I sacrari della Grande Guerra tra costruzione e politica della memoria
p. 281-298
Texte intégral
1Nel novembre del 1918 l’odore della morte impregnava ancora quelli che erano stati i teatri di battaglia. Il Piave restituiva i corpi dei caduti nei luoghi sconvolti dal conflitto. Passata la guerra, rimanevano non solo le macerie, ma le tracce immateriali, quelle della memoria, che imponevano di lasciare dei segni alle future generazioni. Cimiteri, ma anche monumenti ai caduti distribuiti in maniera capillare ed eretti per volontà delle comunità in lutto, delle famiglie, di comitati o di associazioni di reduci. Si trattò di un nuovo sforzo di mobilitazione patriottica che riuscì a coinvolgere anche le masse popolari1. Nel 1925 in Francia si contavano ben 30.000 monumenti costruiti per iniziativa delle autorità locali. Qualcosa di simile avvenne in Italia, dove fu possibile assistere a una pluralità di linguaggi e più che la condanna della guerra era importante il ricordo dei caduti. Il tutto in un quadro dove la necessità di creare una “religione della patria”, anche a livello locale, vide impegnati diversi attori in quella che a prima vista sembrava una diffusa e pulviscolare elaborazione del lutto collettivo, ma che non mancò di essere talvolta un contraddittorio tentativo di declinare la morte in maniera patriottica.
2La memoria ufficiale estetizza e anestetizza la morte e l’orrore. I teatri di guerra oggi sono disseminati di elementi simbolici, di cippi e lapidi che hanno fissato la memoria della Grande Guerra e ne hanno esaltato il mito. Ma anche di sacrari monumentali ideati e costruiti, spesso dopo un lungo travaglio, negli anni Trenta: Redipuglia, Oslavia, Nervesa, Fagarè, Grappa, Asiago, Pasubio, solo per citare i più significativi. Saperli leggere non è cosa semplice, perché si deve essere disposti a decostruirli, quasi a scomporli e a sezionarli fisicamente e semanticamente, anche per restituire al visitatore cosa si nasconde dietro e dentro quelle “memorie di pietra”. Si possono così individuare le scelte delle immagini e delle figure da ricordare, le architetture lessicali, gli artefizi retorici utilizzati durante il regime fascista. Ma la “politica della memoria” esercitata attraverso i sacrari militari continua ancora oggi. Molti di questi sono lasciati all’abbandono e al degrado, salvo essere usati come quinta per le parate militari e le manifestazioni ufficiali in cui emergono in tutta la loro evidenza le storture della retorica messa in campo a livello istituzionale anche negli ultimi anni, in particolare durante il Centenario del Primo conflitto mondiale. Oggi più che mai sarebbe invece utile, soprattutto in ambito didattico, essere in grado di visitare questi luoghi della memoria con occhi diversi: come monumenti muti che hanno tante storie da raccontare, anche quelle confinate nell’anonimato di centinaia di migliaia di soldati caduti. Anzi, morti. Perché nel dopoguerra il ricorso al termine “caduti”, preferito a “morti”, non rappresentò un vezzo semantico, ma il tentativo di allontanare il concetto della morte in guerra, di esorcizzarla per costruire un racconto patriottico e, per quanto possibile, neutro rispetto al trauma che aveva colpito centinaia di migliaia di famiglie. E gli attori sociali dell’Italia postbellica furono subito chiamati a costruire un discorso pubblico della guerra che non poteva essere né imposto, né unanime, ma conflittuale e strettamente legato alle condizioni materiali e morali di vastissimi strati della popolazione.
Primo tempo - La morte
3Durante la Grande Guerra la morte di massa, come la leva e la chiamata alle armi, si trasforma in un fatto strettamente burocratico. I morti sono numeri: vanno recuperati, contati, riconosciuti, registrati e infine sepolti2. Ma cosa avviene dei corpi dei soldati caduti prima che essi diventino “oggetto” di culto nel dopoguerra?
4Nei primi mesi del conflitto le autorità militari non si preoccupano dei morti, ma si limitano a vietare il trasporto delle salme fuori dalle zone dichiarate in stato di guerra, in quanto sarebbe oltremodo demoralizzante per le tradotte avviate verso il fronte incrociare dei treni pieni di feretri. Senza contare le ripercussioni sullo spirito pubblico. Solo a partire dal febbraio del 1916 entra in funzione un servizio per l’identificazione delle salme e la registrazione delle sepolture. La fase del recupero dei morti non è comunque delle più semplici, in particolare durante le offensive che possono esporre i loro compagni al fuoco nemico. In molti casi si rende necessario per ragioni sanitarie raggruppare temporaneamente le salme in fosse comuni, spesso poi abbandonate per lo spostamento della linea del fronte. In alcune località gli improvvisati cimiteri di guerra sorgono accanto a quelli civili.
5L’accertamento della morte viene compiuto da un ufficiale medico attraverso la raccolta del piastrino di riconoscimento e degli effetti personali, in modo che l’identificazione della salma possa consentirne la tumulazione. Il certificato di morte, poi trasmesso all’ufficio di stato civile del comune di residenza, è l’atto che consentirà alla famiglia del caduto di beneficiare della pensione di guerra. Più complicata la questione per i cadaveri che non possono essere identificati e che per questo, prima di essere sepolti, spesso vengono fotografati. I soldati inghiottiti dalla trincea, i corpi ai quali non è possibile attribuire un nome, sono i “dispersi”: corpi che non ritornano né vivi né morti, nomi che rimangono senza un corpo, pratiche che potranno prevedere solo la morte presunta.
6Solo tra la fine del 1916 e l’inizio del 1917 vengono emanate disposizioni generali per procedere all’identificazione dei cimiteri di guerra e soprattutto delle tumulazioni:
In primo luogo, ogni tomba dovrà essere contrassegnata da una croce e da una targa regolamentare (cm 10 x 15), sulla quale dovranno essere punzonati: nome, cognome, grado, corpo, classe, giorno del decesso, matricola e distretto del militare sepolto. Nel caso in cui una tomba fosse già contrassegnata da un segno tangibile di riconoscimento, come croci, cippi, massi, su di essi dovrà essere posta la targa di riconoscimento.
Nel caso di fosse comuni, dove fosse impossibile pervenire al riconoscimento dei corpi sepolti, si dovrà comunque contrassegnare il luogo con una croce, e incidere sulla targa la dicitura “Tomba o fossa non identificata”.
Apposito personale dovrà anche fare un rilievo topografico di tutte le sepolture, sia raccolte in cimiteri che sparse lungo il campo di battaglia; perciò agli elenchi in cui verranno segnalate le tombe si dovranno allegare anche schizzi topografici delle località in cui si trovano le sepolture: con un punto verranno indicate tombe isolate e fosse, con un rettangolo i cimiteri.3
7Questo sistema permette di rendere più razionale il servizio e di censire salme, cimiteri e gruppi di tombe sparse. Ad esempio, alla vigilia di Caporetto nel settore di competenza della 1a Armata sono state identificate 13.000 salme e individuati 269 cimiteri e 40 gruppi di tombe sparse; alla fine della guerra nello stesso settore le salme identificate saranno 27.069 distribuite in 1324 cimiteri4. Solitamente, nella zona a ridosso della linea del fronte i luoghi adibiti alla sepoltura rientrano in tre categorie: cimiteri civili che preesistono alla guerra, cimiteri creati ex novo e tombe sparse che hanno un carattere provvisorio in considerazione delle operazioni militari. Tali cimiteri saranno ovviamente abbandonati dopo la rotta dell’ottobre 1917 e uno dei temi della propaganda dell’ultimo anno di guerra sarà quello della riappropriazione dei caduti rimasti nelle terre occupate.
8A partire dall’estate del 1919 si comincia a pensare ad una riorganizzazione dei cimiteri di guerra, alla manutenzione di quelli più grandi, alla soppressione di quelli in alta montagna e che contengono un numero limitato di salme, al recupero dei corpi sepolti in tombe sparse, all’inumazione di quelli rimasti insepolti. Tali pratiche si rendono necessarie in primo luogo per ragioni di carattere sanitario, ma anche per il ritorno alla vita civile di intere comunità e per le richieste di restituzione delle salme da parte delle famiglie. Una possibilità, quest’ultima, che verrà garantita da una legge dell’agosto del 1922, ma che, per l’alto numero dei soldati dispersi e rimasti ignoti, sarà di difficile applicazione5. Bisognerà attendere una legge del giugno 1931 per provvedere a una definitiva sistemazione delle tombe e delle salme, tramite l’istituzione di un commissario per le onoranze ai caduti in guerra che dovrà curare la riorganizzazione dei cimiteri situati nelle province di Brescia, Sondrio, Verona, Mantova, Vicenza, Padova, Treviso, Belluno, Venezia, Trento, Bolzano, Trieste, Udine, Gorizia, Pola, Fiume e Zara6. Sarà facoltà del commissario abolire i cimiteri che, per ubicazione o ragioni tecniche, non offrono la possibilità di uno stabile assetto e di raggruppare le salme in appositi ossari compresi quelli monumentali costruiti negli anni Trenta.
Secondo tempo - Viaggio lungo il Piave
9Le prime guide, quelle del Touring Club Italiano, date alle stampe fin dagli anni Venti ad uso e consumo dei primi “pellegrini” sui luoghi della Grande Guerra, tenevano conto ovviamente del Piave. I luoghi della memoria non furono scelti a caso. Come ad esempio l’Isola dei Morti, una landa del Piave che tanto importante era stata nell’attacco finale e che poteva giocare sul rapporto tra acqua e terra, tra il fiume e la sponda sinistra da liberare. Quella “dei Morti” era appunto un’isola, divenuta testa di ponte, terreno riconquistato e sottratto all’esercito nemico. Posta nel territorio comunale di Moriago della Battaglia, è a tutti gli effetti una chiave di lettura della guerra. Il cippo commemorativo, inaugurato nel 1923, richiama l’idea della tomba già dalla sua forma piramidale. È sormontato da una croce ricavata con materiali bellici avente al centro un elmetto. Vi è eretto un altare, simbolo religioso certo, ma che in questo caso può richiamare anche il sacrificio consapevole, ovvero il martirio. Ma è il contenuto delle lapidi poste ai quattro lati della piramide a dare significato a quel luogo. La strofa della dannunziana Preghiera di Sernaglia è quella più significativa. Il visitatore che guarda verso il Montello si ritrova di fronte una lapide con i versi «Vittoria nostra, non sarai mutilata. Nessuno può frangerti i ginocchi né tarparti le penne». Sono quelli più noti, se non altro per la contrazione che ha interessato il primo – “vittoria mutilata” – assurta a parola d’ordine del patriottismo nazionalista che la guerra avrebbe voluto continuarla per una «più grande Italia».
10Altro elemento simbolico, altro segno della costruzione a tavolino del mito della battaglia finale di Vittorio Veneto, è il busto inaugurato il 30 ottobre 1977 e che ricorda l’autore della Leggenda del Piave, E.A. Mario (pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta), i cui versi non furono mai cantati dai fanti e dagli arditi, ma che la retorica postbellica ha consegnato alle generazioni successive7. Il mito della Grande Guerra è anche questo, soprattutto quando nel periodo fascista tale canzone diventerà il vero inno del conflitto: siamo di fronte ad una stratificazione della memoria e alla sua messa a regime.
11Senza la pretesa di seguire un ordine logico o cronologico, ma almeno geografico, ci trasferiamo a Nervesa della Battaglia, che rappresenta, già solo nel nome, l’emblema di quella che era stata appunto la battaglia del Piave, cioè quella del giugno del 1918. Qui, dopo la guerra, c’erano solo morte e desolazione: completamente distrutto il centro abitato, sconvolto il paesaggio, in rovina la celebre Abbazia di Sant’Eustachio, incendiata Villa Berti, già Soderini, con gli affreschi del Tiepolo e le opere di altri importanti pittori, colpita da una granata il 26 novembre 1917.
12L’elemento che racchiude il senso della memoria di questo luogo è il sacrario del Montello. Quelli di Nervesa e di Fagarè marcano il territorio del medio Piave e costituiscono un segmento fondamentale della linea degli ossari. Monumenti molto diversi tra loro, sia come stile che come impatto emotivo. Ma entrambi pensati e costruiti negli anni Trenta, quando il Fascismo intese celebrare il culto dei caduti attraverso queste enormi tombe collettive. Il sacrario di Nervesa venne ultimato nel 1935, dopo tre anni di lavoro, su progetto dell’architetto romano Felice Nori, ma inaugurato solamente il 19 giugno del 1938, nel ventennale della battaglia del solstizio (fig. 1). La torre quadra, tozza e imponente, assomiglia a un’enorme fortezza e spicca sul Colesel delle Zorle (q. 176). Alta 32 metri, ha le facciate leggermente concave e poggia su una più grande base quadrata che contiene il sacrario e che, esternamente, si presenta con tre ordini di nicchie tagliate da fasce sovrapposte. Sulla parte anteriore del sacrario un portale a sette colonne, con un ampio frontale, sovrasta l’entrata vera e propria.
13L’interno consente di percorrere dei corridoi sui quattro lati dove sono disposti 6.099 loculi che contengono le spoglie dei caduti in ordine alfabetico con indicazione del nome e del grado. Delle enormi lastre di marmo racchiudono, con frasi di Gabriele D’Annunzio e dello scrittore coneglianese Carlo Moretti, 3.226 morti ignoti. Le scritte sono oltremodo retoriche: «Sosti ogni madre che invano ha cercato il figlio caduto. Egli è qui»; «Qui i soldati di tutte le battaglie gli eroi di tutti gli eroismi dormono confusi nella comune gloria ignota»; «Andarono alla morte bella con un nome. Caddero per la patria e sono ignoti». Sono ricordate anche alcune medaglie d’oro del Montello: il tenente Guido Alessi, il tenente Emilio Bongiovanni, il sottotenente Maurilio Bossi, il maggiore Mario Fiore, il maggiore Luigi Lama, il tenente Giuseppe Mancino, il capitano Eligio Porcu, il sottotenente Umberto Sacco. In questo sacrario sono conservati i resti di soldati recuperati da circa 120 piccoli cimiteri di guerra sorti lungo l’asta del medio Piave e sul Montello.
14Accompagnando con lo sguardo la linea del Piave, arriviamo a Salettuol, un sito del tutto particolare in cui sorgono due monumenti che ricordano due distinti momenti e battaglie. Il primo è dedicato alla 7a Divisione britannica. Si tratta di una stele tozza che reca nei quattro lati, divisi per anno, i luoghi della memoria di quel reparto, a partire dal quelli del fronte occidentale: 1914 (Ypres), 1915 (Neuve Chapelle, Festubert, Loos), 1916 (Somme, Mametz, Bazentin Ridge, Ginchy, The Ancre), 1917 (Ecoust, Croiselles, Bullecourt, Ypres Passchendaele, Broodseinde, Reutel, Gheluvelt), 1918 (Asiago Plateau, Papadopoli Island, Vittorio Veneto).
15Il secondo è una piramide che vagamente ricorda quella posta all’Isola dei Morti, ma in questo caso non si tratta di un generico ricordo dei morti del Piave, ma di un omaggio alle brigate che si distinsero nella battaglia del solstizio di fronte alle Grave di Papadopoli: «Qui nel 15 giugno 1918 la furia bieca del secolare nemico veniva infranta dalle Brigate Veneto e Caserta e dal 44° Artiglieria al fatidico grido di “Qui non si passa – O tu che al sacro fiume vieni prostrati e prega per chi pugnò e cadde a gloria eterna della patria unificata e redenta”». Monumenti che non rappresentano solo memorie di pietra, ma anche percorsi lungo le cicatrici lasciate dal conflitto.
16Negli anni Venti e Trenta gli itinerari storico-turistici dei campi di battaglia della Grande Guerra tennero conto ovviamente del fiume “sacro alla Patria” e, nella premessa storica a questi luoghi, posero l’accento soprattutto sui protagonisti della seconda battaglia del Piave:
Salettuol ricorda al visitatore esempi di grande eroismo. Tra gli altri: quello dell’aiutante di battaglia Lino Segato, del 255° Fanteria, da Quinto di Vicenza che – rimastogli ucciso vicino il proprio ufficiale – assume il comando di un gruppo d’arditi e compie connessi prodigiosi atti di valore: ferito, continua ad aggredire il nemico, ad inseguirlo a colpi di bombe a mano. Il soldato Cosimo Crapinio, dello stesso Reggimento, da Secondigliano di Napoli, riconquistato l’argine di Salettuol, si slancia nel fiume, sfida la corrente e le raffiche di mitraglia, guida altri ardimentosi sul greto, e fa prigionieri un gruppo di Austriaci e due ufficiali che tentano di ritirarsi.
Nella mattina del 15, dinanzi a Salettuol, il tenente Alfonso Coviello, da Monterocchetta di Benevento, si slancia alla testa dei suoi arditi per contrattaccare in primi reparti austriaci passati sulla destra del fiume; sgominatili, si getta contro un caposaldo ove il nemico si è asserragliato, lo scaccia, cattura prigionieri ed una mitragliatrice. Il capitano Leonardo Longo del 256° Regg., da Mongiuffi Melia di Sicilia, tagliato fuori, con la sua compagnia di rincalzo, da un movimento avvolgente del nemico, dinanzi a Salettuol, si difende, resiste, riesce a collegarsi con altri reparti e conduce la sua compagnia alla riconquista delle posizioni perdute.8
17Facciamo dunque una deviazione, passiamo sulla riva sinistra del Piave e raggiungiamo Tezze dove sorge il cimitero di guerra britannico che raccoglie le spoglie di 356 soldati morti quasi tutti negli ultimi giorni del conflitto. Fin dal 1920 gli inglesi decisero di raccogliere i corpi dei loro caduti sul fronte del Piave e di dare loro una degna sepoltura in un terreno donato dallo Stato italiano. Tra questi ci sono anche alcuni aviatori della neonata Royal Air Force caduti nel 1918. Le lapidi in marmo bianco, tutte uguali, sono disposte in maniera ordinata e sostituiscono le croci che erano state poste in un primo momento. La loro particolarità è di non riportare solamente il nome e il grado del caduto, ma anche la data della morte, l’età e il reparto di appartenenza con il suo simbolo. Il segno religioso è caratterizzato quasi sempre da una croce e molte lapidi riportano anche un pensiero dei parenti o un verso poetico. Accomunati dalla morte, questi soldati hanno tutti la medesima sepoltura, senza distinzioni di gerarchia militare. Una modalità singolare ma significativa. Due lapidi ricordano in italiano e in inglese il senso di questo luogo: «Il suolo di questo cimitero è stato donato dal popolo italiano per l’eterno riposo dei soldati delle armi alleate caduti nella guerra 1914-1918 e che sono qui onorati»; «L’Impero Britannico sempre ricorda unitamente ai suoi figli caduti, quelli d’Italia che hanno dato la loro vita nella Grande Guerra 1914-1918». Il cimitero di Tezze è gemello di quello che si trova a Giavera del Montello e che accoglie le salme di 416 caduti britannici.
18Ma ritorniamo sulla riva destra del Piave. Da Salettuol, proseguendo il percorso, arriviamo, poco dopo S. Bartolomeo, al Molino della Sega9. È rimasta traccia solamente del toponimo. La vecchia struttura del mulino, distrutta dalle artiglierie e dalle piene del Piave, non esiste più da tempo. Il monumento, che ricorda il sacrificio dei ragazzi del ‘99 avvenuto tre settimane dopo Caporetto, è costituito da un masso di pietra carsica sormontato da una colonna che sono stati donati dall’amministrazione comunale di Gradisca d’Isonzo. Inaugurato il 21 ottobre 1973, rappresenta, nella sua semplicità e sobrietà, un elemento lontano dalla retorica bellica, se non fosse per l’estratto dell’encomio ricevuto il 18 novembre 1917 da Armando Diaz, poi tramutato in Croce al Valor Militare, posto sopra una pietra:
I giovani soldati della Classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico e sul fiume che in questo momento sbarra al nemico le vie della Patria, in un superbo contrattacco, unito il loro ardente entusiasmo all’esperienza dei compagni più anziani, hanno trionfato. Alcuni battaglioni austriaci che avevano osato varcare il Piave sono stati annientati: 1.200 prigionieri catturati, alcuni cannoni presi dal nemico sono stati riconquistati e riportati sulle posizioni che i corpi degli artiglieri, eroicamente caduti in una disperata difesa, segnavano ancora. In quest’ora suprema di dovere e di onore, nella quale le armate con fede salda e cuore sicuro arginano sul fiume e sui monti l’ira nemica, facendo echeggiare quel grido “Viva l’Italia” che è sempre stato squillo di vittoria, io voglio che l’Esercito sappia che i nostri giovani fratelli della Classe 1899 hanno mostrato d’essere degni del retaggio di gloria che su loro discende.
19Un luogo che è stato meta di pellegrinaggio anche da parte di associazioni di altri paesi, a cominciare da una delegazione della Croce Nera austriaca avvenuta nel 2007. A testimonianza del fatto che i giorni del 16 e 17 novembre del 1917 hanno visto in questo conteso lembo di terra un massacro dall’una e dall’altra parte.
20Dal Molino della Sega proseguiamo fino a Fagarè e raggiungiamo il sacrario. Accoglie 10.541 salme, di cui 5191 note e 5350 ignote, che sono state riesumate da un’ottantina di cimiteri di guerra del medio e basso Piave (fig. 2). Venne completato nel 1935 su progetto dell’architetto trevigiano Pietro Del Fabro, ideatore anche di quelli, più raccolti e modesti, del Tonale, dello Stelvio e di Bassano. Risponde all’esigenza di celebrare le battaglie del Piave, in particolare quella del solstizio. La grande esedra in stile neoclassico, con nove navate che si aprono per accogliere le salme dei caduti noti, è stata pensata per circondare un monumento preesistente, un grande obelisco eretto nel 1919 in memoria dei morti del Piave, che poi era stato affiancato da quattro bassorilievi che celebravano i quattro momenti topici del conflitto: l’entrata in guerra, Caporetto, la battaglia del solstizio e la battaglia finale. Un monumento poi distrutto dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale e di cui si sono salvati solo i bassorilievi. Sul sacrario campeggia la scritta «Il Piave mormorò non passa lo straniero», citazione della celebre Leggenda del Piave. Sono presenti anche le tombe di due medaglie d’oro, il tenente colonnello Ernesto Paselli e il maggiore Francesco Mignone, mentre altre cinque che non sono state riconosciute riposano tra gli ignoti: il capitano Giovanni Bocchieri, il soldato Fedele Caretti, il tenente colonnello Carlo Guadagni, il capitano Ottorino Tombolan Fava, il caporale Attilio Verdirosi.
21Nel sacrario due distinte teche conservano reliquie che contraddistinguono la resistenza sul Piave. «È meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora». La celebre scritta venne trovata nel giugno del 1918 su un muro interno di una locanda di Fagarè, posta sul lato sinistro della strada che da Treviso conduce a Ponte di Piave, dove in quel periodo aveva sede un battaglione del 201° Reggimento fanteria. L’edificio venne poi bombardato e quindi la scritta fu visibile anche all’esterno. Questa circostanza nega con ogni evidenza la volontà propagandistica. Nell’ottobre del 1931 un ex zappatore piemontese, Bernardo Vicario, con una lettera al podestà di S. Biagio di Callalta, rivelò di essere l’autore di questa scritta che gli era stata dettata la sera del 14 giugno 1918, alla vigilia dell’offensiva austriaca, dal maggiore Carlo Rigoli. Nel frattempo il testo era già entrato nell’immaginario popolare, esaltato dal regime fascista e, a partire dal 1928, privato della «È», riprodotto nel retro della moneta da 20 lire. Anche la scritta «Tutti eroi. O il Piave o tutti accoppati» fece la sua comparsa nei giorni della battaglia del solstizio e sempre a Fagarè. In questo caso l’intento propagandistico era più evidente. Ma come in quello precedente, i segni della guerra, con i suoi tratti eroici, lasciavano ormai spazio alla memoria.
Terzo tempo - La costruzione dei sacrari
22Gli esempi di Nervesa della Battaglia e di Fagarè sono in realtà quelli più semplici rispetto alla politica della memoria messa in campo dal Fascismo a partire dall’inizio degli anni Trenta. Un percorso e un esito analoghi ebbe il sacrario di Oslavia, progettato dall’architetto Ghino Venturi e inaugurato il 19 settembre 1938. Si tratta del secondo per numero di salme accolte: 57.201 di cui 20.761 note e 36.440 ignote, provenienti da ben 58 piccoli cimiteri di guerra, a cui si aggiungono 539 soldati austro-ungarici10. Un monumento che sorge a quota 153 nei pressi di Gorizia, in luoghi che furono teatro di scontri sanguinosi nel primo anno di guerra e che nella struttura ricorda in qualche modo una Totenburg tedesca, una fortezza dei morti: «Volutamente rustica e disadorna, come semplice e rude fu la vita dei nostri magnifici Combattenti, la monumentale Opera ha la forma severa e robusta di un fortilizio»11. Uno stile comune ad altri sacrari nei quali, come ha scritto Mosse, «si esprimeva chiaramente il predominio della nazione sull’individuo»12.
23Assai più problematica fu invece la genesi di altri sacrari, su tutti quello del Grappa e di Redipuglia. Il regime si appropriò fin da subito del culto dei caduti, da un lato dando razionalità alle zone sacre e ai siti, dall’altro cercando di operare un sincretismo patriottico oltre che architettonico. La riorganizzazione dei cimiteri di guerra fu in realtà la decisione di concentrare i caduti in pochi luoghi simbolici che potevano consentire anche i riti di una religione della patria fascista. I sacrari della Grande Guerra – con i loro archi, torri e fortezze – dovevano diventare la quinta della potenza del Fascismo che in quegli anni era impegnato in altri conflitti e molti dei protagonisti del 1915-18 furono parte attiva nell’elaborazione di una mitografia funzionale al regime mussoliniano. In questo senso il connubio tra l’architetto Giovanni Greppi e lo scultore Giannino Castiglioni rappresentò una svolta non solo dal punto di vista stilistico. Scelti dal commissario Ugo Cei, essi ridefinirono il concetto stesso di architettura funebre monumentale, interpretando al meglio non una politica della memoria, bensì una politica celebrativa che seguiva gli indirizzi chiaramente centralisti del regime. Non a caso furono gli artefici dei sacrari del Grappa, di Caporetto e di Redipuglia. Monumenti molto diversi, ma accomunati da una precisa volontà di ricreare non un teatro di guerra, ma un ordine che poteva assomigliare di più a quello presente in una caserma. Tranne poche eccezioni, nella loro ideazione e costruzione vennero seguiti tre principi: la monumentalità, la perpetuità, l’individualità. Un sacrario doveva essere monumentale dal punto di vista fisico e quindi ben visibile anche da lontano; doveva trasmettere il concetto di un ricordo perenne del sacrificio dei soldati; doveva possibilmente conservare l’individualità dei caduti, una regola che nel caso degli ignoti doveva subire una chiara deroga.
24Nell’ottica di una concentrazione delle salme dei caduti in pochi e ben definiti sacrari monumentali, non furono pochi i contrasti tra autorità civili, militari e religiose. Ma a chi appartenevano, davvero, i morti? La contesa sugli spazi pubblici e sui luoghi della memoria dei caduti raggiunse il suo apice nel caso del sacrario del Grappa13 (fig. 3).
25L’idea stessa di costruire una struttura monumentale sul Monte Sacro regionale, peraltro nei pressi del sacello sormontato da una statua della Madonna e inaugurato solennemente nel 1901 dal cardinale Giuseppe Sarto, il futuro Pio X, provocò fin dall’immediato dopoguerra molte tensioni tra l’Opera regionale Madonna del Grappa e il Comitato nazionale per il cimitero monumentale del Grappa che aveva sede a Bassano ed era presieduto dal generale Augusto Vanzo. Il 4 agosto 1921 la Madonnina, ferita da una granata nel gennaio del 1918, era stata ricollocata sul Grappa con una festa che aveva visto una grande partecipazione popolare. Da quel momento sembrava che l’egemonia cattolica su quel luogo non potesse essere messa in discussione. E invece, complice anche l’intervento interessato del generale Gaetano Giardino, che aveva comandato la 4a Armata, il progetto per realizzare un sacrario prese forma nella seconda metà degli anni Venti cercando di conciliare le esigenze religiose con quelle civili e patriottiche. Ma solo in apparenza, perché il primo cimitero-ossario del 1928, capace di contenere circa 6000 salme, risultava sì interrato, ma presupponeva una risistemazione complessiva dell’area circostante che avrebbe ben presto riacceso la polemica tra l’Opera Madonna del Grappa e il Comitato nazionale. A mettere fine a contrasti che avrebbero ritardato la conclusione dei lavori, nel 1932 intervenne Mussolini che affidò al generale Cei il ruolo di commissario del governo per il Cimitero monumentale del Grappa. Il decisionismo del Duce spazzò via di colpo sia le istanze clericali che quelle laiche e localistiche. Nel giro di poco tempo il nuovo progetto, che portava la firma della coppia Greppi-Castiglioni, si concretizzò. In meno di due anni il sacrario venne realizzato e finalmente inaugurato il 22 settembre 1935 alla presenza di Vittorio Emanuele III e del vescovo di Padova. Le polemiche non erano del tutto sopite, in quanto un’enorme statua di gesso che rappresentava l’Italia fascista e quella del fante che era posta sotto la sua protezione dopo poco tempo scomparvero, dando al sacrario un’immagine più pulita. Forse solo da quel momento il culto della Madonnina e quello dei morti riuscirono a convivere, quasi diventando una cosa sola.
26Quella del Grappa è una struttura imponente, ma adagiata sulla montagna, quasi sdraiata, che domina la pianura veneta e visibile comunque anche dal basso. Cinque gironi semicircolari, degradanti a tronco di cono, custodiscono 12.615 caduti, di cui 10.332 ignoti e sono collegati da un’ampia gradinata centrale che conduce al sacello della Madonnina. Nei gironi trovano posto le tombe individuali dei soldati noti e, tra il quarto e il quinto, è ben evidente la tomba del generale Giardino e della moglie: una volontà, quella di essere sepolto tra i suoi “soldatini”, quelli dell’«Armata del Grappa», che aveva manifestato per molto tempo e che si riassume icasticamente nelle parole scolpite a caratteri cubitali e da lui stesso dettate: «Gloria a voi soldati del Grappa». La seconda parte del sacrario è costituita dalla via Eroica, caratterizzata da 14 parallelepipedi in pietra che indicano i toponimi delle più importanti battaglie combattute sul massiccio del Grappa e che conduce a un enorme portale sovrastato dalla scritta «Monte Grappa tu sei la mia Patria». Poco sotto, in posizione seminascosta, si trova il cimitero austro-ungarico che raccoglie i resti di 10.295 morti, di cui solo 295 noti.
27Anche nel caso del sacrario più noto, quello di Redipuglia, la gestazione fu particolarmente lunga e il frutto di una profondo e scientifico progetto di politica della memoria. Innanzittutto perché sul Colle Sant’Elia, esattamente di fronte al sito attuale, esisteva un cimitero costruito con materiali di guerra e che accoglieva ben 30.000 salme14. Inaugurato il 24 maggio 1923, il «Cimitero degli Invitti» era un complesso caratterizzato da fosse, residuati bellici, oggetti della quotidianità del soldato che ricreavano visivamente il terreno dello scontro di guerra con camminamenti, trincee e reticolati. Una zona ricamata da 22 km di tombe disposte a gironi che riproponevano non solo un teatro di guerra, ma persino il suo tragico disordine, le sue naturali e labirintiche imperfezioni. Un luogo dedicato ai fanti invitti della 3a Armata, ma dove l’eroismo era consegnato solo alle epigrafi letterarie. In realtà la suggestiva religiosità dei tornanti rimandava all’Inferno dantesco e al Golgota cristiano. I visitatori – molti ex combattenti – potevano immergersi nuovamente nel clima cupo della guerra, respirare l’odore della morte e la sua anomia visto che solo 5860 tombe avevano un nome. L’ascesa del colle era un viaggio spirituale, un dialogo intimo tra i vivi e i morti.
28Il passaggio al nuovo sacrario di Redipuglia, realizzato su quota 89 alle pendici del Monte Sei Busi costituì da questo punto di vista un rovesciamento totale15 (fig. 4). La casualità lasciò posto all’ordine marziale del tempo di guerra, la dimensione soggettiva alla spersonalizzazione dei morti: un esercito ancora disciplinatamente allineato lungo 22 gradoni con lo sguardo rivolto verso la tomba del comandante della 3a Armata, il duca d’Aosta, che aveva scelto di essere tumulato tra i suoi fanti. La ripetitività della scritta “PRESENTE” e le lapidi tutte uguali contribuivano a trasformare i caduti in veri e propri eroi. Nel nuovo sito trovarono collocazione ben 100.187 soldati (dei quali 60.330 ignoti), quasi un sesto dei morti della guerra italiana. Era dunque il trionfo della morte di massa: anche i 39.857 soldati “noti” venivano omologati e in questo modo quasi privati della loro identità. Soldati resi del tutto simili ai loro compagni “ignoti” raccolti in due enormi ossari contenenti ciascuna i resti di 30.000 salme. Se nel 1923 la presenza di Mussolini, da pochi mesi Presidente del Consiglio, era stata piuttosto defilata, nel settembre del 1938 l’inaugurazione del sacrario fu una delle tappe più importanti del viaggio del Duce nelle Venezie, divenuto tristemente noto per il suo discorso antisemita pronunciato a Trieste.
Bibliographie
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Caravaglios, Cesare (1935), I canti delle trincee (Contributo al folklore di guerra), Tip. del Senato, Roma.
Fabi, Lucio (1993), Redipuglia. Il sacrario, la guerra, la comunità, Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli.
Frene, Giovanna (2018, cura), Cima Grappa. Architetture della memoria, testo di Paola Sozzi, fotografie di Giuseppe Dall’Arche, ZeL Edizioni, Treviso.
Galante, Enrico (1959), Il sacrario militare di Oslavia, insigne monumento della riconoscenza nazionale dedicato ai gloriosi caduti sull’Isonzo nella guerra 1915-18, Libreria Paternolli, Gorizia.
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Savona, Virgilio-Straniero, Michele L. (1981), Canti della Grande Guerra, I, Garzanti, Milano.
Todero, Fabio (2002), Le metamorfosi della memoria. La Grande Guerra tra modernità e tradizione, Del Bianco, Udine.
Winter, Jay (1998), Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, il Mulino, Bologna.
Notes de bas de page
1 Sulla memoria della guerra nel breve e medio periodo, cfr. Mosse (1990); Winter (1998); O. Janz, Lutto, famiglia e nazione nel culto dei caduti della Prima guerra mondiale in Italia, in Janz-Klinkhammer (2008), pp. 63-79.
2 Bregantin (2010).
3 Ivi, pp. 50-51.
4 Ivi, p. 68.
5 Legge 11 agosto 1922, n. 1074, «Domande per il trasporto gratuito delle salme dei caduti in guerra».
6 Legge 12 giugno 1931, n. 877, «Sistemazione definitiva delle salme dei caduti di guerra».
7 Caravaglios (1935), pp. 91-105; Savona-Straniero (1981), pp. 371-84.
8 Sui campi di battaglia. Il Piave e il Montello, Consociazione Turistica Italiana, Milano 1940, pp. 104-106.
9 Beninatto-Merlo (2008).
10 Galante (1959).
11 Sui campi di battaglia. Il Medio e il Basso Isonzo, Consociazione Turistica Italiana, Milano 1940, p. 94.
12 Mosse (1990), p. 96.
13 L. Vanzetto, Monte Grappa, in Isnenghi (1996), pp. 361-74; Frene (2018).
14 Todero (2002), pp. 13-69.
15 Fabi (1993); P. Dogliani, Redipuglia, in Isnenghi (1996), pp. 375-89.
Auteur
Ha ottenuto l’Abilitazione scientifica nazionale per il ruolo di professore associato in Storia contemporanea. Sulla Prima guerra mondiale ha pubblicato, oltre a numerosi articoli: Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra (Laterza, 2006 e 2014); L’Italia del Piave. L’ultimo anno della Grande Guerra (Salerno Editrice, 2017). Assieme a Mario Isnenghi, ha curato il volume La Grande Guerra: dall’Intervento alla «vittoria mutilata» (Utet, 2008). Attualmente lavora a uno studio complessivo sulla Grande Guerra, a una biografia di Pietro Badoglio e, per Laterza, a un libro sulle sconfitte italiane dal Risorgimento alla Seconda guerra mondiale e a uno sull’anno dell’occupazione austro-ungarica.
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