Pallottino africanista
p. 169-187
Texte intégral
1Che talune formulazioni del problema critico dell’arte etrusca abbiano presentato, nella storia degli studi novecenteschi, aspetti di analogia ideologica e metodologica col dibattito sorto intorno all’arte indigena dell’Africa romana, è un’idea che mi fu destata, poco meno di trent’anni fa, da un articolo, davvero fondamentale, dovuto a Yvon Thébert e a Filippo Coarelli1, che smascherava il fraintendimento indotto dalla categoria etnico-culturale dell’africanità: ricordo infatti che cominciai allora a riflettere su altri possibili fraintendimenti critici, connessi alle categorie dell’“etruscità” e dell’“italicità”. E all’insegnamento di quel memorabile saggio non ho potuto fare a meno di ripensare, quando la lettura del capitolo conclusivo di un volume recentissimo di Antonino De Francesco2 mi ha condotto a considerare una serie di articoli dedicati dall’etruscologo Massimo Pallottino, nei terribili anni compresi fra il 1938 e il 1943, proprio all’Africa, alla romanità dell’Africa e al variegato mondo dei suoi sostrati indigeni.
2Di questa bibliografia africana di Pallottino entra nella raccolta3 dei Saggi di antichità4 un solo articolo, e per la verità un poco anteriore a quelli di cui ci vogliamo occupare: “Note sulla stele di Ghadàmes”, originariamente pubblicato nella Rivista delle Colonie Italiane5. La scelta è comprensibile: si tratta infatti di uno studio eminentemente iconografico e stilisticocronologico, senza riferimenti all’attualità politica o militare né asserzioni generalizzanti in termini di etnie e di razze. Diversamente, nessuno dei lavori molto più engagés che, in scia di De Francesco, prenderò fra poco in esame, è stato inserito nella raccolta. Ma una buona parte figurano menzionati nella bibliografia ufficiale del grande studioso6, benché quelli del biennio 1938-1939 ne siano espunti.
3Non si trattò, da parte di Pallottino, di un impegno occasionale e discontinuo. I suoi contributi africanistici, tutti concentrati nel periodico Rassegna Sociale dell’Africa Italiana (fig. 1) – che fu pubblicato dall’autunno-inverno del 1938 fino agl’inizi del 19437 –, sono infatti numerosi, una trentina, e assidui: nessuna annata è omessa, e la maggioranza si concentra negli anni 1939 e 1940. Va inoltre sottolineato che questo filone apparentemente eccentrico della bibliografia di Pallottino accompagnò, nel medesimo arco di tempo, i suoi abituali e autorevoli studi etruschi: ciò che a maggior ragione ne giustifica una comparazione di metodo e di modelli.
4Capisaldi evenemenziali (e, per conseguenza, ideologici) da presupporre a un’attività che si potrebbe definire di alta divulgazione, sono da indicare nella conquista dell’Etiopia e nella proclamazione dell’Impero (9 maggio 1936) – con intensificazione della polemica contro le altre potenze coloniali, in particolare quella britannica-, nei primi provvedimenti legislativi di apartheid. avverso il concubinato inter-razziale (aprile 1937) e, su un piano più strettamente culturale, nella Mostra Augustea della Romanità (settembre 1937-settembre 1938), che rappresentò, per Giulio Q. Giglioli e in parte anche per il suo illustre allievo, un momento decisivo per la svolta romanocentrica della propaganda di regime8.
5Il Pallottino dei saggi africani s’esprime in quattro principali ambiti tematici, che indicherò nel loro ordine, per così dire, di apparizione, nella serie dei fascicoli della rivista di Bonfatti:
- la ricostruzione di un’etnografia indigena, condotta con forte integrazione pluridisciplinare e particolare attenzione alle forme artistiche, in chiave dichiaratamente scientifica e fuori di ogni “decadente” infatuazione primitivistica;
- la storia sociale dell’Africa romana, concepita come un modello di colonialismo ‘buono’, di cui quello dell’Italia imperiale era continuità nella dimensione storica contemporanea (con netta separazione del mondo berbero, giudicato irriducibile a una cultura urbana e perciò misterioso e al tempo stesso repulsivo e attraente);
- le evidenze più antiche di ciò che poteva apparire una millenaria, fatidica proiezione italiana in Africa, a partire dai movimenti dei ‘popoli del mare’ nella tarda età del Bronzo e con specifico riferimento agli Shardana, i Sardi;
- la storia dell’Egitto faraonico, accostata attraverso una selezione di personaggi e di vicende variamente esemplari, sulla base di competenze tutt’altro che di prima mano, ma sicuramente approfondite9.
6Nelle prossime pagine, percorrendo una schedatura commentata di tutti gl’interventi di Ballottino compresi nella Rassegna sociale, cercheremo di mostrare come questa sua sfaccettata lettura dell’africanità fosse occasione e palestra di sperimentazione delle medesime basilari opzioni strategiche e metodologiche proprie dell’etruscologo: un’applicazione sistematica della teoria dei sostrati etnico-linguistici, coi relativi connotati di frammentazione e d’insularità; il tentativo d’individuazione dell’aspetto culturale indigeno e di descrizione della sua dialettica acculturativa coi modelli forestieri più evoluti; l’asserita necessità di un approccio conoscitivo integrato, di ricercatori in grado di padroneggiare e di combinare serie documentali fortemente differenziate. Ma l’aspetto forse più interessante, al fine di una piena storicizzazione dello statuto disciplinare dell’etruscologia nel xx secolo, andrà indicato nel concetto letteralmente “inclusivo” di una romanità coloniale che, di fatto, italianizzava – nel passato come nel presente – quella parte almeno dell’africanità indigena, che fosse disposta ad accogliere il modello urbano: ciò s’associava a quel determinismo autoctonistico che, nel Ballottino etruscologo, avrebbe indirizzato la sua canonica formulazione di un processo etnico-formativo tutto racchiuso entro il contenitore territoriale della penisola italiana. Un paradigma tutt’altro che asettico, ma rappresentativo del razzismo nazionalistico che fu prevalente fra gli umanisti della comunità accademica italiana.
7In questo, non mi sembra di contraddire quanto affermato da Mario Torelli: “da tutte le pagine da lui scritte sulla questione delle origini si ricava non solo l’estraneità, ma il rifiuto di Ballottino delle posizioni razziste, ufficiali in quegli anni, soprattutto a partire dalle leggi razziali del 1938”; poiché “il processo formativo dei popoli moderni sin dagli inizi del Novecento era divenuto patrimonio comune... degli storici nazionalistici”10. In effetti, come vedremo meglio fra poco, si trattava appunto di un razzismo nazionalistico, in nessun modo biologico, esente da beceraggini e senz’ombra di antigiudaismo.
Rassegna sociale dell’Africa italiana11
I (1938) 1 (novembre)
8Pallottino inizia la sua collaborazione al periodico appena nato, con la prima puntata di una rubrica quasi fissa: “Storia dell’Africa”. Il suo primo contributo s’intitola “Etnologia storica ed etnologia ‘funzionale’” (73-77) e prende spunto (quasi come una recensione) dall’ottavo dei cosiddetti convegni Volta12, ch’era stato dedicato a L’Africa e s’era svolto a Villa Farnesina dal 4 all’11 ottobre, con l’appendice d’un viaggio d’istruzione in Libia dal 12 al 17 dello stesso mese: poiché gli atti vennero pubblicati nel 1939, il resoconto critico di Pallottino era evidentemente basato su appunti presi da uditore13.
9Nel commento, Pallottino riconduceva gl’indirizzi della moderna ricerca etnologica alle due forme del colonialismo europeo: alla “conquista mercantilistica”, da una parte, che orienterebbe lo studio delle culture indigene a un approccio puramente retrospettivo e ingannevolmente asettico; ovvero alla “colonizzazione intesa in senso romano”, che invece si prefiggeva di armonizzare “le stirpi dominate” al “popolo conquistatore”. L’invito è perciò a promuovere l’etnologia – in quanto disciplina che studia “la cultura dei popoli più arretrati” – dal campo astrattamente teorico a quello “funzionale” – con rinvio alle tesi dello storico delle religioni Raffaele Pettazzoni –, contro l’evoluzionismo di scuola britannica, che pareva ormai superato dalle scoperte di Ratzel, Frobenius e Schmidt.
10Nell’esperienza della contemporaneità, si assisteva infatti al trionfo della “civiltà europea di origine mediterranea”, capace di assorbire quelle asiatica e mesoamericana. Dal canto suo l’Africa – Egitto escluso – sarebbe luogo di “popolazioni di tipo inferiore... attorno alle quali si va stringendo ad anello, proveniente dalle coste, l’ondata della civiltà europea”, a dispetto del fatto che Etiopi, Niloti e Camiti apparissero “razzialmente più simili” agli Europei. L’Africa, pertanto, si sarebbe europeizzata solo nelle sue aree settentrionale e meridionale, permanendo “primitiva” nell’interno.
11La spiegazione del fenomeno poteva essere ricondotta a un fattore puramente geografico, secondo l’approccio positivistico del geografo Giotto Dainelli, o a quello razziale, seguendo l’etnologo Renato Biasutti: prodotto ne era che le “razze negre” fossero “neoformazione, con carattere di degenerescenza”, propria di un ambiente tropicale, con eccezione importante tuttavia riservata ai nostri sudditi Etiopi, che venivano giudicati meno primitivi degli altri. Ma come si sarebbe determinata tale distinzione tra “razze superiori” e “razze inferiori”? per leggi di natura o per fattori storici? Qui Pallottino non può proprio far torto alla sua intelligenza e vira sulla prospettiva storica, scorgendovi, fra l’altro, la sola via praticabile per l’“elevamento” dei primitivi, cui non era certo impedito di poter avere anche alte “concezioni etico-religiose”.
12Quale, poi, il rapporto fra lingua dei colonizzatori e lingua dei colonizzati? Non necessariamente conflittuale: perché latino e punico avevano pur avuto modo di coesistere nell’Africa romana, e anzi si dava il caso di epigrafi funerarie latine, in Marocco e in Libia, ancora attestate in epoca araba.
13Questa visione tendenzialmente continuistica trovava peraltro interruzione irrimediabile nella violenza annientatrice di Berberi e Arabi: perciò l’Italia fascista, differenziandosi radicalmente dalla Francia, intendeva perseguire la valorizzazione degli assoggettati e l’armonia delle stirpi.
14De Francesco dà molto risalto a questo primo studio africano di Pallottino, sottolineandovi la precisa volontà di rivendicare alla sola Italia, contro l’esempio deteriore della sorella latina, l’esclusiva di un colonialismo civilizzatore, in continuità diretta con gli ammirevoli conseguimenti di Roma antica14. Ma la condizione perché ciò avvenisse stava nella netta separazione tra occupanti e occupati, di modo che i secondi potessero lasciarsi docilmente rimodellare dalla superiore civiltà dei primi.
I (1938) 2 (dicembre)
15Ritorna la rubrica “Storia dell’Africa” (209-214) e prende spunto dalla “controversia tunisina”, cioè dalla crisi dei patti italo-francesi che era stata a suo tempo provocata dall’aggressione italiana all’Etiopia nel 1935. Pallottino contrappone nuovamente il connotato politico-demografico della conquista romana al progetto plutocratico e di “sfruttamento” dei mercantilisti democratici e liberali; e accosta gli Italiani ai Boeri, per la capacità di trasformare “terre incolte” in “luoghi ubertosi", di contro alla rapace ferocia di Francia e Inghilterra. Perciò il colonialismo dell’Italia imperiale gli appare intrinsecamente “sano” e morale.
16È rievocata la recente Mostra Augustea della Romanità, così efficace a far cogliere la continuità ch’era intercorsa fra la vittoria sull’“opulenta rivale semitica” Cartagine, e quella sull’“impero ellenistico-orientale” di Cleopatra. Il ritratto bronzeo di Augusto proveniente da Meroe – di cui era stato esposto in mostra il calco – doveva certamente essere stato predato in una delle frequenti “razzie di Nubiani”; e il re d’Italia, nei confronti dell’impero etiopico sconfitto, era nella stessa posizione di Augusto rispetto all’Egitto.
17Pallottino enfatizza inoltre la cristianità d’Africa, citando il Saint Augustin, appena uscito, di Henri-Irénée Marrou: con visione al solito continuistica, Agostino avrebbe rappresentato il nesso culturale fra romanità tardiva e medioevo incipiente. Si può aggiungere che Agostino, nella percezione di questo razzismo inclusivo, rappresentasse il prodotto umano più alto di un’africanità inclusa, appunto, nella romanità.
II (1939) 1 (gennaio)
18Terza puntata della “Storia dell’Africa” (76-79).
19Pallottino vuol mettere in luce la storia più antica delle relazioni fra Italia e Africa, muovendo dalla constatazione della maggior vicinanza della Sicilia alla Tunisia che del Tirreno all’Adriatico; e arriva a enunciare una sorta di “legge geonemica”, che avrebbe comportato tensioni periodiche al reciproco sconfinamento e possesso territoriale, fin dal tempo lontano in cui Sardi e Siculi erano presenti fra i popoli del mare invasori dell’Egitto15.
20In seguito, già quello di Cartagine era stato un “imperialismo mercantilistico e militare”; e l’aver conquistato la Sicilia cartaginese implicò conquistare anche l’Africa, assecondando il solito “pendolo oscillante fra Sicilia e Tunisia”.
21Pallottino passa poi a una rassegna di studi italiani sull’antico Egitto, a suo avviso finalmente pervenuti al livello di qualità di quelli stranieri (e menziona Breccia, Farina, Anti, Vogliano e Calderini).
22Tocca infine l’aspetto glottologico, avanzando l’idea dei “vernacoli bantù” come stadio linguistico di tribù “scarsamente progredite”, e asserisce che una lingua possa imporsi in un territorio solo in conseguenza della sua conquista. L’osservazione è significativa, perché mostra come Pallottino non fosse allora in grado di concepire sostituzioni linguistiche fuori dell’esito di conquiste territoriali16: e in proposito menzionava nuovamente padre Schmidt, riconoscendo ai missionari grandi meriti in campo glottologico.
II (1939) 2 (febbraio)
23Continua la “Storia dell’Africa” (206-208).
24Stavolta si toccano questioni di archeologia e storia dell’arte. Pallottino dichiara di apprezzare le scelte iconografiche del giovane re d’Egitto Faruk che, pur senza tradire l’aspirazione al califfato, dava continuità a un’eredità faraonica già esemplarmente esplicitata nella serie filatelica con l’immagine del dio Thot e il nome di suo padre Fuad entro il cartiglio geroglifico; e rende conto della scoperta recentissima della tomba di Scescianq (sic: cioè Sheshonq) a Tanis, faraone del quale sottolinea (ma senza acredine) il conflitto con gli Ebrei.
25A seguire, prende avvio una discussione – che sarebbe stata riproposta in puntate successive – sull’arte africana, dal punto di vista particolare della sua adattabilità agli arredi liturgici del cristianesimo, introdotto dai missionari; ma non manca un accenno alla fortuna, nell’“immediato dopoguerra”, dell’“arte negra”, che viene sprezzantemente riferita a “morbose sensazioni estetiche per le stanche accademie”. Più precisamente, Pallottino osservava che “per gli ambienti estetizzanti dell’Europa internazionalizzata questa rivelazione (scil. dell’arte negra), invece di essere accolta con il rispetto e la delicata ammirazione dovuta... a frutti selvaggi di razze e culture lontane, fu considerata alla stregua di una verginità esotica destinata a rinverdire, con impulso afrodisiaco, le esaurite capacità di una vecchia arte”: la metafora di uno stupro! In questo Pallottino riconosce un’“esatta corrispondenza, nel campo figurativo, di quella corrente americana che imponeva la ispirazione negra nella musica e nella danza”.
26Molto diversamente, la Chiesa missionaria sarebbe stata capace di favorire “uno sviluppo africano dell’arte africana”, proprio attraverso il suo adattamento al culto cattolico, fuori di quell’“orrenda produzione a serie di gesso dipinto che infesta... le nostre chiese”. La descrizione del processo potrebbe apparirci rovescio speculare di quanto constatiamo nella cultura etrusca, dove immagini di un’arte forestiera (nel caso, di quella greca) vennero rifunzionalizzate in un quadro di culto, invece, essenzialmente indigeno.
27Qui si vede come ciò che abbiamo chiamato il razzismo inclusivo di Pallottino si contrapponesse a qualunque forma di meticciato (persino musicale) e raccomandasse una rigida separazione di culture, intesa quale premessa necessaria di un “delicato” approccio dei dominatori ai dominati, nella finalità ultima dell’armonizzazione dei secondi alla superiore civiltà dei primi17.
II (1939) 3 (marzo)
28Continua la “Storia dell’Africa” (325-327).
29Il controllo britannico sul Canale di Suez (“Suez, problema storico e problema umano”) offre a Pallottino occasione per una vivace polemica anti-inglese e antiliberistica in generale. Poi si passano in breve rassegna recenti scoperte archeologiche italiane in Tripolitania e in Cirenaica e si accenna infine alla civiltà axumito-etiopica.
II (1939) 4 (aprile)
30Continua la “Storia dell’Africa” (464-466).
31Questa volta si tratta della recensione di un saggio monografico, la Storia della conquista dell’Africa di Ridolfo Mazzucconi (I-II, Milano 1938). In effetti, per Pallottino la storia dell’Africa coinciderebbe essenzialmente con la storia della sua conquista e, quantunque gli apparisse, forse, un errore “supervalutare il punto di vista europeo”, la conquista dell’Africa pur era (o poteva essere) civilizzatrice, in quanto forma di un “colonialismo progressivo”.
32Concludono la puntata alcune considerazioni sulla definizione di preistoria e altre segnalazioni bibliografiche.
II (1939) 5 (maggio)
33Continua la “Storia dell’Africa” (604-605).
34Trascorso qualche mese, Pallottino ritorna al tema così intrigante dell’arte africana e, prendendo in considerazione istoriazioni e pitture rupestri dello Hoggar, in Algeria, non può far a meno di alludere al bestseller internazionale di Pierre Benoît, L’Atlantide, che era stato pubblicato per la prima volta in Francia nel 1919 e in traduzione italiana nel 1920, e aveva già conosciuto due evocative trasposizioni cinematografiche18: “la reggia sconosciuta di una antichissima e giovane regina atlantidèa”, evocata da “un fascinoso romanziere” – una delle pochissime occasioni a me note, in cui il severo saggista dischiuda uno spiraglio sulle sue scelte d’intrattenimento, con cenno rivelatore di una qualche pulsione irrazionale, sepolta al fondo dei suoi interessi nordafricani (fig. 4, 5).
35Conclude il contributo una discussione del problema interpretativo della necropoli di Canne.
Il (1939) 6 (giugno)
36La rubrica “Storia dell’Africa” è interamente occupata dall’articolo “Episodi da non dimenticare: Albione e il somalo ‘pazzo’” (755-758).
37Trattando della vicenda del cosiddetto mad Mullah, il “selvaggio brigante” ‘Abdille Hassan, leader somalo musulmano fondamentalista, che combatté contro i Cristiani inglesi ed etiopi, Pallottino si esibisce in uno dei suoi più virulenti sfoghi contro la tracotanza di Albione. Comincia a prendersela coi “supervalutati intrighi” del collega archeologo Thomas E. Lawrence in Palestina; poi rincara la dose, accusando gl’inglesi di un razzismo – per loro, “i negri cominciano a Calais” – non meno estremistico del fanatismo religioso degli Arabi, e respinge ancora una volta la “concezione imperiale” e “mercantilistica” del colonialismo inglese, incompatibile con l’Islam; giungendo al punto di considerare manichea la loro rappresentazione del Mullah pazzo, che sarebbe stato, in fondo in fondo, un patriota sincero e non privo di meriti nella sua lotta contro quei prepotenti.
38Come sottolinea De Francesco19, l’articolo dà inizio a una violenta polemica anti-inglese, che in Pallottino si accentuerà in parallelo alle vicende belliche.
II (1939) 8 (agosto)
39Continua la “Storia dell’Africa” (984-987), con una puntata inizialmente un po’fiacca, decisamente di routine, nel riferire degli studi di Michelangelo Cagiano de Azevedo sulle strade romane in Africa.
40Molto più interessante è il seguito, che ripropone per la terza volta il tema, evidentemente sensibile, dell’arte africana, dando conto del saggio di Eckart von Sydow contenuto nel Lehrbuch der Völkerkunde di Konrad Theodor Preuss (1937), col riconoscimento dei tre maggiori filoni della cosiddetta “plastica paliforme” – e qui Pallottino cita, a motivo di confronto, alcuni bronzetti etruschi –, del grande naturalismo del Benin e della pittura boscimane.
II (1939) 9 (settembre)
41Con questo fascicolo, Pallottino dà il via alla sua personale storia dell’antico Egitto: divulgativa, non sistematica e neanche rigorosamente cronologica, ma scandita da alcuni personaggi-chiave. Si comincia con “Una spedizione egiziana in Africa Orientale nel 1500 avanti Cristo” (1074-1081).
42Tale opzione egizia appare significativa, specie alla luce di una definizione disciplinare dell’etruscologia che, per il Pallottino del dopoguerra, sarebbe dovuta procedere, metodologicamente, proprio come l’egittologia: vale a dire con accorpamento di varie competenze specialistiche (di ordine epigrafico e linguistico, archeologico, storico-religioso ecc.) nella medesima figura di studioso trasversale.
43Si racconta della spedizione navale inviata dalla regina Hatscepsôve (sic, per noi di solito Hatshepsut) fino in Somalia (il Paese di Punet, ovvero di Punt) sulla base delle fonti epigrafiche e iconografiche del Tempio di Deir el-Bahari. L’esempio di Hatshepsut si direbbe allusivo alle buone pratiche della moderna colonizzazione italiana nel medesimo Paese di Punt; mentre spiccato appare l’interesse per i “caratteri etnici” e le “caratteristiche antropologiche” riconoscibili nei bassorilievi, che permetterebbero d’individuarvi “un tipo etnico etiopico”, con forme femminili particolarmente steatopigiche.
II (1939) 10 (ottobre)
44Una puntata di “Storia dell’Africa” (1187-1190) piuttosto stanca, con considerazioni puramente divulgative sull’Egitto greco-romano – viene citato nuovamente Breccia, direttore del Museo di Alessandria sino a qualche anno prima – e su Augusto e l’Africa.
II (1939) 11 (novembre)
45La rivista ospita un contributo di Pallottino di pretese decisamente saggistiche: “Sulle tracce di una umanità paleoafricana dall’Africa Orientale al Calahari” (1224-1231).
46Qui emerge chiarissima l’idea-chiave metodologica della trasversalità disciplinare, nell’invito a superare la dicotomia che allontana l’imprescindibile specializzazione dello studioso dall’aspirazione al collegamento dei dati, dall’unità del processo di ricostruzione storica: “Ma ciò che finora non è stato mai neppur tentato è la contemporanea utilizzazione di tutti i possibili dati antropologici, archeologici, etnologici, linguistici, allo scopo di delineare, nei suoi elementi essenziali, una storia di quella parte dell’umanità, che è poi di gran lunga la maggiore, vissuta senza documenti scritti.” O scritti in una lingua poco o nulla comprensibile, verrebbe da aggiungere, con ovvio pensiero agli Etruschi...
47I riferimenti basilari sono quelli che ci attendiamo – Schmidt per l’etnologia, Alfredo Trombetti per la linguistica –, e appare particolarmente importante il debito riconosciuto al “nostro grande Giuseppe Sergi”, l’influente antropologo che abbiamo già sopra ricordato20 (fig. 3), collocandolo a saldatura fra il positivismo evoluzionistico dei paletnologi italiani di cultura risorgimentale e il nuovo razzismo novecentesco: da lui derivava a Pallottino, in particolare e decisivo, il modello delle unità preistoriche, frammentate in epoca storica, e dei sostrati culturali, talvolta affioranti come isole dalla superficie del mare21. Anche in Africa – come nella prima Italia, verrebbe da dire – in aree geograficamente marginali (cioè in quelle più lontane dal Mediterraneo e dall’Asia) è possibile leggere la persistenza dei sostrati culturali più antichi, cioè “i resti di una umanità primitiva, estesa un tempo a gran parte del globo”: una remota unità australe della civiltà umana.
48Dopo una digressione craniologica, si perviene infine alle conclusioni: nell’Africa sudorientale si riconoscerebbe ancora preservato un grande frammento di questa unità umana preistorica, con espressione più meridionale (e perciò più primitiva) nella razza australoide dei Boscimani. Manifestazione artistica caratterizzante ne sarebbero i dipinti rupestri; e aspetto linguistico, se intendo bene, il sottogruppo delle lingue cuscitiche meridionali.
49A mio parere, è forse questo il contributo africano di cui appare più evidente la contiguità ideologica e di metodo col Pallottino degli Etruschi (e degli Italici)22. Sotto tale insolito angolo visuale diventa perfettamente comprensibile come la tendenziale svalutazione dei fenomeni di migrazione o invasione, il rifiuto, in modo particolare, del modello erodoteo delle origini (in quegli anni caro a Pericle Ducati), l’enfasi portata sul concetto di una “formazione” etrusca interamente compresa in territorio italiano, e dunque la sostanziale riproposizione della tesi di Dionigi di Alicarnasso, siano tutti elementi che fanno sistema nella cornice di un nuovo nazionalismo autoctonistico – autarchico, ci verrebbe da dire –, che si poneva in conflitto dichiarato col vecchio nazionalismo sabaudo di Luigi Pigorini23. De Francesco arriva addirittura a mettere in relazione, nel pensiero di Pallottino, la dichiarata strutturale peninsularità della civiltà etrusca (di contro al modello settentrionalistico) con l’esigenza affatto contemporanea di marcare un preciso ruolo politico-militare italiano, rispetto all’incomodo alleato tedesco.
II (1939) 12 (dicembre)
50Ancora la consueta rubrica: “Storia dell’Africa” (1365-1367).
51Qui Pallottino si sofferma sui Berberi dell’Africa settentrionale e propone la solita distinzione tra popolazioni insediate sulla costa, perciò aperte a contatti di tipo coloniale, e nomadi dell’interno, descritti come “genti... violente, avide, individualiste”; e ritorna la suggestione, intensa e persistente, de L’Atlantide. Da questa divaricazione antropologica sarebbe conseguita la necessità del limes romano, che servì appunto a segregare i gruppi berberi, ritenuti incapaci di raggiungere un “alto livello civile” indipendentemente dall’“influsso fecondatore” dei colonizzatori. Non senza contraddizioni macroscopiche – come sarebbero riusciti quei civilissimi colonizzatori a fecondare barbari esclusi ed emarginati? – la conquista prima romana e poi italiana dell’Africa settentrionale era comunque concepita come un’operazione di forte impatto “culturale” sul “substrato indigeno”.
III (1940) 1 (gennaio)
52Questa volta Pallottino firma un articolo autonomo dalla cornice della sua consueta rubrica e, per la prima volta, vi fanno la loro comparsa gli Etruschi: “Rapporti economico-sociali tra gli Etruschi e l’Africa” (50-56)24.
53Ribadito il concetto di un’antichissima “unità mediterranea” – che (come abbiamo visto) veniva giù diritto dalla dottrina etnoantropologica di Sergi –, il rapporto fra Etruria e Africa è visto come premessa del rapporto fra Roma e l’Africa, sicché la “latinità africana” sarebbe, in certo qual modo, un ritorno a quell’antica unità, sovrapponendosi “all’amalgama punico-berbero”. In un quadro di “intensi scambi culturali e razziali tra l’Italia e il continente africano”, Pallottino tocca nuovamente, come un anno prima, la questione dei “popoli del mare”, degli Sciardina o Sciardona25, degli Sciakalascia e dei Turasela (sic); per poi affrontare il tema dell’Etraria in età orientalizzante e arcaica, con particolare attenzione portata alle relazioni coi Cartaginesi: è accolta, come prevedibile, l’autenticità del primo trattato romano-cartaginese, per cui viene anche ammessa l’esistenza di “piccole colonie” cartaginesi in Etruria (e viceversa). Un’ipotesi interessante prospetta la presenza di Etruschi fra i mercenari che, a partire dal iv sec. a.C., combatterono per la parte cartaginese in Africa; e a un mercenario o colono etrusco in Egitto si suggerisce che potesse essere appartenuto il liber linteus di Zagabria.
III (1940) 2 (febbraio)
54Riecco la rubrica “Storia dell’Africa” (149-151), stavolta occupata da commenti politico-strategici all’attualità delle vicende mediterranee, sia pur sempre indirizzati dal confronto con situazioni antiche.
55Obiettivo polemico principale è quello del cosiddetto blocco levantino o afroasiatico, che da sempre avrebbe tolto spazio a interessi europei proiettati nel Mediterraneo: l’attacco persiano alla Grecia – peraltro accostato, con incongruità (visto lo scenario baltico), a quello della Russia alla Finlandia –, la rivolta giudaica del 70 d.C., l’espansionismo arabo nel Medioevo, altro non sarebbero che riproposizioni di un medesimo conflitto secolare; mentre, nella contemporaneità degli eventi bellici, il medesimo ruolo aggressivo sarebbe ereditato, naturalmente, dalla solita Inghilterra.
56Segue un paragrafo compilativo, sulle antiche città della Tripolitania (“Origini e sviluppi delle città tripolitane”).
III (1940) 3 (marzo)
57Riprende la storia dell’Egitto antico, con l’articolo “Una grande rivoluzione sociale nell’Egitto faraonico” (196-205).
58Vi sono passati in rassegna alcuni testi del Regno Medio, che denunciano disagio e alludono a episodi di sovversione: qui l’interesse di Pallottino sembra soprattutto storico-religioso.
III (1940) 4 (aprile)
59Di nuovo la rubrica “Storia dell’Africa” (325-327), con tre brevi note divulgative: sulla cronologia della storia egiziana antica, sui Lotofagi e sui cosiddetti racconti libici di Erodoto.
III (1940) 7 (luglio)
60La rubrica "Storia dell’Africa” (598-600) risente ovviamente del clima creatosi all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia, dichiarata solo un mese prima26.
61Si trattava di dare un’efficace giustificazione storica all’intervento militare: “Più volte in questa rubrica abbiamo cercato di dimostrare le ragioni storiche che legano strettamente l’Italia alle regioni dell’Africa mediterranea e di contribuire alla polemica anti-occidentalistica col ricordo delle insipienze e dei soprusi britannici e franco-britannici nella naturale sfera d’influenza romana.” L’azione militare dell’Italia (una “guerra liberatrice”) rispondeva dunque alla logica di un’“affermazione centrifuga”, e il suo successo avrebbe salutarmente ristabilito l’“equilibrio geostorico del bacino mediterraneo nel quadro della giustizia di Roma”.
62Chiudono la rubrica alcune note di storia egizia e le ragioni invero deliranti di una rivendicazione italiana su Cipro e su Gerusalemme, fondate su un diritto passato, per eredità, dai Lusignani ai Savoia e pertanto al re d’Italia.
III (1940) 10 (ottobre)
63Dopo la sparata ideologica e guerrafondaia del fascicolo di luglio, Pallottino ritorna all’alta divulgazione delle sue pagine egittologiche, con un contributo intitolato “Crisi sociali e spirituali dell’antico Egitto: la riforma di Achnatòn” (854-861).
64Ma non manca la consueta puntata di “Storia dell’Africa”, stavolta dedicata a “Cornelio Gallo, Graziani e l’Egitto” (895-896). Pallottino infatti paragona “le eroiche truppe di Graziani... nei deserti della Marmarica” ai “legionari di Cornelio Gallo”, in quanto “in nome del vecchio ideale italico” lottavano “per la distruzione di un vasto e multiforme aggregato politico antiromano, per la libertà del Mediterraneo”.
65Seguono altre spigolature egizie (896-897).
III (1940) 12 (dicembre)
66Pallottino pubblica l’articolo “Roma in Egitto: Cesare e il suo sventurato ‘Aiglon’” (1027-1032), dove il confronto è tra Cesarione e l’Aiglon, il figlio di Napoleone Buonaparte; in proposito, si elogia la decisione del Führer – menzionato qui per la prima e unica volta – di ricongiungere le spoglie del figlio a quelle del padre, nel mausoleo degli Invalides27.
67Ma non manca la “Storia dell’Africa” (1102-1104), con una rassegna bibliografica di poca rilevanza.
IV (1941) 2 (febbraio)28
68“Storia dell’Africa” (184-186) non particolarmente interessante29. I monumenti romani della Tunisia perpetuano “il silenzioso palpitante interesse degli Italiani per la terra africana che si protende verso la Sicilia e la Sardegna, acuito dagli eventi della guerra liberatrice”. Pallottino recensisce un saggio di Carlo Conti Rossini sul cattolicesimo in Etiopia, accenna a una collana di storia libica in memoria di Italo Balbo – scomparso nell’incidente aereo di Tobruk nel giugno dell’anno precedente – e menziona Silvio Ferri come “noto studioso di cose cirenaiche”.
IV (1941) 8 (agosto)
69La sezione di “Storia dell’Africa” (755-757) comprende un articoletto che riporta Pallottino – in scia di un paio di contributi di Friedrich W. F. von Bissing negli Studi Etruschi del 1939 – ai suoi abituali interessi etruscologici: “Echi della civiltà egiziana nell’Italia preromana”30, sull’Orientalizzante qui significativamente svalutato a “fenomeno di esotismo... di non lunga durata e rapidamente assorbito nella formazione della più antica civiltà etrusco-italica”. Vi è evidente, di nuovo, il carattere pregiudizialmente inclusivo del concetto di “formazione”, che consisterebbe in definitiva nell’assorbimento del diverso.
70Assai meno interessante il resto: archi romani in Africa, breve bibliografia ragionata sulla storia del canale di Suez, altre segnalazioni di libri.
IV (1941) 9 (settembre)
71Pallottino continua la sua scorribanda storica nell’Egitto faraonico con l’età di Harmhab (Horemheb), considerata specie sotto l’aspetto giuridico: “Conquiste e anticipazioni della civiltà egiziana. Un Codice di protezione sociale” (821-828)31.
IV (1941) 10 (ottobre)
72La rubrica “Storia dell’Africa” (909-911) consta di tre capitoletti: “Roma e Cartagine: aggrediti e aggressori”, “Canne e Zama” e la recensione del volume di Claire Préaux, L’économie royale des Lagides (Bruxelles 1939).
73Nel primo contributo si affronta il tema della “responsabilità della guerra” (la Schuldfrage), considerata nell’attualità un “tipico mascheramento puritano, sorto nella fase ginevrina, di una vecchia posizione politica conservatrice” e, nella ricerca storica, un aspetto della “vacuità delle discussioni accademiche”. Al “processo delle colpe” va più utilmente sostituita la “ricerca delle cause”, contro la “moderna propaganda di guerra dei paesi democratici” e la “superstite critica antiromana”32.
74Affrontando Cartagine, Roma ebbe comunque il merito di scongiurare la “semitizzazione dell’Europa meridionale e occidentale”33. Si riconosce l’alta statura individuale di Annibale, ma ritorna, anche per Cartagine, l’accusa di “plutocrazia mercantilistica”34.
75Nel secondo intervento, Pallottino prende distanza dalla stampa propagandistica italotedesca, che andava confrontando i successi militari hitleriani – recentissime la conquista di Estonia e Ucraina, sotto assedio Leningrado e Mosca – alla strepitosa vittoria di Annibale a Canne, ricordando (invero profeticamente...) che quella guerra fu poi vinta dai Romani a Zama.
76La recensione del libro della Préaux è elogiativa: “come è proprio delle opere di studiose, un esempio di compiutezza e di minuziosità”, ma detto con tono neanche troppo velatamente maschilista.
IV (1941) 12 (dicembre)
77Altra miscellanea divulgativa di “Storia dell’Africa” (1060-1062), con un paio di asserzioni interessanti dal punto di vista ideologico.
78A proposito delle origini35 della civiltà egizia, Pallottino polemizza, invero ingenerosamente, contro “la mania sistematico-cronologica” di uno studioso del calibro di Flinders Petrie – ma qui c’entrava, è chiaro, la solita acredine pregiudizialmente antibritannica.
79Sulla caratterizzazione etnografica dei Niloti, si ritorna al consueto concetto di un substrato unitario paleoafricano “rotto nel mezzo dalla diffusione verso oriente delle razze... bantù”.
80La rubrica si chiude con qualche notizia sulla prima conquista italiana della Tripolitania interna, al tempo della Grande Guerra (1913-1915).
V (1942) 2 (febbraio)
81Un contributo di storia romana: “Roma e l’Africa: la politica sociale e assistenziale di Settimio Severo” (97-102)36.
82La lettura proposta del regno di Settimio Severo è radicalmente ideologica: l’imperatore avrebbe favorito le classi inferiori contro i ceti urbani abbienti, “in un’atmosfera... sostanzialmente rivoluzionaria”.
V (1942) 3 (marzo)
83Anche in questo fascicolo, il contributo di Pallottino sembra rientrare nel disegno di una storia sociale dell’impero romano in Africa: “Politica sociale dei romani in Cirenaica (Legittimità d’un dominio)” (169-175)37.
84In un momento in cui “la Cirenaica è al centro dell’attenzione mondiale” – ci si riferiva all’azione militare, per il momento fortunata, delle truppe italo-tedesche in Libia, a danno degl’inglesi –, diventava importante sottolineare la romanità di quella regione, che pure aveva conosciuto una fioritura culturale di segno essenzialmente greco38.
V (1942) 5 (maggio)
85Continua la trattazione di storia della Cirenaica: “L’Impero di Roma di fronte ai problemi sociali e politici della Cirenaica” (294-301)39.
86L’intento è ancora quello di controbilanciare in senso romano la più normale (e invero corretta) rappresentazione ellenica della Cirenaica. E qui capita di cogliere forse un accenno di antisemitismo non consueto a Pallottino, là dove “i Giudei, moltiplicandosi e facendosi sempre più invadenti” sono contrapposti alla “giustizia sociale” di Roma, che avrebbe rappresentato l’unico modo di ripristinare una convivenza civile.
V (1942) 9 (settembre)
87Continua la campagna a favore della romanità della Cirenaica: “Il volto romano della Cirenaica. Monumenti d’interesse pubblico e sociale” (545-549)40.
88Il tasto su cui battere è sempre il medesimo: la Cirenaica era stata sì greca prima che romana, ma solo la romanizzazione vi poté stabilire un vero rispetto del bene comune.
VI (1943) 2 (febbraio)
89Da alcuni mesi, la rubrica “Storia dell’Africa” è come tale ormai scomparsa, e Pallottino interviene nella Rassegna sociale con articoli tendenzialmente strutturati in senso monografico. Questa volta tocca a “Gli elementi etnici e romanizzazione dell’Africa proconsolare” (109-112)41.
90Dei vari ingredienti etnici dell’Africa romana, qui Pallottino svaluta quantitativamente la presenza semitica – ricondotta a “un pugno di ardimentosi commercianti” –, dà maggior rilevanza ai Berberi dell’interno e tende a rappresentare i conquistatori romani più come europei che come italici. La vera opposizione – e qui si vede bene l’acutezza del giovane studioso – stava fra una società unitaria, urbanizzata e in effetti internazionale, collocata nella fascia litoranea e sublitoranea, e una pluralità di tribù berbere nomadi, mantenute al di là del limes. C’era dunque un aspetto d’inclusione: quello per cui, al di qua del limes, tutti erano diventati romani, e in tal modo il Mediterraneo era stato restituito alla sua dimensione europea e sottratto all’esecrabile blocco levantino; ma c’era anche un forte aspetto di esclusione, che tagliava fuori dall’armonia di questa organizzazione sociale tutti i disadattati, vale a dire i nomadi dell’interno sahariano.
91Pallottino utilizza iscrizioni bilingui ed evidenze cultuali, per mettere a fuoco l’eredità o, se si preferisce, il sostrato del popolamento preromano: poiché Roma “non distrusse un popolo ad esso sovrapponendosi... ma improntandolo a sé... con il sangue... lo trasse dalle penombre della preistoria e della protostoria”.
92Qui si chiude la breve e istruttiva storia di Pallottino africanista (e della stessa Rassegna sociale dell’Africa italiana): mancavano solo quattro mesi allo sbarco americano in Sicilia. Del settembre del 1943 saranno le ultime annotazioni del Diario di guerra: “La patria è a sud. La patria è dalla parte del Re”42.
Notes de bas de page
1 Thébert & Coarelli 1988.
2 De Francesco 2013, 205-215. Cf. la mia recensione/discussione: Harari 2015b.
3 73 contributi su un totale di circa 700.
4 Pallottino 1979.
5 Pallottino 1933a = Pallottino 1979, 885-891.
6 Quella curata da F. Delpino in ArchCl, 43 (1991), XIII-L.
7 La Rassegna Sociale dell’Africa Italiana era diretta dal sindacalista Nazareno Bonfatti. De Francesco 2013, 205 la descrive come “a journal close to social and corporative Fascism... a sort of laboratory where it was possible to reflect, given the civilizing mission of an Italy ‘central to the Mediterranean historical movement’, on the actual modality of exercising a policy in defence of race”. Nonostante la matrice e caratterizzazione accentuatamente sindacali (in senso corporativistico) della proposta editoriale, fin dal primo numero vi si diede spazio alla ricostruzione storica antichistica, né soltanto per le consuete, ovvie finalità di propaganda, ma proprio in quanto la difesa della razza in contesto coloniale appariva tema inestricabilmente legato alla riflessione storica sulle relazioni tra Italia e Africa.
8 Com’è emerso con chiarezza nel recente seminario del Collegio Ghislieri dedicato, a cura di chi scrive, alla Mostra Augustea: Tutta Italia giurò nelle mie parole (Pavia, 28-29 aprile 2014), atti attualmente in preparazione: Harari 2016.
9 È lo stesso Ballottino a rievocare le sue “fantasticherie” liceali “per le antichità... dell’Egitto” (cit. in Delpino 2007, 3), ancor prima di poter seguire le lezioni di Giulio Farina alla Sapienza (Delpino 2007, 4).
10 Torelli 2007, 94. Nessuna traccia, in effetti, di determinismo genetico in Ballottino – cf., per contro, le speculazioni di scuola tedesca intorno alla definizione di una “razza” etrusca: Haack 2014 –; ma un intenso e sovente battagliero patriotrismo. Sulla tipologia del razzismo o piuttosto dei razzismi italiani nei primi decenni del Novecento si veda comunque più avanti, a nota 17.
11 La schedatura degl’interventi di Pallottino seguirà rigorosamente la sequenza cronologica della loro pubblicazione.
12 Promossi dalla Fondazione Alessandro Volta della Reale Accademia d’Italia.
13 Ma non risulta ch’egli abbia partecipato anche al viaggio post-congressuale: del resto, aveva già un’ottima conoscenza di quei luoghi, acquisita in due viaggi di studio, compiuti tra l’ultimo anno di liceo e il primo di università: Delpino 2007, 6, nota 15. Da escludere, invece, qualunque sua partecipazione ad azioni belliche in Africa settentrionale: si sa infatti ch’egli prestò servizio militare a Pavia e a Roma nell’arma del Genio, fra il 1934 e il 1936, essendo poi richiamato nel luglio del 1943 nuovamente a Roma. Dopo l’8 settembre entrò in “un piccolo gruppo clandestino di resistenza di ispirazione cattolica e nazional-solidaristica”, chiamato “Associazione per il Risorgimento d’Italia” (Delpino 2007, 15-17; Delpino 2014).
14 De Francesco 2013, 205-206.
15 Coinvolgere i Sardi dell’età del Bronzo fra gli argomenti storico-archeologici portati a giustificazione del colonialismo fascista, può non esser privo di rilevanza ai fini di una più precisa contestualizzazione, anche ideologica, dell’insolito libretto (I Shardana: 1947, prima rappresentazione 1959) di un suggestivo dramma musicale di Ennio Porrino, l’eccellente allievo di Ottorino Respighi che militò nei ranghi della Repubblica Sociale (Karlinger & Masala 2009). Si sa infatti che la prima idea di Porrino di un’opera lirica di soggetto nuragico risale proprio agli anni Trenta e, quantunque il suo antichista di riferimento non potesse che essere Giovanni Lilliu, non escluderei l’eventualità di qualche influsso, più o meno diretto, delle considerazioni di Pallottino (fig. 2).
16 Cf. oggi, per contro, la ben più articolata tipologia dei meccanismi di sostituzione, come la descrive per es. Renfrew 1987, 120-144.
17 In modo non dissimile De Francesco 2013, 181 sq. e Haack 2016b formalizzano la distinzione di tre tipi di razzismo, compresenti e conflittuali nel dibattito italiano sulla razza, esploso all’indomani della conquista dell’Etiopia: 1) un razzismo biologico, secondo il modello tedesco rosenberghiano, per cui anche la psiche sarebbe una variabile ereditaria, capeggiato da Telesio Interlandi, fondatore e direttore del quindicinale La difesa delia razza (1938-43); 2) un razzismo esoterico e spiritualistico, per cui la razza sarebbe una condizione di natura spirituale, capeggiato dal filosofo e pittore Julius Evola; e 3) un razzismo nazionalistico e cattolico, per cui la purezza italiana sarebbe stata un fatto storicoculturale molto più che biologico, capeggiato dal medico e psicologo Nicola Pende, primo rettore dell’Università di Bari, che a sua volta derivava le sue posizioni dalle tesi dell’antropologo (fisico) Giuseppe Sergi (fig. 3). Secondo De Francesco, Sergi non fu fascista, ma un nazionalista di sinistra, di matrice ideologica risorgimentale; ne dipendono gli archeologi, molto più politicizzati e più fascisti, Giuseppe Patroni e Ugo Rellini, convinti dell’origine tardopaleolitica della razza ‘mediterranea’. L’esistenza di un originario strato di popolamento mediterraneo “euroafricano”, senza significativi debiti etnico-culturali nei confronti del Levante, si condensò nella formula ex medio lux, lanciata da Luigi Maria Ugolini coi suoi scavi a Malta. Questa linea razzistica mediterraneocentrica fu dunque utilizzata politicamente, al di là delle intenzioni di Sergi (tutt’altro che ostile agli Inglesi), a sostegno di una svalutazione della componente ariana altrettanto che di quella semitica, sponsorizzate entrambe da altre nazioni.
Il Manifesto degli scienziati razzisti (14 luglio 1938: le leggi razziali seguirono a fine estate dello stesso anno) fu concepito da Benito Mussolini e materialmente redatto – a quanto pare – da Guido Landra, assistente di Sergio Sergi (figlio di Giuseppe e pure lui antropologo), con firme più o meno autorizzate, fra gli altri, del patologo Lino Businco (che teneva a includere anche i Sardi nella razza mediterranea originaria) e (quasi certamente contro la sua volontà) del già ricordato Pende. Ne seguì un dibattito vivacemente alimentato dalle varie anime del razzismo italiano: razzisti biologici come Interlandi, spiritualisti come Evola (o d’interfaccia tra biologia e spiritualità, come il filosofo e compositore Giulio Cogni) si contrapposero ai nazionalisti “sergiani”. C’era anche un’importante implicazione di politica estera e militare, in tutto ciò: nel senso che i razzisti mediterraneisti tendevano a distanziare l’Italia dalla Germania, secondo logiche imperiali diversamente orientate sul piano geografico; mentre i razzisti potremmo dire arianisti, cioè quelli antisergiani, avevano a cuore la contiguità con la Germania hitleriana. Il Manifesto venne perciò revisionato dal Consiglio Superiore per la Demografia e la Razza (1941-1942), che decise di affidare le linee-guida della politica razziale italiana ad accademici di ambito umanistico, anche sulla base di considerazioni di ordine storico-antichistico: era l’apparente sconfitta dei “biologi” e degli “spiritualisti”. Il maggior contributo mediterraneistico alla politica razziale del regime è probabilmente rappresentato dal saggio di Giacomo Acerbo (Acerbo 1940) – che vantava dichiarata assonanza con le tesi non solo dei già citati Patroni e Rellini, ma degli stessi Giacomo Devoto e Pallotino (cf. Gillette 2002a, 123). Sulla stessa linea, poco più tardi, nel 1942, il giurista repubblicano Vincenzo Mazzei – che sarebbe stato poi fra i padri costituenti – pubblica a Roma Razza e nazione, sottolineando il carattere mediterraneo e non ariano degl’italiani e svalutando fortemente la rilevanza dell’antisemitismo. Il razzismo di Pallottino rientra direi perfettamente all’interno di questa linea nazionalistica, né biologica né esoterica, tendenzialmente inclusiva, non particolarmente filotedesca né dichiaratamente antisemitica, e almeno all’apparenza compatibile col cattolicesimo.
18 J. Feyder, 1921; G. W. Pabst, 1932.
19 De Francesco 2013, 206, nota 71.
20 A nota 17.
21 Cf. Harari 2015b, 696-697.
22 Cf. De Francesco 2013, 207-208: “It is difficult to say if the notes made for Rassegna sociale... were the mechanical extension in another territorial context of the lines of research which he was working on at the same time for Etruria. It is also possible that the political and cultural situation following the establishment of Fascist Empire, encouraging him to reflect on the forms of transmissibility of superior cultural models, had furnished him with the idea of considering the Etruscan civilization’s modality of formation in different terms with respect to other academics of the period. The fact is... that in Pallottino’s work the articles on Italian racist colonialism accompanied his most original contributions regarding the Etruscan question, all of which are centred around the principle of a territorial specificity brought into being on the basis of the arrival of influences from a great distance.”
23 Cf. De Francesco 2013, 210-211.
24 N. 76 di quella che abbiamo chiamato la bibliografia ufficiale.
25 Questa speciale, rinnovata attenzione per la Sardegna dell’età del Bronzo andrà messa anche in rapporto con le vicende curricolari di Pallottino, che proprio nel 1940 partecipò, con successo, al concorso per la cattedra di Cagliari e in Sardegna, appunto, avrebbe concentrato la sua attività scientifica, nella doppia veste di docente universitario e di soprintendente archeologo, nel quinquennio immediatamente successivo: cf. Delpino 2007, 8-10; Minoja 2012, 582-584; Delpino 2014. Per un’immagine di Pallottino in Sardegna: fig. 6.
26 All’ingresso dell’Italia in guerra si sa che Pallottino fu inizialmente molto favorevole. Si ricordi la citazione, alla data del 10 giugno 1940, dal suo Diario di guerra – un taccuino degli anni 1940-1943, antologicamente pubblicato da Delpino 2007, passim –: “Mia è questa guerra e reclamo l’onore di combatterla” (ivi, 10). L’11 giugno egli fece domanda per essere richiamato come volontario; ma sempre annotazioni diaristiche ne rivelano, già il 26 giugno, la forte delusione causata dall’armistizio con la Francia, firmato due giorni prima a Villa Incisa (Delpino 2007, 11).
27 Ciò che era appena accaduto (il 15 dicembre). Da tener presente, nel contesto di quei giorni cruciali, la crisi personale, politica e morale, dello stesso Pallottino, testimoniata da alcune delle pagine pubblicate del suo Diario di guerra: 23 novembre, sulla pessima conduzione della campagna di Grecia; e soprattutto 10 dicembre, con la memorabile, drammatica annotazione: “io ti odio, tiranno che tanto amai” (Delpino 2007, 12-13).
28 Alla direzione della rivista Bonfatti viene ora affiancato da Mario Griffini, vicepresidente del Tribunale speciale per la difesa dello Stato (dal 1941 al 1943) e poi suo presidente nella Repubblica Sociale.
29 N. 87 della bibliografia ufficiale.
30 Mal citato a n. 87 della bibliografia.
31 Sempre a n. 87 della bibliografia.
32 L’insofferenza di Pallottino alla polemica sulle ‘colpe’ può essere messa in rapporto con un’altra amara annotazione del suo Diario, risalente a un paio di mesi prima: “Questa guerra... non è ancora sentita da nessuno” (Delpino 2007, 13).
33 Solo luogo del Pallottino africanista, in cui può scorgersi un accenno di antigiudaismo. Ma non necessariamente, perché il semita Annibaie vi è descritto col più grande rispetto.
34 Altro momento importante, nella visione di De Francesco 2013, 206-207, della polemica contro l’Inghilterra.
35 Un tema altamente significativo, alla luce dei suoi interessi etruschi.
36 N. 104 della bibliografia ufficiale.
37 N. 103 della bibliografia.
38 Siffatta svalutazione culturale della componente ellenica è da ricondurre, ovviamente, al contesto politico-militare della campagna contro la Grecia – voluta da Mussolini ma vinta, di fatto, dalle truppe hitleriane (ottobre 1940-aprile 1941) – e delle sue conseguenze; sulla quale, peraltro, come abbiamo visto (sopra, nota 27), il giudizio di Pallottino era stato molto critico.
39 N. 102 della bibliografia.
40 N. 101 della bibliografia.
41 N. 113 della bibliografia.
42 Delpino 2007, 16.
Auteur
Università di Pavia; maurizio.harari@unipv.it
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