Antieroismo “all’italiana”: la commedia cinematografica italiana e la Grande Guerra
p. 229-242
Texte intégral
1Non è certo mia intenzione, in questa sede, prendere in considerazione ed analizzare in maniera esaustiva la totalità dei film italiani che si sono cimentati con la rappresentazione della Grande Guerra. Affronterò, in maniera più circoscritta, alcune modalità di rappresentazione comico-ironiche del tragico evento in ambito italiano, concentrandomi soprattutto su tre rappresentazioni retrospettive prodotte tra il secondo dopoguerra e il 2015. In altri termini, analizzerò le modalità di rappresentazione adottate da quella che è generalmente definita commedia all’italiana, ma che sempre più spesso si preferisce designare con l’etichetta più neutra di commedia italiana. I tre film che saranno presi in considerazione sono, nell’ordine, La grande guerra (1958) di Mario Monicelli, Porca vacca (1982) di Pasquale Festa Campanile e Soldato semplice (2015) di Paolo Cevoli. Se La grande guerra esce nelle sale italiane quasi all’apogeo del miracolo economico e all’inizio della stagione d’oro della commedia all’italiana, Porca Vacca vede la luce un anno prima dell’inizio ufficiale del craxismo, in un momento in cui il cinema italiano non gode certo di un’ottima salute. Per quanto riguarda Soldato semplice, ci troviamo nell’Italia contemporanea, nella quale il cinema italiano, nonostante l’immenso successo di alcuni film, come Quo Vado (2016) di Gennaro Nunziante con il celebre comico Checco Zalone, e il riconoscimento internazionale di registi come Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, fa fatica a ritagliarsi uno spazio in un mercato globalizzato dominato dalle produzioni americane. Paolo Cevoli, qui al suo esordio dietro la macchina da presa, si è fatto conoscere in precedenza grazie al programma di cabaret televisivo Zelig, nel quale l’attore, e adesso regista, proponeva degli sketch nei quali incarnava, tra l’altro, un riuscitissimo ed esilarante Assessore romagnolo, fanfarone e surreale, del comune immaginario di Roncofritto.
2Prima di trattare nello specifico questi tre film, è tuttavia necessario procedere a due brevi premesse. La prima verte sul rapporto che intercorre tra la Grande Guerra e il cinema comico, non solo italiano. La seconda riguarda la natura e la specificità della commedia all’italiana.
Guerra, cinema comico e commedia italiana
3Per delle evidenti ragioni anagrafiche, si instaura immediatamente un legame strettissimo tra cinema e Grande Guerra. In effetti, il cinema fa un balzo in avanti nella sua legittimizzazione artistica con i primi veri e propri lungometraggi della storia, i quali nascono quasi in contemporanea con il tragico evento. Nel 1914, esce nelle sale italiane Cabiria di Giovanni Pastrone e l’anno dopo, nel 1915, gli Stati Uniti salutano l’uscita di Nascita di una nazione di D. W. Griffith. Il cinema, del resto, in Italia e all’estero, si impadronisce immediatamente della tematica guerresca. A questo proposito, Pier Antonio Gariazzo, pittore e cineasta italiano, nel 1919, scrisse:
Il registrare su nastri sensibili il più grande fatto che la storia dovrà ricordare, questa esaltazione guerriera del mondo, questo universale desiderio di massacro e rapina fu una preoccupazione che nacque subito negli uomini di comando con due scopi ben distinti: uno scopo di propaganda e uno scopo di storia […]. Nel nostro tempo illuminato dal raggio della verità, le caste di governo tentano di adoperare largamente il teatro muto ai loro scopi. La guerra fu rappresentata ovunque come una cosa eroica, santa, indispensabile. Il nemico fu per tutti brutale, assetato di sangue, feroce, rapinatore, barbaro.
La verità vera nessuno la vide, perché tutti, in ogni parte del mondo, lavoravano e lavorano a nasconderla e a modificarla per servire i propri fini […].1
4Pier Antonio Gariazzo, in queste righe, solleva il problema essenziale che si pone riguardo alla rappresentazione di un evento storico: la dialettica inconciliabile che si instaura fra ricerca della verità e propaganda, il rapporto tra il potenzialmente visibile e ciò che il cinema, dopo un lungo processo di selezioni ed eliminazioni, effettivamente mostra.
5Per quanto riguarda la produzione italiana coeva alla Grande Guerra, secondo Gian Piero Brunetta, sono circa un centinaio i titoli cinematografici che, nel biennio 1915-1916, affrontano direttamente o indirettamente la Prima guerra mondiale. Si tratta di una produzione prevalemente documentaristica e di propaganda, anche quando siamo di fronte a dei film di finzione2. La cosa curiosa è che una buona parte di questi film di finzione ha un carattere comico. È il caso del celebre, e ormai studiatissimo, film di Luigi Maggi e Luigi Borgnetto, Maciste alpino (1916) con l’allora celebre attore Bartolomeo Pagano nel ruolo di Maciste3. In quest’opera, Maciste, dai fondali del tempio di Moloch di Cabiria viene catapultato nel presente e viene presentato come la guida ideale e il salvatore popolare di tutta una nazione in guerra. Tra favola e propaganda, il gigate buono e forzuto risolve tutti i problemi che gli si presentano con un bel po’ di sberle e di calci nel sedere. Non vi sono stragi o scene impressionanti. Tuttavia, nonostante l’elemento propagandistico sia indiscutibile, si percepiscono in filigrana tutti gli orrori della Prima guerra mondiale come la deportazione di civili, la vita di trincea e la violenza sulle donne.
6Restando nel registro comico, al fine di trovare un’opera che, utilizzando il filtro del riso, ha saputo raccontare la crudeltà e l’amarezza, la tragicità e la miseria della Grande Guerra, sviluppando così un approccio critico e pacifista in chiave comico-satirica, bisogna attraversare l’oceano Atlantico e aspettare il 1918. In Shoulder Arms (1918) – uscito in Italia con il titolo Charlot soldato –, Charlie Chaplin mette in scena Charlot nelle vesti di un soldato americano maldestro e imbranato, in partenza per il fronte europeo, che deve partecipare all’addestramento sotto gli ordini di un sergente istruttore. Alla prima occasione di riposo, disteso sulla sua branda, scivola in un sogno liberatore che lo porta sul confine francese. Dopo una serie di divertenti e assurde peripezie, diventa un eroe che non solo è in grado di risolvere la guerra da solo, ma libera anche una graziosa fanciulla francese e fa prigioniero addirittura il Kaiser e i suoi più stretti collaboratori. Il sogno finisce quando Charlot è bruscamente risvegliato dai suoi commilitoni. In questo film di Charlie Chaplin, assistiamo ad una delle prime apparizioni dell’antieroe di guerra, il cui riscatto si realizza soltanto in una dimensione onirica. Nella realtà, Charlot è un perdente, un inadeguato, un elemento pertubatore all’interno dell’ordinato, rigido ed eroico universo militare. Se si prende per esempio la sequenza dell’addestramento, è evidente che attraverso la natura burlesca di Charlot, l’impossibilità del suo corpo di sottostare agli ordini del sergente istruttore, Charlie Chaplin procede ad una critica irridente e, a tratti, quasi anarchica della disciplina, della gerarchia militare e dell’autorità. L’autorità, impersonata da un sergente istruttore sul punto di perdere le staffe, esasperato ed impotente, si spoglia così della sua prerogativa principale: il controllo dell’individuo.
7Anche la commedia italiana è popolata di perdenti e di antieroi. La si potrebbe tranquillamente definire l’epopea dei perdenti. Parlando dei personaggi della commedia all’italiana, Mariapia Comand, ha scritto:
I personaggi della commedia all’italiana sono dei perdenti. Ancor prima di essere catapultati sulla scena della storia, sono delle comparse della Storia, figure marginali prima ancora che emarginati: ladruncoli, impiegatuncoli, militi ignoti o comuni mariti, tutti comunque provenienti dalle regioni dell’anonimato.4
8Il genere ha il suo inizio con I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, la storia di una disastrata e simpatica banda di malviventi che cerca di mettere a segno un colpo grosso, riuscendo però soltanto a rimediare un piatto di pasta e ceci. Se la commedia all’italiana è un genere cinematografico tutto sommato facilmente definibile, è altrettanto vero che si tratta di una produzione artistica carica di ambiguità, di problematiche e dilemmi etici. Generalmente, per commedia all’italiana si intende una commedia provvista di elementi drammatici, dotata di una feroce carica satirica, che si chiude con un finale freddo e amaro e che intrattiene uno stretto legame con i problemi della società del suo tempo e, quindi, con la società del boom economico. Tuttavia, non vi è unanimità quanto al suo potenziale critico e politico. Maurizio Grande, ripercorrendo l’origine del genere e del termine che lo designa, scrive:
L’origine e l’impiego del termine sono, ad ogni modo, spregiativi, e, proprio sulla falsariga tematica di Divorzio all’italiana, stanno ad indicare una specificità tutta “negativa” della vita sociale e una modalità “ambigua” del rappresentare sullo schermo quel vivere, per un sospetto stridente o dichiarato di un’adesione compiaciuta (o quanto meno acritica) a quel modo di vivere e di spettacolare il quotidiano.5
9Il rischio della commedia all’italiana è quindi quello di operare, allo stesso tempo, una critica satirica e una spettacolarizzazione commerciale dei vizi nazionali. In effetti, da Italo Calvino a Nanni Moretti, numerosi sono gli intellettuali che ne hanno denunciato l’autocompiacimento e il sostanziale, secondo loro, carattere conservatore, se non reazionario. Per esempio, Italo Calvino, in Autobiografia di uno spettatore, scriveva:
Nella più parte dei casi la trovo detestabile, perché quanto più la caricatura dei nostri comportamenti sociali vuol essere spietata tanto più si rivela compiaciuta e indulgente; in altri casi la trovo simpatica e bonaria, con un ottimismo che resta miracolosamente genuino, ma allora sento che non mi fa fare passi avanti nella conoscenza di noi stessi.6
10Giudizio lecito, anche se forse troppo limitativo, poiché la commedia all’italiana, pur essendo uno spettacolo commerciale dei vizi nazionali, tende a presentare i problemi concreti della realtà sociale e individuale. Parla al pubblico in modo diretto del suo malessere, gli mostra lo spettacolo della sua bassezza psicologica, morale e materiale creando, attraverso le forme comiche, un rapporto diretto e spesso spietato con i piccoli problemi quotidiani, i problemi dai quali è necessario muoversi per conoscere e cambiare il reale.
11È il caso de La grande guerra che, trattando di un tragico evento passato, produce, allo stesso tempo, un discorso sul presente del miracolo economico.
La grande guerra di Mario Monicelli
12In un suo saggio del 1999, Gianfranco Miro Gori riporta una polemica scoppiata tra diversi registi riguardo al rapporto tra il cinema e il presente. Tra le varie posizioni, spicca quella di Gianni Amelio, autore del film Così ridevano (1998), che ritorna ai tempi dell’emigrazione interna. Secondo il regista calabrese, «ogni film, su qualsiasi passato, non può che partire dal presente»7. Gori scrive anche che Marc Ferro, storico e autore dell’importante volume Cinéma et Histoire (1977), «non smette mai di ricordarci che il film storico è “unicamente” un discorso sul presente»8.
13La grande guerra esce nel 1959, preceduto da alcune diatribe e polemiche giornalistiche. L’Italia repubblicana non sembra ancora pronta ad accettare un film che rompe con «gli schemi di nazionalismo ancora saldamente ancorati alla mentalità di destra».9 A questo proposito, lo stesso Monicelli ha dichiarato:
Fino a La grande guerra, il conflitto ’15-’18 era considerato una sorta di lotta di liberazione contro lo straniero. In realtà è stata una carneficina programmata da politici senza scrupoli, industriali avidi e generali ottusi.10
14L’annuncio del film suscita quindi molta apprensione negli ambienti militari e governativi. Nelle discussioni giornalistiche del tempo si agita lo spettro dell’umiliazione del sentimento nazionale, dell’antipatriottismo, del vilipendio dell’esercito. Si accusa il cinema di gettare fango sulla patria e di sbeffeggiare il ricordo e il mito della sola guerra che la nazione unita abbia combattutto e vinto. Tuttavia, il film esce nelle sale in un momento storico fondamentale per l’Italia, il miracolo economico, nel quale le grandi trasformazioni sociali, politiche ed economiche che attraversano il paese conducono ad un ripensamento del passato più o meno prossimo11. Le spinte verso una ridefinizione della memoria storica sono più forti delle resistenze conservatrici. Il film, grazie allo straordinario successo di pubblico e di critica, ebbe, e ha tuttora, il grande merito di riuscire a ribaltare l’immagine e il ruolo svolto dalla povera gente umile nel contesto dei grandi eventi storici del nostro paese.
15Inizialmente, nelle intenzioni del regista, il film doveva configurarsi come un vero e proprio film corale, nel quale mostrare la guerra in un’ottica diversa dalla prospettiva propagandistica ereditata dal regime fascista. La guerra è di conseguenza rappresentata come uno scenario di miseria, di fame, di ignoranza, di presunzione da parte dei comandi, privi di ogni reale capacità di direzione nei confronti di un popolo di 4 o 5 milioni di ingenui analfabeti, sradicati dalle proprie regioni di origine, dalla Sicilia al Veneto, tenuti in condizioni terribili per mesi, nel migliore dei casi, per anni, nel peggiore, con un equipaggiamento inadeguato e soprattutto con l’orribile sentimento di non saper nemmeno per quale ragione si trovassero lì.
16Mario Monicelli era perfettamente cosciente delle grandi difficoltà che avrebbe dovuto affrontare nel portare avanti questa necessaria operazione storico-culturale: contrastare l’enfasi e la retorica con la quale il Fascismo aveva presentato la Grande Guerra, i sui eroismi e le sue “bellezze”. Mariapia Comand, nel suo libro dedicato alla commedia all’italiana, ripercorre in modo preciso tutte le tappe problematiche della concezione e della produzione del film12. La presenza di Vittorio Gassman e Alberto Sordi, molto probabilmente imposti dalla produzione e all’epoca attori già molto celebri, devia leggermente il progetto iniziale. Il film, pur conservando una dimensione corale e demistificatoria, si concentra sulle vicissitudini e peripezie di due imboscati che si ritrovano loro malgrado sul fronte veneto: un milanese, Giovanni Busacca, interpretato da uno straordinario Vittorio Gassman, e un romano, Oreste Jacovacci, impersonato da un altrettanto straordinario Alberto Sordi.
17Busacca e Jacovacci si configurano, sulla falsariga di Charlot soldato, come due perfetti antieroi. Sono entrambi di estrazione modesta, contrari e restii alla guerra anche se, apparentemente, per delle motivazioni diverse. Busacca sembra, in effetti, essere in possesso di una minima coscienza politica, visto che si definisce pacifista e bakuniano, mentre Jacovacci rifiuta la guerra per pura convenienza personale e vigliaccheria. Il film mostra quindi, da una parte, sullo sfondo, l’attesa e l’inattività dolorosa dei soldati, il fango delle trincee, gli ordini assurdi dei comandi, la morte onnipresente, ispirandosi a opere letterarie come Un anno sull’Altipiano (1938) di Emilio Lussu; dall’altra, le peripezie dei due antieroi sul fronte, il loro costante confrontarsi con situazioni che mettono in evidenza la loro inadeguatezza e il loro rifiuto di conformarsi al modello del soldato eroico e patriottico. Il lungometraggio è diviso in capitoli, introdotti da diverse canzoni popolari di guerra, sempre allo scopo di ribaltare l’ottica della propaganda patriottica fascista, dando voce al racconto anonimo del popolo.
18Nel corso del film, si ripresenta, con delle leggere e opportune variazioni, la stessa situazione comica, nella quale ci si aspetta da Busacca e Jacovacci un atteggiamento eroico di fronte ad una situazione problematica. Questo eroismo è in seguito sistematicamente disatteso poiché sia Jacovacci che Busacca si rivelano ad ogni occasione codardi, opportunisti, bugiardi, fanfaroni, sia di fonte al nemico che di fronte ai loro comandi. Tuttavia, questo schema comico viene ribaltato alla fine del film, dove, inaspettatamente i due protagonisti, quasi loro malgrado, da antieroi si trasformano in eroi. Dopo la disfatta di Caporetto, una sera, svolta la loro missione di staffette portaordini, Busacca e Jacovacci si ritrovano in territorio nemico. Sorpresi ad indossare cappotti dell’esercito austro-ungarico nel tentativo di fuga, vengono catturati, accusati di spionaggio e minacciati di fucilazione. Sopraffatti dalla paura, ammettono di essere in possesso di informazioni cruciali sul contrattacco italiano sul Piave, e pur di salvarsi decidono di passarle al nemico. L’arroganza dell’ufficiale austriaco ed una battuta di disprezzo verso gli italiani ridà però forza alla loro dignità, convincendo i due soldati a mantenere il segreto fino all’esecuzione capitale.
19Quello che mi preme sottolineare è la ragione per la quale i due personaggi principali, e soprattutto Busacca, hanno questo improvviso momento di risveglio eroico. La ragione che li spinge al sacrificio eroico esula da una qualsiasi motivazione patriottica, o meglio non rientra nell’ambito del patriottismo ufficiale, nell’idea di sacrificare eroicamente la propria vita per difendere l’idea di patria. La ragione sembra più che altro nascere da un offesa personale che, tuttavia, si allarga fino ad investire in realtà l’intero popolo italiano. Dico a proposito popolo, poiché in questo frangente Giovanni Busacca, pacifista e bakuniano, non si sacrifica certo per onorare le istituzioni nazionali. Busacca si sacrifica perché i poveri italiani, appartenenti alle classi medio-basse e mandati sul fronte come carne da macello, sono stati offesi nella loro dignità, accusati di codardia, quando in realtà, nella loro umiltà e nella loro incoscienza, morivano sul fronte “eroicamente”. Giovanni Busacca, quindi, con il suo gesto eroico, riscatta questi umili, anonimi, disperati soldati semplici che lasciavano la loro vita sul fronte senza conoscerne la ragione. Si tratta, di conseguenza, di un eroismo che non ha niente di retorico, altisonante, ma che rispecchia uno dei tratti peculiari dell’identità culturale italiana, per cui l’italiano non si riconosce necessariamente nello Stato che al contrario è percepito come un’entità estranea se non addirittura di ostile; si riconosce, in compenso, in un’italianità che non ha niente di istituzionale, che è un’appartenenza a un’indole, a una cultura condivisa. Nel film di Mario Monicelli, l’eroismo si rivela possibile soltanto in quest’ottica di riscatto popolare che si oppone all’eroismo ufficiale di Stato. Un riscatto eroico che, d’altra parte, non fa per nulla dimenticare la vigliaccheria e l’opportunismo di Busacca e di Jacovacci.
20La commedia all’italiana, nel corso degli anni Sessanta, ha rappresentato egregiamente questa italianità che è, allo stesso tempo, un impasto inestricabile di opportunismo, fanfaronaggine, disonestà, ma anche di generosità, grandezza d’animo nel fallimento e nello scacco. Un’italianità che si ridefinisce, restando comunque sostanzialmente fedele a se stessa, durante gli anni del miracolo economico e nella quale gli sceneggiatori e i registi attingono a piene mani per costruire le loro narrazioni, ambientate tanto nel presente quanto nel passato.
21A questo proposito, Gian Piero Brunetta fa notare:
Nel loro libero muoversi e far muovere i loro eroi lungo la storia gli sceneggiatori non sono mossi da alcun desiderio di dominare il tempo: vogliono semplicemente mostrare come l’infinito gioco delle maschere sulla scena della storia rinvii, in realtà, ad alcuni archetipi fondamentali e come questi archetipi continuino a vivere dentro di noi, siano quasi parte del nostro patrimonio genetico, che possiamo far finta di non riconoscere, ma di cui non possiamo liberarci. Per questo riaffiora un carattere dell’italiano che non sembra sostanzialmente mutare nel profondo, nelle sue strutture fondanti e sembra piuttosto resistere alle continue trasformazioni politiche, sociali, economiche, tecnologiche della società in cui vive.13
22Se quindi ne La grande guerra è evidente la volontà di denunciare gli orrori della guerra, di contrastare e ribaltare il mito fascista della Prima guerra mondiale, è altrettanto evidente l’intento di raccontare, con il filtro della comicità, la coesistenza tra vecchio e nuovo nell’identità dell’italiano e mostrare come questa comicità possa vantare dei legami fortissimi con la tradizione letteraria italiana, quella di Boccaccio, del teatro del Cinquecento, di Ruzante e del teatro dialettale.
Porca Vacca di Pasquale Festa Campanile e Soldato semplice di Paolo Cevoli
23Nel 1982, anno di uscita di Porca Vacca, le cose non stanno proprio così. Pasquale Festa Campanile è stato un uomo di cinema, oltreché scrittore, estremamente prolifico, che ha attraversato il cinema italiano tra il dopoguerra e la fine degli anni Ottanta, spaziando tra diversi generi, ma concentrandosi particolarmente sulla commedia. Oggi caduti un po’ nell’oblio, i film di questo regista versatile e spregiudicato, di qualità alterna e di stampo popolare, furono quasi tutti dei grandi successi di cassetta, anche se snobbati, talvolta giustamente, dalla critica. Essi mettono in scena le iprocrisie borghesi, le debolezze umane, soprattutto maschili, ossessive – come ne Il merlo maschio (1971) – verso cui Festa Campanile si mostrava condiscendente ma non assolutorio. La sensualità, che scadeva a volte nella volgarità, occupa uno spazio importante nella sua cinematografia.
24Porca Vacca è uno dei suoi ultimi film. Si tratta di una commedia che, da una parte, si ricollega alla grande tradizione della commedia all’italiana e, dall’altra, strizza l’occhio in modo talvolta imbarazzante al filone della commedia sexy che aveva cominciato a svilupparsi in Italia alla fine degli anni Sessanta e che raggiunge il suo apice tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta con la serie dei film con protagonista Pierino (interpretato da Alvaro Vitali), con i film interpretati dalle bellissime attrici Laura Antonelli, Barbara Bouchet, Edvige Fenech e Gloria Guida. Ambientate nel mondo della polizia, delle caserme, della scuola o degli ospedali, con poliziotte, supplenti, infermiere sexy, nel migliore dei casi queste commedie costituiscono una riflessione sui costumi, soprattutto sessuali, degli italiani, nel peggiore si limitano ad essere un susseguirsi di barzellette più o meno volgari.
25Porca Vacca riprende molti elementi strutturali già presenti nel film di Mario Monicelli. Il film si svolge principalmente sul fronte veneto e, a fare da sfondo alle vicende dei protagonisti, vi è la vita nelle trincee, le attese interminabili, il freddo, il fango, gli ordini assurdi delle gerarchie militari. Anche in questo caso, i protagonisti della pellicola sono una coppia di antieroi, amici/nemici, che si trovano contro la loro volontà sul fronte, affiancati da una donna. Barbisetti, un mediocre artista conosciuto come Primo Baffo, interpretato da Renato Pozzetto, prova, senza successo, a farsi riformare per evitare il servizio di leva e quindi di partire per il fronte. Durante la guerra ha modo di conoscere due contadini, Tomo Secondo (Aldo Maccione) e Marianna (Laura Antonelli), dediti a truffe e imbrogli, i quali riescono a raggirarlo più volte, ma che stringono con l’artista da cabaret un legame fatto di alti e bassi.
26Che cosa cambia, allora, rispetto al film di Monicelli? Cambia che nel film di Pasquale Festa Campanile la Grande Guerra si trasforma soprattutto in un guerra privata tra i due protagonisti, Primo Baffo e Tomo Secondo, che si disputano anche una donna, Marianna. La rievocazione della guerra e delle sue tragedie non porta niente di nuovo, ripropone in peggio le situazioni che aveva già mostrato Mario Monicelli. Il film sembra essere cucito addosso a Renato Pozzetto, alla sua comicità un po’ surreale di stampo cabarettistico. Anche si vi sono delle sequenze abbastanza efficaci, contrariamente a La grande guerra il tentativo di far coesistere dramma e comicità non è decisamente riuscito. Inoltre il sacrificio finale di Marianna, il suo riscatto eroico non ha per nulla la stessa valenza simbolica di quello di Busacca e Jacovacci. In effetti, Marianna viene violentata da ufficiali austriaci e, per vendicarsi, decide di far saltare in aria una diga nemica. La donna morirà nello svolgere la sua missione. In questo caso, il suo sacrificio eroico si configura essenzialmente come pura e semplice vendetta privata, non ha alcuna valenza collettiva, e non sembra intrattenere alcun legame con la volontà di riscattare un intero popolo.
27Se prendiamo alla lettera l’ipotesi di Marc Ferro secondo cui un film storico è unicamente un discorso sul presente, non possiamo non collegare l’impianto ideologico che sottende il film di Pasquale Festa Campanile agli anni del craxismo, del trionfo dell’individualismo, del privato, del personale, dello sdoganamento edonistico, dell’arricchimento e del divertimento. Porca Vacca più che denunciare gli orrori della Grande Guerra, percepiti ormai come semplici topoi da commedia militare, sembra piuttosto celebrare questi elementi e mettere in scena l’italiano medio dell’Italia craxiana: individualista e sprovvisto di un qualsiasi senso civico e collettivo.
28Il film di Paolo Cevoli, Soldato semplice (2015), sembra recuperare la dimensione politica e collettiva che mancava al film di Pasquale Festa Campanile. Il film racconta la storia di un altro antieroe che, alla fine del film, riscatta la sua vigliaccheria e diventa un eroe, quasi suo malgrado. Siamo nel 1917. Gino Montanari (Paolo Cevoli), mae-stro di scuola elementare proveniente dalla Romagna, viene mandato al fronte della Prima guerra mondiale dopo la disfatta di Caporetto. “Il Patacca”, così chiamato dagli amici, è uno scapolo libertino, anti-interventista e ateo che, combattendo al fronte, fa la conoscenza di diversi uomini e ragazzi provenienti dalle varie regioni italiane. Si deve confrontare cogli ordini del cattivissimo tenente Italo Mazzoleni e stringe una bella amicizia con Aniello Pasquale, detto “O’ Scugnizzo”, che lo chiama caporale, il quale vede in Gino il modello di una figura paterna mai conosciuta.
29Come per i due film precedenti, anche Soldato semplice si chiude con un sacrificio finale, quello di Gino che, esponendosi al tiro nemico, salva i suoi commilitoni da un agguato. Anche in questo caso, siamo lontani dalla retorica patriottica e dall’eroismo ufficiale. Gino si sacrifica in uno slancio umanitario e solidale con i suoi commilitoni, non certo in onore della patria. Nonostante le buone intenzioni di Paolo Cevoli che scrive, dirige e interpreta il lungometraggio, Soldato semplice riprende senza inventività le situazioni e gli ingredienti già presenti ne La grande guerra di Mario Monicelli. La denuncia dell’assurdità della guerra è esplicita, l’esaltazione di un eroismo umanista e critico lo è altrettanto, tuttavia la regia è accademica, la recitazione approssimativa, il film sembra procedere per un’accumulazione di sketch teatrali più o meno riusciti, ma manca di progressione narrativa e, soprattutto, non porta un nuovo sguardo sul tragico evento della Grande Guerra.
30In conclusione, la prima considerazione che può essere fatta è che la commedia italiana sembra non avere più niente da aggiungere di nuovo, per il momento, sulla Prima guerra mondiale. Ha avuto il grande merito, nel 1958, con La grande guerra di Mario Monicelli, di aprire nuove piste di riflessione sull’evento, ha aiutato a costruire una controstoria, ha contribuito a una presa di coscienza nazionale, ha proposto una visione dell’evento inedita al cinema, raggiungendo un più ampio pubblico della letteratura.
31In seguito, nel caso della commedia italiana, è forte l’impressione che la rappresentazione della Grande Guerra sia legata in modo indissociabile alla questione dell’identità italiana, o se si preferisce alla questione dell’italianità, alla relazione problematica che l’italiano intrattiene con il proprio paese, le proprie istituzioni e con la propria storia. Pur con le dovute differenze, i tre film che ho preso in esame affrontano la questione del rapporto tra l’individuo e la nazione, tra l’individuo e la collettività. L’immagine che sembra emergere è quella di un rapporto discontinuo, oscillante tra la tensione verso il privato e l’individualismo, da una parte, e l’adesione critica ad istanze più ampie come la nazione e lo Stato, dall’altra. Attraverso il filtro del comico, la commedia italiana ha il grande merito, con esiti artistici alterni, come si è visto in queste pagine, di trattare la storia dell’Italia unita ponendosi dal punto di vista di personaggi che di questa storia sono sempre stati considerati vittime, semplici spettatori o parte del paesaggio. Il suo contributo alla riflessione storica è quindi di grandissima utilità.
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Reich, Jacqueline (2015), The Maciste films of Italian silent cinema, Indiana University Press, Bloomington.
Notes de bas de page
1 Citato in Brunetta (1995), p. 119.
2 Ivi, pp. 120-25.
3 Si veda a questo proposito Reich (2015).
4 Comand (2010), p. 7.
5 Grande (2003), p. 44.
6 I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in Fellini (1974), pp. XIX-XX.
7 G.M. Gori, Sullo stato delle cose italiane: cinema e storia, in «Storia e problemi contemporanei», a. XII, n. 23, 1999, p. 11.
8 Ivi, p. 12.
9 D’Agostini (1991), p. 13.
10 Monicelli (2009), p. 13.
11 Cfr. Crainz (1996), pp. 163-88.
12 Comand (2010), pp. 62-64.
13 G.P. Brunetta, La ricerca dell’identità nel cinema italiano del dopoguerra, in Brunetta (1996), pp. 55-56.
Auteur
É dottore di ricerca in Etudes Italiennes all’Università Paris Nanterre con una tesi sulle rappresentazioni cinematografiche e letterarie della città di Milano durante il miracolo economico (1955-1965). Insegna lingua e cultura italiana all’Università Paris Est Créteil e storia del cinema italiano all’Università Sorbonne Nouvelle-Paris 3. I suoi interessi di ricerca portano sulla società, il cinema e la letteratura degli anni Sessanta-Settanta e dell’epoca contemporanea. È autore di diversi articoli e del volume Milan (1955-1965): la capitale du miracle économique italien entre littérature et cinéma (L’Harmattan, 2016).
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