Marina Abramović: silenzio, respiro e grido
p. 301-319
Texte intégral
Ingresso
1È il 24 ottobre 1975. Presso la galleria Krinzinger di Innsbruck, all’inizio della performance Lips of Thomas, Marina Abramović si spoglia. Subito dopo, su un muro alle sue spalle, appende una foto di un uomo dai capelli lunghi e la incornicia disegnando una stella a cinque punte. Si dirige verso un tavolo, apparecchiato con una tovaglia bianca, su cui vi sono una bottiglia di vino rosso, un bicchiere di cristallo, un barattolo contenente un chilo di miele, un cucchiaio d’argento e una frusta. Lentamente si siede e altrettanto lentamente mangia tutto il miele servendosi del cucchiaio. Versa il vino nel bicchiere e lo beve. Ripete l’azione, fino a quando finisce tutto il vino. Poi rompe il bicchiere con la mano destra, che inizia a sanguinare. Si alza e si avvicina alla parete su cui è appesa la foto. Con una lametta, si incide sul ventre, intorno all’ombelico, una stella a cinque punte. Si inginocchia, rivolgendo le spalle agli spettatori, e si frusta. Sulla sua schiena appaiono vividi i segni. Si stende su una serie di blocchi di ghiaccio disposti a croce. Dall’alto cala una stufa che riscalda il suo ventre e fa sì che la ferita continui a sanguinare. Si dice che, straziati da quella visione, alcuni spettatori si siano alzati e abbiano costretto Marina Abramović a interrompere la performance.
2Descrivendo quest’azione così cruenta, Erika Fischer-Lichte scrive:
Si era inflitta, inoltre, violenze tali da generare nello spettatore la consapevolezza della sua intensa sofferenza fisica. E, anche in questo caso, l’artista non aveva mostrato segno alcuno di sofferenza: non un lamento, non un grido, non una smorfia di dolore. Anzi, aveva accuratamente evitato ogni atteggiamento corporeo che potesse valere come espressione di malessere o di dolore1.
3Quello su cui Erika Fischer-Lichte insiste è il registro vocale – lamento, grido – di cui percepisce l’assenza.
4Silenzio.
5Apparentemente questa assenza potrebbe indicare un disinteresse di Marina Abramović nei confronti dell’espressione vocale. Un disinteresse che, peraltro, ha caratterizzato anche gli studi sulla performance art. Se, infatti, per quanto riguarda gli studi di teatro, negli ultimi anni si è potuta registrare un’attenzione nei confronti delle drammaturgie sonore dello spettacolo, lo stesso non è accaduto per quelli sulla performance art, dove è pressoché inesistente una letteratura che metta al centro e problematizzi questo aspetto.
6Collochiamo intenzionalmente il registro vocale all’interno del più ampio sistema delle drammaturgie sonore. In questo modo è nostra intenzione riscattare la materialità della voce, i cui parametri – specifico timbro, intensità, melos, ritmo – ne indicano sempre la componente sonora. L’analisi della vocalità, allora, potrà orientarsi non tanto o non solo sul contenuto verbale di ogni atto di fonazione, ma su quell’insieme di tratti che la rendono sempre così prossima al canto, alla musica e al suono.
7Contrariamente al silenzio fin qui tematizzato, Marina Abramović ha sempre mostrato grande interesse nei confronti della musica. Durante una conferenza allo Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington2 è la stessa artista serba a dire:
Ho sempre creduto nella gerarchia delle arti. Alla sommità della piramide delle arti vi è sicuramente la musica: è la più alta forma d’arte perché è la più immateriale. Non hai bisogno di niente per la musica. Va direttamente al tuo corpo, al tuo cuore e alle tue ossa, vibrando in te. La performance è la seconda delle arti in questa gerarchia. È quanto sento quando non faccio niente, sono semplicemente presente.
8Non è un caso che Marina Abramović, dopo un inizio “canonico” come pittrice di nuvole e poi di incidenti di camion, segnali il suo smarcarsi da forme artistiche tradizionali proprio attraverso il ricorso a sperimentazioni che la collocano nell’ambito della sound art. Per The Bridge (1969) nel suo condominio a Belgrado sistema una serie di speaker che diffondono il rumore di un ponte che crolla; in Sound Corridor (1971), così prossima a Performance Corridor (1969) di Bruce Nauman, i visitatori che vogliano accedere al Museo d’Arte Contemporanea di Belgrado devono attraversare uno stretto corridoio con pareti di vetro e essere sottoposti a un martellamento sonoro di colpi di proiettile; per The Tree (1971) l’artista nasconde fra le foglie di un albero degli speaker con il canto degli uccelli; in The Airport (1972) è ingenuamente convinta di trasformare in un aeroporto lo spazio del Centro Culturale Studentesco di Belgrado trasmettendo da un unico altoparlante, a intervalli regolari, la sua voce che dà delle indicazioni sui voli in partenza. In questi esperimenti sonori va rubricato anche Sound Environment – Sea (1972), un 45 giri contenente la registrazione del rumore del mare. La questione della gerarchia delle arti e il riferirsi alla musica come arte più immateriale consente a Marina Abramović di collocarsi nel solco di tutti gli artisti di performance art, la cui vocazione iniziale è la smaterializzazione dell’opera d’arte, la sua de-oggettivazione.
9Alla luce di questo background e data la tensione verso quell’immaterialità che solo la musica garantirebbe, occorre interrogare le performance dell’artista serba cogliendo nell’uso apparentemente scarno del registro vocale una precisa scelta stilistica. Lo facciamo orientando il nostro discorso su tre direttive che hanno un carattere ascensionale: silenzio, respiro e grido.
1. Silenzio
10«Il silenzio è quello che ci porta repentinamente sul bordo del mistero o sulla soglia dell’ineffabile, quando sono divenute evidenti la vanità e l’impotenza della parola»3. È Vladimir Jankélévitch a scrivere a proposito della musica di Erik Satie e Federico Mompou. Ed è innegabile che il silenzio ci affacci su un abisso di mistero, soprattutto quando il corpo è impegnato in un’azione che richiede un feroce dispendio di energia, come nel caso delle performance di Marina Abramović. Silenziare la voce equivarrebbe a spezzare il vincolo fra azione e reazione, a negare quell’istinto all’espressione vocale che accomuna l’uomo e l’animale, con la differenza che la voce umana alluderebbe sempre alla possibilità di trascendere la pura fonazione per organizzarsi in linguaggio, massimo segno del potere raziocinante. Negare la fonazione, anche quando articolata in un gesto sonoro come il lamento o l’urlo, indicherebbe assenza, sottrazione, svuotamento e sottintenderebbe tout court un declassamento delle possibilità umane.
11Occorre, qui, manomettere questa declinazione del silenzio e interpretarlo, invece, come segno intenzionale. In questo senso, il silenzio è un gesto vocale.
12La lingua latina distingue i verbi tacere e silere4. Il primo indica pur sempre una relazione con la parola e sancisce un’assenza di quest’ultima, un suo venir meno. Il secondo, invece, fa riferimento a una condizione totalmente ulteriore alla parola, di eccedenza. Questa distinzione lessicale permette di scandagliare il silenzio, di riconoscerne diverse forme, fino a poter provvedere a una tassonomia. È, così, possibile affacciarsi al silenzio della Sancta Regula di san Benedetto, ai tre tipi di silenzio del mistico spagnolo Miguel De Molinos (silenzio delle parole, dei desideri, del pensiero), ai Dodici gradi del silenzio della carmelitana francese Suor Maria Amata di Gesù e alle infinite declinazioni contenute nella poesia Il silenzio di Edgar Lee Masters: tutte indicano la rottura di un’univoca interpretazione del silenzio e le sue diverse possibilità costruttive.
13Osservando il lavoro di Marina Abramović, e riconoscendo che il silenzio è segno dominante di molte sue performance, possiamo distinguerne almeno tre modalità di utilizzo.
a. Silenzio-specchio
14La performance a cui faccio riferimento è The Artist is Present (2010). Per tre mesi Marina Abramović rimane seduta silenziosa, per otto ore al giorno, al MOMA di New York. Un visitatore alla volta può sedersi di fronte a lei e incrociarne lo sguardo. Le reazioni sono diverse: di fronte all’impassibilità della Abramović c’è chi sostiene lo sguardo, chi scoppia a piangere e chi affronta questa relazione con spavalderia e, talvolta, con aria di sfida.
15Secondo Jeannette Fischer, «per rendersi disponibile ai bisogni dello spettatore, Marina deve cancellare se stessa. È la formula che caratterizza le sue relazioni: amore e relazioni significano prendersi la responsabilità della soddisfazione dei bisogni degli altri e rendersi disponibile a loro»5. La psicanalista rintraccia l’origine di questo comportamento nella difficile relazione fra l’artista e sua madre, Danica Abramović. Prendersi cura dell’altro vuol quindi dire svuotarsi e diventare specchio in cui l’altro ritrovi se stesso. Il silenzio, allora, come lo sguardo, diviene superficie riflettente, registra la presenza dell’altro. Una modalità, questa, che richiama la scena d’apertura di Mysteries and Smaller Pieces (1964) del Living Theatre: un attore, immobile e silenzioso in proscenio, accoglie gli spettatori; l’inazione e il silenzio generano reazioni quali la noia, l’incredulità, il sentirsi truffati perché nulla accade nel luogo – il teatro – preposto all’accadimento, il rumoreggiamento, l’incitazione alla fine di quell’atteggiamento impassibile. Come nel madrigalismo del Cinquecento, quando i sospiri, le invocazioni, le preghiere erano teatralizzati tramite un silenzio che regalava all’ascoltatore la possibilità di amplificare le ultime emozioni provate e di percepire il proprio sé in ascolto, l’inazione e il silenzio di Marina Abramović consentono allo spettatore di inabissarsi nel gioco di relazione io/altro e di proiettare e definire il proprio sguardo nello sguardo dell’altro. In altre parole, il silenzio nega il suo essere assenza e diviene, invece, meccanismo di detonazione del sé nell’altro. Il silenzio dello specchio è, quindi, impossibilità strutturale di esistenza del silenzio, proprio come i 4’ 33’’ di John Cage, che diventano specchio acustico del mondo circostante:
Infatti – scrive Cage – in questa nuova musica non accade nulla oltre ai suoni, quelli scritti e quelli non scritti. Quelli non scritti compaiono nella partitura come silenzi, aprendo le porte della musica ai suoni dell’ambiente circostante. È un’apertura che riscontriamo anche nel campo dell’architettura e della scultura moderne. I palazzi di vetro di Mies van der Rohe riflettono l’ambiente circostante e offrono allo sguardo squarci di nuvole, alberi o prati, a seconda della situazione. E mentre ammiri le strutture in fil di ferro di Richard Lippold, è inevitabile che nel reticolo tu scorga altre cose, persone comprese, se si trovano lì in quel momento preciso. Non esistono cose come lo spazio vuoto o il tempo vuoto. C’è sempre qualcosa da vedere, qualcosa da udire. Anzi, per quanto ci possiamo sforzare di creare un silenzio, non ci riusciremo mai. In certe circostanze tecniche potrebbe essere auspicabile ottenere una situazione più silenziosa possibile, cioè l’ambiente chiamato camera anecoica, sei pareti di materiale insonorizzante allestito in modo da ottenere una camera priva di echi. Parecchi anni fa a Harvard sono stato in uno spazio del genere e ho sentito due suoni, uno alto e uno basso, e quando li ho descritti al tecnico incaricato questi mi ha spiegato che il suono ad alta frequenza era il mio sistema nervoso in funzione, quello basso era la circolazione del sangue. Sino alla fine dei miei giorni ci saranno suoni, e seguiteranno anche dopo la mia morte. Non c’è nulla da temere riguardo il futuro della musica6.
b. Silenzio-saturazione
16Dal 9 al 15 novembre del 2005, al Guggenheim Museum di New York Marina Abramović realizza Seven Easy Pieces. Si tratta di un progetto che tematizza la difficoltà di documentare la performance art, la cui vita, come sostiene Peggy Phelan, è esclusivamente nel presente7. Abramović dà vita al reenactment di sei performance realizzate tra gli anni Sessanta e Settanta, “coverizzando” il lavoro di altri artisti: Body Pressure (1974) di Bruce Nauman, Seedbed (1972) di Vito Acconci, Action Pants: Genital Panic (1969) di Valerie Export, The Conditioning: First Action of Self Portrait(s) (1973) di Gina Pane, How to Explain Pictures to a Dead Hare (1965) di Joseph Beuys e la sua Lips of Thomas. A concludere il ciclo di performance, durante la serata finale, è Entering the Other Side, che qui campioniamo come esempio di quel tipo di silenzio inteso come saturazione. Per sette ore, vale a dire la stessa durata di ciascuna delle performance realizzate per Seven Easy Pieces, Marina Abramović, in cima a un enorme e altissimo cono blu posto proprio al centro del museo, rotea lentamente il busto, muove le braccia, le solleva, le protende in avanti, mostra i palmi delle mani. Talvolta canticchia un fievole mumling che va poi a scomparire, lasciando il posto al silenzio. Questa settima performance dal carattere smaccatamente circense sembra stemperare la tensione accumulatasi nei giorni precedenti con i tutt’altro che “easy” reenactment. In questo caso il silenzio ha una valenza decisamente diversa, se non opposta, rispetto a quella dello specchio. Il piano sonoro non viene annullato, ma completamente assorbito da quello visivo. L’ostentata grandeur della macchina scenica in cui Abramović, nuova Winnie beckettiana, è inserita e la rarefazione del movimento, che sembra scomporre non solo lo spazio ma anche il tempo, producono un surplus visivo che impone anche un ascolto con gli occhi. Alla fine delle sette ore, l’artista dice, lentamente: «Per cortesia tutti voi, un momento di attenzione. Ascoltate. [Pausa]. Io sono [pausa] qui e ora [pausa], e voi siete [pausa] qui e ora. Con me. [Pausa]. Il tempo non esiste». Il tentativo di mostrare che il tempo non esiste – concetto di matrice zen che, come sostiene Devin Zuber8, riverbera anche in Teresa d’Avila e Emanuel Swedenborg – sembra passare attraverso un processo di decostruzione della materia del movimento (in questa performance vistosamente rallentato) e del suono (una voce che nega la sua manifestazione).
17Molte volte le performance di Marina Abramović hanno dispiegato l’uso del metronomo: solo per fare qualche esempio, l’ambiente sonoro Metronome (1971), The House with Ocean View (2002/2012) e il reenactment di Lips of Thomas (2005) che aggiungeva alla performance originaria questo strumento. Nonostante la nascita dell’acustica, all’inizio del Novecento, abbia contribuito alla configurazione del suono come corpo grave e misurabile che abita lo spazio, l’attributo che Marina Abramović molto spesso gli conferisce è quello dell’immaterialità. Il ticchettio del metronomo cristallizza un gocciolamento del tempo: la presunta scarsa materialità del suono intercetta l’imponderabilità del tempo. Il suono è, allora, l’unico mezzo capace di sostenere il processo asintotico che avvicina al tempo puro, materia della performance. Il silenzio di Entering the Other Side è probabilmente l’ultima propaggine, la più radicale e sovversiva, di questa traiettoria: la saturazione visiva imposta dalla performance annullerebbe nel silenzio anche il suono, producendo un ristagnamento del tempo, se non una sua nullificazione.
c. Silenzio-reificazione
18«Io sono l’oggetto»: è quanto riporta il programma di sala di Rhythm 0 (1974), una delle performance più estreme di Marina Abramović e probabilmente quella che l’ha consegnata all’immaginario collettivo nel mondo dell’arte contemporanea. Presso lo Studio Morra di Napoli è allestito un tavolo con settantadue oggetti su una tovaglia bianca. Fra di essi chiodi, catene, pane, sapone, una torta, dello zolfo, un cerotto. Per sei ore, l’artista è in piedi accanto al tavolo, in balia degli spettatori. Nel corso degli anni vi è stata una vertiginosa opera di ricostruzione di questa performance. Alla base del racconto vi sono delle fotografie e le memorie di chi sostiene di avervi partecipato o si sente legittimato a parlare per sentito dire. Sembra che all’inizio i convenuti fossero piuttosto timorosi e prudenti, ma che col passare del tempo le azioni sul corpo di Marina Abramović divenissero via via più cruente. L’artista è spogliata, il suo corpo è prima accudito, poi imbrattato e ferito e successivamente disteso. Ogni racconto tende sempre verso un momento clou che si attesta sull’aggressione inferta da uno spettatore: costui carica la pistola, uno dei settantadue oggetti, con alcuni proiettili presenti sul tavolo e poi la pone nelle mani di Marina Abramović. Solo a quel punto, qualcuno – forse proprio lo stesso gallerista, Giuseppe Morra – ferma la performance, dichiarandola conclusa. «Durante la performance – scrive Abramović – mi assumo la totale responsabilità». Ma di quale responsabilità si fa carico l’artista? La risposta più ovvia potrebbe essere che è quella di un evento il cui esito è totalmente imprevedibile. In altre parole, si potrebbe dire che Abramović si prende a tal punto cura dello spettatore da trasformarsi in lui, identificando la propria responsabilità con quella di coloro che partecipano a Rhythm 0. Un atto di totale fiducia non solo verso il genere umano e il vivere civile, ma anche verso le convenzioni dell’arte. L’ingresso dello spettatore nello Studio Morra sancisce infatti il passaggio a un luogo in cui molte pratiche della quotidianità vengono attenuate per dar vita a un’esperienza estetica, ma in cui pur sempre vigono delle norme che, per quanto scardinate o lanciate verso il punto massimo di tensione, non ammetterebbero mai l’omicidio, nemmeno come ipotesi. La vera responsabilità che Marina Abramović si assume è un’altra: quella della caduta, ovvero il divenire-oggetto. Riprendiamo la dichiarazione «Io sono l’oggetto»: il tipo di presenza che Abramović cerca è la confusione con l’oggetto, una (im)possibile consustanzialità. Il silenzio di questa presenza attesta un tentativo di rinuncia non solo al bíos ma anche alla zoé, propria di tutti gli esseri organici. Il silenzio di Marina Abramović è allora la tensione verso l’oggetto, è il cogliere la voce assente degli oggetti ovvero la pura oggettualità dell’oggetto.
2. Respiro
19«Respiro, tu invisibile poesia! / Continuo intorno al proprio / essere puro scambio d’universo spazio. Contrappeso, / in cui ritmicamente avvengo»9. Rainer Maria Rilke centellina le parole, quasi dovessero assestarsi sul ritmo del respiro. Espirazione/inspirazione: sono parole che si fanno della materia sottile cui si riferiscono, quasi imprigionando in una morsa il significante e il significato. Respirare, come sostiene Luce Irigaray, riferendosi al pensiero di Martin Heidegger10, lega inesorabilmente l’esser-ci e l’essere-con. È il territorio puro della liminalità, la zona di cortocircuito io/altro, io/mondo. Con questa valenza Marina Abramović utilizza il respiro nelle sue performance. Distesa col corpo nudo e uno scheletro adagiato su di esso, in Cleaning the Mirror II (1995), l’artista si limita a respirare. Inala aria e poi la rilascia: il suo corpo si muove con un ritmo regolare e con esso lo scheletro che, pur ufficializzando attraverso la sua forma la morte, sembra animarsi. Siamo su quel limen tra morte e vita, tra nullificazione e desiderio di esistere. Ma allo stesso tempo ci troviamo davanti a una provocazione: da una parte c’è l’orrore conclamato, vale a dire il contatto ripugnante con la morte; dall’altra la possibilità che il respiro, unico accadimento di questa performance, nullifichi l’orrore infondendo vita nello scheletro inerte. Siamo lontani, per tornare a Rilke, da quell’aria che è «foglia della mia parola»11: Abramović non recupera la potenza del respiro quale motore del suono che articola la parola, non ricerca nemmeno quel respiro che si trasforma in suono preverbale, cioè non articolato ancora nel linguaggio. Nega addirittura l’orizzonte della voce per approcciare al respiro come puro gesto. Si potrebbe pensare al concetto di πνεῦμα per quell’intreccio sfaccettato che esso realizza con l’esistere, se questo concetto non si fosse caricato di accezioni differenti (soffio vitale, respiro, anima). È uno scavo nelle radici profonde dell’esistere che caratterizza quest’uso del respiro nelle performance. In Breathing in/Breathing Out (1977) e nella speculare Breathing Out/Breathing In Marina Abramović e Ulay, il compagno d’arte e di vita col quale lavora dal 1977 fino al 1988, sono in ginocchio, una di fronte all’altro, e si legano in un bacio. Le loro narici sono chiuse con filtri di sigaretta. Si scambiano aria e diossido di carbonio. Nella prima performance inizia Abramović. Dopo aver inspirato aria, espira diossido di carbonio che viene inalato da Ulay. Viceversa, nella seconda, è Ulay a iniziare il processo. In entrambi i casi, l’azione va avanti fino a quando, per mancanza di ossigeno, uno dei due è sul punto di collassare. Il respiro, anche in questo caso, è sostanza sottile dell’essere, recuperato come spazio liminale tra io e mondo. A venire tematizzata è la relazione di coppia e quella modalità cui i due artisti desiderano accedere, che la stessa Abramović definisce «personalità fusionale»12: attraverso l’amalgama dei due respiri, i due non solo tentano la via di un corpo/anima unico, ma annullano anche il resto del mondo, eliminandolo come orizzonte e ponendo l’altro quale unico elemento di interscambio e nutrimento.
20Il respiro diventa cartina di tornasole per indagare le tecniche cui l’artista fa riferimento. Si tratta di un paradigma composito, un vero e proprio sistema, che mette in campo, in particolar modo, un’apertura a culture extraoccidentali di cui si parlerà nella parte finale di questo scritto. A caratterizzare la declinazione del respiro sono soprattutto alcune pratiche di chiara ascendenza buddista. Il silenzio della vipaśyanā buddista diventa strumento per l’ascolto del respiro e avvio verso una più profonda consapevolezza del sé. La stessa Abramović descrive esplicitamente una tecnica:
Puoi stare in piedi o seduto per provare questo esercizio. Se scegli di star seduto, sii sicuro che la parte superiore del tuo corpo sia dritta e che il tuo busto sia aperto e libero. Respira attraverso il naso e senti il respiro scendere nell’addome e risalire delicatamente, ma non forzare questo processo. Espira delicatamente attraverso la bocca con le labbra rilassate. Ripeti fino a sentirti a tuo agio, rilassato e più vigile. Poi aggiungi un mormorio al respiro che stai rilasciando – inizia gentilmente e continua fino a sentire la consapevolezza della risposta del corpo. Fai con calma e non affrettare questo passaggio13.
21In una prima fase, che assomiglia alla pratica base della mindfulness, c’è uno scavo nel respiro, mentre nella seconda esso si innerva nel canto. Nel 1987, durante il suo soggiorno presso il monastero di Tushita a Dharamsala, nel nord dell’India, l’obiettivo di Abramović fu ripetere una frase per seimila volte al giorno fino a ottenere, attraverso questo processo, una sincronizzazione del respiro e del corpo col tono del canto che garantisse un profondo senso di equilibrio. Il canto, in questo caso, è usato al di fuori del canone occidentale, che ricerca l’esattezza dell’esecuzione attraverso il rispetto della melodia. In una maniera analoga a quanto perseguito da Jerzy Grotowski, che nella fase dell’Arte come Veicolo lavorò con Maud Robart sui canti tradizionali afro-caraibici perché i performer costruissero un’Azione, cioè una «struttura performativa oggettiva nei dettagli»14, Marina Abramović accede al potere vibrazionale del canto perché è la vibrazione, e non esclusivamente la melodia, a segnarne l’esattezza e le possibilità di funzionamento. A differenza della melodia, che può essere formalizzata attraverso la notazione e che quindi richiama la preminenza della scrittura nell’ottica occidentale, le qualità vibratorie, non quantificabili dal punto di vista grafico, riconducono al potere dell’oralità. Così come per Grotowski le qualità vibratorie dei canti corrispondevano in maniera perfetta al loro radicamento negli impulsi e nelle azioni, anche per Marina Abramović la vibrazione è un pattern che conferisce esattezza e stabilità al processo.
22Alla base del composito paradigma di pensiero e delle tecniche adottati da Marina Abramović vi sono, secondo Devin Zuber, le teorie di Emanuel Swedenborg e il suo sviluppo di una «ipoventilazione meditativa»15 per indurre a stati alterati di coscienza. La traslazione di questo pensiero nelle pratiche di Daisetsu Teitarō Suzuki e Madame Helena Blavatsky, riferimenti essenziali adottati dall’artista serba all’inizio della sua carriera, segnano una linea di continuità tra il filosofo e la performance art di Marina Abramović.
3. Grido
23Marina Abramović è distesa su un materasso bianco. La sua testa, reclinata all’indietro, sporge dal bordo. Per tre ore si lascia andare a urla inarticolate, fino a quando la sua voce, ovviamente, prima si arrochisce e poi scompare. È Freeing the Voice (1975), che insieme a Freeing the Memory (1975) e Freeing the Body (1975), fanno parte di un ciclo sullo sfiancamento/liberazione, rispettivamente della voce, della mente e del corpo.
24In virtù della sua intensità, sembra che nel grido si infittisca densità materica. Sebbene Abramović descriva il ciclo di performance di cui fa parte Freeing the Voice come un tentativo di liberarsi dai fantasmi del passato, abbiamo l’impressone che questo grido non intercetti un immaginario, una storia e, in definitiva, una causa che lo genera. Analizzando lo Studio dal ritratto di Innocenzo X di Velasquez di Bacon, Gilles Deleuze scrive: «Gridiamo esclusivamente perché siamo in preda a forze invisibili e impercettibili che offuscano ogni spettacolo e travalicano persino il dolore e la sensazione. È questo che Bacon esprime quando dice: “dipingere il grido piuttosto che l’orrore”»16 e, a proposito della scelta del pittore di porre di fronte al papa una tenda che cela l’oggetto che provoca l’orrore, continua: «così neutralizzato, l’orrore è moltiplicato perché si conclude nel grido, e non l’inverso. […] Non appena c’è orrore, si reintroduce una storia, il grido è fallito»17. Il grido di Marina Abramović tende alla forza pura e alla sua trasformazione in materia, tanto è vero che esso ha fine solo nel momento in cui la materia del grido, la voce, va a estinguersi.
25La fiducia in questo gesto vocale, quale strumento non solo di liberazione, ma anche di ricomposizione di un corpo/anima piagato, sembra amplificarsi soprattutto nel periodo della controcultura e all’inizio degli anni Settanta. Nel 1970 esce il primo, omonimo, album di John Lennon/Plastic Ono Band dopo la separazione dai Beatles. Il pezzo che apre il disco, Mother18, tematizza il senso di abbandono dovuto all’allontanamento dai genitori – Lennon fu affidato a una zia – e la morte della madre, Julia, uccisa, quando il musicista aveva diciassette anni, da un’auto guidata da un poliziotto ubriaco. Le ultime parole della canzone, «Mama don’t go, daddy come home», sono emesse con una straordinaria intensità che lascia poi spazio a grida inarticolate. Proprio mentre scriveva l’intero album, sia John Lennon che la moglie Yoko Ono si stavano sottoponendo alla Primal Therapy dello psicanalista Arthur Janov. Si tratta di un metodo, rigettato dalla psicoanalisi ufficiale, volto a rimuovere le difese psichiche del paziente e a scavare nei suoi traumi. Uno degli strumenti di questo percorso terapeutico è il Primal Scream, nato dall’osservazione diretta di due pazienti, il primo chiamato da Janov col nom de plume “Gary Hillard”, sofferente perché non amato dai genitori, e l’altro “Danny Wilson”. Entrambi, spinti a parlare dei loro traumi, si mostrano reticenti, fino a quando si gettano a terra in preda a convulsioni e urlano. Non è un caso che sia palese la valenza performativa di questo metodo, che Janov mai descrive con precisione e che rifiuta di associare tout court alla più ampia Primal Therapy. È proprio “Danny Wilson”, inconsapevolmente, a creare un legame tra l’attività performativa e questo metodo, ricordando, durante la seduta di cui si scriveva, la performance di Raphael Montañez Ortiz Mommy Daddy - Self Destruction, presentata a Londra nel 1966. In essa Ortiz, dopo aver fatto il suo ingresso sul palco del Mercury Theatre dicendo: «Mamma, mamma, sono a casa. Ralphie è qui», regredisce ad uno stadio infantile per mettere in luce l’atroce conflitto edipico di cui si sente vittima: si spoglia, si cosparge di talco, distrugge una papera di plastica, indossa un pannolino, beve e vomita del latte, ma soprattutto piange e urla. Una performance, quindi, diventa detonatore di un dolore represso e base di una nuova performance del dolore. Performare, in questo caso, vuol dire in qualche maniera perimetrare uno spazio di espressione e di deflusso di energie altrimenti irrelate.
26Performare il grido significa, innanzitutto, cogliere la sua portata in quanto gesto vocale che trascende il linguaggio e si assottiglia verso un dispendio puro di ciò che non è sostenibile dal linguaggio articolato. È il gesto vocale della mistica Angela da Foligno che, nell’ottobre del 1291, di fronte alle vetrate della Basilica di San Francesco ad Assisi, urla non perché non possa dire, ma perché con il suo urlo dice tutto, in tutte le lingue possibili e con tutto l’impasto di corpo e anima possibile, tendendo attraverso il suo urlo alla pura forza che esprime. Lo stesso accade nella performance televisiva AAA-AAA (1978). Marina Abramović e Ulay, uno di fronte all’altra, emettono un suono continuo. Man mano che i loro visi si avvicinano, l’intensità cresce fino a che i due cominciano a urlare e a perdere la voce uno nella bocca dell’altra. Ancora una volta, il focus del loro lavoro è la relazione di coppia. L’aggressività con cui il gesto vocale è reciprocamente indirizzato, il tentativo di sopraffare vocalmente l’altro, è in realtà un grido di disperazione che mette in campo, ancora una volta, l’incapacità del linguaggio verbale di comunicare quell’intreccio di corpo/anima che trascende la parola. La voce si innalza, si spezza, si rompe e testimonia la sua stanchezza soprattutto attraverso i colpi di tosse di Ulay. Scrive Roland Barthes:
Niente di più straziante che una voce amata e stanca: voce estenuata, rarefatta, per non dire esangue, voce che viene da in capo al mondo, che va a inabissarsi in remotissime acque fredde: essa sta per scomparire, così come l’essere stanco sta per morire: la stanchezza è l’infinito, la cosa che non finisce di finire. Questa voce breve, corta, quasi sgraziata a forza di laconicità, questo quasi niente della voce amata e distante, diventa dentro di me un groppo gigantesco, come se un chirurgo mi stesse ficcando a forza nella testa un grosso tampone di cotone19.
27L’intento fusionale, che già caratterizzava il respiro sia in Breathing In/Breathing Out sia in Breathing Out/Breathing In, in AAA-AAA deve fare i conti con la materialità della voce, la sua caducità, il suo svanire. La voce è sempre il luogo del compianto, il suo destino è la memoria:
Il fading dell’altro – scrive ancora Barthes – è racchiuso nella sua voce. La voce sostiene, rende leggibile e per così dire realizza l’evanescenza dell’essere amato, poiché è alla voce che tocca morire. L’essenza della voce è ciò che in essa mi strazia a forza di dover morire, come se essa fosse già subito e non potesse mai essere altro che un ricordo. Questo essere fantasma della voce è l’inflessione. L’inflessione, attraverso cui ogni voce si definisce, è ciò che in questo momento sta tacendosi, è quel punto sonoro che si disgrega e svanisce. Non conosco mai la voce dell’essere amato se non quando essa è morta, richiamata alla memoria, ricordata nella mia testa, ben oltre l’orecchio; voce tenue e nondimeno monumentale, giacché essa è uno di quegli oggetti che non esistono se non quando non ci sono più20.
Esodo
28Non si pretende, attraverso questo scritto, di restituire uno sguardo esaustivo sull’uso della voce nelle performance di Marina Abramović. Ma, allo stesso tempo, si intende individuare alcuni tratti che possano stabilire un suo possibile approccio alla voce.
1. La voce è recuperata sempre come gesto sonoro. La potenza raziocinante del linguaggio articolato è messa in crisi poiché esso appare insufficiente alla comunicazione profonda. Anche quando il linguaggio è impiegato, è ridotto a frasi minime, talvolta reiterate (la furiosa ripetizione del titolo della performance Art Must Be Beautiful, Artist Must Be Beautiful del 1975, mentre con una spazzola si pettina violentemente i capelli) o è un fardello di cui liberarsi (l’ossessiva ripetizione dei termini che all’artista passano per la mente in Freeing The Memory, 1975).
2. Se la voce è, innanzitutto, suono, occorre indagare la maniera con cui Abramović tematizza il suono e notare una doppia polarità di approccio a esso. Tra gli esperimenti col metronomo di inizio carriera e le performance degli anni Settanta, a porsi come spartiacque vi è Rhythm 10 (1973), la sua prima vera e propria performance in cui, riprendendo un vecchio gioco balcanico, l’artista pianta rapidamente un coltello fra le cinque dita della propria mano aperta; quando il coltello, a causa della velocità, manca la mira colpendo un dito, Marina Abramović passa a una lama via via più grande. Un magnetofono registra i colpi e i singulti: la registrazione diventa pattern per una nuova esecuzione, una volta esauriti i coltelli. Il passaggio dalla sound art alla performance genera uno slittamento di senso nella concezione del suono – e dell’uso della voce – di Marina Abramović. Basta osservare Freeing the Voice. Se prima il suono, appannaggio di mezzi meccanici quali il metronomo, era esterno al corpo, e di esso veniva enfatizzata quell’imponderabilità che lo rendeva strumento d’elezione del tempo, ora è affidato esclusivamente alla voce umana, si fa sostanza pesante, riscatta la sua matericità che lo rende corpo grave fra i gravi. Nella visione dell’artista serba, allora, la concezione del suono oscilla, ponendosi in una zona di liminalità fra materia e sua disgregazione.
3. Come abbiamo potuto constatare parlando del respiro e della sua valenza costruttiva, la qualità della presenza cui Marina Abramović vuole accedere nelle sue performance è orientata, spesso, su pratiche e sistemi di pensiero extraoccidentali, in particolare orientali. Secondo questa prospettiva, il lavoro dell’artista serba può essere assimilabile a larga parte delle avanguardie novecentesche e secondo-novecentesche su cui l’impatto dei mondi extraoccidentali è stato decisivo.
Il confronto con culture diverse dalla propria ha consentito agli artisti occidentali di edificare un “altrove possibile” che mettesse in discussione statuti linguistici e codici consolidati. Solo per fare una rapida carrellata di esempi, che esulano dall’ovvio riferimento alle fanciulle tahitiane nella pittura di Paul Gauguin e alle danze balinesi nel teatro di Antonin Artaud, possiamo indicare, in musica, la fascinazione subita da Claude Debussy, nel 1889 durante l’Esposizione Universale di Parigi, dai suoni della musica giavanese, il cui contrappunto rendeva quello di Giovanni Pierluigi da Palestrina «un jeu d’enfant»21. E, facendo un salto nel tempo e posizionandoci alla fine degli anni Cinquanta, possiamo notare quanto il free jazz mutui l’esplorazione modale da musiche extraoccidentali. Il teatro radicalizza questa tendenza all’incontro con culture “altre”, tanto è vero che le pratiche e le estetiche di numerosi maestri secondo-novecenteschi – Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, il Living Theatre, Peter Brook, solo per fare alcuni nomi – si basano su metodi-“Frankenstein”22, vale a dire nati come assemblaggio di esercizi, canti, pratiche attoriche e teorie che non hanno un orizzonte di riferimento univoco, ma sono prelevati da differenti culture. La stessa performance art nasce orientata su una dimensione rituale che riscatta l’attenzione verso culture “altre” in cui il rito è struttura essenziale per il mantenimento della società. L’interesse dell’antropologia verso il rituale sia nelle società tradizionali che in quelle complesse, la circolazione di pratiche e filosofie extraoccidentali e il loro spostamento in una dimensione estetica è, secondo Peggy Phelan23, una delle tre “narrazioni” attraverso le quali leggere la nascita della performance, insieme a quella che la vede originarsi dal teatro e divenirne il contrappunto e a quella che ne riconosce un’emersione dalla pittura dopo l’Action Painting. La performance, allora, si collocherebbe nel cortocircuito tra queste diverse narrazioni e ingloberebbe un’intrinseca apertura verso un altrove recuperato attraverso la dimensione rituale, intesa in un’accezione extraoccidentale.
4. Come questione conclusiva, occorre far riferimento al titolo del convegno cui questo scritto fa seguito, L’arte orale. Poesia, musica, performance, e allargare l’orizzonte di ricerca non solo al lavoro di Marina Abramović, ma all’intero campo della performance art. Che senso ha mettere in relazione performance art e oralità? Esso va rintracciato non solo nelle modalità costruttive che stanno alla base di questa forma d’arte, ma soprattutto nelle sue possibilità di sopravvivenza e senso. Ritorniamo a Peggy Phelan e a quell’affermazione, forse tanto abusata da divenire stereotipo: «L’unica vita della performance è nel presente. La performance non può essere salvata, registrata, documentata o, in qualche modo, partecipare alla circolazione di rappresentazioni di rappresentazioni: se questo accade, diventa altro rispetto alla performance»24. Corollario di questa sentenza apodittica è che l’unica parola sulla performance è di natura memoriale. E orale. Affidare la performance alla pagina scritta vuol dire incanalarla nella logica della conservazione che la scrittura comporta. E conservare una performance vuol dire tradirla. La parola orale, col suo irrimediabile dissolversi, intercetta l’evanescenza della performance. Tentando di confutare il pensiero di Peggy Phelan, Christopher Bedford sostiene che il senso profondo della performance art sia il suo porsi come atto mitopoietico. Essa sarebbe, inoltre, caratterizzata da un’«ontologia virale»25: ogni performance, allora, è solo un punto di partenza, un coagularsi di un preciso tempo e di un altrettanto preciso evento destinati a continuare a vivere nel perpetuarsi del ricordo e nella parola, esclusivamente orale, con cui questo ricordo è attivato. Tutto quello che finora ho raccontato è una memoria di un mito al cui atto di fondazione non ho partecipato, ma è una declinazione, personale e affettiva, della performance art di Marina Abramović.
Notes de bas de page
1 E. Fischer-Lichte, Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte, Carocci, Roma 2014, p. 22.
2 La versione integrale dello speech di Marina Abramović è visibile all’indirizzo <https://www.youtube.com/watch?v=Abk44swuaro>.
3 V. Jankélévitch, La musica e l’ineffabile, Tempi Moderni, Napoli 1985 (Bompiani, Milano 1998), p. 120.
4 Cfr. L. Heilmann, Silere-tacere. Nota lessicale, «Quaderni dell’Istituto di Glottologia», Università di Bologna, 1955, pp. 3-14.
5 J. Fischer, Psychoanalyst Meets Marina Abramović, Scheidegger & Spiess, Zürich 2018, pp. 65-66 (trad. mia).
6 J. Cage, Musica sperimentale, in Id., Silenzio, ShaKe, Milano 2010, p. 15.
7 Cfr. P. Phelan, The ontology of performance: representation without reproduction, in Ead., Unmarked. The Politics of Performance, Routledge, London-New York 1993, pp. 146-166.
8 Cfr. D. Zuber, Luminosità nordica: lo spirituale nell’arte di Marina Abramović, in A. Galansino (a cura di), Marina Abramović. The Cleaner, Marsilio, Venezia 2018, pp. 268-278.
9 R.M. Rilke, primo sonetto della seconda parte de I sonetti a Orfeo, Feltrinelli, Milano 2016, p. 73.
10 Cfr. L. Irigaray, L’oblio dell’aria, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
11 R.M. Rilke, primo sonetto cit.
12 M. Abramovic con J. Kaplan, Attraversare i muri. Un’autobiografia, Bompiani, Milano 2018, p. 110.
13 M. Abramović, Unfinished Business, Salon, Köln 1998, pp. 120-121 (trad. mia).
14 J. Grotowski, Dalla compagnia teatrale a L’arte come veicolo, in Th. Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Ubulibri, Roma 1993, p. 138.
15 D. Zuber, Luminosità nordica cit., p. 270.
16 G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 2004, p. 122.
17 Ivi, p. 88.
18 Del brano esistono numerose cover, molto più edulcorate dal punto di vista vocale, fra le quali ricordiamo quella di Barbra Streisand, contenuta nell’album Barbra Joan Streisand (1971), quella di Christina Aguilera per il benefit album Instant Karma: The Amnesty International Campaign to Save Darfur (2007), quella strumentale di Bill Frisell nell’album All We Are Saying (2011), quella dei Metric per la versione dell’album Synthetica, uscita in concomitanza col tour australiano del 2012. In Italia Mia Martini tradusse il testo e inserì la cover nell’album Nel mondo, una cosa (1972) e come b-side del 45 giri Piccolo uomo.
19 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, p. 92.
20 Ivi, pp. 91-92.
21 C. Debussy, Du goût, «S.I.M.», IX (1913), n. 2, p. 48.
22 Per tale questione mi permetto di rimandare al mio «Perché di te farò un canto». Pratiche ed estetiche della vocalità nel teatro di Jerzy Grotowski, Living Theatre e Peter Brook, Bulzoni, Roma 2018.
23 Cfr. P. Phelan, lecture del 29 marzo 2003 alla galleria Tate Modern di Londra, nel ciclo Live Culture Lecture at Tate, <https://www.tate.org.uk/context-comment/video/live-culture-performance-and-contemporary-part-1> (accessibile mediante iscrizione al sito del museo).
24 P. Phelan, The ontology of performance cit., p. 146 (trad. mia).
25 Cfr. C. Bedford, L’ontologia virale della performance, in C. Mu, P. Martore (a cura di), Performance Art. Traiettorie ed esperienze internazionali, Castelvecchi, Roma 2018, pp. 89-102.
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