Antonio Gramsci davanti al conflitto mondiale: dall’opposizione attraverso il giornalismo al programma politico per il dopoguerra
p. 52-74
Texte intégral
1Lasciate alle spalle le iniziali incertezze di giudizio sul conflitto di cui si trova traccia in un articolo che provocherà al suo autore discutibili accuse di filo-interventismo1, Gramsci, redattore nel quotidiano del Partito socialista italiano, a cui ha aderito fin dal 1913, svolgerà un lavoro intensissimo di commentatore del conflitto, non già nei suoi aspetti militari o diplomatici, ma nei suoi effetti politici e, ancor più, sociali, antropologici. Anche se la produzione giornalistica gramsciana si registra a partire dall’autunno del 1915, dopo un anno di auto-emarginazione causata probabilmente dalle accuse dei compagni, emerge fin da quell’articolo una concezione realistica della guerra, lontana dal pacifismo, ma anche una lettura coerentemente marxistica che sembra rifiutare il mero schieramento di principio, e non cade nella trappola del conflitto democrazie/autoritarismi, o altre siffatte dicotomie semplicistiche, e storicamente errate, spesso mosse da un antigermanesimo a cui il giovane giornalista è del tutto estraneo. In primo luogo, nel pensiero di questo “giovane” Gramsci è centrale il principio che la guerra è un fatto storico, in grado di produrre conseguenze rilevanti, e di aprire fasi nuove.
2In secondo luogo, v’è una costante attenzione alla dimensione di classe del conflitto, e ai diversi, contrapposti ruoli delle classi dominanti e dominate: anche la guerra è un fatto di classe, in sintesi, e il giudizio e l’azione dei socialisti non possono prescindere da questo dato. Tutto il discorso gramsciano sulla guerra, dal 1914 in poi, anche prima dell’ingresso dunque dell’Italia nel conflitto, rifugge da semplificazioni, da un mero schieramento ideologico, e addirittura si percepisce il fastidio verso il sentimentalismo che appare la base del rifiuto della guerra negli ambienti pacifisti, ma anche dell’anti-interventismo dei socialisti. A distanza di anni, nella rielaborazione nella prigionia, osserverà:
abbondante demagogia verso gli interventisti anche se stati interventisti da giovanissimi. La mozione per cui si stabiliva che gli interventisti non potevano essere ammessi nel partito fu solo un mezzo di ricatto e di intimidazione individuale e un’affermazione demagogica […] servì a falsificare la posizione politica del partito che non doveva fare dell’anti-interventismo il perno della sua attività, e a scatenare odî e persecuzioni personali verso determinate categorie piccolo-borghesi.2
3Fu così che il psi perse il contatto con quei ceti, e «se li rese nemici gratis, invece di renderseli alleati»3, e fissato sulla battaglia demagogica contro gli interventisti di ieri, non comprese le novità prodotte dalla guerra, anche nella psicologia, oltre che nelle condizioni sociali concrete, delle classi medie, specie intellettuali. È questo invece il punto focale su cui Gramsci giornalista socialista concentra la propria atten-zione.
4A partire esattamente dal 31 ottobre 1915, la sua firma (o la sua sigla A. G., oppure “Alfa Gamma”), ricompare sul «Grido del Popolo», a un anno di distanza dall’articolo “famigerato” e nella pagina torinese dell’«Avanti!», dove, grazie ai vuoti apertisi con la guerra, viene assunto come redattore. Su questi fogli, Gramsci si fa promotore di un giornalismo critico, informato, che mostra l’effetto persistente della «scuola di Torino», «l’etica dell’intelletto», «l’esperienza del vero», come recita l’insegna del Laboratorio di Economia politica: rigore, metodo, raccolta di dati, prima di esprimere giudizi e valutazioni4. Nei testi si avverte lo storicismo della «cultura positiva», e questo giovane Gramsci giornalista è quasi uno scienziato sociale. Ma è altresì un giovane intellettuale che raccoglie gli auspici di Romain Rolland che dal buen retiro elvetico sprona i chierici a rimanere fedeli alla loro unica patria, quella della Ragione, resistendo all’imbonimento dei conferenzieri cialtroni e dei commentatori prezzolati. È una guerra che spegne il senso critico, e trasforma studiosi, letterati, artisti in corifei del potere: gli intellettuali in chierici armati5.
5Significativo, perciò, il frequente riferimento negli articoli gramsciani a Rolland, «grande e coraggioso scrittore», «forte pensatore»6. Su di lui, tiene anche delle conferenze7. Au-dessus de la mêlée, il volumetto in cui lo scrittore ripubblica il lungo articolo apparso sul «Journal de Genève», nel settembre del 1914, viene pubblicato in italiano proprio dalla Società Editrice “Avanti!” nel 1916. Ma in Rolland non ci sono vere analisi, e lo scrittore si limita a fare appello al buon senso degli uomini, alla buona volontà, al coraggio che non è quello di chi uccide o va a farsi ammazzare nelle trincee, bensì quello di fare appunto uso, un buon uso, della Ragione. Il coraggio, ecco la virtù prediletta dallo scrittore francese, sia nella sua produzione letteraria, sia nella sua azione politica8. E Gramsci rende onore a quel coraggio; raccoglie, rilancia e sottoscrive l’appello9. Una dozzina d’anni più tardi, nel 1927, un altro scrittore e saggista francese, Julien Benda, certamente ispirato dalla reprimenda rollandiana, bollerà come «tradimento dei chierici» la rinuncia del ceto intellettuale a farsi servo delle passioni mondane, dimenticando la propria missione di verità.
6A conflitto in corso, fare giornalismo socialista significa denunciare i mali della guerra, tanto al fronte quanto, più nascosti, nelle retrovie sociali. Non a caso molti articoli di Gramsci mirano a snidare i ceti beneficiati dalla guerra: industriali, finanzieri, commercianti, bottegai. Ma la prima preoccupazione è svelare i giochi menzogneri dei chierici, denunciare l’abisso di stupidità in cui un’intera società può cadere, vittima di pregiudizi, di falsificazione dei fatti, di nascondimento della verità o del suo ribaltamento, all’interno di uno sforzo di costruzione di falsa coscienza, facendo apparire come generali interessi particolari, bene della nazione quello di pochi, sacrifici generosi le forme nelle quali la moderna schiavitù salariale subisce il comando delle classi dominanti.
7Sotto tali aspetti, la guerra fornisce quotidianamente una quantità di spunti che s’incontrano con la varietà di interessi del giovane il quale procede sulla base di due princìpi: salvaguardia dello spirito critico e informazione corretta. L’«Avanti!», pur nella linea ufficiale del partito (il «né aderire né sabotare» escogitato da Costantino Lazzari), è sensibile alla critica della guerra: il direttore Serrati la giudica «una strage orrenda ed inutile» e ritiene che quello della patria sia «un mostruoso pregiudizio», in nome del quale si sacrificano «la giustizia, il benessere, la pietà, l’amore, ogni cosa»10. Gramsci arricchisce il discorso analizzando le conseguenze, prime fra tutte quelle economiche e sociali; un tema che lo accomuna a osservatori sull’altra sponda che, pur essendo sostenitori della guerra, non ne sono entusiasti, a cominciare da Luigi Einaudi. Ecco allora l’analisi dei fenomeni speculativi; la denuncia dei “pescecani di guerra” (ossia gli approfittatori: imprenditori, banchieri, commercianti), con argomenti e su un tono diversi da quelli che si trovano su fogli di un vario sovversivismo, di orientamento nazionalista; una pur sommaria lettura del fenomeno del capitalismo finanziario che con la Grande Guerra ha il suo momento di avvio. La polemica verso costoro, liberali pronti a giustificare atteggiamenti «greppiaioli» (la greppia sono le casse dello Stato), o le vie «melmose» di un protezionismo surrettizio, che cerca comode scorciatoie a danno dell’erario e dei consumatori, è articolata in termini di conoscenza della teoria e di analisi delle pratiche concrete. La guerra costituisce una grande occasione per denunciare le contraddizioni dei «sedicenti liberali», e assegnare al socialismo la difesa, negli interessi dei cittadini-consumatori, del libero mercato, vilipeso da coloro che se ne dichiarano alfieri.
8Più in generale, una puntuale attenzione a ogni segnale di di cambiamento nella società è il tratto peculiare dell’osservatorio gramsciano, dove, nelle analisi sommarie di quel tempo, si possono rintracciare i semi della elaborazione teorica degli anni Venti e Trenta. Come non far caso che nel Quaderno 16 si legge che quella guerra «rappresenta una frattura storica, nel senso che tutta una serie di quistioni che molecolarmente si accumulavano prima del 1914 hanno appunto fatto “mucchio”, modificando la struttura generale del processo precedente»? E questo Gramsci (del 1933), ne enuclea uno: l’importanza del fenomeno sindacale, ormai «nuova forza sociale» che ha assunto «un peso non trascurabile»11.
9Nei testi del 1915-1918 l’analisi più originale non concerne gli aspetti concreti del conflitto, bensì il ruolo dell’intelligenza, sia quella piegata a giustificare la guerra, ricorrendo a menzogne e mezze verità; sia quella utilizzata per denunciare le falsificazioni e disvelare le ideologie dei ceti al potere, e aiutare così il proletariato a imporsi come soggetto della storia nuova. Richiamo a titolo esemplificativo l’articolo celebre del 1919, in cui l’ex allievo dell’Ateneo torinese inchioda alle sue responsabilità un mae-stro quale Einaudi, a cui, in fondo, soprattutto muove l’identico capo d’accusa sotteso alla gran parte delle polemiche verso gli intellettuali nel loro comportamento durante gli anni di guerra: un’accusa che si può riassumere nell’espressione «disonestà intellettuale». Tanto più colpevoli, costoro, quanto più, per capacità intellettive e bagaglio culturale, essi potrebbero (dovrebbero) difendere la verità. L’articolo fornisce una sintesi del pensiero del Gramsci ventisettenne, anche con la reiterata definizione del suo comunismo, identificato in quello genuinamente marxiano, etichettato come «umanismo integrale». In esso, si imputa alle classi dominanti la guerra, con i suoi immani disastri, e nel contempo si individua la via d’uscita.
10Siamo a una declinazione del grande tema dell’alternativa tra socialismo e barbarie, secondo il motto di Rosa Luxemburg poi ripreso, una dozzina d’anni dopo la morte di Gramsci, dalla celebre omonima testata francese. Scrive:
La demagogia, l’illusione, la menzogna, la corruzione della società capitalistica, non sono accidenti secondari della sua struttura, sono inerenti al disordine, allo scatenamento di brutali passioni, alla feroce concorrenza in cui e per cui la società capitalistica vive. Non possono essere abolite, senza abolire la struttura che le genera. Le prediche, gli stimoli, le moralità, i ragionamenti, la scienza, i «se…» sono inutili e ridicoli. La proprietà privata capitalistica dissolve ogni rapporto d’interesse generale, rende cieche e torbide le coscienze. Il lucro singolo finisce sempre col trionfare di ogni buon proposito, di ogni idealità superiore, di ogni programma morale; per guadagnare centomila lire si affama una città; per guadagnare un miliardo si distruggono venti milioni di vite umane e duemila miliardi di ricchezza. La vita degli uomini, le conquiste della civiltà, il presente, l’avvenire sono in continuo pericolo. Queste alee, questo correr sempre l’avventura, potrà soddisfare i dilettanti della vita e chi può mettersi in salvo coi suoi; ma la grande massa ne diventa schiava, e si organizza per liberarsi, per conquistare il potere di rendere sicura la vita e la civiltà, di vedere l’avvenire, di lavorare e produrre per il benessere e la felicità e non per l’avventura e la perversione. Ecco perché lo sviluppo del capitalismo, culminato nella distruzione della guerra, ha determinato il costituirsi delle immense organizzazioni proletarie, unite da uno stesso pensiero, da una stessa fede, da una stessa volontà; il comunismo, istaurato attraverso lo Stato dei Consigli operai e contadini, che è l’umanismo integrale, come lo concepì Carlo Marx, che trionfa di tutti gli schemi astratti e giacobini dell’utopia liberale.12
11Pur senza dunque perdere mai di vista che cosa la guerra significhi in termini di distruzione, di disordine e di dolore, il cronista presta la massima attenzione ai fenomeni spirituali, di corruzione delle coscienze, di obnubilamento delle intelligenze che implica il preparare, prima, il sostenere ideologicamente, durante e dopo, la guerra: si potrebbe dire, non solo quella guerra, ma una qualunque guerra che non sia una guerra sociale. E, con i distinguo del caso, certe guerre nazionali di difesa. Si tratta quasi di una bozza di programma per uscire dalla guerra definitivamente, gettarsi alle spalle le sue infamie e le sue nefandezze, e pensare al futuro, che soltanto il socialismo – quello pensato da Marx – può realizzare.
12Un occhio di riguardo, sovente aspramente critico, Gramsci lo riserva a quello che fino a poc’anzi è stato il suo ambiente primo, l’università e i suoi professori. A loro rimprovera non solo l’orientamento bellicistico; non tanto le loro sguaiataggini “patriottiche”, sovente un po’ ribalde; egli mette sotto accusa una concezione meccanica della cultura, all’insegna di un enciclopedismo stantio, a cui contrappone tutt’altra concezione («organizzazione», «disciplina del proprio io interiore», «presa di possesso della propria personalità», «conquista di coscienza superiore»13). Egli denuncia la defezione alla missione di studiosi e di insegnanti. Si può predicare il rigore del metodo storico, la certezza scientifica della filologia, la serietà dell’analisi economica, per poi cedere a interessi di bottega? Piegarsi ai voleri delle classi dominanti, e farsene corifei?
13Nel suo lavoro di smascheramento il giovane è favorito dalla presenza di tanti «stenterelli», che, spesso, vestono i panni dei professori, dei giornalisti, dei conferenzieri. «Nessun dubbio. Torino batte il record delle conferenze belliche. In nessun grande centro d’Italia se ne sono tenute tante»14. Le iniziative propagandistiche, sortiscono su Gramsci l’effetto opposto: «ho potuto constatare d’essermi rinfrancato nelle mie opinioni, ché mai mi è stato più facile cogliere le contraddizioni dell’avversario»15. In fondo, la critica della propaganda di guerra diventa un esercizio di logica. E l’analisi della quotidianità al tempo della guerra, è sempre in Gramsci, attento alla pars costruens e non solo alla destruens, una bozza di programma per quando il conflitto giungerà al suo termine, e anzi accelerarne il tragitto verso tale meta. Come già accennato, sono particolarmente i professori dell’ateneo ad essere tenuti sotto tiro dal loro studente: da Francesco Ruffini ad Achille Loria, fino alla figura emblematica di Vittorio Cian, «gran marabutto dell’interventismo e dell’antitedeschismo torinese»16: mediocre studioso, Cian è un intellettuale che tradisce la sua missione e, per di più, è un bellicista infatuato, che a suo modo anticipa il dopoguerra; un nazionalista monarchico che diverrà figura emblematica del fascismo, percorrendo la strada su cui molti suoi colleghi si incammineranno: la guerra come semenzaio del fascismo. E ancora prima che il conflitto venga archiviato Gramsci comprende che la pace militare non sarà pace sociale. E che il proletariato dovrà passare all’offensiva per evitare di essere schiacciato dalla borghesia.
14La guerra, oltre a produrre un’accelerazione del tempo storico, cambia le situazioni, muta i rapporti sociali e le economie, ed è una cartina di tornasole: rivela le piccolezze degli uni, le grandezze degli altri; apre scenari nuovi sul piano politico e sociale, crea solidarietà di classe; e, per la sua stessa dolorosa crudezza, mette in mostra gli animi degli individui, tende a organizzare gli interessi delle classi, dominanti, peraltro celati sotto il velo dell’ideologia, quelli palesi e dichiarati, dei subalterni.
15Negli articoli di questo Gramsci “polemologo” non si trova soltanto il polemista. V’è d’altro canto non di rado nel suo stile una pacatezza analitica e la forma dialogica; è come se egli si rivolgesse sempre a qualcuno disposto ad ascoltare e dal quale è pronto a sentire repliche. Non il propagandista, piuttosto l’osservatore attento, immerso nella realtà, ma capace di tirarsene fuori quel tanto che gli è indispensabile per intenderne i fenomeni. La propaganda non si combatte con la contropropaganda. Agli «applausi degli imbecilli» e alle «urla dei fanatici» – per citare l’invettiva di Jean Jaurès prima di essere ucciso dal fanatismo e dall’imbecillità – non si debbono opporre altre urla, altre professioni di fede. Ma ragionamenti, demistificazioni, analisi critiche, fatti, dati, cifre. Invece, guerra significa, nel Paese e al fronte, propaganda e censura; quella rovescia la verità effettuale delle cose; questa impedisce la conoscenza della verità che qualcuno tenta di diffondere; i mezzi coercitivi della censura si aggiungono ai mezzi “persuasivi” della propaganda. Torino, secondo Gramsci, è soffocata dall’azione dei gazzettieri, che offrono ogni giorno la «merce avariata» delle loro menzogne, i «trucchi» delle verità contraffatte. Incomincia a farsi strada, nel suo pensiero, l’idea cruciale della verità; la quale va salvaguardata ad ogni costo, a qualsiasi prezzo, bene primario che un intellettuale deve difendere, pena il tradimento del suo stesso ruolo. Rimarrà un nodo centrale in Gramsci, che in parte è debitore a Romain Rolland; in parte ad un altro letterato francese, socialista, Henri Barbusse, a cui peraltro tributerà un forte omaggio Rolland stesso. Andrebbe aggiunto un terzo nome, che, sebbene non pacifista, costituisce il tramite forse più significativo verso una rimeditazione in chiave diversa della guerra, Norman Angell, il cui libro The great illusion, del 1910, appare in prima edizione italiana nel 1913 (sarà la seconda edizione, piuttosto rimaneggiata, a far vincere il Nobel per la pace all’autore, soltanto nel 1933).
16Il romanzo di Barbusse Le feu – per Rolland «libro terribile e mirabile»17 – esce nel mezzo del conflitto (1916), «diventando una bandiera dei pacifisti europei e dei socialisti rivoluzionari»18. Rolland, recensendo il romanzo, scrive che «la voce di quest’uomo fa rientrare nell’ombra tutte le menzogne interessate che da tre anni pretendono di idealizzare il carnaio europeo».19 Nell’anno stesso de «L’Ordine Nuovo», il 1919, Barbusse dà vita alla rivista «Clarté», che eserciterà forti suggestioni sugli ambienti rivoluzionari più colti. Anzi, se Rolland è in una prima fase l’autore prediletto del Gramsci critico della guerra, dopo la pubblicazione del Fuoco (la traduzione italiana esce, insieme a quelle in diverse altre lingue, poco dopo l’originale), quel ruolo è assunto da Barbusse, da Gramsci definito «discepolo spirituale» di Rolland20, a sua volta giudicato, nel 1918, «tanto vicino spiritualmente» a Wilson21, quando ancora il giudizio gramsciano sul presidente americano è positivo. Sul «Grido del Popolo» il nome di Barbusse ricorre con una certa frequenza; in lui come in Rolland, Gramsci apprezza non solo la denuncia della violenza e della stoltezza della guerra, ma l’obnubilamento dell’intelligenza e la corruzione di coscienze che essa procura. Commentando sul finire del ’17 un articolo del «Secolo», Gramsci pubblica qualche riga di Barbusse, e riassume il lavoro da lui stesso svolto in quegli anni di guerra, diretto a smascherare – per dirla con Barbusse – gli «oripeaux mensongers»22 degli «imbottitori di cervelli che dalle colonne della stampa hanno sparso in così larga copia i gas asfissianti della rettorica amplificatrice e deformatrice» (qui è Gramsci a parlare). Colpisce la metafora bellica: quel conflitto mondiale vede per la prima volta su larga scala l’impiego di armi tossiche, un capitolo nuovo dell’inferno chiamato guerra; un capitolo destinato a essere seguito da innumerevoli altri. Gramsci comprende che la propaganda è fondamentale arma di guerra. Analisi demistificante, purificatrice, snebbiante, quella che questo giornalista nelle retrovie cittadine conduce sulle pagine dell’«Avanti!» e del «Grido del Popolo», il cui scopo è togliere gli «orpelli menzogneri»: più in generale, Gramsci applica il principio razionalistico, illuministico, della tabula rasa.
17Solo apparentemente marginale è l’attenzione alla religione; in specie all’istituzione Chiesa cattolica. Anche questa è una posizione che distingue Gramsci dalla tradizione dell’anticlericalismo socialista, verso il quale egli non di rado scende in polemica, cercando di distinguere la religione, che non condivide, ma entro certi limiti rispetta, pur ritenendola un imbroglio per ingenui, dall’uso politico che se ne fa. «La religione è un bisogno dello spirito», tanto più in tempi di guerra, dunque di vite gettate allo sbaraglio, di incertezza e di angoscia collettiva, fra i soldati al fronte, e fra coloro che restano a casa; in tutti si fa strada il bisogno di conforto. Ma preti e ciarlatani, maghi e fattucchiere approfittano di tale tensione per acchiappare la «massa amorfa», e farne preda per i loro scopi non sempre spirituali23. La Chiesa cattura la massa, ma – il discorso qui sarà ripreso nei Quaderni – non ne eleva la coscienza, non la rende attiva e consapevole. Gli intellettuali che si prestano a questa attitudine dell’istituzione religiosa abdicano alla loro funzione educativa. Non è così che si può realizzare la «riforma intellettuale e morale», che la guerra ha reso indispensabile, urgente24.
18Il 1917, con Caporetto e la doppia rivoluzione in Russia, con l’aumento degli episodi di diserzione e di autolesionismo fra i combattenti, talora vere e proprie rivolte militari, crudamente represse, è l’anno cruciale del conflitto. Della stanchezza fisica e mentale delle truppe e delle popolazioni si rende interprete la Nota di papa Benedetto XV, quella dell’«inutile strage», a cui sembra far eco in qualche modo l’auspicio di Claudio Treves, in un discorso alla Camera dei Deputati, a non passare anche quel Natale in trincea, che invece susciterà rozze polemiche nel campo «nazionale». Cruciale, il 1917, anche nell’ottica di Gramsci, che conferma la guerra non soltanto quale «immane sacrifizio»25, ma altresì fatto storico, epocale, come egli nell’ottobre 1914 aveva intuito nel suo articolo “mussoliniano”.
19In questo quadro entrano anche i fatti dell’agosto 1917 – la “rivolta del pane”, a Torino – che segnano una svolta politica e sociale apparentemente a livello solo cittadino, ma in realtà di portata ben più ampia. Gramsci in uno dei commenti a caldo ci aiuta a capire, ancora meglio, il significato del suo articolo «interventista» del 1914. Gramsci parla di «escavazione […] nella ganga sociale» prodottasi nel corso degli anni, dell’emergere e organizzarsi di «energie sociali attive», tanto più forte in «tempi […] calamitosi»; ma si è verificato altresì, a suo dire, un diverso, e altrettanto importante fenomeno:
la vita del pensiero si sta sostituendo all’inerzia mentale, all’indifferenza: è la prima delle sostituzioni rivoluzionarie. Una nuova abitudine si forma: quella di non temere il fatto nuovo; prima perché peggio di così non può andare, in seguito perché ci si convince che andrà meglio.26
20La guerra dunque è stata un’occasione di cambiamento radicale, sul piano spirituale, innanzi tutto. La sfida agli indifferenti, lanciata nell’editoriale de «La Città Futura», nel febbraio di quello stesso anno, sembra trovare nei fatti d’agosto una conferma che qualcosa si muove. Col suo «fallimento», reso evidente dal conflitto, il regime liberale «ha perduto la fiducia istintiva e pecorile degli indifferenti». Esso mostra di non essere in grado di disciplinare, sia pure solo «esteriormente», «la immensa passività sociale, gli indifferenti»27. Tocca al proletariato, alla sua avanguardia, ma anche alle masse che nel loro insieme si stanno ridestando – la spontaneità dei moti, il protagonismo femminile, sono dati essenziali in tal senso –, disciplinando, organizzando. «L’Ordine Nuovo» comincia a profilarsi all’orizzonte.
21Alla fine dell’anno 1917, Gramsci pubblica una delle prime analisi della Rivoluzione bolscevica, La rivoluzione contro il Capitale: dove, Il Capitale è l’opera di Marx. Lenin ha forzato la mano a Marx. I bolscevichi non hanno atteso che fossero «mature» le condizioni per la rivoluzione; e, contraddicendo ogni aspettativa e previsione, a cominciare da quelle fondate sulla rigida interpretazione dei testi marxiani, sono passati all’azione diretta.
Marx ha preveduto il prevedibile. Non poteva prevedere la guerra europea, o meglio non poteva prevedere che questa guerra avrebbe avuto la durata e gli effetti che ha avuto. Non poteva prevedere che questa guerra, in tre anni di sofferenze indicibili, di miserie indicibili, avrebbe suscitato in Russia la volontà collettiva popolare che ha suscitata.28
22Al di là dello specifico contenuto dell’articolo, che rivela una originale adesione al pensiero marxiano, e una sua creativa rivisitazione, e al di là del tema della censura e della propaganda – vero leit motiv di questi anni – l’articolo in realtà è prospettico, guarda al futuro, ossia il futuro possibile e auspicato del cambiamento rivoluzionario, favorito dalla guerra stessa. Il compito che Gramsci si è assunto è quello di aiutare, formare, il proletariato torinese, nella cui maturità egli invita comunque ad avere fiducia. «Lasciamo ai patrioti il piacevole compito di imbottire i cervelli». I veri eroi sono i proletari: giacché l’eroismo non è quello del gesto, magari sconsiderato, «occasionale», «teatrale», che dura un attimo, di cui «tutti gli italiani sono capaci»; bensì quello fondato sulla «continuità indefessa». Dunque ci sono due guerre; quella al fronte, e quella sociale nella città; ambedue hanno carattere di scontro mortale, e ambedue sono ormai ridotte a fatto militare. Il proletariato dopo la caduta, sempre «si risolleva, più numeroso di prima, meglio preparato di prima, perché più esperto e più agguerrito»29. Anche la censura, come ogni altra forma di repressione militare, giudiziaria ed economica, rafforza, e prepara, quello che nel dopoguerra Gramsci chiamerà l’esercito proletario. Le metafore belliche saranno allora un dato acquisito nel lessico gramsciano, ma risultano essere sovente vere e proprie categorie analitiche, persino strumenti in grado di favorire l’azione politica diretta. La guerra ha sedimentato esperienze, che Gramsci ha tesaurizzato; ha fornito uno strumentario nuovo, che egli impara a usare già in corso d’opera, e di cui, a pace sopravvenuta, continuerà a servirsi, sia nell’immediato, nel vivo della lotta politica, sia, mutata completamente la situazione storica e quella personale, nella meditazione post factum, nelle note carcerarie.
23Nella lettura di Gramsci – il quale sembra riprendere implicitamente l’articolo “filomussoliniano” del 1914 – la guerra ha funzionato da formidabile acceleratore della storia, facendo saltare i tempi normali della rivoluzione; «ha servito a spoltrire le volontà». La predicazione dei bolscevichi è stata all’altezza della situazione, creando «la volontà sociale del popolo russo». Sono stati i rivoluzionari a creare, in qualche modo, le condizioni della rivoluzione, a partire da una situazione che pur non corrispondendo alla lettera all’analisi e alla previsione marxiane, era oggettivamente prerivoluzionaria. Con una interessante correzione/integrazione di Marx, o piuttosto dandone una interpretazione creativa, anti-riformistica sul piano politico e antipositivistica su quello filosofico, Gramsci ritiene che
non i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che s’accostano fra di loro, si intendono fra di loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace.30
24Ha inizio da qui una costante attenzione alla Rivoluzione, a Lenin, ai bolscevichi, all’edificazione del socialismo nel più grande Paese del mondo. Che corregge, in parte, e integra, l’attenzione al grandioso fenomeno della guerra. Molti temi, già ampiamente presenti negli articoli del biennio precedente, rimangono connessi a quell’«enorme spreco di vite e di ricchezze» che egli ha denunciato alla vigilia di Caporetto31, ai guasti materiali e morali frutto del conflitto, ai profitti economici di determinati ceti sociali e alle privazioni e sofferenze inflitte alla maggioranza delle popolazioni, all’esaltazione acritica di un patriottismo sempre più aggressivo e culturalmente angusto. Analisi e giudizi in questi testi accennati in modo più o meno ellittico, verranno riproposti nei Quaderni, come quando, con intuizione folgorante, scrive che la stessa guerra mondiale aveva fatto presagire che il futuro sarebbe stato di guerra totale, con un ruolo determinante per la guerra aerea32. Naturalmente lo interessano di più le analisi di eventi che si prestano a interpretazioni a carattere storico, con attenzione al ruolo dei gruppi egemonici, ma anche alla situazione dei subalterni. Dall’esperienza non di combattente, bensì di testimone critico, Gramsci ha tratto insegnamenti preziosi, che concernono la lotta di classe, la necessità di flessibilità dell’azione e dunque di duttilità dell’analisi:
La verità è che non si può scegliere la forma di guerra che si vuole, a meno di avere subito una superiorità schiacciante sul nemico, ed è noto quante perdite abbia costato l’ostinazione degli Stati Maggiori nel non voler riconoscere che la guerra di posizione era «imposta» dai rapporti generali delle forze in contrasto. La guerra di posizione non è infatti solo costituita dalle trincee vere e proprie, ma da tutto il sistema organizzato e industriale del territorio che è alle spalle dell’esercito schierato, ed è imposta specialmente dal tiro rapido dei cannoni delle mitragliatrici dei moschetti, dalla concentrazione delle armi in un determinato punto, oltre che dall’abbondanza del rifornimento che permette di sostituire rapidamente il materiale perduto dopo uno sfondamento e un arretramento.33
25Nella stessa nota egli richiama, a proposito di ostinazione degli Stati maggiori, il «cadornismo» che diventa un “ismo” che dal lessico militare può applicarsi a quello politico34.
26In realtà, come in numerosi passaggi dei Quaderni, Gramsci insiste sul primato della politica. Ogni sconfitta è sempre addebitabile in primo luogo alla classe di governo. L’incapacità di Cadorna è l’incapacità dei governanti che hanno retto il Paese in quegli anni difficili, le responsabilità di Cadorna, che restano gravi, non possono risolvere «il mistero di Caporetto». Sono i ministri, i presidenti del Consiglio, i loro più diretti sottoposti, e più in generale l’intera classe dirigente, a dover portare quella croce: una controprova è il fatto che si sia rinunciato a capire tutte le ragioni della disfatta, e «l’assenza di autocritica» della classe dirigente, che dunque sa e ritiene di potersi continuare a comportare esattamente come in passato. E a mostrare il più totale disprezzo per la vita e le condizioni materiali dei soldati, i proletari in divisa, mandati al massacro35.
27Oppure, sempre nella riflessione post factum, in riferimento a un altro leit motiv della propaganda antisocialista e antiproletaria degli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra: la polemica contro gli operai «imboscati» nelle fabbriche, Gramsci ha osservazioni di grande lucidità e offre materiali significativi, anche sul piano della mera informazione per smontare quella insulsa accusa, che tuttavia «da fatto privato diventò fatto di diritto pubblico; e, ciò che è l’aspetto più grave della quistione, perché lasciò formarsi l’opinione che gli esonerati fossero veri “imboscati”, non elementi indispensabili per l’attività bellica anche se non combattenti, con sanzione ufficiale»36.
28A distanza di un anno dal centenario della nascita di Marx, sulla base dell’esperimento del numero unico «La Città Futura», del febbraio 1917, rientrati i suoi compagni più stretti dal fronte, Gramsci dà avvio alla più impegnativa esperienza giornalistica, che si colloca entro un filone internazionale di dibattito sui modi per “aggiornare” la dottrina marxiana, senza cadere nel revisionismo riformistico, ma, in realtà, allontanandosi parimenti dallo schematismo marxistico che concepisce la rivoluzione secondo uno schema, una «dottrinetta»37. «L’Ordine Nuovo», “rassegna settimanale di cultura socialista”, esce in un’occasione eccellente per farsi conoscere: il Primo maggio (del 1919).
29L’idea iniziale è quella della necessità per il proletariato di costruirsi una propria cultura, base essenziale per lo sviluppo di una coscienza rivoluzionaria; ma essa include, preventivamente, l’acquisizione di strumenti culturali più ampi e generali, ivi comprese le maggiori tradizioni che hanno preceduto l’avvento della classe operaia sulla scena, a cominciare dall’insieme di manifestazioni riassumibili nella formula della grande cultura borghese. Nel pensiero gramsciano la rivoluzione più che un atto costituisce un processo, alla cui base dev’esserci lo sforzo di acquisizione di consapevolezza politica, dunque di preparazione culturale, delle classi lavoratrici. Anche la cultura, insomma, è frutto di una lunga, difficile, tenace e paziente guerra di trincea. Di qui dunque l’importanza decisiva dello sforzo vòlto ad aiutare il proletariato ad istruirsi, e più in generale della battaglia delle idee, del lavoro pedagogico e culturale, che procurerà agli “ordinovisti”, come incominciano ad essere chiamati, le accuse di “culturalismo”.
30Il mondo emerso dal cataclisma del conflitto è un mondo provato, sotto ogni riguardo; e i rivoluzionari non debbono cedere alla tentazione di aggiungere distruzione a distruzione, disordine a disordine; si tratta piuttosto di costruire un ordine diverso, fondato sulla espulsione del capitalista dalla fabbrica, sull’incremento della produzione autogestita, su una disciplina che sia spontaneamente accettata e costruita e non imposta dall’esterno, con la forza, sull’impegno collettivo a realizzare una consapevolezza politica dei compiti epocali del proletariato e dei suoi alleati. Si tratta, insomma, di edificare un «ordine nuovo», che coniughi la giustizia autentica con l’efficienza produttiva, la democrazia sostanziale con l’autogoverno dei produttori, liberando la società e lo Stato dalle «cricche plutocratiche che detengono il potere [e che] possono precipitare nuovamente i popoli nell’abisso della guerra»38.
31Insomma, per Gramsci il dopoguerra dovrà produrre un mutamento radicale della situazione: nulla potrà essere come prima, né dovrà essere come prima; lo Stato liberale è in mora: la guerra ha causato uno sconvolgimento troppo generale e profondo. Urto di opposti imperialismi, aspre contese fra concentrazioni finanziarie e industriali, grave impoverimento delle risorse economiche. Soprattutto, lo scontro sociale è troppo forte perché si possa andare avanti nel tranquillo tran-tran della (pseudo)democrazia liberale: ne nascerà o la conquista del potere da parte dei lavoratori, o la loro dura sconfitta. La conquista del potere significa per Gramsci la premessa per la rinascita economica della collettività (nell’interesse di tutti), significa «arrestare il processo di dissolvimento del mondo civile e gettare le basi di un ordine nuovo nel quale sia possibile una ripresa delle attività utili e uno slancio vitale energico e rapido verso forme più alte di produzione e di convivenza»39.
32La guerra è stato uno snodo decisivo. Gramsci afferma a più riprese l’urgenza della «risoluzione dei problemi tremendi del periodo attuale», attraverso non l’anarchica abolizione dello Stato, o la distruzione luddistica delle capacità produttive, ma piuttosto una loro trasformazione radicale che non può che «essere cercata dalle masse stesse, organizzate in modo idoneo per costituire un apparato di potere sociale, per costituire l’apparato dello Stato operaio e contadino, dello Stato dei produttori»40. Dal lungo, penoso conflitto internazionale, Gramsci apprende o meglio consolida nel suo bagaglio teorico-politico l’importanza decisiva di due fattori: disciplina e organizzazione. Le masse devono agire come un esercito, in breve: disciplinate e organizzate; è la premessa necessaria per la vittoria. Meglio: la conditio sine qua non. La guerra risulta essere un formidabile strumento per dare consapevolezza e forza alle masse. Ha insegnato il principio – che dalla cattedra torinese Gaetano Mosca ha teorizzato – dell’importanza decisiva del fattore organizzativo. La vittoria, a differenza che nella guerra, non deve puntare sulla distruzione, ma sul suo opposto: la costruzione. Infatti, nello spostarsi del fuoco dell’attenzione del gruppo redazionale de «L’Ordine Nuovo» verso la fabbrica, l’analisi dei suoi meccanismi, lo studio dei fattori della produzione (germe dello Stato proletario di domani, il nucleo della nuova civiltà dei produttori), v’è l’esigenza di voltare pagina, e come durante il conflitto non aveva senso per Gramsci opporre alla propaganda una propaganda contraria, ora sarebbe non soltanto sbagliato, ma esiziale, non mettere al primo posto la necessità di costruire: non ricostruire, ma costruire; non il ritorno alla normalità, ma piuttosto l’edificazione di una norma altra, di una società diversa: in breve, di un «ordine nuovo». Ancora, nello sfondo agisce l’idea della guerra come occasione. Grande catastrofe che come tutte le catastrofi può contenere nel suo seno il fattore del cambiamento radicale, e attraverso l’esperienza del male, del suo ribaltamento nel bene, della trasfigurazione che porta dalle tenebre a una nuova luce.
33Nella società capitalistica esistono già centri di vita proletaria: le Commissioni Interne nell’officina, i circoli socialisti, le comunità contadine; si tratta di farli crescere, svilupparli, portarli a maturazione come organi di un vero e proprio contropotere – organizzato come un esercito, disciplinato come un esercito combattente – che al momento opportuno sia in grado di scalzare e sostituire immediatamente il potere borghese, mostrando anzi di saper gestire molto meglio tutti i problemi, a cominciare da quelli inerenti la produzione41. Commissioni, circoli rionali, commissariati urbani formerebbero così una serie di cerchi concentrici che, al di là delle tessere del sindacato e del partito stesso, darebbero vita a un autentico tessuto di autogoverno proletario. È la democrazia operaia, il frutto maturo del pensiero gramsciano in questa fase.
Un tale sistema di democrazia operaia (integrato con organizzazioni equivalenti di contadini) darebbe una forma e una disciplina permanente alle masse, sarebbe una magnifica scuola di esperienza politica e amministrativa, inquadrerebbe le masse fino all’ultimo uomo, abituandole alla tenacia e alla perseveranza, abituandole a considerarsi come un esercito in campo che ha bisogno di una ferma coesione se non vuole essere distrutto e ridotto in schiavitù.42
34Sono eserciti in lotta, l’uno contro l’altro. La guerra ha messo a nudo, ben più impietosamente di quanto non lo fosse prima, la realtà della disuguaglianza, dell’ingiustizia più dolorosa; ha rivelato che esistono fenomeni storici grandiosi che sono indipendenti dall’azione del movimento proletario. Esso non ne è certo responsabile, ma secondo l’insegnamento del Machiavelli, deve tentare di indirizzare l’irruenza del fiume.
La guerra, con le sue devastazioni irrevocabili, non si è generata per la nostra azione politica ed economica. Essa ha determinato la stessa configurazione sociale che sarebbe stata “condizionata” dalla maturità di sviluppo della tecnica industriale: il monopolio del potere e della ricchezza nelle mani di pochi, non selezionati da un lungo processo, ma scelti casualmente, spesso inetti ed incapaci; la concentrazione degli uomini del lavoro in sterminate comunità di dolore e di aspettazione.
35Gli eventi hanno subìto una drammatica accelerazione, e il popolo socialista, guidato dal proletariato industriale, non può non tenerne conto. Aggiunge un avvertimento di metodo, che sembra rispecchiare la “morale” gramsciana negli anni torinesi:
È supremamente ridicolo gemere straziati perché la realtà non è tal quale noi la vorremmo. Non ridere, non lugere, sed intelligere ed operare con fede e con fervore. Discipliniamoci, ordiniamoci, costituiamo l’esercito proletario coi suoi caporali, coi suoi servigi, col suo apparato offensivo e difensivo. Ma originalmente, secondo le leggi vitali di sviluppo della società comunista. La storia della lotta di classe è entrata in una fase decisiva dopo le esperienze concrete della Russia: la rivoluzione internazionale ha acquistato forma e corpo da quando il proletario russo ha inventato (nel senso bergsoniano) lo Stato dei Consigli […].43
36La polemica rivela il rifiuto del sentimentalismo, e mostra qualche affinità con il pensiero dei realisti politici, da Croce fino ai nazionalisti: con costoro Gramsci ha in comune il rifiuto dell’idealizzazione della guerra, ponendone invece crudamente in luce le ragioni sostanziali, legate alla potenza, e in specie agli interessi economici delle diverse classi dominanti. Mentre un Corradini o un Coppola – ideologi del nazionalismo italiano – esalteranno l’amoralismo della politica estera, sottolineando la necessità di partecipare alla «gara delle nazioni», anche se questa dovesse (sempre) significare guerra: e del resto, noterà Gramsci, la loro politica estera prescinde da fini precisi, ponendosi come «astratta rivendicazione imperiale contro tutti»44, pur avendo essi in mente un’azione antifrancese e filogermanica, che furono costretti a far tacere nelle more della battaglia fra interventismo e neutralismo; dal canto suo Croce – che in realtà, pur proclamandosi da essi diverso e superiore, con i nazionalisti si comprometterà non poco nel dopoguerra partecipando alle prime annate di «Politica», il che non mancherà di essere sottolineato con qualche sarcasmo dal Gramsci in prigione – analogamente respinge qualsiasi giustificazionismo democratico-umanitario, ma anche, su altro versante, l’idea di uno scontro di civiltà, in particolare difendendo – proprio come Gramsci – la cultura germanica. Inaccettabile è per ambedue la caratterizzazione in termini offensivi e triviali del mondo tedesco, un mondo che all’umanità ha regalato i più grandi geni, e una tradizione che in vari ambiti delle scienze, del pensiero e delle arti è inarrivabile. Su questo tema Gramsci ritornerà in sede di riflessione storica, nei Quaderni, precisando, all’insegna di una continuità ideale del ragionamento, pur in tutt’altra situazione, e con tutt’altro intento.
37V’è un ultimo aspetto almeno da accennare: l’influsso che sul piano del lessico ma anche su quello della capacità di ragionamento e di analisi, la guerra introduce in Gramsci. Se la società è divisa in classi contrapposte, il confronto più facile gli viene proprio dal cozzo degli eserciti nemici, e Torino, città in cui più di ogni altra lo scontro di classe è ridotto alla sua nuda essenza, è un osservatorio speciale anche da questo punto di vista. La vita sul campo, l’esperienza indiretta anch’essa per un riformato come lui, della vita di trincea, le diverse tecniche di azione militare nelle varie armi (dalla classica fanteria al corpo degli Arditi), le notizie dal fronte, i commenti degli specialisti, le informative dei servizi militari, i comunicati degli stati maggiori, i racconti ascoltati dalla viva voce dei reduci o dei feriti, gli forniscono abbondante materia prima. Possiamo rifarci ai lemmi dei Quaderni, dalla “guerra di posizione” alla “guerra di movimento” o “guerra manovrata”, dalle “casematte” alla “guerra guerreggiata”, e così via. Richiamo un testo per tutti, del 1919, che si riferisce al cruciale episodio dell’assalto di futuristi, nazionalisti, arditi e primi fascisti alla sede dell’«Avanti!» a Milano, e al conseguente sciopero: nell’articolo la verità è ipso facto identificata nella Storia, con la maiuscola; con una metafora che sovrappone società capitalistica con le sue istituzioni falsamente oggettive e neutrali, e operazioni belliche con le sue regole e le sue armi, Gramsci osserva:
Alla «iniziativa privata», che si propone – coi complotti, coi pugnali, coi gesti di audacia, – di spezzare l’incalzante veemenza della lotta che la classe proletaria conduce per il raggiungimento della sua autonomia nella produzione industriale e agricola e nella irta politica internazionale, l’apparato autoritario della organizzazione statale aggiunge l’artiglieria pesante delle sue istituzioni: la censura, il monopolio del telegrafo, del telefono, della posta, delle ferrovie, l’agenzia Stefani. L’artiglieria leggera dell’iniziativa privata aggredisce la classe proletaria, ne uccide gli uomini, ne distrugge il piccolo patrimonio, creazione del paziente e tenace sacrifizio di milioni di volontà, ricche di fede. L’artiglieria pesante dell’apparato statale protegge le devastazioni dell’artiglieria leggera; la menzogna, diffusa dalle agenzie, viene moltiplicata in milioni di fogli dalle migliaia di giornali, fortilizi delle casseforti; la verità viene espulsa dai telefoni e dai telegrafi; se riesce a oltrepassare, viene imbiancata dalla censura.
38Implicito ma chiaro, il riferimento alle tipiche azioni d’assalto di corpi come gli arditi che, in effetti, sono i protagonisti dell’azione del 15 aprile 1919 (i «pugnali», i «gesti d’audacia»). Riappare il tema della censura, e con un inatteso rovesciamento Gramsci propone lo sciopero dei tipografi come una forma di censura rovesciata: alla vostra censura opponiamo la nostra. Anche i proletari, insomma, hanno la loro arma estrema. Al diniego o al ribaltamento della verità, alle pagine imbiancate dalla censura, i proletari opporranno il blocco totale dell’informazione: alla censura che nega o corrompe la verità, si risponderà con la «censura rossa», con la soppressione sia pur solo «per un giorno», della «slealtà» e della «menzogna antiproletaria». E continua, nella metafora bellica:
Anche la classe degli operai e contadini ha una sua artiglieria pesante, la classe degli operai e contadini si attua sempre più efficacemente come l’Antístato, che può opporre allo Stato capitalistico un suo apparato colossale di forze, ben più potente quando sia consapevole. L’azione classista dei tipografi, l’intervento solidale dei tipografi nella lotta che diventa sempre più frenetica e selvaggia, può essere decisivo.
Il giornale è il trincerone della lotta di classe; ma il giornale è fatto dagli operai, la notizia e l’opinione prendono forma sensibile per il lavoro degli operai. […]
Ogni forza avversaria deve essere combattuta con armi adeguate: alla censura della menzogna e della slealtà, che vuole continuare e intensificare l’opera devastatrice della delinquenza privata impunita la classe proletaria, con le sue corporazioni competenti, deve opporre la censura rossa contro la menzogna e la slealtà.45
39Nella guerra, Gramsci dunque non costruisce solo la sua professione di giornalista di tipo nuovo; non si limita a dargli corpo e sostanza; egli esplica, in questo lavoro, una missione, quella di lavorare per la verità. «Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e rivoluzionaria»46. E sempre nelle sue analisi emerge, accanto allo studio del presente, una proiezione verso l’avvenire, lo sforzo costante teorico e organizzativo, di costruire la «città futura», quella società socialista preconizzata nel giornalino del febbraio 1917.
Bibliographie
Baudoin, Charles (1945, cura), Hommage à Romain Rolland, Éditions du Mont-Blanc, Genève-Annemasse.
d’Orsi, Angelo (2005), I chierici alla guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a Baghdad, Bollati Boringhieri, Torino.
d’Orsi, Angelo (2015), Gramsciana. Saggi su Antonio Gramsci, Nuova ed. riv. e accr., Mucchi, Modena.
d’Orsi, Angelo (2018), Gramsci. Una nuova biografia. Nuova ediz. riv. e accr., Feltrinelli, Milano.
Gervasoni, Marco (1998), Antonio Gramsci e la Francia. Dal mito della modernità alla “scienza della politica”, Unicopli, Milano.
Marchionatti, Roberto - Becchio, Giandomenica (2005, cura), La Scuola di Economia di Torino. Da Cognetti de Martiis a Einaudi, Celid, Torino.
Nardone, Giorgio (1977), L’umano in Gramsci. Evento politico e comprensione dell’evento politico, De Donato, Bari.
Natta, Alessandro (2001), Serrati. Vita e lettere di un rivoluzionario, Editori Riuniti, Roma.
Rapone, Leonardo (2011), Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919), Carocci, Roma.
Rolland, Romain (1921), I precursori, Rassegna Internazionale, Roma.
Vidal, Annette (1953), Henri Barbusse. Soldat de la paix, Préface de M. Cachin, Les Éditeurs Français Réunis, Paris.
Notes de bas de page
1 Uso le seguenti abbreviazioni per i testi gramsciani: CF = La città futura. 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1982; CT = Cronache torinesi (1913-1917), a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1980; DSR = Disgregazione sociale e rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, a cura di F.M. Biscione, Liguori, Napoli 1995; EN-S2 = Edizione Nazionale. Scritti. 2. 1917, a cura di L. Rapone, con la collaborazione di M.L. Righi e B. Garzarelli, Enciclopedia Italiana, Roma; LC = Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Einaudi, Torino 1965; NM = Il nostro Marx. 1918-1919, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1984; ON = L’Ordine Nuovo (1919-1920), a cura di V. Gerratana e A. Santucci, Einaudi, Torino 1987; QdC = Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975; Ris. = Risorgimento italiano, Introduzione e note di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1977; SL = Scritti dalla libertà (1910-1926), a cura di A. d’Orsi e F. Chiarotto, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012; MP = Masse e partito. Antologia 1910-1926, a cura di G. Liguori, Editori Riuniti, Roma 2016; Vatic. = Il Vaticano e l’Italia, a cura di E. Fubini, Prefazione di A. Cecchi, Editori Riuniti, Roma 1961, 2a ed. 1967, 3a 1986; Vatic. 2 = Il Vaticano e l’Italia, Introduzione di A. d’Orsi, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2011.
Cfr. A. Gramsci, Neutralità attiva ed operante, in «Il Grido del Popolo», 31 ottobre 1914: CT, pp. 10-15; SL, pp. 125-29; MP, pp. 39-43. Rinvio a P. Taboni, La gramsciana “neutralità attiva ed operante”, in «Differenze», 1979, 10, pp. 119-87; a L. Rapone, Antonio Gramsci nella Grande Guerra, in «Studi storici», a. 48 (2007), pp. 5-96 poi ampiamente rifusa in Rapone (2011); cfr. anche d’Orsi (2015), pp. 95-124. Per collocare questo periodo nel contesto biografico e politico-intellettuale di Gramsci, cfr. d’Orsi (2018).
2 Quaderno 3, in QdC, p. 322.
3 Ibidem.
4 Rinvio al fasc. mon. dei «Quaderni di Storia dell’Università di Torino», n 7, in Marchionatti-Becchio (2005); ivi, il mio saggio L’etica dell’intelletto. La Scuola di Economia e la cultura torinese, pp. 15-32.
5 Cfr. per un esame a livello europeo, nel cui cuore si colloca la posizione di Rolland, d’Orsi (2005).
6 Un appello di Romain Rolland, in «Il Grido del Popolo», 26 maggio 1917: CF, p. 178; EN-S2, p. 298.
7 Cfr. Conferenze, in «Avanti», 26 agosto 1916: CT, p. 511.
8 Cfr. J. Guéhenno, Le héros de l’Europe, in Baudoin (1945), pp. 52-55.
9 Un appello di Romain Rolland cit. Segue, parzialmente censurato, l’articolo di R. Rolland, La route en lacets qui monte, del dicembre 1916, poi ripreso integralmente con il titolo La via che sale a spirale, in «L’Ordine Nuovo», I, n. 1, 1° maggio 1919; poi col titolo La strada tortuosa che sale, in Rolland (1921), pp. 15-24.
10 G. Serrati, Lettera alla mamma, 12 febbraio 1916, in Natta (2001), p. 308.
11 Quaderno 15, in QdC, 1975, p. 1824.
12 A. G., Einaudi, o dell’utopia liberale, in «Avanti!», 25 maggio 1919: ON, pp. 39-42; SL, pp. 295-298 (298); MP, pp. 154-57.
13 Socialismo e Cultura, in «Il Grido del Popolo», 29 gennaio 1916: CT, pp. 99-103; SL, pp. 142-46; MP, pp. 55-58.
14 Parole! Parole! Parole!, in «Il Grido del Popolo», 26 febbraio 1916; CT, pp. 158-60.
15 Ibidem.
16 Il mondo, Bertoldo e il mandarino Cian, in «Avanti!», 11 settembre 1918: NM, pp. 281-82.
17 Rolland (1921), p. 127.
18 Cfr. Gervasoni (1998), p. 82.
19 Rolland (1921), p. 153.
20 Le riviste de giovani francesi, in «Il Grido del Popolo», 16 marzo 1918: CF, pp. 753-54.
21 Wilson e i massimalisti russi, in «Il Grido del Popolo», 2 marzo 1918: CF, pp. 689-92.
22 Così Barbusse in una lettera ad Annie de Pene, cit. s. d. in Vidal (1953), p. 61.
23 Stregoneria, in «Avanti!», 4 marzo 1916: CT, pp. 174-75.
24 Cfr. Nardone (1977), pp. 141 ss.
25 [La nostra direttrice], in «Il Grido del Popolo», 26 maggio 1917: CF, p. 177. L’art. peraltro non è stato escluso da EN-S2, “per difformità stilistiche”.
26 L’orologiaio, in «Il Grido del Popolo», 18 agosto 1917: CF, pp. 281-83: SL, pp. 222-24; EN-S2, pp. 410-12.
27 Ibidem.
28 A. G., La rivoluzione contro il Capitale, in «Avanti!», 24 dicembre 1917: CF, pp. 513-17; SL, pp. 244-47; MP, pp. 106-109; EN-S2, pp. 617-21. Una recente originale analisi dell’articolo è P. Thomas, A Revolution against Capital?, in «Gramsciana», n. 3, 2016, pp. 35-50.
29 Carattere, in «Il Grido del Popolo», 8 settembre 1917: CF, pp. 319-20; EN-S2, pp. 456-57.
30 La rivoluzione contro il Capitale cit.
31 Alfa Gamma, Il canto delle sirene, in «Avanti!», 10 ottobre 1917: CF, pp. 382-87; EN-S2, pp. 532-33.
32 Cfr. Q 17, in QdC, p. 1916.
33 Q 13, in QdC, pp. 1614-15.
34 Cfr. Q 15, in QdC, p. 1753.
35 Cfr. Q 2, in QdC, pp. 259 e ss.
36 Q 5, in QdC, p. 617.
37 Il nostro Marx, in «Il Grido del Popolo», 4 maggio 1918: NM, pp. 2-7; SL, pp. 262-66; MP, pp. 131-34.
38 Vita politica internazionale, in «L’Ordine Nuovo», I, 5, 7 giugno 1919: ON, pp. 66-71.
39 Lo sviluppo della rivoluzione, in «L’Ordine Nuovo», 13 settembre 1919: ON, pp. 203-207.
40 La settimana politica, in «L’Ordine Nuovo», I, 27, 22 novembre 1919: ON, pp. 328-30 (329-30).
41 Democrazia operaia, in «L’Ordine Nuovo», I, 7, 21 giugno 1919: ON, pp. 87-91; SL, pp. 315-18; MP, pp. 165-69.
42 Ibidem.
43 Maggioranza e minoranza nell’azione socialista. Postille, in «L’Ordine Nuovo», I, n. 2, 15 maggio 1919: ON, pp. 22-24; SL, pp. 293-95 (294-95).
44 Q 2, in QdC, p. 75.
45 Le astuzie della Storia, in «Avanti!» (ed. piem.), 18 aprile 1919: NM, pp. 601-603; SL, pp. 288-90 (289-90).
46 Democrazia operaia, in «L’Ordine Nuovo», 21 giugno 1919 cit.
Auteur
Già professore ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino, è direttore di «Historia Magistra. Rivista di storia critica» e di «Gramsciana. Rivista Internazionale di studi su Antonio Gramsci». È membro della Commissione per l’Edizione nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci e di quella per le Opere di Antonio Labriola. Collabora, oltre che a riviste scientifiche, ad alcuni quotidiani e a «MicroMega». Cura un blog personale (“Istruitevi. Agitatevi. Organizzatevi”). Tra i suoi ultimi titoli: L’Italia delle idee. Il pensiero politico in un secolo e mezzo di storia (Bruno Mondadori, 2011); Alfabeto Brasileiro. 26 parole per riflettere sulla nostra e sull’altrui civiltà. Con un Fotoreportage di Eloisa d’Orsi (Ediesse, 2013); Intellettuali e fascismo, fra storia e memoria (Affinità Elettive, 2014); Gramsciana. Saggi su Antonio Gramsci (Mucchi Editore, 2014; ed. riv. e agg. ivi, 2015); Inchiesta su Gramsci. Quaderni scomparsi, abiure, conversioni, tradimenti: leggende o verità? (cura; Accademia University Press, 2014); 1917. L’anno della rivoluzione (Laterza, 2016); Gramsci. Una nuova biografia (Feltrinelli, 2017; nuova ed. riv. e accr, ivi 2018); L’intellettuale antifascista. Ritratto di Leone Ginzburg (Neri Pozza, 2019).
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