I colori della Grande Guerra
p. 175-194
Texte intégral
Il y a plus faux que le faux, c’est le mélange du vrai et du faux.
Paul Valéry
1La ricorrenza del centenario della Grande Guerra ha visto il moltiplicarsi delle pubblicazioni, delle commemorazioni, delle celebrazioni, dei convegni1, ed è stata anche l’occasione per riesumare e proporre al pubblico molte immagini del conflitto, specie nell’ambito di iniziative volte ad attualizzare l’evento lontano un secolo per renderlo o, almeno, tentare di farlo sentire a noi più vicino. Pensiamo per esempio alla serie di cinque documentari storici di 52 minuti ciascuno, di produzione franco-canadese raccolti con il titolo Apocalypse, la Première Guerre mondiale, basati su fonti filmiche d’archivio, andati in onda tra il marzo e il maggio 2014 sia nel Québec che in Francia, in seguito distribuiti in molti altri paesi (in Italia sono stati trasmessi da Rai Storia nel febbraio 2018). Pensiamo anche, addentrandoci in territorio italiano, ai lungometraggi Fango e gloria (2014) e Noi eravamo (2017)2, entrambi per la regia di Leonardo Tiberi, sorta di docu-fiction o cineromanzi patrocinati nientemeno che dalla Presidenza della Repubblica, dal Ministero dell’Istruzione e dal Ministero della Difesa, nei quali alle riprese dell’oggi, con attori recitanti un copione, si alternano senza soluzione di continuità immagini filmate di repertorio attinte dall’Archivio Storico Luce.
2La particolarità di questi programmi è che fanno un uso sui generis dei materiali d’epoca. Infatti, le immagini rinvenute negli archivi, in bianco e nero e senza sonoro, sono state per così dire “modernizzate”, grazie a particolari tecnologie digitali che hanno consentito di applicarvi il suono e il colore.
3Del suo Fango e Gloria Tiberi ha detto in un’intervista:
L’obiettivo era quello di costruire un prodotto coerente utilizzando i materiali di repertorio e nuove immagini girate ad hoc. La storia dei personaggi, una fiction a tutti gli effetti, doveva muoversi sulle immagini vere della guerra. Così abbiamo deciso di trattare i materiali a disposizione per rendere la guerra com’era, con i movimenti, i colori, le parole, i suoni che l’accompagnarono davvero.3
4Da questa dichiarazione si evince che quella che sarebbe potuta sembrare (e si sarebbe potuta difendere) come un’opzione squisitamente tecnica consistita nel mettere al lavoro squadre di coloristi e fonici per migliorare la qualità di vetusti materiali attraverso un vero e proprio lavoro di restauro, in realtà è stata concepita come un’operazione commerciale di intento per lo più divulgativo-pedagogico, sorretta da non blande ambizioni creative. E come tale è stata trattata dai molti recensori on-line (per lo più anonimi o non identificabili), i quali hanno accolto favorevolmente l’idea del racconto “partecipato” grazie al colore che fa essere esteticamente più accettabile o addirittura piacevole l’orrore, rendendo, come ha scritto un blogger (Orione95), «l’intero prodotto godibile anche per un pubblico più “casual”»4 (sic!).
5Forse non è un caso se, tre anni dopo, nel commentare il suo secondo film, Tiberi ha posto l’accento sulle caratteristiche diciamo “nobili” del proprio operato:
Nei laboratori del Luce e in altri altamente specializzati le preziose pellicole dell’Archivio Storico sono state quindi scansionate in Alta Definizione, restaurate da graffi e macchie, acquisite in digitale, variando la velocità di scorrimento – per eliminare le fluttuazioni ondulatorie che avevano le macchine da presa dell’epoca e che provocavano i movimenti accelerati e ridicoli a cui siamo abituati. Infine le immagini in bianco e nero sono state colorate, ma nel pieno rispetto della filologia e della storia, con un procedimento che nei risultati assomiglia molto alle bicromie di inizio secolo, come il Kinemacolor di Charles Urban.5
6Anche stavolta, le recensioni lodano per lo più la prodezza del regista «che è riuscito nell’impresa di creare una sorta d’indiscernibilità tra materiale di repertorio e quello di finzione, laddove le riprese dal vero delle scene di guerra si fondono, grazie alla suddetta operazione, in maniera quasi non più percepibile con il girato di fiction»6, dando prova, a voler essere generosi, di quella che Carlo Emilio Gadda, in un articoletto intitolato Dal Carso alla sala di proiezione (dedicato a La grande guerra di Mario Monicelli, che lo scrittore milanese aveva apprezzato) definì «la “consapevolezza storica” dei giorni attuali, che è la consapevolezza di chi siede in poltrona»7.
7In Francia, quando Apocalypse è approdato sui teleschermi, l’inserimento degli effetti acustici non ha sollevato particolari obiezioni, probabilmente perché i fragori dei combattimenti, intuibili e riproducibili con buona approssimazione grazie ai contenuti delle riprese, pur essendo anch’essi legati a una percezione sensoriale, sono più facilmente convalidabili in quanto puri e semplici “rumori” (diverso sarebbe naturalmente il discorso se si trattasse di suoni modulati). Il trattamento di colorizzazione fatto subire all’immagine ha invece suscitato dure critiche da parte di esperti di cinema, di storici, di giornalisti che hanno parlato di gratuita spettacolarizzazione della Grande Guerra, di deformazione della testualità autentica a fini economici, di illusionismo, tradimento, contraffazione, di uso indebito di effetti speciali iperreali8. Nel caso di specie risulta davvero difficile credere che, colorando le immagini della Grande Guerra, ci si sia voluti avvicinare al vero storico (come asseriva Tiberi per difendere l’accuratezza filologica del suo prodotto) e non invece far prevalere, tramite una soluzione di facilità, l’esigenza mediatica di far somigliare la Grande Guerra alle guerre ideate per lo schermo (il titolo Apocalypse ammicca palesemente ad Apocalypse now, il celeberrimo film di guerra di Francis Ford Coppola), in modo da catturare l’attenzione del pubblico offrendo uno spettacolo sensazionale, più conforme alla sua esperienza visiva, alle sue vere o presunte attese. In queste rappresentazioni dell’evento traumatico colorate a posteriori si potrebbe addirittura vedere una manifestazione di quella che Pierre Nora chiama frenesia di commemorazione (frénésie de commémoration) oppure ossessione commemorativa (obsession commémorative)9, che si manifesta quando nella collettività l’evento traumatico, appiattito sul presente, viene sopraffatto dalla retorica. Il lavoro della memoria che consentirebbe di approdare all’elaborazione del lutto viene artificiosamente semplificato, reso più affabile e, di fatto, rinviato, non svolto: il colore è insomma la veste confezionata per abbellire il passato traumatico, ovvero il dolcificante aggiunto per edulcorare la sintassi del ricordo, mistificandone le regole.
8In realtà possediamo immagini autentiche a colori della Grande Guerra che rendono ridondanti e obsolete sul nascere quelle di conio recente, relegandole inesorabilmente alla condizione ambigua di oggetti verosimili, in stallo cioè tra il vero e il falso, tra il possibile e il presunto, senza mai approdare al certo: si tratta di un patrimonio documentario ingente di circa 4.500 fotografie scattate sui campi di battaglia da fotografi professionisti per conto degli eserciti di vari paesi belligeranti e destinate agli archivi militari. Sono immagini prodotte grazie alla tecnica dell’autocromia, un procedimento complesso e costoso varato in via sperimentale dai fratelli Lumière nel 1903, commercializzato nel 190710. Ne troviamo riprodotte circa 320 nel volume The First World War in Colour, curato da Peter Walther nel 2014 per l’editore Taschen di Colonia. Settanta di queste immagini nate a colori, appartenenti alla Galerie Bildwelt di Berlino, erano state esposte per la prima volta in Italia nell’ambito della mostra La guerra a colori. La Prima guerra mondiale come non l’avete mai vista, svoltasi a Roma dal 7 novembre 2009 al 6 gennaio 2010. In precedenza, solo la Francia aveva esposto analoghe rarità con la mostra Mémoires en couleurs de la Grande Guerre. Autochromes 1914-1918, presentata all’Arco di Trionfo di Parigi dal 17 dicembre 2004 al 15 maggio 2005, poi riallestita a Reims, al Palais du Tau, nel febbraio-marzo 2006 con il titolo Les couleurs retrouvées. Autochromes 1914-1918.
9Naturalmente la complicata e al contempo rudimentale tecnologia autochrome, che presupponeva tempi di esposizione lunghi, non ha consentito di scattare con spontaneità e immediatezza: le persone ritratte (soldati o civili) sono state preparate e stanno composte; il territorio è vuoto di movimento. E così si potrebbe sostenere che le fotografie a colori della Grande Guerra sono per certi versi documenti paradossali: più vicine al vero dal punto di vista cromatico, poiché la realtà, salvo ad essere affetti da acromatopsia, non la si vede in bianco e nero, e però latrici di un’indubbia alterazione del conflitto vissuto, poiché per forza di cose escludono ogni traccia di naturalezza. Le fotografie in bianco e nero, quelle cioè che si accontentano di dipingere con la luce, fedeli all’etimologia del verbo fotografare, sono di fatto più autentiche (e dunque più preziose) di quelle approntate in autocromia, sia per quantità che per qualità, perché si contano a migliaia e migliaia, provenienti da tutti i fronti, e perché documentano senza eccesso di artificio un’immensa varietà di situazioni colte spesso nel loro farsi.
10Chi ha scattato tutte queste istantanee? In linea di massima gli ufficiali, appartenenti a ceti sociali ai quali la fotografia era già nota prima dell’arruolamento, i quali per di più hanno mezzi sufficienti per procurarsi il Vest Pocket Autographic modello 1915, l’apparecchio più diffuso, pieghevole, maneggevole e leggero (pesava meno di 300 grammi), brevettato dalla Eastman e prodotto dalla Kodak, munito di pellicole a rullino che la ditta stessa sviluppa, rimandando poi le stampe al mittente con un rullino nuovo in omaggio11, dimostrandosi così fedele al suo slogan pubblicitario: «Voi pensate a scattare, al resto pensiamo noi», fermo restando che, nelle seconde linee, alcuni soldati imparano a sviluppare e a stampare da sé, usando camere oscure portatili e liquidi che venivano venduti già dosati12. Benché nelle zone di guerra sia fatto divieto assoluto a militari e civili di fotografare e finanche di possedere un apparecchio senza autorizzazione, e sebbene a partire dal 1915 gli eserciti abbiano al fronte i loro fotoreporter (incaricati di alimentare gli archivi militari ma anche la pubblicità ufficiale e la propaganda), i fotografi amatori vengono tollerati, specie in ragione del fatto che la loro attività, nuova e sorprendente, è gradita ai soldati ed è fonte di coesione fra commilitoni13: i fotografi improvvisati ritraggono gruppi e ambienti (la mensa, la trincea, le baracche, le tende, le marce); le fotografie, testimonianze di un’esperienza unica, vengono condivise, scambiate e anche spedite a casa, consentendo così ai non combattenti di partecipare alla vita dei soldati, o quantomeno di crederlo. In Italia, per la verità, vengono pubblicate in larga parte fotografie ufficiali, selezionate dalla censura, in particolare su riviste settimanali di successo quali «L’Illustrazione Italiana» (che ne stampa 1.800 circa), «La Domenica del Corriere» (800 circa) e «La Tribuna illustrata»14. In Francia, invece, non appena i giornali scoprono che la guerra è fotogenica e cioè che è possibile procurarsi fotografie ben più eloquenti e spettacolari di quelle divulgate dagli stati maggiori, si scatena una vera e propria caccia all’immagine, con tanto di concorsi che ricompensano i vincitori con premi in denaro, favorendo così il proliferare degli scatti. Come sottolinea Philippe Dagen nel commentare le iniziative e le promesse di immagini sensazionali lanciate in Francia da riviste molto popolari quali «Le Miroir» e «L’Illustration»,
l’image mécanique s’impose à partir de 1914 dans la représentation immédiate de la guerre. Elle règne par le nombre, la diversité et l’intensité. […] Elle évince les illustrateurs, praticiens du dessin et de la couleur […]. L’illustration manuelle se défend mal contre les soupçons d’inexactitude, alors que l’image mécanique, qui triche plus discrètement et qui bénéficie de sa relative nouveauté, échappe au doute.15
11Al pubblico del 1914-18 il colore importa meno dell’immagine, sia essa ferma e stampata sulla carta oppure mobile e proiettata al cinematografo nei cinegiornali: l’immagine riveste un’attrattiva tale da rendere non solo accettabili, ma addirittura desiderabili le scene cruente di soldati all’assalto o di cadaveri a perdita d’occhio, poiché recepite come veritiere. Ci accorgiamo così che, modificando per lo spettatore di oggi il materiale veduto nel mondo di ieri, eliminandone una caratteristica saliente come l’acromia, lo si priva della conoscenza non solo del documento autentico, ma anche di quella che è stata la ricezione, l’esperienza visiva dei primi destinatari del documento autentico, e paradossalmente, lo si allontana da una parte della realtà umana e sociale che quel documento portava con sé.
12Chi colora oggi sembra non curarsi affatto dell’esperienza del pubblico di allora né peraltro di rispettare la fatica dei cineoperatori di guerra, che lavoravano in condizioni spesso proibitive. In compenso si presenta come garante dell’esperienza dei combattenti, dando per scontata la conoscenza delle loro percezioni. Ricordiamo le parole di Tiberi: «rendere la guerra com’era», «i colori […] che l’accompagnarono davvero», «nel pieno rispetto della filologia e della storia»; e aggiungiamoci quelle di Frédéric Duriez, noto creativo francese, colorista quotato di bandes dessinées e di immagini vintage, il quale spiega il proprio intervento sistematico sulle fotografie in bianco e nero della Grande Guerra in questi termini: «attraverso le fotografie ricolorate apprezziamo le sofferenze, le paure, le difficoltà e le amarezze dei soldati impegnati nel conflitto che si mostrano a noi con una vividezza sconosciuta prima»16. Se esaminiamo alcuni dei risultati della coloratura applicata da Duriez ci accorgiamo che la cura maggiore è dedicata al supporto-vettore dell’immagine e non al vissuto dei soldati: le uniformi sono impeccabili, del bel bleu horizon caratteristico dell’esercito francese, il colorito dei volti dei soldati è sano; non un panno inzaccherato, non un viso sporco o provato. Siamo molto distanti dalle fotografie a colori di allora, ovviamente, le quali erano smorte perché la tecnica del colore era ancora precaria, ma sentiamo altresì molto remote, checché ne dica Duriez, «le sofferenze, le paure, le difficoltà e le amarezze dei soldati impegnati nel conflitto»: infatti, non appena ci volgiamo ad esaminare le rappresentazioni della vita di guerra offerte dai protagonisti, soldati-pittori o soldati-scrittori, ma anche soldati non artisti di cui ci sono pervenuti diari o lettere – che pur senza filmare o fotografare, hanno raccontato la Grande Guerra come l’hanno conosciuta, da attori-testimoni – ci accorgiamo che la presenza del colore è minima, in molti casi nulla, e che il colore, quando c’è, non è affatto vivido. Non perché le osservazioni relative alle percezioni visive non siano abbondanti. Come ci apprestiamo a verificare, è semmai vero il contrario.
13Tutti i combattenti di cui abbiamo esaminato i testi, per lo più italiani e francesi, ma in minor numero anche inglesi, sembrano consapevoli della novità che stanno vivendo pur senza descriverla nei termini scientifici di chi a decenni di distanza studia e spiega che la Grande Guerra «segna il trionfo della tecnologia anche come agente di trasformazione delle esperienze visive e sonore, ossia delle forme della percezione»17; pur senza spiegare che è la prima guerra che sconvolge profondamente i sensi, specie l’udito e la vista, mettendo in pericolo l’equilibrio sensoriale degli individui, esposti a subitanei e continui sconvolgimenti tanto da manifestare passeggere turbe allucinatorie o, peggio, da sviluppare permanenti patologie della psiche.
14Combattuta specialmente di notte, poiché gli assalti vengono sferrati di preferenza col favore delle tenebre, la guerra si staglia su un fondale per così dire fittizio, stupefacente: «questa è la guerra del buio» annota Benito Mussolini, «le giornate trascorrono in una grande tranquillità: le notti invece sono sempre movimentate»18. Gli uomini vengono per un verso costretti ad invertire il naturale ritmo dell’esistenza (poiché sono a riposo di giorno e attivi di notte) e per un altro a subire l’illuminazione artificiale di cielo e terra a forza di razzi e riflettori che lampeggiano improvvisi e, oltre a sorprendere o spaventare con bagliori intensi, stravolgono la vista (l’occhio umano essendo specializzato per la visione diurna) e, per giunta uniti a concomitanti artifici sonori, provocano una destabilizzazione globale della percezione. Persistente anche in Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu è il ricordo del buio circostante nel quale i soldati aspettano, scavano, ombre tra le ombre, come fantasmi, protetti dall’oscurità e poi dell’improvviso levarsi di un razzo, di un chiarore, di un bagliore che li disorienta, creando illusioni ottiche: «i razzi, di fronte a noi, si levavano a centinaia, senza interruzione, uno dopo l’altro, e scoprivano le nostre ondate»; «la nostra immobilità sotto la luce dei razzi ci confondeva con i cespugli e con i tronchi d’albero»; «la luce improvvisa dava un’apparenza di movimento alla foresta»19. Finanche Ardengo Soffici, in Kobilek (che pure vuol essere un memoriale inebriante quanto l’esperienza che narra, in cui «convergono e s’intrecciano più registri a variazione e compimento dello stile eroico»20), registra il turbamento degli «occhi abbacinati» e osserva l’effetto allucinante dell’artificio luminoso: «i riflettori nostri ed austriaci allargavano la valle di un mobile chiarore lattiginoso, per entro il quale sbocciavano stelle radiose di luce bianca, splendevano steli e fiori di razzi»; la «serena oscurità» si trasforma infatti in «oscurità balenante»21. Guillaume Apollinaire ha a sua volta insistito su «ces fusées qui illuminent la nuit» (Merveille de la guerre); «Le ciel […] étoilé par les obus des Boches» (La nuit d’avril 1915), «Feu d’artifice en acier / Qu’il est charmant cet éclairage / Artifice d’artificier» (Fête), «les nuits sont parées de guirlandes d’éblouissements» (A l’Italie)22. E, come lui, Paul Fort: «Il me semble un moment que je deviens aveugle. Où suis-je ? Tout est noir. On m’a touché ? Je vois, je recommence à voir. Quel esprit me condamne à voir du firmament une pluie d’astres fous choir éternellement ?» (Premier jour de guerre)23. Parole, queste, che sembrano dare il risalto della controprova a quelle utilizzate da Michel Foucault quando ha tratteggiato i lineamenti della «ragione abbagliata»:
Nell’abbagliamento l’indietreggiare degli oggetti verso la profondità della notte ha come sua correlazione immediata la soppressione della visione stessa; nell’istante in cui vede gli oggetti dileguare nella notte segreta della luce, la vista si vede nell’attimo della sua sparizione.24
15Scintille, faville, baleni, vampe, lampi, fiamme, fuochi: le luci di sfondo sono onnipresenti, ma, nei testi, vengono di rado associate a manifestazioni cromatiche, probabilmente perché quando all’occhio abbagliato la vista sembra deformarsi o addirittura sfuggire, il colore perde consistenza, non si fissa e poi svanisce. Accenni ai colori emergono quando i riflessi folgoranti dei cannoneggiamenti o i vapori chimici dei gas si aggiungono all’illuminazione artificiale dell’azione di guerra. Sono però etichettature generiche, come a voler definire l’indefinibile innestando brani di conoscenza pregressa nella terribile novità dell’esperienza: il cielo era «rouge de feu», osserva un territoriale francese dopo un bombardamento tedesco; alcuni soldati italiani intossicati confidano a un medico di aver visto una «nube di color verde-giallastro» o «un fumo con colori simili a quelli dell’arcobaleno»25; le fiamme e i lampi istantanei del bombardamento «riempiono il cielo di un bagliore violaceo di temporale», annota Soffici, rinunciando per un attimo al sublime scenografico che contraddistingue lo «spettacolo superbo e terribile», la «successione di buio e chiarori policromi» raccolti nel suo giornale di battaglia26; «stelle filanti nei cieli / veli di verde lontano», scrive Luciano Folgore nei versi di Sveglia sentinella, ricorrendo a sua volta a immagini pre-codificate.
16Prescindendo dai momenti particolari in cui intervengono fenomeni visivi artificialmente indotti, ci accorgiamo che, nello scorrere dei giorni, la vita al fronte scompagina il normale dispiegarsi dei colori naturali. Sebbene venga combattuta in territori paesaggisticamente suggestivi come le Alpi Giulie, le colline dell’Alsazia, le pianure delle Fiandre, il Carso sloveno, la guerra annienta la dimensione estetica e cromatica del territorio, rendendolo spettrale agli occhi di chi lo osserva stranito. Il conflitto, ad esempio, muterà per sempre le montagne del Vicentino, dove migliaia di ettari di bosco andranno perduti; nel Trentino, le zone travolte dalla guerra «vennero chiamate “la zona nera”», espressione che rende efficacemente l’idea della devastazione, della sofferenza patita dalla terra: «la guerra aveva ridotto di quasi due terzi la superficie coltivata… ucciso quasi metà del bestiame… e ridotto la produzione vitivinicola a un’ombra di se stessa»27.
17L’attacco folgorante della novella La paura di Federico De Roberto (1921) restituirà intatto il senso dello sconvolgimento vissuto dal territorio e da chi, terrorizzato, ne subisce la metamorfosi:
Nell’orrore della guerra, l’orrore della natura: la desolazione della Valgerebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise, la forca del Palato e del Palbasso, i precipizi della Fòlpola: un paese fantastico, uno scenario da Sabba romantico, la porta dell’Inferno. Non una macchia d’albero, non un filo d’erba tranne che nel fondo delle vallate: lassù un caotico cumulo di rupi e di sassi, l’ossatura della terra messa a nudo, scarnificata, dislogata e rotta.28
18Gadda, nel suo Giornale di guerra e di prigionia, ci segnala il rovesciamento di percezione e prospettiva fin dalle prime annotazioni, quando, appena giunto a Edolo di Valle Camonica, rammenta come la montagna avesse sempre suscitato in lui «vivissima emozione fantastica e sentimentale», mentre ora che funge da scenario delle operazioni di guerra lo lascia «indifferente del tutto». Il ricordo della sana «durezza alpinistica»29, della nebbia e del bosco, nella mente ancora associati alle passeggiate con gli amici, affiora, ma subito si dissolve nel senso di estraneità che incutono i muli, i carriaggi, la mensa chiassosa, parvenze di un presente che promette solo marce forzate, tra estranei, nella neve, verso vette ostiche contese al nemico.
19Per parte sua, il pittore Robert de La Sizeranne descrive così il paesaggio divenuto irriconoscibile:
Ce n’est plus le riche paysage d’autrefois, complexe et vivant […] c’est une terre nue et aride, bouleversée, retournée, émiettée […] couverte de débris de choses concassées, indiscernables […] un désert pétré où rien ne croît, rien ne bouge, rien ne vit. A quoi s’ajoutent l’abandon des uniformes colorés, la boue, la poussière et la fumée qui achève de dissimuler le peu qu’il resterait à percevoir.30
20E, su questo sfondo, così vede i soldati: «une file de fantômes monochromes, qui s’enfoncent dans un horizon indiscernable, à travers une atmosphère fumeuse»31.
21«Qu’il fait gris ! […] Qu’il fait froid ! Tout est gris, / Plaines, saules et perdrix», così Georges Chennevière nel 1916 (Poèmes 1911-1918); e un altro poeta, François Bernouard: «Les tranchées / sont remplies de boue, / nos pieds sont dans la boue / nos vêtements sont couverts de boue, / nos mains sont pleines de boue, / sur nos lèvres de la boue, / sous nos dents de la boue, / de la boue… de la boue… de la boue… / partout»32. La guerra è cupa e sporca, dominata da infinite sfumature di tinte smorte: neve, melma, fango, filo spinato, sacchi di sabbia, calce, rocce, cadaveri, «croci di legno nude su la nuda / terra», scrive Diego Valeri in Croci di legno33. Sentiamo ancora Apollinaire: «Un grand manteau gris de crayon comme le ciel m’enveloppe jusqu’à l’oreille» (Veille)34; e Mussolini: «Guerra grigia, di rassegnazione, di pazienza, di tenacia», «Mattinata livida», «Cielo buio e terra più livida ancora», «cielo uniforme, bigio, come il saio di un frate, sgocciolante»35; e Gadda: «grigio squallore», «grigie case di petrame»36.
22La descrizione dell’assenza di tinte nella realtà della guerra, di quella vivacità che potrebbe gratificare e ispirare l’occhio dell’artista, assume un aspetto veemente, pressoché di denuncia, nelle parole di un pittore di fama, Fernand Léger: «Imagine-toi la mer à perte de vue avec des vagues, mais des vagues qui ne bougent pas. Tout cela est gris, sans une couleur, sans rien, sauf la petite tache blanche d’une main ou d’une tête qui sort de la boue» – così descrive Verdun a Jeanne Lohy il 26 ottobre 1917. Léger osserva le file di prigionieri tedeschi: «Ils ont passé dans Verdun en ruine comme des ombres silencieuses. C’était la même chose. C’était la même couleur»37. Dalle Argonne, nel 1915, aveva già scritto: «La guerre est une chose tout à fait grise et incolore et toujours la même sans nouveauté. C’est quelque chose comme un immense cimetière où d’innombrables fossoyeurs tous habillés de même tuent et enterrent machinalement un petit peu plus tous les jours»38. Da soldato dipinge ombre, forme, linee, non colori: «la peinture se réduit au blanc, au noir et à des bruns qui sont obtenus parfois en collant des découpages de papier d’emballage»39. Quando nel 1937, in una conferenza tenuta ad Anversa, intitolata Couleur dans le monde, Léger torna sulla sua lunga esperienza di combattente nella Marna, nelle Argonne e, appunto, a Verdun (dov’era rimasto intossicato nel 1916), ribadisce:
La guerre fut grise et camouflée. Une lumière, une couleur, un ton même étaient interdits sous peine de mort. Une vie d’aveugles, une vie nocturne à tâtons, où tout ce que l’œil pouvait enregistrer et percevoir devait se cacher et disparaître. […] Personne n’a vu la guerre, caché, dissimulé, à quatre pattes, couleur de terre, l’œil inutile ne voyait rien: quatre années sans couleur […].40
23Impantanati in un mondo incolore, per di più impossibilitati a rivaleggiare con i fotografi capaci di cogliere l’attimo che sulla tela non si può fissare, e coscienti dell’inutilità di misurarsi con la parola degli scrittori che, narrando, svolgono, elaborano, rivelano, i pittori avvertono che la loro è un’arte lacunosa; anzi, al cospetto di una catastrofe di portata mai vista, è propriamente “lacuna”: in questa guerra «sans panache», commenta Philippe Dagen, «guerre d’engins et guerre de taupes, matériel et hommes sont terrés, invisibles […] l’emploi d’uniformes ternes se confondant avec le terrain rendent impossibles l’observation et le travail de l’artiste»41. Persino i futuristi toccano con mano i limiti delle loro illusioni: Gino Severini produce nel 1915 Sintesi plastica dell’idea: guerra, ratificando fin dal titolo la propria incapacità ad andare oltre l’allusione, oltre, per l’appunto, l’idea della guerra; Carlo Carrà, con la serie di disegni Guerrapittura, nel 1915, chiude la stagione del «futurismo guerriero»; la pittura di Giacomo Balla addirittura volge le spalle all’attualità. In estrema sintesi, con lo stesso Dagen, possiamo dire che la guerra «a consommé la défaite du futurisme dans les œuvres de ses adeptes majeurs»42, esaurendone le spinte pregresse, senza generare maniere e impulsi nuovi.
24Va infine richiamata l’attenzione sul fatto che, accanto al dato concreto, materiale della povertà di colore dell’ambiente bellico, che manda in crisi il codice cromatico della percezione e della rappresentazione al quale gli uomini erano avvezzi, emerge tra gli artisti anche un’esigenza di ordine morale che conduce all’estromissione del colore dall’orizzonte della descrizione. È ancora un pittore, Jacques-Emile Blanche, a segnalare subito, fin dallo scoppio del conflitto, come l’intenzione funzionale di una restituzione a colori dell’evento non gli paia praticabile: «Ne pouvant peindre la guerre avec des couleurs, et incapable de penser à autre chose qu’à la guerre, un artiste la décrit comme il peut, à la plume et au crayon»43. Posizione che Gadda sembra condividere, tanto da ritenere di dover giustificare, chiosandolo, un suo fuggevole accenno cromatico a descrivere il fumo di lontane granate, come se volesse affermare con vigore la costitutiva eticità del suo narrare: «Perché ricordo il fumo giallo sul monte? Perché anche l’immagine esterna, pittorica dell’episodio possa essere risuscitata»44. Il colore costituisce una superfetazione, un abbellimento da artisti, un vezzo aggiunto, effettivamente inadeguato alla gravità dell’evento.
25Posizione questa che, a ben vedere, condivide anche Soffici: lasciando da parte le note accese di Kobilek, il memoriale volutamente stracolmo di colori, appositamente e provocatoriamente concepito come «ricerca di prevalente carattere artistico-letterario»45 per celebrare con fragorosa retorica di controtendenza (almeno tra gli intellettuali, tra gli artisti) una battaglia vinta, e volgendosi invece ad esaminare La ritirata del Friuli, cioè il suo memoriale di Caporetto, noteremo che si ferma praticamente alle soglie del colore, come a far prevalere il ritegno cromatico al cospetto della tragedia: «La pianura, buia, deserta tutt’intorno fino all’orizzonte annegato nella caligine, aveva qualcosa di morto e pauroso. Poche luci rossastre, disseminate qua e là fra le masse oscillanti degli alberi, aumentavano quel senso di desolazione truce»46.
26Posizione che prevale in tutti gli schieramenti, compreso quello degli inglesi, nazione di giardinieri (come vuole il detto) il cui immaginario fondamentalmente agreste-arcadico costituisce l’antitesi per eccellenza dell’universo della guerra. Come ha osservato Paul Fussell, nell’universo diabolicamente antipastorale del fronte, al «sudicio verde delle siepi di filo spinato e paletti», al «mondo scolorito», al «morto mare di fango»47 che li sovrasta, scrittori e poeti inglesi contrappongono continue rievocazioni dei prati erbosi e dei fiori di casa (prime fra tutte le rose, le rose d’Inghilterra, quella bianca e quella rossa) per lamentarne l’assenza, certo, ma anche per misurare fino in fondo l’indecenza della guerra. Narrano infatti l’onnipresenza del papavero rosso di Fiandra che, con la sua invadenza monocromatica, non fa che rammentare il sangue dei soldati che nutre le sue radici e lo rende così acceso, e oppone un contrappunto amaramente ironico alla scialbatura circostante, ch’esso dolorosamente esalta. Ma come canta Edgar A. Guest in The Things that Make a Soldier Great, la lirica del 1918 divenuta emblematica, il colore vero, vivace, vitale, per l’appunto, appartiene alla propria terra, al ricordo della propria terra, non alla terra desolata dalla guerra, la waste land che darà il titolo all’omonimo poemetto di T.S. Eliot (pubblicato quattro anni dopo la fine del conflitto), la cui essenza non potrà mai essere caratterizzata dal colore:
The things that make a soldier great and send him out to die,
To face the flaming cannon’s mouth, nor ever question why,
Are lilacs by a little porch, the row of tulips red,
The peonies and pansies, too, the old petunia bed,
The grass plot where his children play, the roses on the wall:
‘Tis these that make a soldier great. He’s fighting for them all.
27D’altra parte, se gli inglesi associano il colore al mondo idillico del loro giardino, della loro campagna natia per rimarcarne la lontananza, anche fra i diaristi e memorialisti italiani il colore riappare quando il pensiero si assenta dal fronte per volgersi all’affabile mondo di prima o quando la persona si allontana (per una licenza, ad esempio) dalle zone di guerra verso le retrovie: «cominciano i segnali dell’altra vita», annota Mussolini di strada verso Caporetto il 7 novembre 1915: «Incontriamo degli ufficiali dall’uniforme impeccabile. Attendenti pasciuti e rubicondi […] I soldati hanno una cera molto, molto meno selvaggia della nostra […] Ecco l’Isonzo impetuoso e ceruleo. […] I paesani guardano con una certa curiosità i nostri abiti laceri e infangati, le nostre mani e i nostri volti sudici e anneriti»48. E Soffici: «Ho l’ossessione di tutto quello che abbiamo perso: vedo le città, i paesi, i monti, le campagne, le strade, di là, tutto il meraviglioso, diletto Friuli come immerso in una luce d’oro»49. Il contrasto cromatico tra i due mondi si conferma lampante alla lettura di un noto canto popolare, rimaneggiato dagli alpini durante la guerra: La canzone della Celestina ovvero Dove sei stato mio bel Alpino?. La ragazza, Celestina, rivede l’innamorato tornato dal fronte e gli chiede perché ha cambiato colore; il giovane, segnato nell’incarnato dalla vita militare, le risponde strofa dopo strofa che è stata l’aria dell’Ortigara, poi del Monte Nero, poi del Pasubio, poi del Monte Grappa e infine, da ultimo, il fumo della mitraglia «che [gli] ha cambià color»; la canzone termina con le parole confortanti della giovane, vessillo della vita civile dove si torna alla normalità cromatica: «Ma i tuoi colori ritorneranno / I tuoi colori ritorneranno / questa sera a far l’amore»50.
28A questo punto non pare troppo azzardato asserire che presentando la Grande Guerra a colori si compie un’operazione doppiamente irresponsabile, tanto sul piano dell’estetica che su quello dell’etica. La questione della restituzione doppiamente irresponsabile della Grande Guerra se l’era posta nel 1975 Paul Fussell, quando aveva osservato con preoccupazione che
un fenomeno impressionante degli ultimi vent’anni è questa ossessione delle immagini e dei miti della Grande Guerra da cui sono dominati romanzieri e poeti, troppo giovani per averla sperimentata direttamente. Essi hanno sviluppato il tema servendosi di mezzi puramente letterari, che di necessità trasformano la guerra in un “soggetto” e ne semplificano i motivi, traducendoli in miti e figure che esprimono la condizione esistenziale moderna [e] forniscono alla sensibilità post-moderna un esempio assai efficace del modo in cui il presente influenza il passato.51
29Nel 1959, quando invece erano ancora vivi molti reduci e l’evento non era altrettanto distante, Gadda, durante la proiezione de La grande guerra, il film monicelliano che non valutava severamente, aveva a sua volta rilevato appunto un «equivoco espressivo», un difetto della ricezione, notando «insistente, nella sala, una certa disposizione alla risata», osservando che le annotazioni del film avrebbero potuto annodarsi in un «tragico racconto» a condizione che «i sedili del cinema disponessero di sedenti moralmente attrezzati ad accogliere il dramma, quel dramma: se il pubblico potesse costituirsi a coro espiatorio, se un minimo di religiosità, di pietà, di sgomento, accompagnasse la percezione degli enunciati della tragedia»52. Proprio perché il film narrava a quegli spettatori una storia che non era la loro con il linguaggio che poteva essere il loro, la presa di coscienza compassionevole non era potuta avvenire.
30Con questo nostro percorso desideriamo beninteso schierarci tra coloro che credono che la ri-valutazione e la ri-significazione della Grande Guerra in questo inizio del terzo millennio siano non solo augurabili, ma necessarie: a condizione che il ri-esame avvenga senza occultare la discontinuità tra quanto è accaduto e il nostro tempo, che non si scelga cioè una lectio facilior per offrire al consumo un artefatto che contamina la percezione e ostacola la comprensione dell’evento, che l’intenzione conoscitiva accantoni decisamente l’ambizione di ricostruire a forza di restauri presunti la “vera” immagine del passato.
Bibliographie
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Notes de bas de page
1 Sulla necessità di distinguere commemorazione e celebrazione si veda Jeanneney (2013). Sui pericoli consumistici del centenario in chiave turistica, con tanto di escursioni guidate al fine di organizzare la memoria, cfr. Wu Ming 1 (2015), in particolare le pp. 24-25 e 123-26.
2 Fango e gloria, regia di Leonardo Tiberi, 90’, distribuzione: Cinecittà Luce, produzione: Italia 2014, data di uscita: 16 ottobre 2014. Noi eravamo, regia di Leonardo Tiberi, 90’, distribuzione: Istituto Luce, produzione: Italia 2017, data di uscita: 22 maggio 1917.
3 www.repubblica.it/speciali/cinema/venezia/edizione2014/2014/08/28/news/fango_e_gloria_la_grande_guerra_tra_fiction_e_realt-94569906/
4 www.mymovies.it/film/2014/fangoegloria/pubblico/?id=731376.
5 www.filmitalia.org/p.aspx?t=film&l=it&did=96393.
6 Luca Biscontini, “Noi eravamo” di Leonardo Tiberi: un nuovo entusiasmante modo di raccontare la storia, 20 maggio 2017, sul sito www.taxidrivers.it/91697/
7 C.E. Gadda, Dal Carso alla sala di proiezione, in Gadda (1993), p. 1173. L’articolo, il cui titolo è quasi certamente redazionale, esce il 15 dicembre 1959 sul settimanale d’attualità politica e varietà «Settimo giorno».
8 Si veda in proposito l’efficace sintesi contenuta nell’intervista del settimanale «Télérama» (25 marzo 2014) a Laurent Véray, professore di studi cinematografici e audiovisivi all’Université Sorbonne Nouvelle-Paris 3. Cfr. inoltre Veray (2008), dedicato alla Grande Guerra al cinema.
9 Cfr. Nora (1984-1992), specialmente, nel tomo 3 Les France [1992], P. Nora, De l’archive à l’emblème, pp. 977 e ss.
10 La lastra di vetro autocroma veniva ricoperta di un composto denso fatto di fecola di patate e terra colorata di rosso, verde e violetto, sul quale si aggiungeva una leggera coltre di polvere di carbone.
11 Per ulteriori approfondimenti, si veda l’apparato critico in Adam (2013). Ed inoltre: Prochasson- Rasmussen (2004); Gervereau (2001); Ventrone (2005), specie il cap. iv, Il fronte interno, pp. 127-72; Aa. Vv. (1980).
12 Cfr. Aa. Vv. (2004), in cui sono raccolte esclusivamente immagini scattate da fotografi amatori.
13 Nel diario di guerra di Benito Mussolini, per esempio, si trovano varie annotazioni relative alla fotografia che, lo si intuisce, avvicina i compagni d’arme. Leggiamo un breve lacerto: «Nella tenda ci sono altri ufficiali. […] Chiacchiere. Posiamo tutti insieme per un gruppo fotografico. Io tengo, nella destra, una bomba». Mussolini (1931), p. 81.
14 Per ulteriori approfondimenti, relativi anche ad altri paesi, si veda A. Schwarz, La retorica del realismo fotografico, in Aa. Vv. (1980), pp. 3-9.
15 Dagen (2012), pp. 61-62.
16 Cfr. www.vanillamagazine.it/45-fotografie-ci-mostrano-la-prima-guerra-mondiale-a-colori/
17 Gibelli (2007), p. 164. In merito al «bombardamento sensoriale» subito dai combattenti, si veda soprattutto il capitolo 4, Un nuovo paesaggio mentale, in particolare le pp. 164-183, dove qualche breve osservazione viene dedicata ai soli «colori artificiali» (pp. 182-183) prodotti dalle luci violente delle esplosioni, dai riflettori, dai razzi illuminanti.
18 Mussolini (1931), p. 155.
19 Lussu (2000). I lacerti citati si trovano rispettivamente alle pp. 71, 80, 133.
20 F. Mattesini, Da Soffici a Gadda. La montagna tra impressionismo pittorico ed espressionismo tragico, in Ardizzone (2000), p. 4.
21 Soffici (1919). I brani citati si trovano rispettivamente alle pp. 39, 60 (2), 62.
22 Si veda Apollinaire (1966), pp. 137, 107, 101, 143.
23 Per il testo di Paul Fort basterà rinviare all’antologia curata da Béal (2014), che contiene significative liriche di poeti-soldati.
24 Foucault (1976), p. 282.
25 Si tratta di testimonianze riportate in Gibelli (2007), p. 182 e p. 183.
26 Soffici (1919), pp. 61 e 86.
27 Wu Ming 1 (2015), pp. 116-17.
28 F. De Roberto, La paura, in De Roberto (1998), p. 1557.
29 C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, in Gadda (1992), p. 443.
30 La Sizeranne (1919), p. 226.
31 Ivi, p. 243.
32 Beal (2014), p. 126 (Chennevière), p. 74 (Bernouard).
33 Valeri (1921), p. 28.
34 Apollinaire (1966), p. 77.
35 Mussolini (1931), pp. 80, 188, 189, 197.
36 C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia cit., pp. 446 e 452.
37 Léger (1990), p. 66.
38 Ivi, p. 53.
39 Dagen (2012), p. 178.
40 Fernand Léger, Couleur dans le monde, in Léger (1997), p. 206, corsivi nostri.
41 Dagen (2012), p. 98.
42 Ivi, p. 172.
43 Blanche (1916), p. 9.
44 C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia cit., p. 585, i corsivi sono di Gadda.
45 F. Mattesini, Da Soffici a Gadda cit., p. 4.
46 Soffici (1986), p. 281.
47 Fussell (2000), pp. 404, 405, 336.
48 Mussolini (1931), p. 100.
49 Soffici (1986), p. 328.
50 Cfr. Savona- Straniero (1981).
51 Fussell (2000), p. 409.
52 C.E. Gadda, Dal Carso alla sala di proiezione cit., p. 1170.
Auteur
É professore ordinario di italianistica all’Università Côte d’Azur. Autrice di saggi critici sul romanzo e sulla cultura del Novecento, si è dedicata in particolare alle opere di Carlo Emilio Gadda, del quale ha curato l’edizione de I Littoriali del lavoro e altri scritti giornalistici 1932-1941 (ETS, 2005). Tra i suoi scritti più recenti si ricordano: Gramsci logoteta («Chroniques italiennes», 2/2018) e L’art romanesque du Guépard («Europe», 1077-1078/2019). Ha diretto insieme a Barbara Meazzi il numero monografico dei «Cahiers de la Méditerranée» (97/1, 2018) su L’autre front / Il fronte interno. Art, culture et propagande dans les villes italiennes de l’arrière (1915-1918). Insieme ad Antonio Nicaso e Donato Santeramo ha diretto il numero monografico dei «Cahiers de Narratologie» (36/2019) su Rhétorique et représentations de la culture mafieuse. Images, rituels, mythes et symboles. Attualmente collabora al programma di ricerca internazionale Noicontrolemafie.
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