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Introduzione

p. VII-XV


Texte intégral

1«Mes passions m’ont fait vivre, et mes passions m’ont tué»: la confession di Rousseau ben potrebbe inserirsi in un virtuale decalogo dedicato alle peculiarità delle emozioni. Prerogative dell’emozione che sembrerebbero all’apparenza antitetiche all’esaltazione della ragione, notorio e scontato emblema del secolo dei Lumi, mentre sappiamo, anche per il fiorire della più recente esegesi, quanto le emozioni e le manifestazioni del sentimento trovarono un fertile terreno di osservazione nel Settecento, certo sull’onda di Cartesio, Spinoza, Malebranche e Leibniz. Un campo di ricerca che dalla sfera fisiologica passa alla psicologica grazie a un’energia intellettuale volta alla riformulazione di una diversa normativa morale ed estetica, secondo una linea che, se pur innegabilmente debitrice al fondatore della filosofia moderna e a coloro che a lui seguirono, spazia ora oltre i confini della filosofia.

2Già sul finire del primo ventennio del secolo, rifacendosi all’assioma ut pictura poësis, Jean Baptiste Du Bos sosteneva, nelle sue Réflexions critiques sur la poésie et la peinture (1719), la basilare autorevolezza del sentimento nelle valutazioni del bello sia esso letterario che artistico. Sottraendo il giudizio estetico alla freddezza logica e implicandovi la sensibilità individuale, Du Bos precisava comunque la misura artificiosa del fattore emotivo dal momento che la riproduzione o poe-tica o pittorica di un evento coinvolgente provoca sì in chi ne è partecipe un’emozione e una passione tuttavia non vere ma, viceversa, artificiali. Assistendo a uno spettacolo teatrale siamo consapevoli di essere di fronte a una imitazione del reale pur essendone impressionati e, citando il Cid di Corneille, postillava che non ci rechiamo allo spettacolo per vedere veramente Chimène e Rodrigue.

3Per tali riflessioni sul teatro, il pensiero va facilmente a quel passo del Paradoxe sur le comédien, là dove Diderot differenziava le lacrime che sgorgano dal cuore (le lacrime dell’«homme sensible») e quelle che scendono dal cervello (le lacrime del «comédien») e poneva la differenza tra l’emozione vera e l’emozione falsa, enunciando il suo ‘paradosso’ e allontanandosi, pertanto, dalle formulazioni di Du Bos. La bravura, la grandezza di un attore non sta nel sentire delle emozioni reali ma invece nel raffigurarne l’espressione; viceversa l’attore scadente cede all’emozione reale. Dunque: «C’est l’extrême sensibilité qui fait les acteurs médiocres; c’est la sensibilité médiocre qui fait la moltitude des mauvais acteurs; et c’est le manque absolu de la sensibilité qui prépare les acteurs sublimes». Un conto è l’attore nella vita e un altro è l’attore sulla scena e così il philosophe citava la propria reazione la prima volta che vide la celebre attrice Claire Josèphe Hippolyte Léris de La Tude, detta Mlle Clairon, non in scena bensì «chez elle»: «Ah! mademoiselle, je vous croyais de toute la tête plus grande».

4Le conclusioni di Du Bos e di Diderot sono sintomatiche delle diverse prospettive con cui gli intellettuali settecenteschi guardarono il manifestarsi delle emozioni secondo, appunto, ottiche e discipline differenti a riprova della poliedricità e delle interazioni intellettuali del secolo.

5Precipuamente finalizzato a studiare questo orientamento, il presente volume è suddiviso in tre parti che analizzano il sentimento in rapporto alla morale, alla retorica e alla politica, secondo un percorso che intende testimoniare e convalidare l’indubbia circolazione delle idee a livello europeo: una prerogativa che, da sempre, contraddistingue il Centro Metamorfosi dei Lumi.

6Per Sentimento e morale il discorso esamina le sinergie intercorrenti con la filosofia, con la letteratura e con la divulgazione enciclopedica.

7Per la filosofia viene riconsiderata la posizione di David -Hume, con una dialettica riflessione sulle argomentazioni portate avanti nel Treatise of Human Nature per ragionare sulle innovative posizioni inerenti la «ricostruzione sentimentalista» del filosofo scozzese per quanto concerne l’etica e approfondirne gli esiti.

8Per la letteratura viene valutata l’influenza esercitata da una delle figure più prestigiose dei Lumi, ovvero l’influenza di Jean-Jacques Rousseau sulle generazioni successive soprattutto nell’educazione dei nuovi e giovani scrittori, da Senancour a Hugo, qui su Stendhal, lettore adolescente della Nouvelle Héloïse e dell’Émile. Si tratta di una ascendenza dalla valenza filosofica e singolarmente bifronte: Rousseau è il maestro indiscutibile e, parimenti, è da lui che ci si vuole svincolare. Da una mirata rilettura di Le Rouge et le Noir e da un serrato dialogo con la critica e i dettati rousseauiani, il romanzo si rivela una risposta alla dottrina ed esperienza della sensibilité, una sensibilité declinatasi ormai in sensiblerie e dalla quale Henry Beyle, con la mediazione di Julien Sorel, intende emanciparsi. A corollario resta da aggiungere che Rousseau rimane senza dubbio, pur non essendo oggetto di un’indagine precipua, una sorta di presenza-assenza per tanti della sua e delle successive generazioni.

9Sigla la prima parte una ricognizione sulle passioni in base a una capillare catalogazione, e congruente disamina, delle voci presenti negli specifici Dictionnaires della monumentale Encyclopédie Méthodique, quando si registra, nella loro elaborazione, una svolta che può configurarsi come una rottura epistemologica: il discorso da morale, se non moraleggiante o per non dire moralista, si va evolvendo in medico-terapeutico. Si verifica, insomma, un’analisi fenomenologica delle passioni.

10Nella seconda sezione, i legami tra Sentimento e retorica riguardano la metamorfosi della comunicazione emozionale; le emozioni intercorrenti tra pittura, poe-sia e teatro e l’emozione relativa alla musica.

11Sullo svelamento degli impulsi emozionali soggettivi e sulla loro trasformazione, il caso di Madame du Deffand risulta sicuramente paradigmatico del tournant des Lumières. Figura chiave di uno dei simboli della fecondità intellettuale del secolo, la salonnière Madame du Deffand passa, nelle proprie lettere, da una posizione decisamente aliena a ogni abbandono o cedimento sentimentale a una che rivendica la legittimità di uno stile epistolare incline a esprimere il valore dell’emozione. Un’inversione di tendenza che emerge dal carteggio con il président François Hénault e da quello con Horace Walpole, determinando un rovesciamento dei ruoli: colei che, nello scambio epistolare con il président, ingiungeva il controllo dell’emozione verrà, a sua volta, aspramente sollecitata dall’autore del Castel of Otranto a celare le proprie spinte emotive.

12Sempre per Sentimento e retorica, una conferma della intersezione tra le arti è offerta dal contesto inglese quando viene attribuita al teatro la prerogativa di riuscire a incorporare le cosiddette «arti sorelle», ossia pittura e poe-sia: tramite l’intonazione, la gestualità e la prossemica dell’attore, il teatro è in grado di rappresentare le emozioni nella loro completezza mentre la poe-sia e l’immagine lo sono parzialmente. In tale riconoscimento una funzione fondamentale riveste la Royal Academy grazie alle lezioni di Heinrich Füssli e di John Opie. Ben significative risultano, allora, le recensioni teatrali che adottano il lessico delle emozioni e parlano di «conflit of passions», «burst of feelings», «study of tempers and passions», «variety of passions», «flexibility of emotions» per valutare la raffigurazione delle passioni. Anche in questo caso una postilla: l’attenzione riservata alla performance dell’attore porterà alla nascita del cosiddetto grande attore che, nel bene e nel suo eccesso, dominerà le scene dell’Ottocento e oltre.

13Rispetto al nesso musica-emozione e al suo rapportarsi con le altre arti, assai più problematica si presenta la situazione. In Francia, ad esempio, verso la fine del secolo valgono ancora le argomentazioni di Jean-Philippe Rameau il quale ritiene che, all’interno di un pezzo, sia dalla disposizione dei diversi mutamenti di tono che derivano l’espressione e il sentimento e non dalla scelta della tonalità principale. Nel 1779 Michel Paul de Chabanon reputa una chimera l’individuazione, in certi brani, di una imitazione dei fenomeni naturali: la musica può commuovere ma mettendo in atto dei propri mezzi tecnici ed endogeni. Nel 1785, Bernard-Germain-Ètienne de Laville, comte de La Cépède, asserisce la genericità, l’indeterminatezza delle immagini suscitate da una sinfonia, per quanto vive esse siano. Un diverso ambito geografico considerato è quello di area germanica, dove si hanno passaggi diversamente singolari per l’estetica musicale: la concezione barocca secondo cui l’opera commuove ed è, quindi, bella, si rovescia nella tesi per cui l’opera è bella, dunque commuove. Una inversione di tendenza è qui testimoniata sulla celebre aria «Che farò senza Euridice», dell’Orfeo e Euridice di Gluck. E prove inerenti all’evoluzione della musica si hanno ancora per l’area germanica, dove non può mancare Mozart.

14Nell’ultima parte del volume le concordanze per Sentimento e politica sono rivolte ai contesti tedesco e inglese. Con un discorso imperniato sulla diffusione e influenza delle idee, per la Germania si riflette sull’influsso esercitato da Shaftesbury nel campo dell’estetica e dell’arte per giungere ai meccanismi tipologici della sociabilità. Un influsso databile dal 1715, quando Leibniz esprime la propria sintonia con il pensiero del suo omologo inglese (Éloge critique des œuvres de Milord Shaftsbury par Mr. Le Baron de Leibnits), intorno a un nuovo platonismo e al modo di ragionare per via di interrogazioni. Influsso stemperatosi allorché si afferma una corrente antiplatonica a sua volta interrottasi con l’edizione Zweibrücker dell’opera del filosofo greco (1781-1787). E, per l’onda delle corrispondenze, si registra una simile curva cronologica per le traduzioni tedesche di Shaftesbury, attive sino a metà del secolo per poi dover aspettare gli ultimi anni Settanta e gli Ottanta per una traduzione completa delle Characteristicks. Se le interpretazioni esegetiche nell’ultimo quindicennio propendono a obiettare il paradigma platonico dell’inglese a favore di uno stoico, la verifica della fortuna di Shaftesbury privilegia in prevalenza la prima metà del Settecento. Una stima su cui, ad una attenta riconsiderazione, si deve aggiustare il tiro, proprio partendo dalla teoria shaftesburiana del moral sense e dalle sue consequenziali inclinazioni volte ad analizzare le reazioni comportamentali dell’individuo e, infine, le conseguenti ascendenze: ascendenze comprovate, ad esempio, dai tre libri di Johann Georg Zimmermann consacrati, sin dai titoli, all’antropologia della solitudine e pubblicati tra il 1756 e il 1784-1785 (Betrachtungen über die Einsamkeit, Von der Einsamkei, Über die Einsamkeit).

15Per i risvolti tra sentimento e politica in Inghilterra esemplari sono due libri fra i più divulgati di Edmund Burke, editi in anni molto distanti tra loro e formalmente diversi per argomento, ovvero A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757, 2°ed. 1759) e le Reflections on the Revolution in France (1790) al fine di indagare sui nodi maggiormente opinabili delle interpretazioni fatte circa gli intrecci fra le «categorie estetologiche di bello e di sublime», nel loro snodarsi, e la visione politico-costituzionale nel pensiero di Burke. Si ridiscutono o si integrano, in un fitto dibattito, le deduzioni di talune letture critiche allo scopo di meglio ridefinire quale sia l’incidenza dell’emozione in ambito politico ed esaminando il caso della Rivoluzione francese il parlamentare whig Burke vede l’autorità politica ridotta a puro «strumento di coercizione».

16Questo quadro sull’emergenza del sentimento è, ovviamente, parziale e, quindi, ben foriero di un moltiplicarsi e ramificarsi di correlazioni e di implicazioni che convalidano una circolazione e conoscenza delle idee, sia pur anche indiretta. Alcuni brevi esempi.

17Si consideri la rilevanza europea assunta dalla natura in binomio con la solitudine. Nell’esordio del secondo Entretien sur le fils natural (Denis Diderot, 1757), il personaggio Dorval in un «endroit […] solitaire et sauvage […] s’était abandonné au spectacle de la nature» e, con «une voix alterée», dichiarava:

Un homme a-t-il reçu du génie? Il quitte la ville et ses abitants. Il aime, selon l’attrait de son cœur, a mêler ses pleurs au cristal d’une fontaine […]; à fuir au fond des forets. Il aime leur horreur. Il erre. Il cherche un antre qui l’inspire.

18I pochi stralci citati suggeriscono un rinvio a Vittorio Alfieri e all’incipit del suo sonetto «Tacito orror di solitaria selva», al secondo verso «Di sì dolce tristezza il cor mi bea» e alla chiusura «Sol nei deserti tacciono i miei guai» (datato 16 agosto 1786). Una legittimazione della solitudine che già il giovane Alfieri aveva manifestato, e poi testimoniato nella Vita (Epoca Terza), al tempo dei tours europei mentre attraversava le «immense selve», i «lagoni crostati» del Nord Europa e i «vasti deserti d’Arragona», sintomatici, soprattutto gli ultimi, di una ricerca della solitudine non vissuta alla stregua di sottile e squisito piacere ma più intensamente come isolamento, come raccoglimento interiore, come necessario rifuggire la presenza altrui ed emblematico, e ancora ignoto, indizio di un futuro di autore:

Disgrazia mia (ma forse fortuna d’altri) che io in quel tempo non avessi nessunissimo mezzo né possibilità oramai di stendere in versi i miei diversi pensieri, ed affetti: ché in quelle solitudini e moto continuato avrei versato un diluvio di rime; infinite essendo le riflessioni malinconiche morali, come le imagini [sic] e terribili, e liete, e miste, e pazze che mi si andavano affacciando alla mente. Ma non possedendo io allora nessuna lingua, e non mi sognando neppure di dovere né potere scrivere nessuna cosa né in prosa né in versi, io mi contentava di ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridire.

19Una ritrosia che rimanda, previo il divario dicotomico per nascita e formazione tra l’italiano e il ginevrino, a un passo della sesta delle Rêveries du promeneur solitaire del non amato (da Alfieri) Rousseau dove si evidenzia l’impulso a rifuggire «la societé civile, où tout est gêne, obligation, devoir». Un’ultima citazione dall’autobiografia alfieriana: sempre all’epoca dei viaggi si situa il ricordo di un «luoghetto graziosissimo», individuato a Marsiglia dove egli era solito bagnarsi verso sera, non scorgendo altro se non «mare e cielo» e «fra quelle immensità» trascorreva «un’ora di delizie fantasticando; e quivi avrei composte molte poe-sie, se io avessi saputo scrivere o in rima o in prosa in una lingua qual si fosse» (Epoca terza). L’episodio è rievocato da Chateaubriand nei suoi Mémoires d’outre-tombe: «Si les Mémoires d’Alfieri eussent été pubbliés en 1803 je n’aurais pas quitté Marseille sans visiter le rocher des bains du poète. Cet homme rude est arrivé une fois au charme de la rêverie et de l’expression».

20Per l’equazione solitudine-natura, c’è da dire che Alfieri non è certo un caso isolato nel panorama italiano. Tra fine Settecento e primo Ottocento, alcuni intellettuali esaltano l’abbandonarsi alla vita solitaria coniugandola in sintonia con la natura e con la contrapposizione città-campagna: Prose e poesie campestri di Ippolito Pindemonte (1795); Piaceri della solitudine, alias il decimo dei Discorsi accademici di Domenico Cirillo (1789-1799) e si può chiudere, pur con un doveroso divario e altrettanti distinguo, con La vita solitaria di Leopardi (1821). Sono dei percorsi segnati dalla ricerca di una elitaria distinzione, di una sorta di isolamento superiore, di un raffinato e salutare rifugiarsi nella natura che si richiama, oltre a Rousseau, non soltanto ai classici (Orazio e Petrarca) ma pure a Parini e a Pope (si ravvisi di Pope la sua precoce Ode to Solitude e, per inciso, la non forse pura casualità del fatto che Alfieri si cimenti nella traduzione del poemetto Windsor Forest, 1790). Comunque, Alfieri è tra coloro che rielaborano nelle forme più complesse il concetto di solitudine, passando dalla giovanile e inconsapevole coscienza letteraria al consapevole impegno tragico e allora tanti personaggi vivranno destini di solitudine spietatamente necessari ed esterneranno unicamente nel soliloquio le loro passioni inconfessabili.

21Nel Parere dell’Autore sulle presenti tragedie, non esita a disapprovare i soggetti privi di «contrasti di passione», come i concernenti la tragedia Maria Stuarda tanto da ritenere la protagonista «una donnuccia non mossa da passione forte nessuna; non ha carattere suo, né sublime». Alfieri non si perita di invalidare personaggi pur sublimi di per sé come Scipione (della Sofonisba) che, se pur contrassegnato dall’amicizia «caldissima per Massinissa», non è mosso da alcuna altra «calda passione». Il lemma ‘passione’ è una delle cifre delle figurazioni alfieriane e se ne ha conferma dallo stesso autore, leggendo un passaggio della sua Risposta a Ranieri de’ Calzabigi al punto in cui, motivando le proprie scelte di stile, redige una lista delle «tragiche passioni»: «l’ira, il furore, la gelosia, l’ambizione, la libertà, la vendetta e tant’altre». Egualmente caratterizzante il lemma ‘sublime’: non solamente ricorre nel Parere ma si squalifica «parola-chiave del pensiero alfieriano» (vedi Arnaldo Di Benedetto) e Alessandro Verri, uno dei primi lettori e spettatori del teatro, lo usa scrivendone al fratello Pietro: «il suo talento principale è il sublime e l’orrido» (lettera del 26 settembre 1781). E ancora (lettera del 30 novembre 1782) dopo aver assistito alla recita dell’Antigone:

Questi giorni sono nel maggior entusiasmo tragico. Il Conte Alfieri, di cui si parlava molto da vari anni, ora finalmente ha rappresentato una sua tragedia a questo Palazzo di Spagna, la quale fa strepito ed è generalmente ammirata […]; l’interesse è sostenuto e l’effetto sommo. L’elocuzione è bellissima, i concetti sono sublimi.

22Certamente per l’emergere del sentimento un fecondo terreno di sviluppo e di osservazione è offerto dalla pratica drammaturgica quando si attua una svolta nell’iter storico-strutturale della tragedia (e dei generi teatrali in generale) e compaiono delle nuove sensibilità volte a favorire le affezioni e i valori personali dei vincoli sentimentali, in particolare per quanto attiene ai personaggi femminili, Se Alfieri ne è stato – fors’anche malgré lui – un anticipatore per alcune figurazioni, nel passaggio tra i due secoli queste dinamiche sono riscontrabili in tragedie di autori ben conosciuti.

23Pochi nomi di autori e di protagoniste, e relativi testi. Francesco Saverio Salfi con Sgomburga della Virginia bresciana (1797); Giovanni Pindemonte con Eufrasia dell’Orso Ipato (1797) e Vincenzo Monti con Licinia del Caio Gracco (1802). Sono eroine che piangono, che svengono e che spesso si abbandonano a una più famigliare e privata mozione degli affetti.

24E proseguendo il percorso negli anni ci si avvierà verso una sensiblerie che tenderà a ideare una donna ormai disgiunta dalla esemplarità di parti sublimi e predisposta a scendere a più modesti patti con la realtà quotidiana: ma qui si aprirebbero tutt’altri sipari.

Bibliographie

Arnaldo Di Benedetto, Alfieri e le passioni, in Id., Le passioni e il limite. Un’interpretazione di Vittorio Alfieri, Napoli, Liguori 1994, nuova edizione riveduta e accresciuta (in particolare le pp. 38-48).

Marco Cerruti, Solitari e solitudini, in Id., Il piacere di pensare. Solitudini. Rare amicizie. Corrispondenze intorno al 1800, Modena, Mucchi Editore 2000.

Silvia Contarini, Alfieri e il sublime dell’origine, in Metamorfosi dei Lumi. Esperienze dell’io e creazione letteraria tra Sette e Ottocento, a cura di Simone Carpentari Messina, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2000.

Marco Menin, Il fascino dell’emozione, Bologna, Il Mulino 2019.

Marco Menin, La filosofia delle lacrime. Il pianto nella cultura francese da Cartesio a Sade, Bologna, Il Mulino 2019.

Paola Trivero, Eroine solitarie e donne sensibili, in Metamorfosi dei Lumi. Esperienze dell’io e creazione letteraria, cit.

Paola Trivero, Solitudini alfieriane, in Ead., Percorsi alfieriani, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2014.

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