora riportato in luce un ricchissimo deposito votivo da cui venne recuperata una grande quantità di fittili anatomici che suscitarono forte curiosità:
“Incontro l’Isola [Farnese] presso Baccano si solleva un colle dirupato per ogni parte. Sotto di esso passa la Cremera, come vogliono la più parte de’ moderni Antiquarj. Sopra contiene una gran pianura, ridotta a cultura di grano; nella quale in tempo di papa Alessandro VII si fece cavare dal cardinale Chigi, ove si scoperse un bellissimo tempio di ordine jonico colle colonne striate […].
Lontano da detto luogo quasi mezzo miglio si disperse del grano seminato per cavare voti di terra cotta, dove si trovarono Priapi di diversa età e complessioni, qual era di putto, qual di vecchio, che stava in riposo, altri minacciavano le stelle; così vi erano de’ forti, orgogliosi e giganteschi: in somma ve ne erano di tutte le sorti, e qualità, che ne fu piena Roma”4.
4L’interesse del card. Chigi per le reliquie di Veio etrusca non doveva andare oltre una pruriginosa attenzione, altrimenti testimoniata dall’esposizione nel suo “Museo di curiosità” di un Priapus gallinaceus5: “il bell’Idolo delle Donne Maritate, chiamato Priapo Sonore, il quale era adorato dalle dette donne per la fecondità e ha la testa di gallo” nella compiaciuta segnalazione di una diffusissima e più volte riedita guida di Roma6. Il singolare oggetto, di certo reputato tra i più pregiati dell’intera collezione, è raffigurato in primo piano in un ritratto del “guardarobba” (oggi diremmo conservatore) del card. Chigi, Niccolò Simonelli, esposto nel museo chigiano tra naturalia, mirabilia e antichità varie (fig. 1)7.
5Nell’età barocca l’interesse per Veio etrusca e romana non si esauriva tuttavia solo nel gusto del curioso e del bizzarro: nel 1641, pochi anni prima degli scavi promossi dal card. Chigi, l’antica città era stata oggetto delle ricognizioni topografiche e degli studi di Luca Holstenio e di Famiano Nardini che ne precisarono l’ubicazione, rimasta per altro ancora a lungo oggetto di dibattito (fig. 2)8.
L’Ottocento: tra interesse collezionistico e istanze conoscitive
6L’attenzione per la civiltà degli Etruschi, per le loro città, per le loro ricche necropoli soprattutto, divampò nella prima metà dell’Ottocento, com’è noto, nella rinnovata temperie culturale introdotta dall’incipiente Romanticismo9. Quanto a Veio è negli anni’20 che si collocano, frutto di istanze documentarie rivelatrici di un nuovo e più moderno approccio alle antichità etrusche, le estese ricognizioni topografiche di William Gell, di Antonio Nibby e di vari collaboratori tra cui, oltre a Luigi Canina, il pittore e incisore Ludovico Caracciolo con il figlio Francesco ai quali è attribuita la documentazione grafica relativa ad alcuni monumenti veienti (fig. 3)10.
7Negli anni’ 30 e’ 40 la città e le sue necropoli furono poi oggetto di due distinte campagne di scavi patrocinate l’una dalla regina vedova di Sardegna, Maria Cristina di Borbone delle Due Sicilie, dal banchiere Giovanni Pietro Campana l’altra. Con quegli scavi, pur nati entrambi da intenti prevalentemente collezionistici, la conoscenza di Veio etrusca fece passi avanti: le pubblicazioni di Secondiano Campanari, di Giuseppe Micali, di Luigi Canina soprattutto resero noti non solo gruppi notevoli di materiali rinvenuti nelle necropoli, ma anche tratti di mura, resti di edifici e di ponti, tracciati viari, alcuni sepolcri11. Il fascino in particolare della “Tomba Campana”, adorna di singolari pitture e con il ricco corredo mantenuto intatto nel sepolcro,12 e l’entusiastica descrizione datane da George Dennis nella sua diffusissima guida13 fecero da allora di Veio una meta irrinunciabile dei viaggi in Etruria, anche in ragione della non grande distanza da Roma.
8Tra i molti scavi eseguiti a Veio nella seconda metà dell’Ottocento sono da segnalare in particolare quelli fatti avviare nel gennaio 1889 dall’imperatrice del Brasile Teresa Cristina di Borbone delle Due Sicilie che dalla zia paterna aveva ereditato le tenute di Isola Farnese e di Vaccareccia (fig. 4). Benché promosse ancora per intenti amatoriali quelle ricerche ebbero tuttavia una progettualità di ampio respiro e precisi obiettivi scientifici (rapporto tra Veio etrusca e romana, cronologia della cerchia muraria, excursus tipologico e cronologico dei sepolcri etruschi, ecc.): un salto di qualità dovuto al coinvolgimento nell’impresa di un qualificato archeologo, Rodolfo Lanciani14, al quale con tutta probabilità si deve anche la cura posta nella realizzazione di una buona documentazione grafica delle indagini svolte certamente finalizzata ad una pubblicazione. Il colpo di stato repubblicano in Brasile del 15 novembre 1889, l’esilio in Europa e la morte nel dicembre di quello stesso anno della deposta imperatrice causarono la brusca interruzione dei lavori, la mancata utilizzazione della documentazione grafica elaborata (che fu tuttavia preservata da Lanciani), l’ampia dispersione dei materiali, solo in parte poi pervenuti alle collezioni dello stato (fig. 5-9)15.
Il Novecento: l’esplorazione sistematica di Veio
9Le ricerche del 1889 avevano mostrato che esplorazioni condotte con metodo permettevano di conseguire dati di notevole rilievo sotto il profilo scientifico e di riportare in luce reperti di pregio, celati ancora in gran numero nel terreno nonostante i tanti scavi effettuati nel passato. Il passaggio tuttavia da indagini svolte per fini amatoriali o di lucro ad attività di ampio respiro con finalità precipuamente scientifiche non era né semplice né scontato richiedendo un impegno non effimero, possibile solo col maturare sotto più aspetti di condizioni propizie.
10Sul piano istituzionale quelle condizioni si presentarono con il governo di Giovanni Giolitti (maggio 1906-dicembre 1909) che pose termine ad a un periodo di accentuata instabilità (tra il 1905 e il 1906 si erano avuti quattro governi in quattordici mesi!). La durata del governo Giolitti rese possibile al ministro della pubblica istruzione, Luigi Rava, di procedere ad una incisiva riforma, quasi una rifondazione, dell’amministrazione preposta alle antichità e belle arti. Tappe salienti di quella azione furono la chiamata alla guida della direzione generale (ottobre 1906) di un esperto ed energico funzionario, lo storico dell’arte Corrado Ricci, la riorganizzazione degli uffici, la revisione degli organici, la redistribuzione del personale e l’assunzione di esso mediante concorsi pubblici, l’elaborazione infine di una nuova normativa di tutela16.
11In questo contesto si provvide anche al Museo di Villa Giulia, da anni in crisi per la mancanza di cure adeguate e di precisi obiettivi, con la nomina a direttore di Giuseppe Angelo Colini (gennaio 1908), con l’assegnazione all’istituto di funzionari archeologi e la definizione delle competenze territoriali ad esso spettanti17. Nonostante le angustie dei bilanci, aggravatesi via via con il sopravvenire di impegni bellici (dalla guerra italo-turca del 1911-1912, alle campagne di Libia del 1913 ed anni seguenti, al conflitto mondiale del 1915-1918), divenne allora possibile la programmazione di indagini archeologiche di ampio respiro. Dopo una serie di insistenze con il ministero dichiaratosi “in linea di massima contrario agli scavi”, le ricerche archeologiche a Veio ebbero inizio nel marzo del 1913 e proseguirono pressoché continuativamente fino all’aprile del 1916 con la sistematica esplorazione dei sepolcreti di Grotta Gramiccia e Casale del Fosso (fig. 10)18. Le indagini interessarono anche e non secondariamente l’area urbana: tra il 1916 e il 1919 si scavò a Campetti, a Macchia Grande, a Piazza d’Armi e a Portonaccio ove vennero portate in luce strutture e pertinenze di un grande santuario e fu scoperta, il 18 maggio 1916, la grande statua dell’Apollo19. Nel suo improvviso disvelarsi dalla terra in una sorta di epifania il simulacro suscitò all’attonito scavatore, Natale Malavolta, un’emozione e un moto ingenuo di omaggio dal sapore quasi di un atto di culto; un’emozione che secondo una testimonianza di Massimo Pallottino vibrava ancora a distanza d’anni nelle parole di Malavolta: “Com’era bello [l’Apollo] nella sua nicchia di terra! Tutto rivestito di una sua strana policromia! L’ho baciato e ribaciato […]”20.
L’eredità positivistica: problematiche storiografiche e archeologia di scavo
12L’esplorazione sistematica di Veio avviata da Colini nel 1913 riprendeva sostanzialmente un progetto delineato nel novembre 1909 da Lucio Mariani (fig. 11-12a-b), tra i migliori esponenti di quella “nuova” generazione di archeologi e di antichisti formatasi nell’ultimo decennio dell’Ottocento presso la rinnovata Scuola Italiana di Archeologia (tra loro Giuseppe Pellegrini, Luigi Savignoni, Giuseppe Patroni, Antonio Taramelli, Gaetano De Sanctis, Quintino Quagliati, Luigi Pernier, Roberto Paribeni). Non mi soffermo su quel progetto, rinviando alla illustrazione che ne ho dato altrove21, se non per richiamare alcuni aspetti che nel contesto di questo contributo mi sembra opportuno sottolineare: dal forte richiamo alla necessità di programmazione delle indagini archeologiche, all’insistenza sulla sistematicità che esse debbono avere e alla loro finalizzazione in particolare alla “risoluzione dei grandi problemi”. Queste tre esigenze sono enunciate da Mariani fin dall’incipit del suo progetto:
“È stata più volte riconosciuta in questi ultimi tempi, spesso ribadita nei discorsi e negli scritti degli archeologi, la necessità di uno scavo fatto su larga scala poiché questo è il solo modo di ottenere la risoluzione dei grandi problemi. Di scavi che servano ad arricchire le collezioni o che mirino a sciogliere questioni d’indole locale e ristretta se ne fanno fin troppi in Italia; da tempo perciò si ripete concordemente fra i cultori della nostra disciplina che bisogna organizzare qualche esplorazione che sia connessa con le principali questioni agitate nel campo della archeologia e della storia”.
13Quali fossero quelle “principali questioni” la cui soluzione si attendeva dalle indagini archeologiche è poco dopo esplicitato da Mariani:
“Varii sono e di diversa importanza i problemi che trovansi da qualche tempo, come suol dirsi, sul tappeto: la questione relativa alla cronologia ed alla etnografia delle città c. d. pelasgiche, che è stata soltanto delibata finora; la questione delle origini di Roma e delle città latine, alla quale gli scavi del Foro e dei dintorni hanno arrecato in questi ultimi anni notevoli contributi; la sfinge etrusca, sempre ribelle agli sforzi di archeologi, filologi e storici […] sono sempre argomenti vivi di discussione, di esplorazione, di speranza per noi archeologi”.
14Richiamato poi “l’amore da me portato sempre […] al problema etrusco, gli sforzi da me fatti per leggervi un po’più chiaramente e la consuetudine di vita nella regione toscana”, Mariani proseguiva proponendosi quale responsabile di indagini archeologiche da “condurre sistematicamente, con mezzi sufficienti e con lavoro intenso” in una delle città dell’Etruria meridionale “che non pochi sostengono rappresentino storicamente una fase più arcana [corrige: arcaica] di quella civiltà”; indicava infine Veio come centro particolarmente promettente per ricerche di ampio respiro, sia per i risultati degli scavi di Lanciani, sia anche e soprattutto in ragione degli stretti rapporti della città etrusca con Roma:
“Non è improbabile che di questi rapporti si scoprano in Veii preziosi documenti quali potrebbero essere ad esempio le iscrizioni bilingui. Il problema etrusco è del resto anche un problema romano, quando si pone mente alla conferma che i fatti archeologici hanno finora dato alla tradizione intorno alla storia del Regno di Roma”.
15La fiducia riposta nello scavo come strumento precipuo per la soluzione delle “principali questioni agitate nel campo della archeologia e della storia” rivela la matrice positivistica della formazione di Mariani, certamente derivata dal magistero di Luigi Pigorini, tra i maestri di Mariani all’Università e alla Scuola Italiana di Archeologia. Identica matrice rivela del resto un altro progetto di indagini, redatto da Mariani oltre un decennio prima, riguardante un tema – l’origine e la cronologia delle cinte murarie poligonali – che era stato, e continuava ad esserlo in quegli anni, oggetto anch’esso di viva attenzione e di vivace dibattiti22.
16Al di là della fiducia riposta nell’archeologia di scavo come mezzo per dare soluzione a complesse problematiche storiografiche, ad accomunare in qualche modo i due progetti era anche l’analogia se non proprio l’identità dei temi d’indagine proposti, in entrambi i casi riguardanti questioni di etnografia dei popoli dell’Italia antica. Affrontare la “sfinge etrusca” infatti (cimento col quale Mariani si era già programmaticamente misurato, quasi a ricalcare le orme di Thomas Dempster, nell’insediarsi sulla cattedra di archeologia a Pisa)23 voleva dire tra l’altro entrare nel problema delle “origini” di quel popolo e prendere posizione fra le discordanti tradizioni riportate nelle fonti antiche e le varie e diverse speculazioni degli storici e degli archeologi. Un problema che si intrecciava con quello dei Pelasgi, progenitori degli Etruschi secondo alcune fonti antiche24; quei Pelasgi ai quali da molti venivano attribuite le cinte murarie in opera poligonale di tanti centri italici (ma anche di alcune città etrusche), argomento questo oggetto di esteso interesse in tutto il corso dell’Ottocento e tornato in gran voga sul finire del secolo anche a seguito delle mirabolanti scoperte di Heinrich Schliemann a Troia, Micene e Tirinto25. Molto indicativo al riguardo l’invito a svolgere indagini archeologiche in Italia rivolto nel 1875 dal ministro della pubblica istruzione Ruggero Bonghi al famoso archeologo tedesco; a seguito di quell’invito Schliemann effettuò ricognizioni ad Arpino e a Populonia, escludendo recisamente la possibilità di un’attribuzione all’età del bronzo delle imponenti cerchie murarie “pelasgiche” dei due centri26.
Etnografia dei popoli dell’Italia antica e identità nazionale italiana tra Ottocento e Novecento
17Un brano delle Erinnerungen di Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff coglie e illustra bene come il “problema etrusco” fosse considerato in Italia nella temperie culturale di fine Ottocento. Profondo conoscitore della realtà italiana, il grande antichista tedesco scriveva delle impressioni riportate nella primavera del 1898 in un soggiorno in Italia che gli aveva dato modo, a Firenze e a Roma, di prendere diretta cognizione delle novità archeologiche:
“[…] Milani mi mostrò la sua creazione, il Museo etrusco; di fronte a quest’opera grandiosa si possono dimenticare le sue interpretazioni fantasiose: il Museo ha raggiunto adesso un’ineguagliabile chiarezza e ricchezza. Sempre più pressante diventava il problema del popolo etrusco e della sua cultura; l’opera di W. Schulze sui nomi propri latini era stata pubblicata e aveva stabilito che gli Etruschi non potevano assolutamente essere immigrati nell’VIII secolo, perché la loro lingua ha lasciato tracce fin giù nell’Italia centrale. Quando a Roma poi, grazie a un permesso speciale, potei ammirare tutti i tesori della Villa di Papa Giulio e il Boni mi mostrò le sue scoperte al Foro, si rafforzò in me la convinzione che la fase più antica della storia di Roma e dell’Italia può essere chiarita soltanto con le vanghe; solo la ricerca linguistica può ancora essere d’aiuto. La stessa Roma è in realtà una fondazione etrusca del VI secolo e il nostro scopo deve essere quello di sviluppare non tanto la storia romana, ma piuttosto la storia italica che culmina nella dominazione dei Romani prima sull’Italia e poi sul mondo intero. Il problema etrusco, ormai considerato dagli Italiani come una questione nazionale, rientra in questo settore della ricerca storica”27.
18Tra le molte cose che colpiscono in queste riflessioni di Wilamowitz vi è la recisa affermazione della necessità “di sviluppare non tanto la storia romana, ma piuttosto la storia italica”, affermazione poi ripresa e sviluppata dallo studioso in un intervento del 1924 di cui Benedetto Croce additò subito la conformità alla “visione storica che ebbero i nostri storici del Risorgimento”, aspetto questo oggetto in seguito - con specifico riferimento a Giuseppe Micali e alla sua Italia avanti il dominio dei Romani - di ulteriori riflessioni da parte di Massimo Pallottino28. Il brano sopra riportato documenta in modo esplicito l’influenza che sul Wilamowitz e sul sorgere e maturare di quella nuova prospettiva storiografica ebbero alcune delle più cospicue realizzazioni museali di quel tempo – il Museo Topografico dell’Etruria di Luigi Adriano Milani e il Museo di Villa Giulia di Felice Barnabei – e gli scavi in profondità di Giacomo Boni nel Foro Romano. In tutti e tre i casi si trattava di imprese fra le più significative dell’archeologia italiana postunitaria, frutto senza dubbio di un forte rinnovamento nelle pratiche e negli indirizzi metodologici ma in parte legate anche alla vitalità di orientamenti e suggestioni di matrice risorgimentale.
19In un’Italia in cui all’unificazione politica occorreva far seguire l’integrazione effettiva delle varie popolazioni, lo studio delle antichità non era considerato per così dire “neutro”, ma veniva investito di alti valori “patrii” (“studio patrio e nazionale” l’aveva definito Francesco De Sanctis nel 1845)29 per il contributo che esso dava o poteva offrire al conseguimento della coscienza di un’unità nazionale in larga parte ancora da costruire: di qui il vivo interesse “per il passato autoctono, romano e prima ancora italico ed etrusco” piuttosto che per quello greco30. Nel solco della tradizione storico-letteraria di Catone e di Livio e di una vivace storiografia erede della “etruscheria” settecentesca (ma profondamente rinnovata rispetto ad essa: basti ricordare ad esempio i nomi e le opere di Giuseppe Micali, di Cesare Balbo e di Atto Vannucci) si guardava agli Etruschi come a coloro che prima di Roma avevano in parte realizzato l’unificazione dell’Italia antica – in Tuscorum iure paene omnis Italia fuerat (Serv., Aen., 11.367) – e agli Italici come a coloro la cui unità linguistica comprovava un’unità di cultura e di stirpe risalente ad epoche remotissime31.
20Il mazziniano mito di Roma, che aveva corroborato l’impegno di tanti patrioti nei lunghi anni delle lotte per l’unità e che dopo il’70 era ancora ben vivo nei programmi che la Destra vagheggiava per la “terza” Roma32, veniva così a contemperarsi con quello degli Etruschi e degli Italici, considerati anticipatori di Roma e progenitori anch’essi, con Roma, dell’Italia moderna33. Di qui l’affermarsi nella cultura storico-antichistica italiana di una duplice ma non opposta polarità – Etruschi e Italici / Romani – quale può cogliersi variamente nei discorsi pronunciati nel marzo del 1871 per l’inaugurazione a Firenze del Museo Etrusco e a Roma, quindici anni dopo, per l’apertura nel Collegio Romano dei Musei Preistorico, Italico e Lapidario accanto al vecchio Kirkeriano34. Una duplice ma non disarmonica polarità espressa nel 1889 con la fondazione del Museo Nazionale Romano, concepito come istituto unitario pur nell’articolazione in due sedi destinate l’una alle antichità romane, l’altra a quelle etrusco-italiche.
21Alla luce delle considerazioni richiamate l’affermazione di Wilamowitz sul “problema etrusco considerato dagli Italiani come una questione nazionale” acquista un maggiore spessore ed appaiono ben comprensibili sia l’impegno che venne profuso nel Museo Topografico dell’Etruria a Firenze ed in quello di Villa Giulia a Roma, sia l’interesse che essi suscitarono e l’apprezzamento incontrato.
22Se già nei decenni finali dell’Ottocento il retaggio etrusco e quello romano venivano considerati entrambi elementi costitutivi della ‘italianità’35, può apparire sorprendente che quelle realizzazioni museali siano rimaste a lungo senza un riscontro a livello accademico (la prima cattedra di etruscologia fu quella data nel 1926, non senza contrasti, ad Alessandro Della Seta)36 diversamente da quanto avvenuto invece con il Museo Preistorico cui venne subito affiancata la cattedra di Paletnologia (1876). Ma questo è un altro discorso che merita di essere ripreso e sviluppato in diversa occasione.
Notes de bas de page
1 Delpino 1985; Delpino 1999; Liverani 2004; Ceci 2008, 8-11.
2 Giglioli 1919; Anti 1920; Pallottino [1945] 1979; Pallottino [1950] 1979; Barbanera 2009.
3 Barozzi & Berchet 1878, 265-266, 294.
4 Bartoli [1741] (1790), 269-271.
5 Fileri 2012.
6 Rossini 1693,109-111; Delpino 1985, 24; Cacciotti 2004, 10-12 e nota 104; Fileri 2012,642, nota 25.
7 Testa 1991; Petrucci 2012.
8 Delpino 1985, 24-25, nota 22; Delpino 1999, 73, nota 4, 75, fig. 1.
9 Colonna [1992] 2005.
10 Delpino 1985, 65-83; Delpino 1991.
11 Delpino 1985, 89-106.
12 Delpino 1984-1985; Delpino 1985, 115-143; Delpino 2012.
13 Dennis 1848, i, 45, 48-61.
14 Lanciani 1889.
15 Delpino 1999; Liverani 2004; Bartoloni & Benedettini 2012, 11-16.
16 Legge 27 giugno 1907 n. 386 “Sul Consiglio superiore, gli uffici e il personale delle antichità e belle arti”; legge 20 giugno 1909 n. 364 “Per le antichità e le belle arti”. Per l’azione riformatrice realizzata dal ministro Rava nel suo complesso: Rava 1909; sull’iter della legge 364/1909: Balzani 2003.
17 Delpino 2000; Delpino 2009. G. A. Colini poté giovarsi della collaborazione degli ispettori Enrico Stefani ed Ettore Gabrici, cui si aggiunsero poi Alessandro Della Seta, Lucia Morpurgo, Giulio Quirino Giglioli.
18 Bartoloni & Delpino 1979, 20.
19 Colini 1919; Giglioli 1919. I tempi difficili ritardarono la diffusione di notizie di stampa sul sensazionale ritrovamento: la prima segnalazione è del gennaio 1920 (Tridenti 1920).
20 Delpino 1997, 22.
21 Delpino 2009, 315-316.
22 Nizzo 2013, 53-55.
23 Mariani 1901.
24 Briquel 1984.
25 Nizzo 2013.
26 Shepherd 2012.
27 Wilamowitz-Möllendorff [1928] 1986, 323-324.
28 Wilamowitz-Möllendorff 1926; Croce 1926; Pallottino [1976] 1979. Su Micali e gli etruschi cfr. da ultimo Desideri 2011.
29 De Sanctis [1845] 1975.
30 Settis 1993,332.
31 Pallottino [1976] 1979 e, da ultimo, Colonna 2011; Desideri 2011; Torelli 2011.
32 Delpino & Dubbini 2011; Delpino 2015.
33 Colonna 2011; Sannibale 2011,483-485,503; Torelli 2011.
34 Delpino 2001,626-627,630-631.
35 Un fenomeno decisamente anteriore al nazionalismo fascista della seconda metà degli anni’20 del Novecento cui viene in genere riferito (Barbanera 2009, 19); per illuminanti considerazioni al riguardo: Harari 2012a.
36 Levi Della Vida [1966] 2004,162-164.
Auteur
CNR-ISMA ; filippodelpino@yahoo.it
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