Memorie e contro-memorie della Grande Guerra tra sfera pubblica e sfera privata
p. 299-317
Texte intégral
Le “sacre memorie”
1Dapprima, e per lungo tempo, è solo il ceto borghese medio-alto a raccontarsi pubblicamente, a ricordare i propri figli caduti nel corso del conflitto e a richiamarli in vita attraverso l’edizione delle loro scritture private. Se la commemorazione dei singoli giovani ufficiali caduti ha già inizio durante la guerra, è negli anni immediatamente successivi che essa prende corpo attraverso centinaia di opuscoli curati dai famigliari che alimentano un culto che si situa, come scrive Oliver Janz, «nel punto di intersezione tra sfera pubblica e privata, a metà strada tra lutto individuale e significazione patriottica, tra famiglia e nazione, superamento esistenziale della crisi e strumentalizzazione politica»1. Accanto a profili biografici, elogi funebri, testi commemorativi di amici e congiunti, in molti casi gli opuscoli pubblicano anche una scelta di lettere del caduto indirizzate ai genitori, ai fratelli o agli amici più intimi, offrendo nell’insieme un primo grande corpus epistolare con funzioni celebrative e testamentarie. Le lettere dei defunti sono chiamate a testimoniare la morte come «sacrificio consapevole se non addirittura gioioso», «eroica vittoria su se stessi», «dedizione», espressione di più alta moralità2.
2In alcuni casi gli opuscoli si trasformano in veri e propri volumi con le lettere e i diari dei caduti: notissime le raccolte epistolari di Giuseppe ed Eugenio Garrone3, di Gualtiero Castellini4, di Giosuè Borsi5, di Ferruccio ed Enrico Salvioni, dedicata questa ai giovani d’Italia («La voce che sale dalle tombe vi ammonisca sempre che i morti della nostra santa guerra non debbono essere morti invano. La luce ideale del loro sacrificio illumini a voi le vie della vita»)6.
3Le lettere ai famigliari, numerose, sempre formali e non prive di una certa letterarietà, erano ricche di descrizioni e di riflessioni sull’esperienza di guerra (erano tutti giovani che amavano scrivere e parlare di sé) e si prestavano senza difficoltà ad una lettura pubblica, quando non erano già all’origine pensate e composte per la pubblicazione, come nel caso di Giosuè Borsi. Benché indirizzate ai familiari (ma ci sarebbe da dire molto sulla costruzione dell’intimità borghese7), tali lettere diventano i materiali costitutivi delle memorie pubbliche della Grande Guerra. Ci riferiamo alle due più significative raccolte degli anni Trenta, veri “monumenti” epistolari: Momenti della vita di guerra di Adolfo Omodeo8 e Lettere di combattenti italiani nella Grande Guerra di Antonio Monti9.
4Per quanto diversi tra loro (per impostazione ideologica e qualità narrative) questi monumenti “di carta” eretti a fini celebrativi mettono soprattutto in scena un’inquietante, ossessiva passione per la morte: la guerra considerata “vera vita”, piena realizzazione dell’esistenza, diventa occasione per una morte che può dare un senso alla vita stessa10.
5A queste raccolte si aggiungono i volumi monumentali provenienti dalle regioni “redente”, i ritratti, le testimonianze, le lettere dei volontari trentini e giuliani nell’esercito italiano, gli “Atti dei martiri”. Già i titoli sono parlanti: Martiri ed Eroi Trentini della guerra di Redenzione, La sacra falange dei Giuliani, Epopea di eroi, Pagine gloriose, Documenti di gloria, Lettere di volontà e di passione11. Sono «libri sacri», come non manca di scrivere Carlo Delcroix, introducendo il volume sui caduti trentini, libri da «leggere in ginocchio», perché «gronda[no] sangue e spand[ono] luce da ogni pagina»12. È una “memoria sacra” quella che s’impone negli anni Venti e Trenta, rivelando una sovrapposizione inestricabile tra la simbologia e la semantica del Cattolicesimo e le cerimonie e il lessico della religione della patria (le cerimonie del Milite Ignoto sono da questo punto di vista esemplari)13.
6In questa sacralizzazione della guerra il contributo del clero, dei parroci ed ex cappellani militari, degli intellettuali militanti e dei laici di Azione cattolica, è rilevantissimo. Gli ex cappellani, in particolare, diventano l’anima delle cerimonie commemorative dei caduti. Anche i sacerdoti meno inclini al nazionalismo si fanno infaticabili custodi della “memoria sacra” della guerra: si pensi a figure come don Giovanni Minzoni e don Primo Mazzolari. Il gesto della benedizione – scrive appunto don Mazzolari –, si tratti della benedizione della bandiera, del vessillo degli ex combattenti o del monumento ai caduti, «mette in luce il divino che c’è nell’idea di patria»14.
7Tutta la memorialistica dei cappellani militari, le narrazioni popolari diffuse attraverso le reti parrocchiali, che non escludono tuttavia quali destinatarie le organizzazioni giovanili del regime, non sono che “una storia sacra” della Grande Guerra, la storia di un “esercito crociato”. Persino una battaglia insensata come quella dell’Ortigara (una battaglia «che non avrebbe dovuto essere combattuta»15), chiusa il 29 giugno 1917 con un completo insuccesso e 28.000 perdite, viene raccontata dal cappellano degli alpini Luigi Sbaragli come «la tremenda notte del nostro Getsemani»16, e più oltre come un biblico atto di «immolazione»17. Non c’è posto per alcuno scoramento nella sua visione provvidenziale: «Non è una disfatta, è un sacrificio. Non è una tomba, è un altare. Non è una morte, è un’esuberanza di vita che cediamo all’Italia»18. E ancora: quello che per il Touring Club sono escursioni ai campi di battaglia, per gli scout cattolici (finché non verranno sciolti), per le giovinette volontarie di Antonietta Giacomelli, per gli “oratoriani” e i giovani di azione cattolica, per le maestre cattoliche e le zelatrici parrocchiali, diventano pellegrinaggi ai “luoghi santi”. Ricordando ogni volta il «lato consolante» della guerra, che fu occasione di elevazione morale, di ritorno alla fede, di riscoperta delle virtù del sacrificio19.
8Negli anni Trenta, nel clima della militarizzazione giovanile voluta dal Regime, la Gioventù di Azione cattolica riprende in modo sistematico il culto dei “soldati santi” attivato già durante il conflitto. Fra i suoi iscritti poteva vantare circa diecimila morti, 17 medaglie d’oro (fra cui erano annoverati anche il “martire” Damiano Chiesa e “l’eroe” Enrico Toti), 703 d’argento, 82 di bronzo, 267 croci al merito20. I campioni del patriottismo cattolico sono, nella prosa dell’ordinario militare mons. Angelo Bartolomasi, gli «aureolati», eroi autentici, agnelli e insieme leoni: agnelli «per purezza di costumi e di fede, per delicato sentire, per mitezza cristiana in famiglia, con i colleghi di scuola e di armi, con i soldati sui campi di battaglia»; leoni, «per fortezza d’animo, per coraggio indomito, e per audacia, non spavalda, ma eroica, di fronte al nemico»21. In sostanza, come scrive Luigi Gedda, che della Gioventù cattolica era il presidente, i “soldati santi” morirono «per un’Italia più grande e più pura»22.
Contro-memorie politiche
9Per qualche anno la “memoria sacra” della Grande Guerra non è l’unica e non è irresistibile. Le conclusioni dell’inchiesta su Caporetto innescano sulla stampa nazionale, appena sollevata dalla censura, un dibattito vivacissimo sulla condotta della guerra. E per la prima volta lo si fa liberamente senza timori o complicità.
10A partire dal 27 luglio 1919 l’«Avanti!», il quotidiano del partito socialista, dà corpo ad una complessiva ed esplicita contro-memoria della guerra: trasforma l’inchiesta ufficiale su Caporetto in un processo generale contro la guerra, sollecitando ad intervenire reduci e testimoni. È un’ondata di antimilitarismo di massa.
Dopo anni di censura, di trincea, di forzata adesione ad un conflitto esecrato, centinaia e migliaia di reduci prendono la penna e scrivono la loro protesta, raccontando le loro dolorose esperienze, le prepotenze subite, i massacri cui hanno assistito, gli innumerevoli episodi di violenza, di inganno e di morte. E l’«Avanti!» sollecita e pubblica queste lettere e le inquadra con titoli frementi.23
11Quello che sulle pagine del quotidiano giorno dopo giorno prende consistenza è un racconto collettivo e drammatico. Scrive il 3 agosto il direttore dell’«Avanti!», Giacinto Menotti Serrati, riassumendo il carattere della campagna socialista così come si stava prefigurando:
Il nostro tavolo è colmo di lettere di civili e di militari che ci spronano a continuare, che ci raccontano episodi, che ci danno documenti della bestiale insipienza, della matta bestialità con cui s’è condotta la guerra. Da queste pagine, scritte da cento mani, da uomini i più diversi, la verità su Caporetto balza fuori in tutta la sua luce. Altro che i disfattisti, altro che i senza patria. Devono andare sul banco dei rei tutti i ministri d’Italia che hanno deciso, tutti i generali del re che hanno condotto la guerra. Vi sono pagine di vergogna che il Piave non può cancellare: pagine di abbominio e di infamia. Devono essere lette in pubblico. E devono giudicarne le madri, le spose, gli orfani dei cinquecentomila morti.24
12Compaiono le prime accuse al generale Luigi Cadorna, sono riprodotte le circolari con cui ordinava, in caso di insubordinazione da parte dei soldati, drastiche misure disciplinari, si lascia spazio alle testimonianze di vessazioni. Sotto accusa finisce anche il generale Andrea Graziani, che il 2 novembre 1917 era stato nominato da Cadorna «ispettore generale del movimento di sgombro» e in quella veste, coadiuvato da carabinieri e reparti di cavalleria, aveva intrapreso una caccia spietata agli sbandati, reprimendo con la morte anche piccoli atti di insubordinazione25.
13Appaiono le testimonianze relative all’ammutinamento della Brigata Catanzaro, che si verificò la notte tra il 15 e il 16 luglio 1917, a Santa Maria la Longa dove era stata acquartierata a partire dal 25 giugno (28 soldati furono fucilati)26.
14Tutte insieme, le decine e decine di episodi di grandi e piccole violenze, le inchieste del giornale, le centinaia di lettere di denuncia, spesso faticose e incerte, vanno a comporre il quadro del «militarismo capitalistico», una complessiva contro-narrazione della guerra. Accanto alle lettere e alle testimonianze dei reduci, nell’estate del 1919 l’«Avanti!» ospita anche le pagine apertamente polemiche della prima letteratura di guerra, quella più aderente ai fatti, più diaristica, più lontana dalla propaganda. Sono le prime edizioni dei volumi di Valentino Coda27, Attilio Frescura28, Mario Mariani29, che troveranno poi l’oblio o adattamenti, potature, censure e autocensure. E poi nel 1921 la stampa socialista accoglierà come «un urlo di giustizia» La rivolta dei santi maledetti di Kurt Erich Suckert (non ancora trasformatosi in Curzio Malaparte)30.
15Al racconto nazionale, in gran parte d’impronta autobiografica, opera di scrittori che furono interventisti, che in guerra spesso ci andarono come volontari e con i gradi di ufficiale, i socialisti oppongono uno sguardo più ampio, perfino letterariamente più complesso, che va al di là dei confini, sospinto da una passione internazionalista che non è solo progetto politico, ma una più generale visione del mondo. Già nel 1916 la Società Editrice «Avanti!» aveva tradotto e pubblicato il volumetto di Romain Rolland, Al di sopra della mischia31: ristampato nel dopoguerra era entrato a far parte della serie di autori stranieri della casa editrice socialista. Nei primi anni Venti vengono pubblicate le due opere forse più radicali, più antimilitariste della letteratura europea, Uomini in guerra di Andreas Latzko e L’uomo è buono di Leonhard Frank32, mentre articoli di Henri Barbusse appaiono su «L’Ordine Nuovo» e le pagine più comprensibili al largo pubblico socialista, più autonome, più parlanti de Il Fuoco33 sono riprodotte sui periodici «Compagni» e «La Difesa delle Lavoratrici». La contro-memoria socialista vuole essere complessiva fino a spingersi a contrapporre alle patriottiche associazioni dei reduci una propria lega antimilitarista, la «Lega proletaria mutilati invalidi reduci orfani e vedove di guerra» che aveva come motto l’assai esplicito «Disonoriamo la guerra»34.
16Ai monumenti, agli obelischi, alle colonne mozze, ai cippi sormontati da fanti in armi o da vittorie alate, ai guerrieri morenti stringenti al petto il tricolore, i socialisti oppongono il “controcanto” di lapidi modestissime che contestano il cuore stesso del messaggio ufficiale: i soldati non sono “caduti”, non si sono “immolati” per la Patria, non hanno fatto “sacrificio” delle loro vite, la loro morte non è stata “donata”. Al contrario i soldati morirono «imprecando / straziati e recisi / da tutte le mitraglie / spenti senza sorrisi e senza lacrime»35. «Morirono / per avidità di regnanti / per gelosia di potenti»36. La guerra, nel lessico delle lapidi socialiste, è sempre «voragine», «fratricidio», «flagello».
17Dalle ricerche ormai solo d’archivio emerge una larga e inaspettata «geografia del dissenso»37 che tenta di tingere di rosso le piazze d’Italia. Se delle lapidi socialiste non è rimasta traccia nelle piazze, nei cimiteri e sugli edifici pubblici è perché contro di loro si scatenerà dapprima la forza burocratica delle prefetture e poi quella squadrista dei fascisti.
Amnesie, travestimenti, continuità
18La contro-memoria socialista non resisterà all’assalto del movimento fascista e poi del regime, ma neppure alle trasformazioni interne del partito (si pensi alla leadership di Pietro Nenni, acceso interventista e “intervenuto” nel corso del conflitto) né all’amnesia dominante sul tema della Grande Guerra, che condurrà le sinistre (anche il PCI dunque), nell’epoca della guerra fredda, a competere con la Democrazia Cristiana anche sul terreno dell’affidabilità patriottica. Adottando lo slogan «De Gasperi l’austriaco»38, comunisti e socialisti si presentano come gli eredi dello spirito patriottico che animò prima gli interventisti e poi l’esercito: «il nostro esercito – ebbe a dire Gian Carlo Pajetta nel 1953 – [che] aveva raccolto nella guerra 1914-’18 un suo onore, una sua gloria militare; aveva saputo resistere, sopportare dure lotte e anche sconfitte. Aveva saputo riprendersi e vincere. […] L’onore militare per il proprio Paese è un bene di tutti i cittadini»39.
19Socialisti e comunisti condividono dunque la narrazione ufficiale di una guerra «di liberazione nazionale, giusta perché rivendica giusti confini, e quindi alla fin fine difensiva»40. Una visione consacrata, come si sa, dalla legge 260 del 27 maggio 1949 che confermava il 4 novembre come festa nazionale, ora non più come Festa della Vittoria, bensì come Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze armate41. Per il resto tutto si svolge all’insegna della continuità. Certo, il patriottismo della nuova classe politica cattolica, e di De Gasperi in particolare, non può essere muscolare (come quello di Pacciardi, per intenderci), né basato solo sull’eroismo, quanto piuttosto sui dolori e sulle disgrazie della patria (è dunque, come si è scritto, un «patriottismo espiativo»42). Dopo di che ritualità e mitografie, a partire da quel simbolo così «sentimentale» del Milite Ignoto (la definizione è di Giacomo Matteotti43) continuano a caratterizzare la memoria pubblica anche nel secondo dopoguerra. Così come i sacrari militari voluti negli anni Trenta dal regime fascista, “santuari” della religione politica del regime, monumenti all’obbedienza e alla morte disciplinata e gregaria, continuano anche al tempo della Repubblica e della democrazia ad offrirsi come ribalte privilegiate delle commemorazioni ufficiali e delle adunate di massa delle associazioni combattentistiche.
Contro-memorie di classe
20Nei primi anni Sessanta, ridare voce (e dunque protagonismo storico) alle classi popolari e subalterne diventa l’obiettivo di ricercatori non accademici, militanti politici, organizzatori di cultura, lontani da scuole romantiche e positiviste. Sono Roberto Leydi, Gianni Bosio, Cesare Bermani e Il Nuovo Canzoniere Italiano; il gruppo torinese di Cantacronache (Sergio Liberovici, Emilio Jona, Lionello Gennero, Michele Straniero) e altri gruppi minori che alla ricerca sul campo aggiungono l’immediata divulgazione.
21Rispetto al tema della guerra, ciò che Bosio e compagni cercano di recuperare alla memoria è il dissenso popolare, i gesti di disubbidienza e di ribellione, intendendo rovesciare l’immagine di quel popolo obbediente, paziente e buono tramandato dalla letteratura, dalla memoria di guerra, dalla mitologia alpina e dai cori di montagna. E dunque dapprima torna alla luce quel vasto repertorio di canzoni di carattere protestatario e antimilitarista che, censurato durante il conflitto e rimosso durante il regime, esprimeva una radicale sovversione dei valori. Riprendendo arie di canzonette in voga o moduli tipici dei cantastorie, le canzoni “disfattiste” ripercorrevano i luoghi reali e simbolici della guerra, dileggiavano il Re, il governo, i generali, sovvertivano la retorica celebrativa, maledivano gli interventisti. È in questa prima ampia ricerca, condotta soprattutto in Lombardia e in Piemonte, che emerge uno dei canti antimilitaristi più famosi, O Gorizia tu sei maledetta, dove lo sfregio alla città-simbolo si caricava di una volontà eversiva44. La canzone provoca il racconto dell’esperienza in guerra e mette in luce l’animo in rivolta del popolo-soldato45. Le lunghe fabulazioni di Belòchio raccolte da Gianni Bosio ad Acquanegra sul Chiese, tornano e ritornano sulla coercizione del sistema militare46. I canti e i racconti resi noti, in modo militante, dal Nuovo Canzoniere Italiano, se non riescono ad erodere l’egemonia canora e ideologica dei cori della montagna e del repertorio alpino, recuperano a favore di un pubblico di sinistra la memoria di un’opposizione diffusa. Le solenni note di copertina stese nel 1966 per Addio padre da Gianni Bosio ricordano che
gli orrori e le stragi, le carneficine, le fucilazioni, le decimazioni compongono un quadro sul quale non si può più pensare di speculare se non per parlare della loro mostruosità, disumanità, inutilità, se non per servire a bloccare il mostro della guerra. Non sono mancate né mancano le testimonianze di chi subì la guerra. Le memorie e le fabulazioni di costoro percorrono l’Italia da cinquant’anni a questa parte. Esse tuttavia non sono state adoperate per comporre un quadro della guerra vista dall’altra parte, dalla parte di coloro che non vollero la guerra e la fecero, non vollero la morte e l’ebbero, non vollero le ferite e ne furono straziati, non conoscevano i gas e furono gassificati, non erano colpevoli e furono fucilati.47
Memorie delle gente comune
22Se nel decennio successivo si inizierà a comporre quel quadro della condizione del popolo in guerra auspicato da Gianni Bosio, non sarà tuttavia la storia orale a farlo, anche se in più occasioni il ricordo della Grande Guerra, a più di mezzo secolo di distanza, irrompe nelle ricerche di Nuto Revelli condotte nel Cuneese con una urgenza ossessiva e dolorosa, come una ferita o una malattia48.
23Effetti più fecondi e duraturi ebbe, al contrario, la scoperta all’inizio degli anni Ottanta dell’esistenza in pochi archivi pubblici, ma in innumerevoli archivi familiari, di un rilevantissimo patrimonio di scritture popolari: lettere, diari e memorie stesi in tempi diversi da migliaia di soldati comuni. È la natura traumatica degli eventi “separatori” (le guerre, le prigionie, il profugato) – si scrisse – a porre una drammatica esigenza di scrittura e a conferire ad essa un’impronta particolare49. Nella condizione del soldato, in particolare, connotata da precarietà ed estraniazione, la scrittura concorre a ricomporre gli elementi di un’identità fortemente minacciata: «Un’identità minacciata che si reintegra e si ricostituisce (ma anche che si forma e si diversifica) nel momento in cui scrive»50. In altre parole agli storici veniva offerta l’opportunità di osservare il costituirsi dell’io o degli io popolari, nonché le forme, i luoghi di questo compimento. In un contesto culturale e storiografico profondamente mutato, non ci si poneva l’obiettivo di realizzare un’alternativa storia dei subalterni, anzi si invocava un uso rigoroso dei testi popolari fuori e contro «l’entusiamo neo-populistico per una storia più vicina agli umili». Quello che interessa, scriveva nel 1989 Antonio Gibelli, non è
l’ingenua illusione di trovare le testimonianze incontaminate della storia dei subalterni, quanto la riscoperta della dimensione di soggettività nella storia, antidoto contro la sua persistente reificazione: la riscoperta insomma, anche per questa via, del fatto che la storia si riverbera e si moltiplica nella varietà dei percorsi individuali e collettivi, antropologici e mentali, di milioni di uomini comuni, e che senza tener conto di questa dimensione la nostra cognizione può essere mutila, atrofizzata e priva di vita.51
24Non c’è dubbio, tuttavia, che le ricerche e le raccolte epistolari portarono poi a illuminare anche le manifestazioni di dissenso, un insieme di discorsi che Giovanna Procacci ha definito come una «rivolta morale» dei soldati comuni52. Perché alle lettere colme di struggente nostalgia per la casa e il paese, piene di raccomandazioni e preghiere, di addii e testamenti, si affiancarono, fin dall’inizio della guerra, lettere che esprimevano, oltre lo sbigottimento e il terrore, anche un crescente rancore rivolto sia contro la casta degli ufficiali, sia più genericamente, verso chi aveva voluto la guerra, la classe dirigente, i politici, la stampa.
25Fu, tuttavia, come aprire il vaso di Pandora: fuori dai circuiti “ben intenzionati” degli storici, una incontrollabile galassia di memorie, diari, lettere, incominciò a diffondersi in edizioni spesso scorrette o superficiali. I curatori sono ora le associazioni culturali, le sezioni locali degli alpini e i giornalisti, in tempi più recenti. Di nuovo le corrispondenze familiari (parte di una comunicazione intima, e qui l’intimità è di ben altra natura) diventano immediata lettura pubblica, opinione comune, memoria collettiva, monumento locale. Certo non sono più intese come memorie da «leggersi in ginocchio», anzi la loro “ordinarietà” è ora apprezzata e rimanda all’affettuoso, ma banale se non neo-populista, immaginario della “guerra dei nostri nonni”.
26Le iniziative, in particolare, dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo), benemerito luogo di raccolta di migliaia di documenti autobiografici, sono entrate, tramite il Gruppo Editoriale L’Espresso, in un circuito mediatico che ha indirizzato le memorie di guerra verso un potenziale consumo di massa: volumi antologici venduti in edicola, pagine settimanali dei quotidiani legati al Gruppo dedicate alle “voci” dei soldati, la realizzazione di una banca dati digitale53.
27La regìa dell’intera operazione si ispira ad alcune convinzioni che possiamo leggere nell’introduzione al primo dei quattro volumi de «L’Espresso», a firma di Nicola Maranesi. A cento anni di distanza, afferma il curatore, si sono create le condizioni per affidare il racconto della Grande Guerra direttamente, senza mediazioni, a chi in guerra c’era stato, aveva combattuto e sofferto. Sono loro, i soldati, gli ufficiali, i civili che avevano popolato la zona di guerra, loro, «gli instancabili cronisti», ad avere «più di ogni altro […] il diritto di raccontarla»54. È il diritto dei «testimoni oculari», di «chi c’era», si ribadisce nel quarto volume55. Ecco dunque che da originali «oggetti storici», documenti da studiare, le testimonianze scritte dai soldati si ergono, come paventava Mario Isnenghi quasi trent’anni fa, a «soggetti storiografici»56. La messa fuori gioco degli storici è netta e definitiva57.
28Ad aggravare l’operazione si aggiunge il rifiuto di ogni cura filologica che arriva a negare ogni distinzione tra le annotazioni diaristiche e quelle memorialistiche, come se nell’atto della scrittura il tempo fosse ininfluente. Al contrario, come ben sappiamo, anche i memorialisti popolari tendono a raccontare non solo ciò che ricordano, ma anche ciò che sanno, ciò che hanno imparato nel lungo lasso di tempo intercorso tra gli eventi e la scrittura, ciò che hanno letto e sentito. Perché, come afferma Ricoeur, «non ci si ricorda da soli, ma con l’aiuto dei ricordi altrui» e soprattutto «i nostri ricordi sono inquadrati in racconti collettivi, essi stessi rafforzati da commemorazioni, celebrazioni pubbliche di eventi rilevanti»58. Il rifiuto della distinzione porta poi ad accomunare tutti i testimoni: ufficiali di carriera e soldati semplici, volontari, «arditi» e disertori potenziali, tutti sono testimoni altrettanto affidabili, tutti sono frazionisti «di una lunga staffetta narrativa»59. La diversità, scrive Manaresi, è solo apparente: da quella del tenente colonnello a quella dell’ultimo fante di trincea, sono tutte voci di combattenti, voci di vittime, rese omogenee dal dolore, rese simili dalla sofferenza. I loro sono racconti che «si uniformano sempre di più, fino ad apparire a noi che li leggiamo a distanza di tempo un’unica voce narrante»60.
29Scomparse le classi sociali, la politica e i suoi partiti, il dissenso e il consenso alla guerra, la propaganda, la conflittualità, la gerarchia militare e la subalternità di massa, scomparsa in una parola la “storia”, nell’operazione Archivio / «L’Espresso» rimane, come basso continuo, una generica compassione per la dimensione umana del popolo soldato. Meglio, rubando le parole ad una riflessione di Nicola Labanca di qualche anno fa, «rimane una generale, generica, vaga, imprecisa, sempre meno informata, persino vittimistica, compassione nei confronti degli italiani di un secolo fa»61.
Contro-memorie nazionali
30Da questa complessiva scoperta delle scritture popolari emergono negli anni Ottanta anche le contro-memorie (contro-memorie nazionali) dei Trentini, dei Sudtirolesi, dei Giuliani. A Trento, come a Trieste, le piccole agende, le memorie di più ampio respiro, gli epistolari familiari, le raccolte di canzoni vengono a raccontare una guerra diversa da quella combattuta sul Carso e sui monti di Trento. I nomi di lontane località polacche e russe rimandano alle pianure galiziane, ai monti Carpazi, al fronte orientale dove anche gli italiani d’Austria erano stati chiamati a contrastare i reparti russi; e poi ai tanti luoghi della prigionia che si estendono lungo la ferrovia transiberiana fino a raggiungere le regioni più estreme dell’Asia. Insomma, quelle povere agende consunte, scritte a matita copiativa, portavano alla luce la memoria di esperienze di guerra e di prigionia, largamente dimenticate dopo l’annessione del Trentino e del Litorale all’Italia62. Nel clima nazionalistico del dopoguerra venne subito rimosso il fatto che più di centomila “italiani” avevano combattuto “dalla parte sbagliata” ovvero con la divisa austriaca, e “contro” di loro la nuova classe dirigente volle ricordare e celebrare piuttosto le vite, e le tragiche morti, di coloro che scelsero volontariamente di combattere con l’esercito italiano63.
31Così la memoria dei sanguinosi combattimenti galiziani come delle lunghe e durissime prigionie in Russia e in Siberia s’inabissò, rimase confinata nello spazio della narrazione orale, nel mormorìo diffuso, o visse nell’immaginario familiare scolorendosi a poco a poco. Toccava dunque ad una nuova generazione di storici trasformare il “mormorìo” in narrazione, riconsegnare alla storia e alla memoria pubblica i combattenti del 1914. Si è trattato di un’importante operazione storiografica, che possedeva anche un’indubbia dimensione etica. Ma per una sorta di eterogenesi dei fini, tutto ciò ha favorito nell’opinione pubblica trentina e, in parte anche giuliana, una deriva nostalgica. In Trentino in particolare, le associazioni locali degli Schützen hanno dato vita ad una semplificata e nazionalista mitologia combattentistica: una uniforme e scolorita immagine di una generazione di “nonni”, tutti fedeli all’Imperatore, tutti patrioti, tutti difensori del Tirolo fin nelle estreme pianure galiziane64.
32In questa mitografia dei nonni, in definitiva, sia nella versione italiana, sia in quella filotirolese o filoasburgica, il discorso storico cede il passo ad una nuova memoria pubblica, e come ben sappiamo, nei territori della memoria gli storici sono ospiti indesiderati.
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Notes de bas de page
1 O. Janz, Monumenti di carta. Le pubblicazioni in memoria dei caduti della prima guerra mondiale, in Dolci-Janz (2003), pp. 11-44 (14). La bibliografia conta 2.300 opuscoli in memoria di 1.500 defunti: l’82% ufficiali, il 3% sottufficiali, il 14% soldati semplici (che però non provengono da ceti inferiori); più del 95% dei caduti appartiene ai ceti medio-alti e dispone di un titolo di studio superiore. Di Janz si veda anche il saggio Lutto, famiglia e nazione nel culto dei caduti della prima guerra mondiale in Italia, in Janz-Klinkhammer (2008), pp. 63-79.
2 O. Janz, Monumenti di carta cit., pp. 30-31.
3 Garrone (1919).
4 Castellini (1919), Castellini (1921).
5 Borsi (1919), Borsi (1931).
6 Salvioni (1918).
7 Cfr. Papadia (2013), Antonelli (2014).
8 Omodeo (1934).
9 Monti (1935).
10 D’Orsi (2005), p. 22.
11 Ferrari (1926), Streinz-Sereni (1928), Tasso (1928), Tasso (1929), Rizzi (1932).
12 C. Delcroix, Prefazione, in Ferrari (1926), pp. V-VIII.
13 Si veda Antonelli (2018), pp. 42-47.
14 Mazzolari (1974), p. 765. Si veda anche G. Minighin, Don Primo Mazzolari e le guerre fasciste, in «Studi storici», 4, 2004, pp. 1035-1111 (1039).
15 Isnenghi-Rochat (2008), p. 211.
16 Sbaragli (1928), p. 61.
17 Ivi, p. 86.
18 Ivi, p. 63.
19 Si rinvia a Antonelli (2018): si veda in particolare il paragrafo dedicato ai Pellegrinaggi di giovani donne, alle pp. 157-69.
20 Piva (2015), p. 144; Ceci (2013), pp. 175-82.
21 A. Bartolomasi, Prefazione, in Ederle (1934), p. 6. Il testo introduttivo dell’ordinario militare era anche il viatico per l’intera collana intitolata a «San Giorgio»: edita dalla casa editrice della Gioventù cattolica, era dedicata ai giovani cattolici caduti nel corso del Primo conflitto mondiale, distintisi per una condotta di vita ardita e nel contempo illibata.
22 L. Gedda, Prefazione, in Badano (1935), p. 5.
23 Rochat (1967), p. 80. Nel corso del 1919 il consumo di carta del quotidiano sale da duemila a diecimila quintali al trimestre, mentre “voci correnti” danno a 300.000 copie la diffusione quotidiana. A. Giobbio, L’«Avanti!» (1919-1926), in Vigezzi (1965), pp. 605-705 (633).
24 G.M. Serrati, Caporetto, in «Avanti!», 3 agosto 1919.
25 Melograni (1977), vol. II, p. 446.
26 (s.a.), Soldati che si ribellano e sono fucilati a Santa Maria La Longa, in «Avanti!», 14 agosto 1919.
27 V. Coda, Caporetto, in «Avanti!», 11 agosto 1919. Cfr. Coda (1919), Isnenghi (1967), pp. 140-51.
28 A. Frescura, Dal diario di un imboscato, in «Avanti!», 14 agosto 1919. Il diario uscirà alla fine del 1919 per i tipi dell’editore Galla di Vicenza.
29 M. Mariani, Soldati vigliacchi o generali imbecilli?, in «Avanti!», 11 settembre 1919.
30 (s.a.) Il fante, in «La Difesa delle Lavoratrici», 16 luglio 1921.
31 Rolland (1916).
32 Latzko (1921), Frank (1922). Di grande interesse le riflessioni sull’opera di Latzko che apparvero su «L’Ordine Nuovo» del 27 marzo 1920, a firma di Stefan Zweig e Marcel Martinet.
33 Barbusse (1918).
34 Isola (1990).
35 Ivi, p. 170.
36 Ivi, p. 175.
37 L’espressione è di Isnenghi (1994), p. 255.
38 G. Santomassimo, La memoria pubblica dell’antifascismo, in «Italia contemporanea», 225, 2001, pp. 549-72 (551).
39 Montaldi (1976), p. 308.
40 M. Isnenghi, Un preambolo, in Isnenghi-Pozzato (2018), p. 10.
41 Q. Antonelli, 4 novembre. Fine della Prima guerra mondiale, in Portelli (2017), pp. 281-93.
42 Schwarz (2010), p. 252.
43 Così scrive Giacomo Matteotti in una lettera indirizzata a Filippo Turati il 20 ottobre 1923: Matteotti (2012), p. 179.
44 Proprio a causa di Gorizia cantata nel 1964 a Spoleto nell’ambito del Festival dei Due Mondi, Il Nuovo Canzoniere Italiano verrà denunciato per vilipendio delle forze armate. Sull’attivita dell’N.C.I. cfr. Per una storia de Il Nuovo Canzoniere Italiano 1962-1976, in «Il Nuovo Canzoniere italiano», terza serie, n. 3, 1976. Sul repertorio antimilitarista si rinvia a Bermani-De Palma (2015) e più recentemente a Castelli-Jona-Lovatto (2018).
45 Bermani (1970), pp. 47-51.
46 Bosio (1981), pp. 43-56.
47 Le note di copertina si possono leggere anche in Bosio (1975), pp. 160-62.
48 Revelli (1977).
49 E. Franzina, L’epistolografia popolare e i suoi usi, in «Materiali di lavoro», nuova serie, 1-2, 1987, pp. 21-76.
50 M. Isnenghi, Intervento di discussione, in «Materiali di lavoro», nuova serie, 1-2, 1987, pp. 195-206 (199).
51 A. Gibelli, Perché la scrittura. A un anno dal seminario di Rovereto, in «Movimento operaio e socialista», n. 1-2, 1989, pp. 5-8 (7).
52 Procacci (2000), pp. 80-83.
53 N. Maranesi, La Grande Guerra, i diari raccontano: un progetto editorale in collaborazione tra Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e Gruppo Espresso, in Caffarena-Murzilli (2018), pp. 609-21.
54 N. Maranesi, 1915. Tutti in prima linea, in P. V. Buffa-N. Maranesi (a cura di), Cronache dal fronte 1915, «L’Espresso», Roma 2015, pp. 11-13 (11). Si veda anche Maranesi (2014).
55 N. Maranesi, Fine. Quattro. Fine. Novembre. Fine. 1918. Fine, in P. V. Buffa-N. Maranesi (a cura di), Cronache dal fronte 1918, «L’Espresso», Roma 2015, pp. 7-9.
56 Intervento, senza titolo, alla Tavola rotonda con Antonio Gibelli, Pietro Clemente e Giorgio Cusatelli, pubblicata in «Materiali di lavoro», n. 1-2, 1990, pp. 323-26 (324).
57 Il caso di Pieve Santo Stefano si profila a tutti gli effetti come una sorta di «dittatura» dei testimoni, volendo riprendere un’espressione di Audoin-Rouzeau-Becker (2002), p. 30.
58 Ricoeur (2004), p. 54.
59 N. Maranesi, 1915. Tutti in prima linea cit., p. 11.
60 Ivi, p. 12.
61 N. Labanca, La prima guerra mondiale in Italia: dalla memoria alla storia, e ritorno, in Labanca-Überegger (2014), pp. 303-23 (319).
62 Antonelli (2008), Rossi (1997).
63 Sul tema si rinvia ai contributi raccolti in Todero-Manenti (2018).
64 Q. Antonelli, Ricordare la Grande Guerra. Riflessioni all’alba del centenario, in «Studi Trentini. Storia», 1, 2014, pp. 53-78.
Auteur
Già ricercatore presso la Fondazione Museo storico del Trentino, ha studiato i processi di alfabetizzazione, le forme autobiografiche della gente comune, la storia sociale e culturale delle guerre del Novecento. Ha promosso la Federazione nazionale degli Archivi della scrittura popolare e curato gli atti di alcuni seminari nazionali e internazionali: Scritture bambine: testi infantili tra passato e presente, con Egle Becchi (Laterza, 1995); Vite di carta, con Anna Iuso (L’ancora del Mediterraneo, 2000); “La propaganda è l’unica nostra cultura”. Scritture autobiografiche dal fronte sovietico (Fondazione Museo storico del Trentino, 2015). Nell’ambito degli studi sulla Prima guerra mondiale ha pubblicato: I dimenticati della Grande Guerra: la memoria dei combattenti trentini (1914-1920) (Il Margine, 2008); Storia intima della Grande Guerra (Donzelli, 2014); Cento anni di Grande Guerra: cerimonie, monumenti, memorie e contromemorie (Donzelli, 2018).
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