Chapitre XVII - Auctoritas Italiae
p. 341-350
Résumés
Si indaga il significato politico dell’espressione auctoritas populi in Cicerone (Man. 63-64) e dell’espressione auctoritas Italiae in Cicerone (Sest. 35) e in Cesare (BC 1.35.1) : sono espressioni alternative e polemiche rispetto all’auctoritas senatus e alla potestas dei magistrati, che Silla aveva accentuato. In particolare Cesare compie così una scelta fondamentale: come ci mostrano le lettere scritte alle città italiche nel 49 (D.C. 41.10.2), l’Italia, in quanto insieme dei cittadini romani aventi diritto di voto, diventa per lui un soggetto politicamente attivo, la cui auctoritas ha potere di legittimazione. La recente pubblicazione dei Fasti di Priverno ha rivelato che la stessa dittatura perpetua di Cesare deve essere intesa non come “a vita”, ma come “indeterminata”: con ogni probabilità Cesare intendeva deporla al ritorno dalla campagna partica e sostituirla con la propria auctoritas: Augusto (RGDA 34.3) ne fu consapevole erede.
This paper aims to investigate the political meaning of the expression auctoritas populi by Cicero (Man. 63-64) and of the expression auctoritas Italiae by Cicero (Sest. 35) and by Caesar (BC 1.35.1) : they are alternative and polemic against the auctoritas senatus and the potestas of the consuls and praetors, which Sulla had enhanced. Caesar’s choice was mostly fundamental: as his letters written in 49 BC to the Italian cities (D.C. 41.10.2) demonstrate, Italy as the whole of Roman citizens having right to vote becomes in his opinion a politically active subject, whose auctoritas can legitimate his acts and deeds. The recent publication of the Fasti Privernates has revealed that Caesar’s perpetual dictatorship has to be meant not as “everlasting”, but as “undetermined”: probably Caesar purposed to give it up after his return from the Parthian campaign and to replace with his own auctoritas: Augustus (RGDA 34.3) was his conscious heir.
Texte intégral
1Quando nel 49 a.C., dopo aver assunto il controllo di Roma e dell’Italia, Cesare si rivolse ad Occidente e approdò davanti a Marsiglia, egli esortò la città greca ad aprirgli le porte. Dopo aver convocato a sé i Quindici, cioè i responsabili del governo, disse loro che “dovevano seguire l’autorità dell’Italia intera piuttosto che la volontà di un uomo solo”, segnatamente L. Domizio Enobarbo (debere eos Italiae totius auctoritatem sequi potius quam unius hominis uoluntati obtemperare)1. Non mi risulta che questo passo sia mai stato adeguatamente commentato e, tanto meno, in un contesto riguardante l’auctoritas; a questo scopo ritengo opportuno prendere preliminarmente in considerazione l’unico testo anteriore, in cui compare la medesima locuzione, auctoritas Italiae. Infatti basta scorrere la voce auctoritas nel ThLL2 per rendersi conto che il termine è sempre collegato a un complemento di specificazione relativo a una persona (dio, imperatore, re, magistrato, sacerdote) o a un gruppo di persone, a una collettività (il popolo romano, la repubblica, la patria, l’impero, la ciuitas, talvolta anche il municipio o l’oppidum, infine gli optimates, i cavalieri ecc…), mai a un’espressione geografica; lo stesso ThLL precisa in apertura che auctoritas è peculiare Romani senatus attributum.
2A parte il passo cesariano in esame, le due uniche eccezioni si trovano in Cicerone: la prima riguarda la Sicilia (tota denique Sicilia plus auctoritatis apud uos haberet [“infine l’intera Sicilia dovrebbe contare di più per voi”])3 e non mi pare rilevante, poiché l’oratore allude semplicemente all’opinione dei provinciali dell’isola oppressi da Verre; di ben altro rilievo è la seconda, nella Pro Sestio, dove egli ripercorre gli eventi del 59/58, che condussero al suo esilio, e rileva con amarezza come allora si volle ignorare l’opinione dell’Italia intera e l’appassionato appoggio dei boni alla sua causa: Italiae totius auctoritas repudiaretur…tanto bonorum studio [“l’opinione dell’Italia intera fu ignorata nonostante un così grande sostegno da parte degli uomini migliori”]4. L’Italia, a cui si riferisce Cicerone, è naturalmente l’Italia catoniana e subappenninica, che era stata unificata nella cittadinanza romana in seguito alla guerra sociale e all’immissione dei neocittadini nelle tribù ad opera di Cinna: con il censimento del 705 l’enorme mutamento demografico e le sue immediate conseguenze politiche in termini di rappresentatività dei comizi erano divenuti evidenti. I boni, come è noto, sono la formula, con cui Cicerone nella fase più aperta del suo pensiero politico designa tutti i cittadini romani, vecchi e nuovi, che si riconoscono nel mos maiorum, nell’ideale della concordia ordinum, nella centralità del senato quale suprema istanza decisionale e quindi anche nella liceità del SC ultimum. Infine l’auctoritas nel linguaggio ciceroniano e, più in genere, nella sua accezione a metà del I secolo a.C. rinvia necessariamente all’auctoritas senatus intesa come parere certo non vincolante da un punto di vista giuridico, in quanto un veto tribunizio poteva bloccare l’emanazione di un SC6, ma non per questo meno vincolante da un punto di vista etico-politico.
3Cicerone sta qui contestando il procedimento, che nel 58 era sfociato nel suo esilio e nella conseguente perdita dei beni; l’accusa non tanto negava la liceità del SC ultimum quanto gli rinfacciava di averlo falsificato e di non aver concesso ai catilinari il ius prouocationis, un diritto inscindibile con l’essenza stessa della cittadinanza: l’esito furono due plebisciti, la lex Clodia de capite ciuis Romani e la lex Clodia de exsilio Ciceronis, votati all’unanimità tra il marzo e l’aprile del 587; non per nulla, nonostante l’opinione opposta dell’oratore, ci volle una legge votata dai comizi centuriati nell’agosto 57 per revocare l’esilio. Quando dunque l’anno dopo Cicerone torna sulle vicende giudiziarie del 58, egli non è nelle condizioni di criticare la legalità del procedimento e deve quindi trasferire la sua polemica su un piano diverso, dove alla potestas (della legge) si può sostituire l’auctoritas; d’altra parte egli non è neanche in grado di invocare in questo caso l’auctoritas più abituale, quella del senato, che lo aveva scaricato senza troppe remore, e perciò se ne deve inventare un’altra, quella dell’Italia. Come si è appena chiarito, Italia non è più qui solo un’espressione geografica, ma, in quanto insieme di tutti i cittadini, diventa sinonimo di populus Romanus Quirites.
4Nel pensiero politico romano al popolo, riunito nei comizi, spettava la potestas mentre l’auctoritas è sempre del senato (senatus o patrum): ciò appare evidente soprattutto in Cicerone e in Livio8, ma è forse ancora più significativo che autori populares come l’anonimo della Rhetorica ad Herennium e Sallustio concordino nel collegare l’auctoritas col senato; più esattamente la Rhetorica riferisce il concetto di auctoritas a maiores, reges, ciuitates, nationes, homines sapientissimi, senatus, un lungo elenco, da cui populus è escluso, non certo a caso9, mentre Sallustio riferisce l’auctoritas quasi soltanto al senato10. La netta contrapposizione tra l’auctoritas del senato e il iussus o la uis del popolo si trova in Cicerone, Sallustio e Livio e i primi due sottolineano che nel popolo la maxima uis corrisponde alla minima auctoritas11: siccome uis è evidente sinonimo di potestas, se ne può concludere che i due concetti di auctoritas e di potestas sono correlati tra loro in senso inversamente proporzionale.
5Silla aveva però accentuato il carattere magistratuale della potestas, quasi svincolandola dai comizi, che pure eleggevano i magistrati12; per la prima volta la generazione postsillana si trovava quindi a misurarsi con la potestas dei magistrati, l’auctoritas del senato e comizi depotenziati. Mi pare allora rilevante che proprio in tale contesto il giovane e filopompeiano Cicerone nella Pro lege Manilia o De imperio Cn.Pompeii del 67 invochi per la prima volta l’auctoritas populi in palese opposizione all’ amplissimorum hominum auctoritas, laddove vuole convincere i Quirites, cioè i comizi, cioè in ultima analisi il popolo stesso, a conferire un nuovo comando straordinario a Pompeo, nonostante le perplessità nutrite da alcuni dei più autorevoli esponenti del senato13: Cicerone sottolinea quanto sia assurdo che l’auctoritas di questi ultimi abbia ottenuto l’approvazione della loro volontà riguardo alla lex Gabinia dell’anno precedente, mentre ora si voglia mettere in dubbio l’auctoritas dell’intero popolo Romano; al contrario, alla populi Romani uniuersi auctoritati anche questi principes del senato devono ubbidienza14: tra le due auctoritates quella del popolo vale più di quella dei senatori.
6Naturalmente non dobbiamo perdere di vista l’ambito oratorio e polemico di tali affermazioni; come è noto, Cicerone cambiò poi idea, come risulta chiaro soprattutto nel De finibus bonorum et malorum del 4515, ma resta il fatto che senza le riforme sillane e i mutati rapporti tra detentori dell’auctoritas e detentori della potestas all’interno delle istituzioni romane non sarebbe potuto emergere il concetto di auctoritas populi, che troviamo in un sillano moderato come il Cicerone del 67.
7A maggior ragione solo grazie al medesimo sfondo politico lo stesso Cicerone poté formulare undici anni dopo il concetto derivato di auctoritas Italiae: egli non si spinge quindi a reclamare per l’Italia sostitutiva del popolo Romano la potestas, ma le attribuisce l’auctoritas. Così nella Pro Sestio questa Italia diventa per la prima volta l’istanza etico-politica ultima, a cui rendere omaggio e ascolto e a cui ispirare ogni attività legislativa e ogni decisione politica.
8Quando nel 56 Cicerone avanza questo nuovo e scandaloso principio, egli lo aggancia alla sua vicenda, ormai passata e chiusa, ma è difficile che la sua proposta fosse del tutto avulsa dal contesto politico di quell’anno. Infatti la Pro Sestio fu pronunciata in marzo, ma certo rivista in seguito per la pubblicazione; intanto già agli inizi di aprile si erano verificati gli accordi di Lucca16: in questa città della Gallia cisalpina ai confini con l’Italia confluì un gran numero di senatori intorno a Pompeo, Crasso e Cesare17 e fu a tutti evidente che si poteva governare Roma lontano da Roma, mentre il senato ne usciva drasticamente depotenziato; infine in giugno, grazie anche alla De prouinciis consularibus dello stesso Cicerone, venne prorogato il comando straordinario di Cesare nelle Gallie18. Non è allora forse casuale che il Cicerone più “italico” sia il Cicerone più vicino a Cesare nell’anno di una convergenza, non sappiamo quanto sincera, che non doveva mai più ripresentarsi: già nel 54/51, il De re publica ribadì la centralità del senato19, mentre dell’Italia quale fattore politico non si parla più.
9Quella che per Cicerone fu una parentesi all’interno del suo percorso politico fu invece per Cesare una scelta di fondo. Già gli accordi di Lucca, i loro contenuti e la scelta del luogo, dove incontrarsi, avevano rivelato “das Gepräge Caesarischen Geistes”20, la sua propensione a ignorare l’auctoritas patrum e a conferire dignità di “capitale”, sia pur occasionale, a un’altra città; che Lucca non appartenesse neppure all’Italia nel 56 perdeva di rilevanza nel 49, quando la cittadinanza romana fu estesa alla Gallia cisalpina: divenne allora chiaro che per Cesare l’Italia arrivava alle Alpi, come fu poi sancito dal II triumvirato nel 42.
10Nel I libro del Bellum ciuile Cesare torna per ben cinque volte sui motivi, che lo hanno indotto ad iniziare la guerra: al momento del passaggio del Rubicone, in un messaggio a Pompeo di poco successivo, nella replica a P. Cornelio Lentulo Spinther al momento della resa di Corfinio, in un’allocuzione al senato e in Spagna al momento della resa di L. Afranio21. In tutti e cinque questi frangenti egli invoca l’esigenza di tutelare la propria dignitas contro le offese dei suoi nemici personali e in quattro casi su cinque questa ragione è collocata al primo posto; l’esigenza di tutelare i diritti dei tribuni della plebe, di cui era stato violato il ius intercessionis, è menzionata in quattro casi e in un quinto è sostituita dall’analoga esigenza di tutelare la libertà di voto (libera comitia); il SC ultimum del 7 gennaio quale atto di rottura da parte del senato e il plebiscito del 52, che gli aveva accordato il diritto di candidarsi al consolato in absentia, sono ricordati in due casi; la formulazione più ampia e radicale dei motivi, che lo avevano indotto alla guerra, si trova, come è noto, solo nella pagina su Corfinio, quando Cesare contrappone l’usurpazione della res publica da parte di una factio paucorum alla necessità di difendere la libertas sua e di tutto il popolo romano: qui il tema della dignitas personale e quello dei diritti del popolo e dei suoi rappresentanti sono felicemente fusi in uno “slogan” di grande efficacia propagandistica e di profonda risonanza tanto che Augusto lo volle riprendere in apertura delle sue Res gestae.
11A fronte di tutti questi materiali il tema dell’Italia appare solo nella missiva a Pompeo, dove peraltro si ribadisce due volte che essa deve essere liberata dal terrore (si…omnem Italiam metu liberare possint [“se possano liberare l’intera Italia dal terrore”]) e sgomberata dagli armati dell’una e dell’altra parte (discedant in Italia omnes ab armis [“In Italia tutti abbandonino le armi”]); naturalmente non importa qui rilevare che Cesare, scrivendo a Pompeo, sottintende un concetto tradizionale e quindi subappenninico dell’Italia, bensì che l’Italia appare un soggetto passivo, che va protetto e tutelato, non un attore della storia che si stava compiendo.
12Quest’immagine mal s’accorda peraltro con quanto sappiamo della campagna d’Italia nei primi mesi del 49: le città italiche, da Rimini ad Arezzo, da Osimo a Corfinio, per menzionare solo i casi più clamorosi, furono protagoniste della conquista cesariana, tanto rapida quanto incruenta, sia perché aprirono spontaneamente le porte agli “invasori”, sia perché spesso sollecitarono o costrinsero le guarnigioni repubblicane ad evacuarle o ad arrendersi; senza questa attiva collaborazione il successo sorprendentemente facile di Cesare non sarebbe stato possibile.
13Quando Cesare tratta o si rivolge a Pompeo, al senato, a P. Cornelio Lentulo Spinther, a L. Afranio, egli assume per così dire il loro punto di vista, che è romanocentrico, e ne controbatte le argomentazioni restando sul loro terreno: perciò l’Italia è un soggetto passivo. Quel che pensava veramente Cesare a tal proposito ci è fortunatamente rivelato da Cassio Dione: secondo la sua versione Cesare occupò Rimini e subito dopo Pompeo gli inviò L. Cesare e L. Roscio Fabato per avviare trattative, che ben presto si arenarono; allora Pompeo, scoraggiato, abbandonò Roma con molti senatori, ma confidava ancora nella benevolenza degli Italici nei suoi confronti: ne fu ben presto disilluso, come rivelò la resa di Corfinio; dal canto suo Cesare “inviò lettere in tutta l’Italia” (γράµµατα δὲ ἐς πᾶσαν τὴν Ἰταλίαν πέµψας) per esortare la popolazione a stare di buon animo e a non lasciare le proprie città e aggiunse numerose promesse22, che Dione lascia nel vago, ma che miravano certamente ad assicurare gli Italici sulle sue migliori intenzioni nei loro confronti.
14Questo passo di Dione non ha avuto sinora, a mio avviso, il rilievo che merita. Nei delicati frangenti del gennaio 49 Cesare si rivolge alle città d’Italia, perché è fiducioso di riscuotere già il loro favore e perché intende farne il suo interlocutore privilegiato al posto del senato e, più in genere, dell’Urbe: se gli Italici avessero risposto positivamente al suo appello e gli avessero aperto le porte delle loro città, come in effetti avvenne, questa sarebbe stata la prova inconfutabile che egli era dalla parte della ragione e che aveva agito in modo giusto, quando aveva deciso di intraprendere la guerra civile passando il Rubicone; l’opinione pubblica italica viene ad essere assunta così a metro di giudizio, ad ultima istanza su ciò che è bene e ciò che è male in ambito politico: in altre parole le si attribuisce quell’auctoritas di solito riservata al senato.
15Su questo sfondo possiamo ora ritornare al passo, da cui siamo partiti. Il 19 aprile, quando si presentò in armi davanti a Marsiglia, Cesare non era nessuno; forse non era nemmeno hostis publicus, perché non è certo che il senato fosse giunto a tale dichiarazione23, ma in ogni caso non ricopriva nessuna magistratura della repubblica: anche come proconsole delle Gallie era stato sostituito da L. Domizio Enobarbo. Egli era solo il comandante di un esercito in armi, al massimo il rivale di un altro “condottiero”, Pompeo, ma non aveva nessuna carica istituzionale, nessuna potestas, per ottenere dai Quindici di Marsiglia la consegna della loro città, antica alleata della Repubblica; come si è visto nel caso, per certi aspetti analogo, di Cicerone nel 58, laddove vien meno la potestas, questa può essere surrogata dall’auctoritas: peraltro, proprio come per Cicerone, anche per Cesare l’auctoritas più abituale, quella del senato, non era fruibile, tanto meno di fronte al governo aristocratico della città greca, assai legato ai pari grado della nobilitas romana.
16Come porre rimedio a questa imbarazzante situazione? Cesare si inventa un quadro istituzionale, in cui il senato e i magistrati della repubblica non ci sono più, poiché sono fuggiti da Roma, ma c’è solo una contrapposizione tra due singoli, lui ed Enobarbo, tra due uoluntates: ecco che allora soccorre un’altra auctoritas, quella dell’Italia in quanto insieme dei cittadini romani aventi diritto di voto e dunque equivalente al populus Romanus Quirites24; l’opinione pubblica di questa Italia si è manifestata al di là di ogni dubbio a favore di Cesare: quindi, mentre Enobarbo rappresenta solo se stesso, Cesare non è più un “condottiero” isolato, ma, in ultima analisi, il depositario della volontà del popolo Romano, che, secondo la genuina tradizione popularis, è l’unico detentore della potestas; perciò – conclude Cesare – Marsiglia deve aprirgli le porte in obbedienza al popolo Romano.
17Sappiamo che i Quindici non abboccarono affatto a questa audace e per lo meno forzata interpretazione, che Cesare proponeva riguardo ad una contingenza politica certamente straordinaria, e si prepararono a sostenere un lungo assedio. Al momento gli si contrappose un’altra interpretazione, altrettanto discutibile, e cioè che il senato non coincide con il luogo di riunione, cioè con la curia a Roma, ma con la maggioranza dei senatori, ovunque si trovino, anche a Tessalonica in Tessaglia, dove li radunò Pompeo, o a Utica intorno a Catone25: un senato in esilio non è per questo meno legittimo26.
18La guerra proseguì in Spagna. Dopo avervi liquidato i pompeiani, Cesare ripassò da Marsiglia, che capitolò in settembre; qui egli ricevette la notizia che a Roma il pretore M. Emilio Lepido su incarico del popolo lo aveva nominato dittatore27 (o rei gerundae causa o, forse meglio, comitiorum habendorum causa). Avendo ormai la potestas, si potrebbe pensare che Cesare non avesse più bisogno dell’auctoritas: infatti egli si preoccupò di non restare mai privo di potere magistratuale, ricoprendo la carica di console nel 48, 46, 45 e 44 e la dittatura annuale tra l’ottobre del 48 e l’ottobre del 47 e quella decennale (ma numerata anno per anno) dall’aprile 46; infine assunse la dittatura perpetua tra il 9 febbraio (o il 26 gennaio)28 e il 15 febbraio 44.
19Sono noti i termini delle questioni aperte a proposito dell’ultima dittatura di Cesare, se per “perpetua” si deve intendere “fino alla morte” oppure “indeterminata”, come già era stata quella conferita a Silla εἰς ἀόριστον29, e se essa era rei gerundae causa oppure rei publicae constituendae, di nuovo come quella di Silla, o infine assoluta, senza specificazioni di sorta30. La recente pubblicazione dei Fasti di Privernum31 costringe a riconsiderare tali questioni.
20Questo testo epigrafico ci informa infatti che Cesare nel 44 abdicò dalla sua IV dittatura e, insieme con lui, M. Emilio Lepido abdicò dal suo II comando della cavalleria per rivestire le rispettive cariche di dittatore perpetuo e magister equitum perpetuo, a cui erano stati designati; di Lepido si aggiunge quale clausola restrittiva che sarebbe rimasto nella sua carica “finché Cesare fosse rimasto dittatore” (quoad dict(ator) Caesar esset); seguono i nominativi di due altri magistri equitum designati, M. Valerio Messalla Rufo32 e Cn. Domizio Calvino, che sarebbero subentrati, uno dopo l’altro, qualora Lepido, “rivestito di imperium” (paludatus), avesse lasciato Roma.
21E’ stato giustamente già osservato33 che qui Cesare prefigura la struttura di governo da lasciarsi alle spalle durante la campagna orientale, per la quale doveva partire il 18 marzo: egli appunto in Oriente col giovane C. Ottavio al seguito in qualità di legato e la possibilità di essere a sua volta nominato magister equitum in seguito, Lepido fuori Roma, per controllare le province occidentali, segnatamente le Gallie appena conquistate e le Spagne34, dove i pompeiani non erano ancora stati del tutto debellati, infine un secondo magister equitum, il fedelissimo Messalla Rufo, nell’Urbe a sorvegliare nobilitas e plebs urbana.
22Si può aggiungere che il nuovo documento non contraddice l’intuizione di M. Sordi, secondo la quale la dittatura perpetua e con ogni probabilità anche la precedente, decennale, non avevano specificazioni35: se è vero che il carattere della dittatura non è di solito precisato in ambito epigrafico36, è altrettanto vero che pure nei Fasti di Priverno, notevolmente dettagliati, Cesare è soltanto e semplicemente dictator. Si può inoltre aggiungere che la figura di M. Emilio Lepido ne esce notevolmente rafforzata: egli non è un semplice magister equitum, ma un magister equitum perpetuo e la durata della sua carica è legata alla durata della dittatura di Cesare: la contraddizione tra perpetuità e decadenza automatica implicava gravi pericoli di ambiguità, se per “perpetuità” si deve intendere “fino alla morte”: alla morte di Cesare Lepido avrebbe accettato la propria decadenza da una carica “perpetua”? Forse non è casuale e forse va collegato a tale situazione pregressa il fatto che Lepido si propose come successore del dittatore scomparso37 e, oltre ad essere cooptato nel II triumvirato, subentrò a Cesare nella funzione di pontefice massimo, sicuramente vitalizia e ormai carica di valenze politico-religiose di grande rilievo38.
23Resta però da chiarire il reale significato dell’aggettivo perpetuus abbinato al titolo di dictator; infatti esso è ora limitato nei Fasti di Priverno da una clausola restrittiva, che necessita di essere spiegata: che cosa significa infatti che Lepido sarebbe rimasto magister equitum finché Cesare fosse rimasto dittatore? A me sembra che tale clausola implichi la possibilità che Cesare deponesse la dittatura.
24Quasi cinquant’anni fa, J. Jahn39 aveva avanzato l’ipotesi che la dittatura “perpetua” servisse a Cesare solo per nominare in modo legale e corretto i magistrati del triennio successivo, il periodo, in cui egli riteneva di restare assente da Roma a causa della spedizione in Oriente. L’ipotesi ha avuto scarso successo e, così come era stata formulata, è troppo “tecnicistica” per essere persuasiva. Tuttavia si può ora riformularla in questo modo: Cesare non intendeva conferire al termine perpetuus un significato rigido; quel che gli premeva agli inizi del 44 era essere dittatore per tutto il tempo della spedizione in Oriente, preventivato in tre anni, ma soggetto a possibili proroghe, senza doversi sottoporre al rischioso rito del rinnovo annuale; così egli avrebbe avuto la potestas in quanto magistrato cum imperio tanto a lungo quanto voleva, una caratteristica che era già della dittatura di Silla ( ὅσον θέλοι [“per quanto tempo volesse”])40, ma al tempo stesso lasciava aperto uno spiraglio al rientro nella tradizione e nella legalità repubblicana: lo strappo di una dittatura perpetua era in sé già molto forte, ma si poteva ancora pensare che al suo ritorno, presumibilmente vittorioso, avrebbe potuto deporla.
25Questa interpretazione ha il vantaggio di spiegare la qualifica di perpetuus data al magister equitum, poiché così anch’egli avrebbe deposto la propria carica insieme con Cesare ancora vivo; ha pure il vantaggio di giustificare la concomitanza di due magistri equitum, Messalla Rufo a Roma e Lepido in provincia, che costituiva, se non un altro strappo, almeno una clamorosa innovazione rispetto alle istituzioni repubblicane; riduce infine la differenza tra Silla e Cesare: anche la dittatura di quest’ultimo potrebbe intendersi εἰς ἀόριστον [“illimitata”], sia pure senza la specificazione rei publicae constituendae.
26Si badi che a tale interpretazione non osta il famoso dictum attribuito a Cesare da T. Ampio Balbo, secondo il quale Silla sarebbe stato un analfabeta della politica, perché aveva deposto la dittatura; infatti tale sprezzante giudizio, riportato da Suetonio41, potrebbe essere stato posto in bocca a Cesare dall’opposizione allo scopo di denigrarlo: si tratterebbe in altre parole di un processo alle intenzioni. D’altronde anche l’oracolo sibillino divulgato da L. Aurelio Cotta, secondo cui solo un re avrebbe potuto vincere i Parti42, potrebbe iscriversi alla medesima campagna di calunnie e insinuazioni nell’imminenza della spedizione in Oriente e dopo che Cesare ai Lupercalia aveva pubblicamente smentito di volersi fare re, giacché solo Giove era re dei Romani43.
27Alla luce della testimonianza dei Fasti di Privernum e alla nuova interpretazione della dittatura perpetua di Cesare, che essa sembra suggerire, ci si può domandare come si sarebbe comportato Cesare al suo trionfale ritorno dalla vittoria partica (ammesso e non concesso che questo sarebbe stato l’esito della spedizione). Se infatti Cicerone si augurava malignamente di non vederlo più tornare44, c’era chi temeva che, se egli avesse sottomesso anche quei popoli orientali, non ci sarebbe stato più alcun ostacolo al suo essere re (ἀναµφιλόγως γένοιτο βασιλεύς [“indiscutibilmente sarebbe divenuto re”])45 e quindi era necessario impedirgli di partire, uccidendolo prima: come già scrissi qualche tempo fa’, non va mai dimenticato che c’è Pacoro dietro le Idi di marzo46.
28Io continuo a pensare che Cesare non intendesse assumere il nomen regium in nessuna circostanza; d’altra parte lo stesso Appiano, che qui dovrebbe veramente attingere a C. Asinio Pollione, sottolinea che nella sostanza non c’era nessuna differenza tra “dittatore” e “re” e che quindi il timore sopra registrato era solo una ἀφορµή, un pretesto. Tuttavia, se anche Cesare avesse deposto la dittatura, magari per farsi eleggere console per la sesta volta, c’era qualcosa che andava al di là della potestas e delle singole forme in cui si sarebbe potuta declinare, ed era l’auctoritas.
29Il Cesare vittorioso sulle Gallie si era guadagnato l’auctoritas Italiae, come abbiamo visto; il Cesare vittorioso sull’Oriente avrebbe goduto di un tale surplus di auctoritas che sarebbe stato impossibile negargli qualsiasi carica ed onore e tale auctoritas sarebbe stata davvero perpetua: nessuno avrebbe mai potuto uguagliare Cesare in prestigio ed autorevolezza per il resto della sua vita. L’auctoritas originaria, in cui la specificazione Italiae sostituiva la specificazione senatus, sarebbe diventata auctoritas Caesaris, legata al suo nome e alla sua persona.
30Ciò che Cesare non ebbe tempo di sperimentare attuò Augusto: anche Ottaviano partì dal consensus totius Italiae del 32/3147 per giungere ad essere augustus nel 27 e a poter distinguere tra la pari potestas e la superiore auctoritas sempre goduta dopo di allora, come teorizzò nel celeberrimo XXXIV capitolo delle Res gestae48. Perciò anche dietro la configurazione del potere augusteo l’eredità di Cesare contò molto più di quello che spesso si è indotti a credere: non c’è contrapposizione tra monarchia militare e principato civile, come pensava Theodor Mommsen, né tra monarchia e principato sul modello di Pompeo, come pensava Eduard Meyer, né infine tra azione distruttrice della repubblica senza nessuna capacità di pensare un’alternativa e azione costruttiva di una vera ed autentica alternativa, come pensava Christian Meier, c’è invece consapevole ripresa e raffinato sviluppo di intuizioni e progetti cesariani, che uno stupido assassinio non riuscì a soffocare49.
Notes de bas de page
1 Caes., BC, 1.35.1.
2 ThLL 2.1213-1234.
3 Cic., In Verr., 2.2.14.
4 Cic., Sest., 15.35.
5 Liv., Per., 98.3.
6 Cic., Fam., 1.2.4 e 7.4.
7 Cf. Moreau 1987 e soprattutto da ultimo Fezzi 2008 e Venturini 2009, 281-296.
8 Ricorrono 26 occorrenze in Cicerone e 30 in Livio della locuzione ex/in/sine auctoritate senatus/patrum. Livio usa ex auctoritate populi Romani solo in un contesto di politica estera (31.9.2). Nei precedenti storici in frammenti si registra senatus auctoritate in Sisenna (FRHist n° 26, fr. 49) e omnium nostrum…auctoritatem (dove nostrum dovrebbe forse riferirsi ai senatori) in C. Licinio Macro (FRHist n°27, fr.8 a-b). Infine negli autori greci di età imperiale il corrispondente termine ἀξίωµα compare associato a τῆς βουλῆς (cf. p.es. D.C. 45.27.4 all’interno del discorso di Cicerone contro M. Antonio), mai a τοῦ δήµου.
9 Rhet. Her. 2.48.
10 10 occorrenze su 13 complessive.
11 Cic., Fin., 2.44; Sal., Ep. ad Caes., 2.5.1; Liv. 30.44.13 e 38.45.5.
12 Cf. ora Coudry 2018 e anche Pittia 2018.
13 Cic., Man., 63: Qua re uideant ne sit periniquum et non ferendum illorum auctoritatem de Cn.Pompei dignitate a uobis comprobatam semper esse, uestrum ab illis de eodem homine iudicium populique Romani auctoritatem improbari, praesertim cum iam suo iure populi Romani in hoc homine suam auctoritatem uel contra omnis qui dissentiunt possit defendere (“Stiano dunque bene attenti a non compiere l’intollerabile ingiustizia di rifiutarsi di convalidare la deliberazione che su vostra iniziativa viene presa a favore di Pompeo, mentre voi avete sempre convalidato col vostro voto i decreti in suo favore approvati su loro proposta dal senato, tanto più che il popolo Romano può ormai con suo pieno diritto difendere, trattandosi di Pompeo, la propria autorevole iniziativa anche contro tutti gli attuali oppositori”).
14 Cic., Man., 64: isti principes et sibi et ceteris populi Romani uniuersi auctoritati parendum esse fateantur (“questi capi del senato ammettano di dover ubbidire alla volontà dell’intero popolo Romano per ciò che riguarda sia loro, sia gli altri” e cf. anche 69).
15 Cic., Fin., 2.44: qui auctoritatem minimam habet…populus (“il popolo, che possiede autorevolezza in grado minimo”). Solo nel contesto della VI Filippica (Phil. 6.7.18) del 43 Cicerone torna a riferirsi all’auctoritas populi quale elemento concorde con l’auctoritas senatus, che sarebbe in grado di rinforzare.
16 Gruen 1969 e Ward 1980.
17 200 senatori e 120 littori secondo App., BC, 2.17.
18 Sull’orazione ciceroniana e il suo contesto, cf. ora Grillo 2015.
19 Cic., Rep., 2.10.
20 Gelzer 19606, 111.
21 Rispettivamente Caes., BC, 1.7.1-6; 1.9; 1.22.5; 1.32; 1.85.
22 D.C. 41.10.2.
23 Anche se D.C. 41.3.3-4 sembra andare in tale direzione. Hostis publicus: Jal 1963.
24 Inserisco in nota una breve digressione su un celebre episodio, la rivolta dei soldati, in particolare di quelli della X legione, alla fine del 47; essa ci è testimoniata da D.C. 42.53.4, App., BC, 2.93.392, Plut., Caes., 51.2, Suet., Jul., 70, Tac., Ann., 1.42.3, Frontin, Strat., 4.5.2 e Polyaen. 8.23.15: come è noto, nell’occasione Cesare si sarebbe rivolto ai soldati, che provocatoriamente chiedevano di essere congedati, chiamandoli Κυιρίτας, ἀλλ᾿ οὐ στρατιώτας (Dione), πολίτας ἀντὶ στρατιωτῶν (Appiano), ἀντὶ στρατιωτῶν πολίτας (Plutarco), Quirites…pro militibus (Suetonio). Contrariamente a quanto talvolta si afferma, forse sulla base di una maligna insinuazione di Dione (ταπεινωθέντες [“essendo stati umiliati”]), che peraltro risente della contrapposizione tra elemento civile ed elemento militare di età severiana, io non credo che Cesare volesse offendere od umiliare i suoi commilitones definendoli in senso spregiativo “Quirites”; come correttamente intende Polieno, la nostra fonte qui più esplicita, egli voleva piuttosto sottolineare che, una volta congedati, restavano pur sempre Quirites, ciues, con il loro carico di doveri e responsabilità: tra queste vi era quella di non creare disordini (παραινῶ, πολῖται, µὴ στασιάζειν [“Vi esorto, cittadini, a non creare disordini”]) e quella a cui Cesare più teneva in tale frangente, cioè che chiedessero non il congedo, ma un nuovo arruolamento per combattere con lui (συστρατευώµεθα) l’imminente campagna d’Africa. In sintonia con quanto scrivo nel testo, ritengo quindi che Cesare usasse il termine Quirites proprio perché considerava l’esercito l’espressione più completa e fedele del popolo Romano.
25 D.C. 43.1.1-5 (Tessalonica); App., BC, 2.95.397 (Utica).
26 Gabba 1960 = 1973, 427-441.
27 Caes., BC, 2.21.5: Ibi legem de dictatore latam seseque dictatorem dictum a M.Lepido praetore cognoscit (“Lì viene a sapere che era stata promulgata una legge riguardo alla carica di dittatore e che egli era stato proclamato tale dal pretore M.Lepido”).
28 Così Pucci Ben Zeev 1996.
29 App., BC, 1.99.
30 Cf. infra n. 35.
31 Zevi 2016.
32 Nei Fasti non compare il cognomen Rufus, ma l’identificazione è certa: cf. Zevi 2016, 300.
33 Da Zevi 2016, 301-302. G. Cresci Marrone suggerisce di non escludere che il nuovo testo sia una rilettura dei poteri dell’ultimo Cesare in chiave augustea e sia quindi funzionale alla propaganda del principe, non alla ricostruzione delle magistrature nel 44. Di seguito tento invece una spiegazione, che presuppone la correttezza dei dati fornitici dai Fasti di Privernum.
34 L’assegnazione delle province di Gallia Narbonense e Spagna Citeriore a Lepido è in D.C. 43.51.3-6 e 8.
35 Sordi, 1976 e Sordi 2000. Naturalmente, se si accettano le integrazioni proposte a un’iscrizione di Taranto da Gasperini 1968 e Gasperini 1971, bisogna ammettere almeno una IV dittatura rei publicae constituendae; quanto alla dittatura perpetua, sarebbe anch’essa rei publicae constituendae per Canfora 1999, 308 nota 46, rei gerundae causa per Rawson 1994, 463 nota 245.
36 Nicolet 1964, 215.
37 D.C. 44.34.5-6.
38 Ottime in tal senso le riflessioni di Zevi 2016, 302. Weigel 1992, 37-39 offre una discussione equilibrata, ma ormai inevitabilmente datata.
39 Jahn 1970, 187 con la nota 178.
40 App., BC, 1.99.
41 FRHist n°34 fr.1 in Suet., Jul., 77.
42 Cic. Diu. 2.110; Suet., Jul., 79.3; D.C. 44.15.3 (e anche Plut., Caes., 64.3 e App., BC, 2.110).
43 D.C. 44.11.3.
44 Cic., Att., 15.4.3.
45 App., BC, 2.111.
46 Zecchini 2001, 95. Quanto sto scrivendo in questa sede vale come aggiornamento e modifica delle mie riflessioni di allora (segnatamente alle pp. 30-34). Ovviamente nel 2001 i Fasti di Privernum non erano noti.
47 Su questa notissima locuzione cf. da ultimo Marcone 2017.
48 RGDA 34.3: Post id tempus auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt (“Dopo di allora fui superiore a tutti in prestigio, ma non ebbi più potere degli altri che mi furono colleghi nelle magistrature”). Cf. Ramage 1987, 41-54; Galinski 1996, 10-41; Ridley 2003, 222-227; Starr 2011; Rich, 2012; Peachin 2013; Rowe 2013, a cui ha replicato efficacemente Galinski 2015. Cf. anche Hurlet in questo volume.
49 Cf. Zecchini 2010.
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