Elementi di sviluppo sostenibile nell’hinduismo
p. 81-90
Texte intégral
Questi è dei nostri, oppure è straniero: così considerano i pusillanimi;
ma per quelli dalle nobili gesta la terra è una sola famiglia
(Vidyākara, Subhās.itaratnakośa 37,29; Mahāsubhās.itasan·graha 2644; con varianti minori Vallabhadeva, Subhās.itāvali 498)
Tutto questo mondo invero è il corpo di Vis.n.u
(Vis.n.upurān.a 1,22,38)
1Non sarebbe forse errato intravedere nella ideologia corrente della primazia del mercato una concezione propriamente religiosa, che divinizza il mercato stesso, considerato alla stregua di un attore interamente libero, in grado non solo di influenzare tra altri fattori, ma di decidere in modo assoluto, l’andamento dell’economia. Generalmente questa visione viene attribuita a un non meglio precisato Occidente, laddove a un altrettanto non meglio precisato Oriente viene attribuita una sensibilità ambientale di tipo ecologico ante litteram, anche nelle sue connotazioni propriamente religiose. A questo stereotipo non sfugge ovviamente l’hinduismo1.
2Per quanto sia salutare diffidare dei luoghi comuni, non sarà inutile provare a verificare se effettivamente una qualche forma di sensibilità ambientale non sia rintracciabile nel sistema di valori dell’hinduismo. Se si getta lo sguardo sulla realtà contemporanea indiana non si può non rimanere colpiti dall’interesse suscitato dalle tematiche ambientali in molti movimenti talora anche di massa, spesso con una forte connotazione intellettuale e radicati sul territorio2.
3Tra le iniziative maggiormente significative possiamo citare le numerose marce (pādayātrā) di ispirazione gandhiana (con riferimento alla marcia del sale svoltasi dal 12 marzo al 05 aprile 1930, una marcia di oltre duecento miglia, ca. 320 km, a piedi da Ahmedabad a Dandi, nello stato del Gujarat, sull’Oceano Indiano, con lo scopo di raccogliere una manciata di sale dalle saline, per rivendicare simbolicamente il possesso di questa risorsa preziosa al popolo indiano e l’ingiustizia della tassa di monopolio) in difesa di vari obiettivi di interesse ecologico3; il movimento (chipko andolan) che utilizza il gesto simbolico di abbracciare gli alberi per proteggere le foreste, fondato da Sunderlal Bahuguna il 26 marzo 1974, e successivamente per contrastare la costruzione della contestata diga di Tehri; l’iniziativa di Murlidhar Devidas Amte, noto come Baba Amte (Hinganghat, 26 dicembre 1914 – Anandwan, 9 febbraio 2008), avvocato e attivista indiano, vincitore del Templeton Prize for Progess in Religion del 1990, contro la costruzione della diga sulla Narmadā (campagna scaturita come reazione al disastro ambientale della Union Carbide a Bhopal nel 1984); l’adesione di numerosi templi, come quello di Śrī Ven·kateśvara a Tirupati, a campagne di riforestazione (vanābhivr.dhi); campagne che si oppongono alla costruzione di mattatoi moderni intesi per l’esportazione delle carni macellate.
4Va detto che in casi come l’ultimo citato, e ancora più nelle campagne per la salvaguardia della vacca, alcuni movimenti ecologisti hanno un’impronta politica decisamente ambigua e socialmente pericolosa, dal momento che si appoggiano alla destra fondamentalista hindū per perseguire i propri obiettivi con metodi talora pesantemente violenti, come l’aggressione (fino alla mutilazione o all’omicidio) nei confronti dei macellai o di coloro che trasportano carni macellate, spesso persone di religione islamica, per le quali il divieto di uccisione dei bovini non è in vigore. In questo quadro rientra l’uccisione di un ispettore di polizia nel distretto di Bulandshahr (Uttar Pradeś), avvenuta il 03 dicembre 2018. La vittima si chiamava Subodh Kumar Singh e aveva indagato sui macellai musulmani linciati in nome delle «vacche sacre». «L’ispettore era odiato dalle forze settarie», secondo Asad Hayat, avvocato della famiglia di Mohammad Akhlaq, ucciso nel 2015 a bastonate dai «vigilanti delle vacche» per il sospetto di aver consumato carne bovina. L’Uttar Pradeś è tra gli Stati indiani che hanno vietato il commercio e consumo della carne e imposto la chiusura dei mattatoi. Il bando è stato contestato da più parti, perché mette a rischio la sopravvivenza dei poveri, soprattutto musulmani e cristiani, che ne lavorano le pelli.
5Un dialogo interdisciplinare fecondo tra ambientalisti e politologi ha dato luogo a una produzione che potremmo chiamare apologetica, che cerca di rintracciare (talora anche al di là della stretta verosimiglianza) nel corpus vedico le radici di un ambientalismo contemporaneo specificamente indiano. Ricordiamo in particolare due volumi, il primo a opera di due politologi, il secondo scritto da un’oceanografa ambientalista che vive in India4. In ambito strettamente indologico è rilevante l’impresa dovuta a Kapila Vatsyayan, che in un’opera collettanea in cinque volumi ne ha dedicato uno in particolare alla problematica ecologica in relazione con l’antropologia culturale, la cosmologia e la mitologia indiana5.
6Se volessimo rintracciare almeno alcuni dei riferimenti di carattere ecologico ante litteram nella letteratura upanisadica non dovremmo trascurare passi come Br.hadā- ran.yakopanis.ad 1,4,16, in cui nel contesto di uno dei primi riferimenti alla pratica dei «cinque sacrifici» (pañcayajña) si allude alla profonda solidarietà esistente tra i diversi livelli dell’universo, abitati rispettivamente da déi, veggenti, antenati, uomini e animali; 2,5,1, in cui si fa riferimento all’interdipendenza tra la terra e gli esseri viventi. Potremmo moltiplicare i riferimenti. Ma forse sono due dei «grandi detti» (mahāvākya) su cui si basa la dottrina della scuola del vedānta che sono suscettibili di gettare luce sulla sensibilità ecologica dei maestri upanisadici. Entrambi provengono dalla Chāndogyopanis.ad: sarvam. khalv idam. brahma «tutto ciò invero è l’assoluto [brahman]» (3,14,1) e tat tvam asi «tu sei quello» (6,8,7). Secondo un interprete particolarmente autorevole e acuto «l’insegnamento definitivo dell’Advaita [non dualismo] è la realtà del Brahman. L’unità qui insegnata include senz’altro sia l’uomo sia la natura; ma dal momento che il primo e principale interesse dell’uomo è l’uomo stesso, non la natura, la verità incarnata in «tu sei quello», ossia la fondamentale identità del singolo e dell’assoluto, assume preminenza nell’insegnamento. Pertanto il discepolo deve concentrare la propria attenzione su tale aspetto della dottrina, e trascurare l’altro [aspetto], quello che si riferisce alla natura, in quanto più o meno secondario»6.
7L’ispirazione gandhiana delle politiche per la conservazione della vacca è motivo di comprensibile disagio per la destra fondamentalista hindū, perché nel padre fondatore dell’India contemporanea tale pratica era radicata nell’irrinunciabile adesione alla nonviolenza (ahim.sā)7, che ovviamente costituisce fonte di imbarazzo per i mestatori populisti. La bibliografia sugli aspetti ecologici del pensiero gandhiano (da considerare una specie di compagno di strada dell’hinduismo) è vasta e ramificata, bastino pochi riferimenti8.
8Infine si può accennare al tentativo di prendere in considerazione alcuni casi concreti di pratiche ambientali studiate all’interno di un movimento ecologista diffuso anche fuori dall’India e di due comunità marginali indiane particolarmente significative dal punto di vista antropologico: il movimento swadhyaya, la comunità dei bishnoi, la comunità dei bhil 9.
9Il movimento swadhyaya è un nuovo movimento religioso sorto a metà del xx secolo in alcuni stati occidentali dell’India, che ha evidenti ricadute ambientali, ma non è considerato dai suoi sostenitori un movimento ambientalista10. Fondato da Pandurang Shastri Athavale (1920-2003) a partire dal 1942, prende nome dalla pratica dello studio personale (sanscrito svādhyāya, lett. «recitazione per sé, lettura individuale»), come strumento di introspezione a scopo spirituale, con esplicito richiamo al pensiero dei Veda, delle upanis.ad, e della Bhagavadgītā, reinterpretato e adattato in chiave contemporanea. Dal momento che il principio divino risiede in ciascuno, le divisioni di classe, casta, appartenenza religiosa vanno tutte superate, mirando a sviluppare un’idea di fraternità degli esseri umani in dipendenza dalla comune paternità divina. Le risorse naturali, quali terra, acqua, alberi e bestiame, vanno accudite sulla base di tale principio. Questo aspetto ambientalista è forte nella componente indiana e rurale del movimento, meno in quella diasporica e urbana. Per quanto concerne la diaspora, il movimento è diffuso al di fuori dell’India negli USA, nel Regno Unito, nel Medio Oriente, in Africa, Australia, Nuova Zelanda, Suriname, isole Fiji, Indie occidentali, ovvero in zone in cui è presente una più o meno significativa diaspora indiana (siano i suoi membri ufficialmente rubricati come NRI, Non Resident Indian, o meno). Il movimento tende a mantenere una certa distanza da altre correnti hindū e non gradisce essere etichettato in questo modo. Fra i progetti di àmbito socio-economico sostenuti dal movimento si possono ricordare pratiche di coltivazione e di pesca (rispettivamente yogeśvara kr.s.i e matsyagandhā), definite esperimenti (prayoga) di tipo sociale. Figlio di un insegnante impegnato nella diffusione della Bhagavadgītā secondo metodi tradizionali, quando suo padre cadde malato nel 1942, Athavale si dedicò alla prosecuzione della missione paterna, sino a quando nel 1954 in occasione della partecipazione a un convegno in Giappone raccolse la sfida di dimostrare che in India esistevano villaggi che si sostenevano sulla base della dottrina della Bhagavadgītā. Sulla base di questo stimolo fondò nel 1956 una scuola residenziale (tattvajñāna vidyāpīt.ha), che aveva come scopo lo studio e l’approfondimento del pensiero filosofico di stampo sacerdotale. La dottrina della presenza immanente del divino nell’uomo, individuata come la base speculativa di tutto l’edificio, lo portò a considerare l’autostima (asmitā, letteralmente «io-sono-tà») come la virtù fondamentale per mettere in pratica gli aspetti teologici e filosofici dell’insegnamento, il modo migliore di porre in pratica l’intuizione dell’identità dell’ātman, il principio cosciente individuale e del brahman, la forza fondante dell’universo, che senza un riscontro pratico sarebbe rimasta lettera morta. Si trattava insomma di rendere fruibile il messaggio della Gītā alle masse, in primo luogo rurali, trasformando la teoria in pratica sociale, economica, ambientale. Tra le diverse strategie di contatto con le popolazioni locali si possono citare per esempio le visite in area suburbana (visite emozionali di due ore, visite devozionali di due giorni, rispettivamente bhāva pherī e bhakti pherī), i pellegrinaggi (tīrtha yātrā) nel corso dei quali gli attivisti invitano i vicini a un raduno religioso. Quest’ultima pratica ha avuto applicazione internazionale, quando attivisti dagli USA hanno lanciato campagne di pellegrinaggio in paesi come Suriname, Fiji, Trinidad, Australia e Nuova Zelanda. Gli incontri con la popolazione hanno lo scopo di radicare nei cittadini l’autostima, il senso della propria dignità personale, utilizzando in modo creativo anche altri aspetti dell’ortoprassi religiosa tradizionale come il culto dedicato all’undicesimo giorno del mese lunare, il digiuno rituale, il sacrificio del fuoco (ekādaśī, upavāsa, yajña). Dopo il 1970, sulla base di un passo della Gītā che esalta l’operosità11, il movimento ha promosso una campagna per convincere migliaia di professionisti in diversi settori (agricoltori, pescatori, medici, insegnanti, mercanti) a offrire parte del loro tempo e del loro bagaglio professionale a favore della comunità, come Arjuna offriva i frutti del suo agire al Signore Kr.s.n.a, coniando lo slogan «la devozione è una forza sociale (bhakti ek sāmājik śakti hai)». Tra i progetti più significativi lanciati dal movimento si possono citare i centri culturali per bambini, per adolescenti e per donne (Bāla Sam.skāra Kendra; Divine Brain Trust; Mahilā Kendra). La ragione principale della diffusione limitata delle iniziative del movimento, che non ha mai oltrepassato i confini del Mahārās.t.r.a e del Gujarāt, è la scelta di utilizzare le lingue locali (ma- rāt.hī, gujarātī); il successo è molto maggiore in ambienti rurali anziché in aree urbane. Sono presenti tentativi di costruire una sorta di ecoteologia, soprattutto tramite la divinizzazione del mondo vegetale, attraverso slogan come «Vāsudeva [patronimico di Kr.s.n.a] è negli alberi» (vr.ks.a main vāsudeva) e «Dio è nelle piante» (paudhe main prabhu): per spiegare la presenza divina nelle piante si ricorre ad argomentazioni di sapore tradizionale che fanno uso di paretimologie, per es. «There is a divine power in trees which makes it possible for water and fertilizer to rise from the roots below and reach the top portion against the gravitational force. It is not just the result of Keśākars.an.a (capillary action) but it is Keśavākars.an.a (Kr.s.n.a’s force)»12. Altre iniziative di sapore ambientalista sono per es. la trasformazione di aree rifiutate dai poveri in dono perché desertiche e sterili in oasi naturalistiche protette, rivitalizzate tramite piantumazione di specie vegetali adatte (Buddha Vr.ks.amandira, area di 42 acri, con 1200 alberi da frutta, 200 erbe legnose e 150 alberi di 30 specie diverse).
10I bishnoi (o vishnoi, termine che significa «ventinove») sono una comunità rurale del Rājasthān stanziata nei pressi di Jodhpur, fondata da Jambheśvara Bhagavan, noto comunemente come Jambhaji (1451-1536). Secondo il mito eziologico, il 9 settembre 1730 soldati del mahārāja di Jodhpur, Abhay Singh, presero ad abbattere alberi di khejari (Prosopis cineraria) come legna da ardere. Una donna del villaggio bishnoi nelle vicinanze, Amrita Devi, si precipitò per impedire l’operazione, abbracciando un albero, imitata dai suoi familiari e dagli altri membri dalla comunità: 363 persone furono uccise prima che la notizia giungesse al re, che diede ordine di fermare il massacro. Il nome della comunità, bishnoi, fa riferimento alle ventinove regole che ne costituiscono la legge di fondazione; il nome alternativo vishnoi cerca di riconnetterli al culto di Vis.n.u, per assonanza, e costituisce un esempio di sanscritizzazione, del tipo top down, ossia di cooptazione di una tradizione locale subalterna nel sistema di valori della classe sacerdotale dominante13. Insediati in una zona a forte rischio di desertificazione, i bishnoi hanno una lunga esperienza di tecniche tradizionali per contrastarla. Sono una comunità liminale anche dal punto di vista storico-religioso, dal momento che si situano nella zona di interscambio culturale e religioso tra hinduismo e islam: sono ipotizzabili legami con una branca dell’ismailismo sciita (satpanth)14. Quando Jambheśvara aveva 25 anni cominciò una grave siccità destinata a protrarsi per un decennio: il fondatore spirituale della comunità dei bishnoi lasciò il villaggio natale alla morte dei genitori nel 1484 e prese dimora a Samarathal, una collina sabbiosa nei pressi del villaggio di Mukām nel distretto di Nokha nei pressi di Bikaner. Dopo molti anni di meditazione e pratiche ascetiche, all’età di 34 anni, ebbe una visione, in cui vide uomini che entravano in conflitto con la natura e distruggevano l’ambiente che li sostentava. Decise quindi di dedicarsi a un programma di riforme sociali, nella convinzione che fosse dovere del genere umano sostenere l’ambiente e non opporsi a esso, per preservare le proprie fonti di sostentamento: fondò quindi la comunità dei bishnoi l’ottavo giorno della quattordicina scura del mese lunare di kārttika dell’anno 1542 dell’era vikrama (ev 1485). Da queste poche notizie storiche appare evidente come i bishnoi siano (più o meno legittimamente) considerati precursori o ispiratori inconsapevoli del succitato movimento (chipko andolan) fondato da Sunderlal Bahuguna. Le 29 regole dei bishnoi includono 8 norme relative alla conservazione e protezione degli animali e delle piante, compreso il divieto di sterilizzare i tori, il mantenimento dei capri nei santuari, il divieto di uccidere i capi di bestiame, di tagliare alberi e l’obbligo di proteggere ogni forma di vita. La proibizione di indossare vesti di colore blu è dovuta al fatto che la tintura per ottenere tale sfumatura comporta la distruzione di arbusti ritenuti degni di salvaguardia. Altre 7 regole riguardano il comportamento sociale: obbligo di essere sinceri, contenti di ciò che si ha, puri, di evitare l’adulterio e simili. Non è consentito criticare gli altri e bisogna sopportare le critiche che ci colpiscono. Altre 10 regole riguardano l’igiene personale e la necessità di mantenersi in buona salute: obbligo di bere acqua filtrata, del bagno quotidiano, di mantenere buone condizioni igieniche, divieto del consumo di oppio, alcool, tabacco e altre sostanze stupefacenti (tranne che in occasioni di determinate festività, in cui si consumano bevande contenenti oppiacei; come pure è consentito il commercio di oppiacei con popolazioni vicine che non sono membri della comunità). La dieta è tendenzialmente vegetariana; le donne sono soggette a segregazione per un mese dopo il parto e per cinque giorni durante il periodo mestruale. Le ultime 4 regole contengono norme che disciplinano le pratiche spirituali: il perpetuo rammemoramento dell’onnnipresenza di Dio, l’esecuzione dei riti quotidiani, l’osservanza del digiuno rituale e la custodia del fuoco comunitario (havan) a ogni luna nuova. Oltre alle 29 regole di base sono in vigore 120 norme minori specifiche definite «parola [sacra]» (śabda), alcune di interesse ambientale. In epoca contemporanea i bishnoi sono noti anzitutto per il contrasto attivo al bracconaggio.
11La comunità dei bhil (è dubbio se siano da considerare o meno «aborigeni», ādivāsī, etimologicamente «abitanti originari», termine di controversa applicazione)15 si dedica alla conservazione di boschi sacri (variamente noti come deora, malvan, deorai, rakhat bani, oran, deo ghāt, mandir van, bāgh; noi diremmo aree protette), in cui sono inclusi santuari dedicati a divinità, nei distretti di Banswara e Dungarpur nel Rājasthān meridionale. Circa il 45 % di queste aree hanno dimensioni comprese tra uno e tre acri; 14 % copre un’area di 30 acri, in cui vivono più di mille specie arboree, incluse essenze come neem (Azadirachta indica), pipal (Ficus religiosa), khejadi (Prosopis cineraria). Dal punto di vista delle risorse idriche, 31 % comprende uno stagno, 17 % una cascata, 38 % un pozzo, spesso non adeguatamente soggetti a manutenzione; le specie animali comprendono 54 tipi di mammiferi e rettili e 27 tipi di uccelli.
12Le poche note raccolte in questo contributo intendono fornire un quadro di riferimento essenziale, ma soprattutto suscitare interesse per le tematiche ambientalistiche dei movimenti religiosi attivi nel subcontinente indiano, e sottolineare la necessità di studi specifici di tipo scientifico, per sfrondare il sottobosco dalle malerbe delle fake news e degli pseudomiti e consentire la crescita di una informazione sana e libera da fraintendimenti spesso voluti, e da strumentalizzazioni più o meno inconsapevoli, degli argomenti affrontati.
Notes de bas de page
1 Il saggio che ha, in modo consapevole e determinato, posto l’accento sull’artificiosità della contrapposizione tra Oriente e Occidente e sulle colpe accademiche e politiche dell’orientalismo, è certamente il celebre pamphlet di Edward W. Said, Orientalism, Vintage Books, New York 1979. Per una radicale decostruzione dei presupposti ideologici e una altrettanto radicale critica della metodologia scientifica e dei supposti risultati di Said si veda almeno Robert Irwin, Dangerous knowledge: orientalism and its discontents, Overlook Press, Woodstock / NY 2006.
2 Si vedano N. P. Peritore, Environmental Attitudes of Indian Elites: Challenging Western Postmodernist Models, «Asian Survey» XXXIII (1993), pp. 804-818; C. K. Chapple, Nonviolence to Animals Earth and Self in Asian Traditions, State University of New York Press, Albany / N.Y. 1993; H. Coward (a cura di), Population Consumption and the Environment, State University of New York Press, Albany / N.Y. 1995; M. Gadgil, R. Guha, This Fissured Land: An Ecological History of India, University of California Press, Berkeley 1993; M. Gadgil, R. Guha, The Unquiet Woods: Ecological Change and Peasant Resistance in the Himalaya, University of California Press, Berkeley 1995; V. Narayanan, “One Tree is Equal to Ten Sons”: Some Hindu Responses to the Problems of Ecology, Population and Consumption, «Journal of the American Academy of Religion», LXV (1997), pp. 291-332; V. Shiva, Staying Alive: Women Ecology and Development, Zed Books, London 1988; V. Shiva, The Violence of the Green Revolution, Research Foundation for Science and the Environment, Dehra Dun 1989; L. E. Nelson (a cura di), Purifying the Earthly Body of God, Religion and Ecology in Hindu India, State University of New York Press, Albany / N.Y. 1998.
3 M. Gadgil, The Unquiet Woods cit., pp. 101 sgg.
4 O. P. Dwivedi, B.N. Tiwari, Environmental Crisis and Hindu Religion, Gitanjali Publishing House, New Delhi 1987; M. Vannucci, Ecological Readings in the Veda, D.K. Print World, New Delhi 1994.
5 K. Vatsyayan (a cura di), Prakrti, the Integral Vision, New Delhi, Indira Gandhi National Centre for the Arts 1995, 5 voll., in particolare il volume V. B. Saraswati (a cura di), Man in Nature, Indira Gandhi National Centre for the Arts, New Delhi 1995.
6 M. Hiriyanna, The Essentials of Indian Philosophy, Allen & Unwin, London 1949, pp. 171 sgg. (parentesi quadre e corsivi nostri).
7 Sulle tematiche relative alla nonviolenza nel pensiero indiano si veda J. E. M. Houben, K. R. Van Kooij (a cura di), Violence Denied, Violence, Non-Violence and the Rationalization of Violence in South Asian Cultural History, Brill, Leiden 1999.
8 M. P. Mathai, Ecology and Lifestyle: A Gandhian Perspective, Original paper presented at a National Consultation on “Global Ecology and the Indian Context”, jointly organised by Orthodox Theological Seminary, Kottayam & ISPCK, Delhi on July 2 & 3, 2010 at Orthodox Theological Seminary, reperibile al link https://www.mkgandhi.org/articles/ecology.htm (ultima consultazione 23/04/2019); John S. Moolakkattu, Gandhi as a Human Ecologist, «Journal of Human Ecology», XXIX (2010), n. 3, pp. 151-158; T. Weber, Gandhi And Deep Ecology, «Journal of Peace Research», XXXVI (1999), n. 3, reperibile al link https://www.mkgandhi.org/environment/envt.htm (ultima consultazione 23/04/2019).
9 Per una presentazione riassuntiva si veda P. Jain, Dharma and Ecology of Hindu Communities, Sustenance and Sustainability, Ashgate; Farnham, Surrey, England; Burlington, VT 2011.
10 Si vedano R. K. Srivastava, Vital Connections: Self, Society, God. Perspectives on Swadhyaya, Weatherhill Publications, New York, 1998; G. A. James (a cura di), Ethical Perspectives on Environmental Issues in India, APH Publishing Corporation, New Delhi 1999; J. T. Little, Video Vachana, Swadhyaya and Sacred Tapes, in L. A. Babb, S. S. Wadley (a cura di), Media and the Transformation of Religion in South Asia, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1995, pp. 254–281; M. Paranjape, Dharma and Development: The Future of Survival, Samvad India Foundation, Delhi 2005; T.S. Rukmani, Turmoil, Hope, and the Swadhyaya, CASA Conference, Montreal 1999; B. M. Unterberger, R. Sharma Rekha, Shri Pandurang Vaijnath Athavale Shastri and the Swadhyaya Movement in India, «Journal of Third World Studies», Vol. 7, No. 1, Spring 1990, pp. 116-132; A. K. Giri, Self-Development and Social Transformations? The Vision and Practice of the Self-Study Mobilization of Swadhyaya, Lexington Books, Lanham 2009.
11 Bhagavadgītā 18,46: «Da lui procede l’operosità degli esseri, da lui tutto quest’universo è stato dispiegato; rendendogli culto con l’azione che gli compete, l’uomo ottiene la perfezione».
12 Pankaj Jain, Dharma and Ecology cit., p. 32.
13 Sulla sanscritizzazione si veda M. N. Srinivas, Religion and society among the Coorgs of South India, Clarendon Press, Oxford 1952, p. 32. Si vedano inoltre Id., The cohesive role of sanskritization and other essays, Oxford University Press, Delhi-New York 1989, nonché K. K. Gangadharan, Sociology of Revivalism. A Study of Indianization, Sanskritization, and Golwalkarism, Kalamkar Prakashan, New Delhi 1970 e S. Lal, From Higher Caste to Lower Caste. The Processes of Asprashyeekaran and the Myth of Sanskritization, Rawat Publications, Jaipur 1997.
14 Si veda D. Sila Khan, Crossing the Threshold: Understanding Religious Identities in South Asia, I. B. Tauris, London 2004.
15 Si vedano S. Dasgupta, Adivasi studies: From a historian’s perspective, «History Compass» 16.10 (2018): e12486, https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.1111/hic3.12486; S. C. Dube, Tribal Heritage of India, Vikas Pub. House, New Delhi 1977-; K. S. Singh, Tribal movements in India, Manohar Publishers, New Delhi 1982-1983; Id., The tribal situation in India, Indian Institute of Advanced Study, Shimla, 2002; Id., Tribal society in India: an anthropo-historical perspective, Manohar Publishers, New Delhi 1985.
Auteur
É professore ordinario di Indologia e tibetologia presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli studi di Torino, dove insegna Lingua e letteratura sanscrita e Filosofie e religioni dell’India e dell’Asia Centrale. Coordinatore del curriculum di Indologia del dottorato in Lettere della Scuola di dottorato del medesimo Ateneo, è membro della redazione scientifica della rivista internazionale “Historia Religionum” e del comitato scientifico della rivista “Humanitas”. Pubblicazioni in volume più recenti: Filosofie classiche dell’India, Morcelliana, Brescia 2014; I cakra, Le ruote d’energia nella tradizione indiana, Magnanelli, Torino 2016; Estetica indiana, Morcelliana, Brescia 2019.
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