Coltivare le emozioni tra solitudine e socialità. Gli esempi di Shaftesbury e Zimmermann
p. 109-125
Texte intégral
1. Premessa. Shaftesbury in Germania: un capitolo controverso nella storia delle idee
1Affermata come una sorta di topos nella germanistica del XX secolo di lingua tedesca e internazionale – in Italia varrebbe da solo l’esempio di Croce1 –, l’influenza di Shaftesbury sulla letteratura e sulla filosofia tedesca del Settecento ha però sofferto e in parte continua ancora oggi a soffrire di una lettura parziale.
2A segnarla è stata in primis l’analisi offerta da Dilthey, che nella seconda edizione (1922) della sua monumentale biografia di Schleiermacher, presenta Shaftesbury come la principale fonte del teologo accanto a Spinoza2.
3Altrettanto importante sul piano della storia delle idee è l’interpretazione che di Shaftesbury dà Cassirer nel suo celebre scritto del 1932 Filosofia dell’illuminismo 3. Cassirer insiste sul nesso presente tra estetica e teologia nel pensiero di Shaftesbury che verrebbe esemplificato dall’analogia, presente nel Sensus communis e nel Soliloquio, tra cosmo e opera d’arte, ovvero tra l’attività creatrice di Dio e quella dell’artista. Shaftesbury, a detta di Cassirer, offrirebbe in essi una rilettura, pur radicalmente modificata, dell’idea platonica dell’arte come imitazione, presentando l’artista, novello Prometeo, come un secondo artefice, che nell’opera d’arte crea un microcosmo secondo le medesime leggi con le quali Dio ha creato il macrocosmo4. E queste leggi egli le coglie mediante un’intuizione intellettuale, che a sua volta è di nuovo tema di ascendenza platonica. La creazione artistica diventa quindi qualcosa di soggettivo, frutto dell’immedesimazione dell’artista nel genio universale, cioè in Dio. In questo richiamo al genio, nel ricorso al mito di Prometeo e nell’assenza di norme prescrittive per la realizzazione dell’opera d’arte, Cassirer vede l’elemento di modernità del pensiero di Shaftesbury, che traghetta l’estetica e l’arte tedesca dal classicismo al romanticismo.
4Le argomentazioni di Cassirer avevano alla propria base la convinzione che si debba rintracciare nel platonismo la fonte principale della filosofia shaftesburiana e questa lettura sembrerebbe in realtà essere avvalorata da una tradizione interpretativa che era già settecentesca. Basti pensare che la fortuna di Shaftesbury in Germania è legata al giudizio che della sua filosofia diede Leibniz nel 1715 a commento dell’uscita, nel 1714, della seconda edizione delle Characteristicks of Men, Manners, Opinions and Times, la raccolta delle proprie opere voluta e organizzata dallo stesso Shaftesbury nel 1711. Nella Histoire critique de la république des Lettres Leibniz sottolinea la consonanza tra il proprio pensiero e quello di Shaftesbury soprattutto per quel che riguarda il concetto di armonia e della sua filosofia loda in particolar modo «il ritmo del discorso, il nuovo platonismo e la maniera di argomentare attraverso continue domande»5.
5Questo accostamento al platonismo, questa vera e propria “platonizzazione” del suo pensiero, ha allo stesso tempo giovato e nuociuto a Shaftesbury. Gli ha giovato nel momento in cui la cultura tedesca ha cercato un’alternativa all’imperante materialismo e meccanicismo di stampo francese e ha creduto di trovarla nel mondo inglese, in quella linea di discendenza che da Platone arriva a Shaftesbury attraverso il platonismo di Cambridge. Gli ha però nuociuto nel momento in cui in Germania ha preso gradualmente piede una corrente antiplatonica, che verrà superata solo con la pubblicazione dell’edizione Zweibrücker dell’opera platonica tra il 1781 e il 1787. Se si ripercorre brevemente la storia delle traduzioni tedesche di Shaftesbury si notano sostanziali somiglianze nell’andamento: numerose sono le traduzioni e le citazioni di stralci dalle sue opere fino alla metà del Settecento, che rappresenta apparentemente l’apice della sua fortuna. Dopodiché occorre attendere la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta per la traduzione integrale delle Characteristicks e la riscoperta di Shaftesbury.
6Gli studi più recenti, da circa quindici anni a questa parte, tendono a mettere in dubbio la lettura platonica di Shaftesbury e puntano piuttosto sullo stoicismo come modello alternativo6. Nonostante questo spostamento di interpretazione dal paradigma platonico a quello stoico, lo studio della ricezione di Shaftesbury è stato però solo parzialmente corretto. L’epoca privilegiata per saggiare l’influenza della filosofia shaftesburiana è adesso l’illuminismo, ma si considera prevalentemente la prima metà del Settecento. Dopodiché si accetta l’idea che egli cada in disgrazia, come Platone, fino a essere recuperato, come Platone, negli ultimi decenni del secolo. Ma a questo punto lo sguardo degli studiosi è nuovamente rivolto a ciò che sta per venire, al romanticismo e all’idealismo.
7La tesi che si vorrebbe qui sostenere è invece quella di una sopravvivenza di Shaftesbury anche, e proprio, nella seconda metà del secolo, insistendo sull’influenza che le sue concezioni antropologiche e la sua psicologia morale hanno esercitato sulla filosofia popolare tedesca e sulle sue principali ramificazioni, l’antropologia e la psicologia empirica. Certo, egli non viene più tradotto per circa un trentennio e scompare dalle discussioni ufficiali, ma la sua presenza rimane viva in ambiti più privati (si pensi alla corrispondenza di Mendelssohn e Hamann) e divulgativi, in conformità a quella tendenza alla diffusione del sapere in sedi extra-accademiche che è caratteristica fondamentale della filosofia popolare tedesca.
8La riflessione sulle emozioni e sul loro rapporto con la solitudine e la socialità rappresenta un terreno ideale in cui mettere alla prova questa tesi, ripercorrendo alcune delle posizioni di Shaftesbury sull’argomento e cercandone poi le tracce nell’opera di Zimmermann, prototipo del medico-filosofo del tardo Settecento e autore di alcuni saggi e di uno studio monumentale sulla solitudine.
2. Solitudine e socialità: che cosa è naturale?
9Nel 1730, in occasione della sua lezione inaugurale Sulla natura sociale dell’uomo in qualità di professore di morale all’università di Glasgow, Francis Hutcheson, figura di spicco dell’illuminismo scozzese e principale esponente, accanto a Shaftesbury, della filosofia del moral sense, sottolineava come fosse in atto una «disputa sul senso in cui la vita sociale può essere considerata naturale per l’uomo»7. E spiegava:
Anche se scrittori recenti hanno dichiarato che questa socievolezza [sociabilitas] è la fonte di quasi ogni nostro dovere, nessuno sembra aver spiegato in modo sufficientemente chiaro, in generale, quali cose possono essere propriamente definite naturali per l’uomo, che cosa sia poi questa nostra socialità [socialitas] e infine quali parti della nostra natura ci rendano adatti e inclini alla società, che sia essa società civile o una società non soggetta all’autorità umana8.
10Con queste parole Hutcheson dava voce a uno dei problemi sentiti come più urgenti nell’Europa del xviii secolo, ossia quello di legittimare specifiche forme di convivenza e di governo e il relativo complesso di leggi che ne era alla base facendo ricorso alla loro maggior o minore naturalezza. La celebre definizione aristotelica che vedeva nell’uomo uno zoon politikon, un animale politico, aveva cominciato a esser messa in discussione almeno a partire dal xvi secolo e ciò rischiava di minare la sovranità politica e incrinare la ragion di stato. Era in gioco la possibilità stessa di una legge naturale e di una giustizia e giurisprudenza universali. La risposta di Grozio a questo problema era stata la teorizzazione di un appetitus societatis, ossia di un desiderio universalmente diffuso in tutti gli uomini di vivere pacificamente in uno stato per garantirsi la sopravvivenza. Nel corso del xviii secolo questa soluzione viene variamente ridiscussa, affermata, negata o comunque riformulata9. Da un lato vi è chi la respinge, come Rousseau che, sulla scorta di Mandeville, propende per un progressivo sviluppo della sociabilità, ma ne nega il carattere innato, e chi invece, come appunto Hutcheson, ma anche Shaftesbury, la interpreta come una spontanea inclinazione dell’uomo a essere benevolo nei confronti dei propri simili e a cercarne la compagnia. In particolare, Hutcheson ne sottolinea il carattere disinteressato, contrapponendosi a interpretazioni invece più utilitaristiche, incentrate cioè sull’interesse del singolo e sull’amor di sé.
11In questo quadro si comprende facilmente l’interesse e la varietà di interpretazioni spesso antagonistiche che nel Settecento suscitò anche il polo opposto alla socievolezza e società, quello della solitudine10. Nelle sue manifestazioni originarie la solitudine era un fenomeno di stampo principalmente religioso: l’ascesi e poi il monachesimo significavano, infatti, “essere soli con Dio”. Con il trascorrere dei secoli, e in particolare in epoca rinascimentale, si compie il passaggio a una forma mondanizzata di solitudine: fa la sua comparsa l’immagine dell’artista che proprio nella solitudine può esplicare la propria forza creatrice.
12Con l’illuminismo si compie un ulteriore passo in questo processo di mondanizzazione: al centro della speculazione filosofica settecentesca vi è, infatti, l’uomo come singolo individuo, e l’interesse va quindi sempre più alla sfera della vita privata, al singolo considerato di per sé, isolato dalla società o inserito in un contesto sociale ristretto, quello della casa e della famiglia. Emblematica di questa scoperta dell’individualità è la fortuna di un romanzo come il Robinson Crusoe, modello esemplare dell’uomo che nella solitudine esplica le proprie capacità e si realizza pienamente. Ci troviamo qui di fronte alla descrizione di una solitudine “attiva”, “produttiva” e dalla forte valenza pedagogica: nella solitudine l’uomo può realizzare liberamente la propria personalità senza dover sottostare a condizionamenti esterni. D’altra parte, però, l’individuo è impensabile senza il contesto sociale in cui vive e senza un fondamento (naturale o artificialmente indotto è, come si è visto, motivo di discussione) che sancisca i suoi obblighi verso i concittadini e verso lo stato.
13Emergono in questo contesto una serie di interrogativi così riassumibili: per natura l’uomo è socievole o è solitario? E che cosa contribuisce maggiormente alla sua felicità e piena realizzazione, la solitudine o la vita in comune? E, ancora, è possibile che l’uomo sia spontaneamente incline a qualcosa che però gli nuoce? Si può essere soli e asociali pur nella società? E al contrario, essere socievoli e praticare la socialità pur nella solitudine?11
14Sembrano paradossi, e in qualche caso poco più che giochi di parole, eppure alcune di queste formulazioni sono state davvero utilizzate nel corso del Settecento. L’esempio più significativo è quello di Kant che nella Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht12 (Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica), pubblicata nel novembre del 1784 sulla «Berlinische Monatsschrift», utilizza l’espressione «ungesellige Geselligkeit des Menschen», la «socievolezza asociale dell’uomo». Secondo Kant l’uomo prova al contempo due inclinazioni antagoniste: da un lato è propenso all’aggregazione sociale, in quanto riconosce che solo in essa egli può sviluppare appieno la propria natura di uomo; dall’altro sente una forte inclinazione ad accentuare la propria singolarità e a isolarsi, poiché prova l’istinto di affermare la propria volontà in modo assoluto e incontra in ciò la resistenza degli altri, così come del resto oppone lui resistenza, quando sono gli altri a voler affermare in modo assoluto la loro. Kant parla in questo caso di una «ungesellige Eigenschaft», una qualità asociale che fa parte anch’essa della natura umana. È proprio questa resistenza, però, il motore che risveglia le altre forze nell’uomo, che lo scuote dallo stato di torpore e pigrizia e lo induce a cercare il proprio posto, e possibilmente un posto di spicco, in mezzo agli altri uomini, sviluppandosi pienamente e passando così da uno stato di rozzezza al dispiegamento della cultura. Spiega Kant:
Senza quelle qualità, peraltro indegne, dell’asocialità e della resistenza che da essa scaturisce e che ciascuno inevitabilmente incontra nell’affermazione egoistica di sé, tutti i talenti resterebbero per l’eternità in una forma embrionale, confinati in una vita da pastori dell’Arcadia, in uno stato di perfetta armonia, soddisfazione e amore reciproco: gli uomini, mansueti come le pecore che accudiscono, conferirebbero alla propria esistenza un valore di poco superiore a quanto ne possiede il loro bestiame; non saprebbero riempire il vuoto della creazione riconoscendo il suo scopo, come natura razionale. Si renda quindi grazia alla natura per l’intolleranza nei confronti dell’altro, per la superbia che spinge a una competizione malevola, per la sete di possesso e di dominio che non viene mai soddisfatta13.
15Il sovvertimento è qui completo, in quanto sono gli istinti più bassi e malevoli a essere naturali; è naturale la mancanza di socievolezza, che però è conditio sine qua non per la nascita della società. Se l’asocialità è naturale e positiva, non altrettanto può dirsi invece della solitudine “arcadica”, da idillio pastorale, che Kant deride. Essa è un tipo di solitudine cosiddetta passiva, dell’uomo contento, o che si accontenta, che indugia e gode nella e della propria condizione appartata e indulge alle fantasticherie e al sentimentalismo. Ci si trova qui davanti a quella che, in un tentativo di classificazione delle forme della solitudine, potrebbe essere definita la solitudine sentimentale: quella solitudine, cioè, che non ha per scopo né il dispiegamento delle proprie potenzialità né la vicinanza o l’avvicinamento al divino, bensì è fine a se stessa e si alimenta promuovendo sentimenti che nascono dalla contemplazione della quieta natura.
16Di questa ambivalenza nella valutazione delle inclinazioni solitarie o sociali dell’uomo e della manifestazione storica di queste inclinazioni in un campionario che va dall’eremitaggio alle società moderne è piena la pubblicistica del Settecento, in particolar modo di lingua tedesca. Colpisce, in Germania, la diffusione di periodici dai titoli emblematici, quali, per citarne solo alcuni, Der Einsiedler (L’eremita), Der Anachoret (L’anacoreta) e Der Gesellige (L’uomo sociale). Vi si trovano, alternati, giudizi favorevoli od ostili alla solitudine, in maniera fra l’altro non sempre coerente con l’orientamento che si sarebbe portati a desumere dai titoli delle riviste, che quindi, evidentemente, non esprimevano tanto un valore programmatico, quanto la volontà di far riflettere il lettore.
17È interessante leggere, per il suo valore emblematico, il Bilancio dell’anno 1740 che un lettore invia al settimanale morale Der Einsiedler e che fornisce un elenco delle ore che l’uomo ha dedicato durante l’anno alle diverse attività:
Ore dedicate al sonno: 2555.
Ore dedicate al movimento del corpo: 800.
Ore dedicate al diletto dello spirito: 195.
Ore dedicate ad attività sociali inevitabili: 100.
Ore dedicate a mangiare e bere: 730.
Ore dedicate al prossimo e al miglioramento del suo stato: 2100.
Ore dedicate a combattere la povertà: 90.
Ore dedicate a Dio: 1400.
Ore che si sarebbero potute utilizzare in modo più fruttuoso: 600.
Ore che mancano all’appello: 13014.
18Per quanto questo bilancio possa apparire ingenuo e suscitare il sorriso, la problematica che esso implicitamente presenta è fondamentale: solitudine (intesa in questo caso come raccoglimento in preghiera, come tempo trascorso con Dio) e socialità sono conciliabili? A quali attività, se si esclude il soddisfacimento dei bisogni elementari, è preferibile, più etico e più conforme alla natura dell’uomo dedicarsi? Nessuna risposta viene offerta qui e resta imprecisato quale fosse «il miglior uso» che si sarebbe potuto fare di quelle 600 ore. Ma il problema non poteva essere posto in maniera più immediata.
3. Teoria delle emozioni: Shaftesbury e lo stoicismo
19Shaftesbury (1671-1713) si pone agli albori della discussione settecentesca su socievolezza e solitudine e lo fa a partire da un’accurata disamina degli impulsi e delle emozioni dell’uomo.
20Alla base della nota teoria shaftesburiana del moral sense vi è la convinzione che esistano nell’essere umano inclinazioni naturali, spontanee e disinteressate, alla socialità e alla promozione del bene comune. Shaftesbury le definisce affezioni naturali (natural affection). Accanto a esse si trovano, per citare ancora la sua formulazione, le affezioni egoistiche (self affection), che tendono invece al benessere individuale. Anche le affezioni egoistiche, per quanto orientate all’individuo e non alla collettività, sono comunque positive in quanto aiutano a preservare in ogni uomo l’istinto di sopravvivenza, e divengono dannose solo se sono troppo accentuate o si presentano in numero eccessivo. L’agire morale si basa dunque su una personalità dalla struttura armonica in cui tutti gli impulsi naturali benevoli nei confronti di se stessi, della specie e della società cooperano.
21Assolutamente negative sono invece le affezioni innaturali, che non perseguono né il benessere pubblico né quello del singolo e risultano anzi massimamente dannose per entrambi15. Shaftesbury, ricorrendo alla nomenclatura stoica, chiama questo tipo di affezione passion (passione).
22Esiste dunque una linea di demarcazione chiarissima fra affections e passions e solo queste ultime generano uno stato patologico i cui effetti sono immediatamente visibili prima di tutto sul corpo e poi sul comportamento umano. Non è un caso, in tal senso, se Shaftesbury nella Lettera sull’entusiasmo si sofferma sulla passione della malinconia, vista come disturbo che nasce dai fermenti del corpo, dalle sue eruzioni e che sul corpo, prima ancora che sulla mente, esercita il suo influsso16.
23Va detto subito che il problema del commercium mentis et corporis non riveste ancora per Shaftesbury la centralità che invece assumerà nel prosieguo del secolo. Per lui, più che altro, è importante opporsi con forza a qualsiasi riduzionismo fisiologico e nel Soliloqy (1710), creando un parallelismo tra l’ipotetico visitatore di un negozio di orologi e il filosofo, spiega:
Se analogamente un filosofo, dedicandosi allo studio della natura umana, scoprisse unicamente quali effetti ciascuna passione produca sul corpo, quale cambiamento d’aspetto o di forma determini, e in quale differente maniera influisca sulle membra e i muscoli, ciò potrebbe abilitarlo a dare consigli a un anatomista o a un pittore, ma non al genere umano e a se stesso, perché, in base a tale esame, egli non avrebbe tenuto conto dell’azione e dell’energia reali del suo soggetto e non avrebbe considerato l’uomo in quanto uomo reale e agente umano, ma in quanto orologio o comune macchina17.
24Shaftesbury insiste dunque sul fatto che al filosofo debba interessare l’influenza delle passioni sulla condotta dell’uomo, ossia sul piano delle relazioni interpersonali, più che sul corpo. Tuttavia, il suo continuo far ricorso a una terminologia legata alla dietetica e alla medicina dimostra un significativo intreccio del discorso etico e di quello scientifico.
25In stretto rapporto con la sua teoria delle affezioni e ancora una volta ispirandosi alla filosofia stoica, Shaftesbury introduce, sempre nel Soliloqy, il tema della solitudine, la aiskesis, in cui egli vede lo strumento attraverso cui l’uomo può tenere sotto controllo le passioni affinché non prendano il sopravvento sulle affezioni:
A seconda che mi dominino oppure no, che differiscano o meno l’una dall’altra, le passioni influenzano il mio carattere e mi rendono altro da me stesso e dagli altri. Devo perciò trovare il sistema per correggere e migliorare tale condizione, riflettendo opportunamente sul modo in cui funzionano i miei moti interiori, quando sono guidati da affezioni che dipendono così tanto da timore e presunzione. Esaminando i vari rivolgimenti delle passioni, le loro modulazioni, deviazioni e rivoluzioni interne, dovrò senza dubbio giungere a una migliore comprensione del cuore umano, e a formulare giudizi più corretti sia sugli altri che su me stesso18.
26Il metodo offerto per tenere sotto il giogo le passioni e permettere il pieno dispiegamento delle affezioni sociali appare però in paradossale contrasto con ciò che così si vuole promuovere, in quanto la solitudine sembrerebbe essere la condizione antisociale per eccellenza. La soluzione a questo apparente paradosso può venire, io credo, da un’analisi socio-psicologica che metta in rapporto forma dialogica, linguaggio e pensiero. Proprio nel Soliloqy, il cui motto di apertura è un verso della prima satira di Persio che recita «Nec te quaesiveris extra»19, Shaftesbury riflette sulla sua concezione del pensiero. Punto di partenza del ragionamento è una critica alle tendenze letterarie del suo tempo: sempre più autori pubblicano libri molto pretenziosi, ma, se ben analizzati, in fondo privi di contenuto. Come correttivo, anzi come vero e proprio viatico, Shaftesbury suggerisce loro di parlare in privato, restare con se stessi e praticare l’introspezione conversando con se stessi20. La parola utilizzata per quest’ultimo concetto è self-converse, di cui risulta subito evidente il duplice significato: da un lato essa rimanda all’introspezione, alla inspection, come la chiama anche Shaftesbury, ossia al convertere lo sguardo dentro di sé; dall’altro conserva un forte legame con il conversare, il parlare con gli altri. Come sia possibile parlare con se stessi diviene allora la domanda fondamentale dell’intero testo. Shaftesbury si richiama a tal proposito alla tradizione greca e in particolare al concetto del daimon socratico:
Si potrebbe dimostrare, infatti, che è sempre una forma di sacrilegio o di empietà disdegnare la compagnia di un ospite così divino […] Ciascuno di noi ha un paziente in se stesso, noi stessi siamo l’oggetto della nostra pratica e poi diventiamo legittimi praticanti quando, ritirandoci nella nostra coscienza, possiamo scoprire una certa duplicità dell’anima e dividere noi stessi in due persone21.
27Al dialogo viene dunque attribuita una funzione euristica. Il dialogare con gli altri o con il sé che si separa e diviene altro, genera il sapere, che nel Soliloqy si profila come conoscenza dell’uomo. Ed è solo quando impara a osservare se stesso e gli altri, come si è visto, che l’individuo diviene in grado di trasformare le affezioni naturali in un sapere morale consapevole e controllare le passioni.
28Dietro alla metafora del sacrilegio compiuto da chi rifiuti la compagnia del demone si celano due dei concetti cardine del pensiero shaftesburiano: la spontanea inclinazione verso gli altri uomini, ossia l’impulso alla socialità, e la politeness. Come le norme di comportamento del polite Gentleman proibiscono di sottrarsi alla conversazione in società, tanto più il divieto è valido nel caso di una conversazione con se stessi: la forma primaria e fonte originaria dell’impulso alla socialità, da cui derivano anche le regole della politness, si manifesta dunque proprio nella solitudine.
29In questo contesto Shaftesbury offre una nuova interpretazione del motto Gnothi seauton, “conosci te stesso” per spiegare la possibilità del dialogo interiore: «Questa era tra gli antichi la celebre iscrizione delfica “conosci te stesso”, che equivaleva a dire “dividi te stesso” o “sii due persone”»22. Il soggetto in altre parole si divide, si raddoppia e diviene oggetto di se stesso:
Chiunque fosse, anche per poco, un attento esaminatore, finirebbe inevitabilmente col conoscere il suo cuore. E – cosa singolare di questi specchi magici – accadeva che, attraverso un lungo e costante esame, le persone acquisivano un abito speculativo peculiare, come se di fatto portassero con sé una sorta di specchietto tascabile, sempre a portata di mano e pronto all’uso23.
30Il cammino verso la conoscenza, dunque, è fin dall’inizio legato e condizionato dalla dimensione dialogico-sociale. Il dialogo diviene lo specchio in cui il soggetto letteralmente si riflette, ovvero riflette su se stesso e sfugge alla «filosofia iper-speculativa» (super-speculative philosophy) per passare a «un genere più pratico, che concerne principalmente la nostra familiarità, amicizia e buona comunicazione con noi stessi»24. Infine il dialogo si trasforma poi in strumento di una riflessione condivisa fra più soggetti all’interno della società. Il passaggio dal solipsismo alla conversazione è una conditio sine qua non del pensare e dell’ampliamento del sapere.
31Cercheremo ora di mostrare come la concezione antropologica e morale di Shaftesbury e il percorso che lo porta dalla teoria delle affezioni all’ideale di una solitudine sociale all’interno della quale i pensatori elaborano e condividono il sapere si riflettano e vengano rielaborati nelle opere del medico e filosofo svizzero Johann Georg Zimmermann.
4. Zimmermann e la riflessione antropologica sulla solitudine
32Zimmermann (1728-1795) compie i suoi studi all’università di Gottinga, dove è allievo di Haller. Dopo diversi anni in giro per l’Europa, viene chiamato come medico di corte da Giorgio III, re di Inghilterra e principe elettore di Hannover. In seguito sarà anche al capezzale dell’imperatore Federico II, alla cui figura dedicherà numerosi scritti.
33La fama di Zimmermann è però legata principalmente a quattro opere: Von der Erfahrung in der Arzneiwissenschaft (Sull’esperienza in medicina) del 1764, che discute il concetto di esperienza e osservazione empirica in relazione ai pregiudizi e alla capacità di induzione del medico, e i tre libri sulla solitudine: Betrachtungen über die Einsamkeit (Considerazioni sulla solitudine) del 1756, Von der Einsamkeit (Della solitudine) del 1773 e Über die Einsamkeit (Sulla solitudine) del 1784-1785.
34I titoli di queste tre opere mostrano una chiara evoluzione di modalità e intenti: il primo testo è concepito come una raccolta di considerazioni di carattere morale, filosofico e religioso presentate in forma poco più che aforistica e con un linguaggio spesso poe-tico e metaforico; in esso Zimmermann per lo più riflette sulla propria esperienza di solitudine sulle Alpi bernesi, tanto che Bodmer, in una lettera del 4 ottobre 1756, gli suggerisce di sostituire in a über trasformando dunque il titolo in Considerazioni in solitudine 25.
35Il secondo testo, Von der Einsamkeit, è già più sistematico e contiene due dei nuclei che saranno fondamentali nell’ultimo saggio, ovvero la ricerca degli impulsi naturali che spingono alternativamente alla socialità o alla solitudine, e che sono chiaramente un’eco della teoria shaftesburiana, e la critica dell’ascetismo monastico delle origini, le cui argomentazioni verranno però poi rivolte anche contro il pietismo.
36Infine abbiamo Über die Einsamkeit, opera monumentale in quattro volumi per un insieme di più di duemila pagine. Il primo capitolo muove da una serie di precisazioni sul concetto di solitudine su cui è opportuno soffermarsi:
Solitudine è una condizione dell’anima in cui quest’ultima si abbandona alle proprie riflessioni. Godendo di reale isolamento e di grande quiete o anche solo distogliendo il pensiero da ciò che ci circonda, noi siamo soli26.
37Questa definizione include al suo interno due forme di solitudine in realtà piuttosto diverse; da un lato vi è la solitudine spaziale, in cui l’individuo si trova fisicamente in un luogo appartato, lontano dai suoi simili, ma conserva ancora il contatto con il mondo naturale: è il caso, per esempio, dell’esperienza fatta dallo stesso Zimmermann sulle Alpi bernesi o, ancora, quella dei pastori, che non a caso egli cita poche righe dopo; dall’altro, vi è la solitudine interiore, in cui l’uomo trascende non solo la dimensione sociale, ma anche la realtà sensoriale: è il caso, per esempio, dei monaci di clausura, ma anche dei dotti che trascorrono la vita nei loro studi. Va subito precisato che, fra le due forme, la preferenza di Zimmermann va nettamente alla prima.
38Che vi siano diversi tipi di solitudine emergeva già in un passo delle Betrachtungen dove, non a caso, compare per la prima volta il nome di Shaftesbury:
Nessun monaco solitario, dice Shaftesbury, nessun eremita, è mai stato veramente da solo: unicamente il saggio è in grado di trarre vero e autentico giovamento dalla lontananza dal mondo, e quanto rari sono i saggi?27
39Questa citazione dal Soliloquio coglie appieno la differenza tra “solitudine sociale” e mero solipsismo delineata da Shaftesbury e la esplica facendo apertamente coincidere il solipsismo con una forma inautentica di solitudine. Quella autentica, invece, è riservata al saggio, il solo a poter trarre giovamento dal suo allontanarsi dal mondo in quanto capace, nella solitudine, di osservare se stesso. Il nosce te ipsum era già al centro di un appunto di diario del 175328 e diventa il nucleo di un testo dal titolo Von der Diät für die Seele (Della dieta per l’anima) del 1764 in cui alle res non naturales della dietetica per il corpo Zimmermann ne sostituisce altre riferite all’anima29. La figura del saggio scivola così progressivamente in quella del medico, che dopo aver analizzato se stesso è in grado di applicare il proprio sapere agli altri.
40È stato sostenuto che in questo ampliamento del discorso al campo medico Zimmermann si staccherebbe da Shaftesbury30, ma in realtà concetti quali dietetica e terapia erano ben presenti nel discorso shaftesburiano, tanto che negli Askemata la filosofia viene fatta coincidere con l’atto di cura. E l’immagine citata dell’uomo che dapprima è paziente e poi medico di se stesso ne è una conferma. Si può semmai sostenere che Shaftesbury non è interessato alla dimensione professionale dell’attività curativa, in quanto egli è certo un precursore, ma ancora non incarna la figura del medico-filosofo come farà invece Zimmermann.
41Il vero elemento innovativo del pensiero di quest’ultimo consiste semmai nel fatto che la forma autentica di solitudine da lui postulata prevede si preservi il contatto con la natura poiché essa dà impulso alla fantasia e permette un pieno sviluppo dei sensi. Se per Shaftesbury la natura era poco più di un mero fondale, era lo spazio in cui l’isolamento si realizza con l’obiettivo di mantenere in equilibrio le affezioni, mentre scarso interesse era rivolto alle facoltà inferiori dell’anima, Zimmermann, da profondo interprete qual è della coeva discussione antropologica sul ganzen Mensch31, sull’uomo nella sua complessa e poliedrica totalità, mira a uno sviluppo armonioso dell’intelletto, della sensibilità e dei sensi.
Notes de bas de page
1 B. Croce, Shaftesbury in Italia, «La critica», 23 (1925), pp. 1-27.
2 W. Dilthey, Leben Schleiermachers, in Id., Gesammelte Schriften, voll. 13-14, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2006; trad. it. La vita di Schleiermacher, 2 voll., Liguori, Napoli 2008.
3 E. Cassirer, Die Philosophie der Aufklärung, Meiner, Hamburg 2007; trad. it. La filosofia dell’illuminismo, La Nuova Italia, Firenze 1999.
4 A.A. Cooper Shaftesbury, Soliloquy, in Id., Characteristics of Men, Manners, Opinions, Times, Cambridge University Press, Cambridge 2004, p. 93.
5 G.W. Leibniz, Éloge critique des œuvres de Milord Shaftesbury par Mr. le Baron de Leibnits, communiqué par Mr. Coste, «Histoire critique de la république des Lettres», X (1715), pp. 306-327, qui p. 323: «Le tour du Discours, [...] le Platonisme nouveau, la manière d’argumenter par interrogations».
6 Cfr. H.-G. Dehrmann, Shaftesburys stoischer Sokratismus, «Aufklärung», 22 (2010), pp. 77-103.
7 F. Hutcheson, Inaugural Lecture on the Social Nature of Man, in T. Mautner (a cura di), Hutcheson: Two Texts on Human Nature, Cambridge, Cambridge University Press, Cambridge 1993, pp. 124-147, p. 134: «Dispute about the sense in which this social life can be said to be natural to man». L’originale latino del testo, De naturali hominum socialitate. Oratio inauguralis, è invece contenuto in F. Hutcheson, Collected Works, Olms, Hildesheim 1990, vol. VII, pp. 171-200.
8 Ivi, p. 127: «And even if most recent writers have declared this sociality [sociabilitas] to be the source of almost every duty, they nevertheless do not seem to have sufficiently explained, in general, what things are properly called natural to man, nor, more specifically, what this sociality [socialitas] of ours is, nor, finally, which parts of our nature render us fit for and inclined towards society, be it civil society or a society not subject to human authority». Rispetto alla traduzione di Mautner appare però utile accogliere la proposta di Piirimäe e Schmidt, che riservano sociality al latino socialitas e ricorrono invece a sociability per rendere sociabilitas in modo da conservare la differenza terminologica presente nell’originale. Cfr. E. Piirimäe e A. Schmidt., Introduction: Between Morality and Anthropology – Sociability in Enlightenment Thought, «History of European Ideas», 41 (2015), n. 5, pp. 571-588.
9 Cfr. U. Im Hof, Das gesellige Jahrhundert. Gesellschaft und Gesellschaften im Zeitalter der Aufklärung, Beck, München 1982.
10 Cfr. K. Wittler, Einsamkeit. Ein literarisches Gefühl im 18. Jahrhundert, «DVjs», 87 (2013), n. 2, pp. 186-216.
11 Sull’enorme interesse mostrato dagli illuministi per il tema della solitudine si veda fra gli altri W. Haug, Programmierte Einsamkeit. Zur Anthropologie eines narrativen Musters, in A. e J. Assmann (a cura di), Einsamkeit. Archäologie der literarischen Kommunikation, vol. VI, Fink, München 2000, pp. 59-75.
12 I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, in Id., Kant’s Gesammelte Schriften, Akademie Ausgabe, Königlich Preußische Akademie der Wissenschaften, Berlin 1900 sgg., vol. VIII, pp. 15-32.
13 Id., p. 21: «Ohne jene an sich zwar eben nicht liebenswürdige Eigenschaften der Ungeselligkeit, woraus der Widerstand entspringt, den jeder bei seinen selbstsüchtigen Anmaßungen notwendig antreffen muß, würden in einem arkadischen Schäferleben bei vollkommener Eintracht, Genügsamkeit und Wechselliebe alle Talente auf ewig in ihren Keimen verborgen bleiben: die Menschen, gutartig wie die Schafe, die sie weiden, würden ihrem Dasein kaum einen größeren Werth verschaffen, als dieses ihr Hausvieh hat; sie würden das Leere der Schöpfung in Ansehung ihres Zwecks, als vernünftige Natur, nicht ausfüllen. Dank sei also der Natur für die Unvertragsamkeit, für die mißgünstig wetteifernde Eitelkeit, für die nicht zu befriedigende Begierde zum Haben oder auch zum Herrschen! Ohne sie würden alle vortreffliche Naturanlagen in der Menschheit ewig unentwickelt schlummern». Sul tema si veda A. Belwe, Ungesellige Geselligkeit: Kant: Warum die Menschen einander ‘nicht wohl leiden’, aber auch ‘nicht voneinander lassen’ können, Königshausen & Neumann, Würzburg 2000.
14 Schluß der Rechnung vom Jahr 1740, «Der Einsiedler», ii, 17572, p. 9: «Auf der Schlaf verwandt: 2555. Auf die Bewegung des Leibes: 800. Zur Gemüthsergötzung: 195. In Gesellschaft, die ich nicht vermeiden können: 100. Auf Speis und Trank: 730. Auf den Nächsten und dessen Besserung: 2100. Der Armuth abzuhelfen: 90. Zum Dienst meines Gottes: 1460. Nutzbarer hätten können angewendet werden: 600. Stunden die wo nicht gar verlohren, doch vermisset werden: 130. Stunden des Jahres: 8760».
15 A.A. Cooper, conte di Shaftesbury, An Inquiry Concerning Virtue or Merit in Id., Characteristics of Men, Manners, Opinions, Times, Cambridge University Press, Cambridge 2004, p. 200: «private or self affections», «natural affections» e «unnatural affections».
16 Shaftesbury, A letter concerning enthusiasm to my Lord ***** in Id., Characteristics of Men, Manners, Opinions, Times, cit., p. 9.
17 Shaftesbury, Soliloqy, in Characteristics of Men, Manners, Opinions, Times cit., p. 131: «Should a philosopher, after the same manner, employing himself in the study of human nature, discover only what effects each passion wrought upon the body, what change of aspect or feature they produced and in what different manner they affected the limbs and muscles, this mighty possibly qualify him to give advice to an anatomist or a limner but not to mankind or to himself, since, accordingly to this survey, he considered not the real operation or energy of his subject, nor contemplated the man, as real man and as a human agent, but as a watch or common machine». Cfr. Scritti politici e morali, a cura di A. Taraborrelli, Utet, Torino 2007, p. 291.
18 Ivi, p. 132: «These passions, according as they have the ascendancy in me and differ in proportion with one another, affect my character and make me different with respect to myself and others. I must, therefore, of necessity find redress and improvement in this case, by reflecting justly on the manner of my own motion as guided by affections which depend so much on apprehension and conceit. By examining the various turns, inflections, declensions and inward revolutions of the passions, I must undoubtedly come the better to understand a human breast, and judge the better both of others and myself»; trad. it. pp. 291-292.
19 Persio, Satire, traduzione e note di E. Barelli, Rizzoli, Milano 1998, p. 123: «Non cercare te fuori di te».
20 Cfr. Shaftesbury, Soliloqy, cit., p. 75; trad. it. p. 213.
21 Ivi, p. 77: «It would infallibly be proved a kind of sacrilege or impiety to slight the company of so divine a guest. [...] We had each of us a patient in ourself [sic], we were properly our own subject of practice, we then became due practitioners when, by virtue of an intimate recess, we could discover a certain duplicity of soul and divide ourselves into two parties»; trad. it. p. 214.
22 Ibid: «This was, among the ancients, that celebrated Delphic inscription, “Recognize yourself”, which was as much as to say “Divide yourself!” or “Be two!”»; trad. it. p. 215.
23 Ivi, p. 87: «No one, who was ever so little a while an inspector, could fail of becoming acquainted with his own heart. And – what was of singular note in these magical glasses – it would happen that, by constant and long inspections, the parties accustomed to the practice would acquire a peculiar speculative habit, so as virtually to carry about with them a sort of pocket-mirror, always ready and in use»; trad. it. p. 229.
24 Ivi, p. 131: «A more practical sort, which relates chiefly to our acquaintance, friendship and good correspondence with ourselves»; trad. it. p. 290.
25 Lettera di Bodmer a Zimmermann del 4 ottobre 1756 in E. Bodemann, Johann Georg Zimmermann. Sein Leben und bisher ungedruckte Briefe, Hahn, Hannover 1878, p. 164.
26 J.G. Zimmermann, Über die Einsamkeit, 4 voll., vol. I, p. 3: «Einsamkeit ist eine Lage der Seele, in der sie sich ihren eigenen Vorstellungen überläßt. In Genusse wirklicher Absonderung und großer Stille, oder auch nur durch Wegwendung der Gedanken von dem, was uns umgiebt, sind wir einsam».
27 J.G. Zimmermann, Betrachtungen über die Einsamkeit, Heidegger und Compagnie, Zürich 1756, p. 15: «Kein abgesonderter Mönch, sagt Shaftesbury, kein Eremit ist jemahls wahrhaftig allein gewesen – den wahren und eigentlich nutzen aus der Entfernung zu ziehen, ist nur der Weise im Stande, und wie selten ist ein Weiser?».
28 J.G. Zimmermann, Nosce te ipsum. Zimmermanns Tagebuch aus dem Jahre 1753, a cura di C. Hummel, Brugger Neujahrsblätter Nr. 85, Brugg 1975.
29 Cfr. C. Frey, Laune: Poe-tiken der Selbstsorge von Montaigne bis Tieck, Fink, München 2017, p. 26.
30 H.-G. Dehrmann, Produktive Einsamkeit: Gottfried Arnold, Shaftesbury, Johann Georg Zimmermann, Jacob Hermann Obereit, Christoph Martin Wieland, Wehrhahn, Hannover 2002, p. 84.
31 Cfr. H.-J. Schings (a cura di), Der ganze Mensch. Anthropologie und Literatur im 18. Jahrhundert, Metzler, Stuttgart 1994.
Auteur
Freie Universität Berlin
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