Storia degli storici e storia diffusa
p. 41-51
Texte intégral
11. La “leggenda” negativa più operosa è quella che vede Gramsci come vittima del comunismo-stalinismo dell’epoca piuttosto che del fascismo. Ciò comporta la percezione delle diversità – anche serie – delle posizioni politiche fra Gramsci, Togliatti, l’IC, il PCR e il PCd’I, come una lotta per la vita o per la morte; senza esclusione di colpi e la trasformazione in intenzioni “criminose” di alcuni atteggiamenti – ritenuti erronei da Gramsci – dei dirigenti del PCd’I dell’epoca e la raffigurazione di questi – in particolare di Togliatti – come persone senza principi e senza affetti, pronti a ogni delitto pur di compiacere qualcuno più in alto, ovvero Stalin. Scambiando talvolta la durezza dei comportamenti dovuti alla situazione di clandestinità e di persecuzione (nonché ai timori di infiltrazioni spionistiche, poi verificatesi ampiamente) per volontà di nuocere, anche se il settarismo dell’epoca – non poco presente nel PCd’I e nella IC – non era certo estraneo a tale durezza. A ciò si deve aggiungere che la fase del “terrore” staliniano e la partecipazione o comunque la presenza attiva ad esso dei comunisti italiani (ancora Togliatti) ha fornito un alone di veridicità alle presunte persecuzioni nei confronti di Gramsci.
22. Lo ritengo interno al PCd’I per quanto riguarda la vicenda concreta, e le ripercussioni storiche immediate, dato che all’esterno all’epoca, di questa questione poco si è saputo, salvo nel gruppo ristretto clandestino. Comunque, per la precisione, non proprio di contrasto fra Gramsci e Togliatti si è trattato, ma – almeno formalmente – fra l’Esecutivo del PCd’I e la maggioranza del PCR. Ed esso non riguardava, quindi, esclusivamente i due dirigenti italiani. Ciò, a mio parere, rende ancora più grave la decisione di Togliatti di non inoltrare la lettera, poiché così facendo egli occultò una presa di posizione formale del suo partito. Il fatto che poi il conflitto, anche molto aspro, fosse diventato in realtà fra Gramsci e Togliatti dipende dai suoi contenuti: Togliatti – che aveva una conoscenza più precisa della situazione – riteneva che questa fosse ormai “precipitata” e che quindi la lettera del PCd’I sarebbe stata inutile se non nociva per il partito stesso, e comunque egli e altri dirigenti acconsentivano – politicamente e disciplinarmente – con la maggioranza del PCR. Gramsci, come è noto (e come risulterà anche dai Quaderni) non aveva forti obiezioni politiche nei confronti dei contenuti sostenuti dalla maggioranza del PCR, ma temeva potesse accadere qualcosa di più rilevante (come poi accadde): ossia che la rottura del gruppo dirigente bolscevico potesse avere ripercussioni notevolissime sull’orientamento delle grandi masse proletarie del resto del mondo; innanzitutto una ripercussione metafisica, nel loro pensiero, dato che si stava creando una notevole discontinuità con lo stile di direzione di Lenin. Inoltre, mi sembra che Gramsci temesse, implicitamente, la possibilità dell’avverarsi del fenomeno della “rivoluzione che divora i suoi figli” (come nella Rivoluzione francese); infine il pericolo del rischio burocratico-oligarchico sia nel PCR, sia nell’IC, sia nella costruzione dello Stato socialista. Più che opposizione radicale, fra PCd’I, Gramsci, Togliatti e PCR, mi sembra si avvii il divaricarsi di punti di vista diversi coi quali giudicare la situazione del momento e quella in prospettiva. E la cosa non riguarda – come pure si è affermato – la sola “russificazione” del movimento comunista e il prevalere in esso dei problemi interni alla edificazione del primo Stato a gestione operaia e contadina (cosa che comunque avrebbe avuto ripercussioni in tutto il movimento operaio mondiale, comunista o meno), quanto la rilevanza politico-ideologica generale del come tale edificazione veniva realizzata: poteva rappresentare un congelamento della spinta rivoluzionaria mondiale, che tuttavia doveva articolarsi ormai in maniera differente; oppure diventare una riserva energetica per gli sviluppi successivi di essa.
35. Quella del “Quaderno mancante”, mi sembra una vicenda molto romanzata. Non vedo serie probabilità che esso esista o che comunque possa venire alla luce ove esistesse. Comunque se lo si trovasse sarebbe molto interessante leggerlo. Direi che il mio convincimento può rientrare pienamente nel quadro delle considerazioni presenti nella risposta alla prima domanda del Questionario. In particolare, nel sollevare il dubbio sul quaderno mancante, vi è l’assurda supposizione – non fondata su riscontri storicamente attendibili – che Gramsci abbia radicalmente cambiato il suo pensiero prima di morire. Ovviamente, non si può escludere, ma le prove portate a sostegno di questa ipotesi non sono affatto dimostrative. C’è sì, in Gramsci, una situazione di grande malessere fisico e psichico, di disperazione, di ripensamento del senso della propria vita, che si possono desumere anche dai suoi continui riferimenti, nelle Lettere e nei Quaderni, al costituirsi in lui di una «personalità molteplice, doppia», che temeva potesse prevalere. Situazione, tra l’altro, nella quale riemergono i suoi sospetti e rancori verso Ruggero Grieco e Palmiro Togliatti. La percezione negativa da parte di Gramsci della lettera di Grieco o delle manifestazioni all’estero per la sua liberazione, mi pare derivi da uno scarto fra l’idea dei comunisti esiliati che vedevano in lui il loro massimo dirigente sottoposto a un duro regime di detenzione – e al quale era bene segnalare le novità politiche esterne – e il prigioniero che cercava di evitare il carcere nel processo e poi durante la reclusione, sempre nell’ambito della correttezza e della salvaguardia del proprio onore. È stato pure affermato, a sostegno della tesi della “conversione”, che l’uso da parte di Gramsci delle teorie del linguaggio nei suoi scritti, stava a significare che il suo “marxismo” era solo una superficiale verniciatura apposta sulla vera struttura del suo pensiero di linguista e di glottologo. Mi pare, che in questo caso ci si trovi di fronte a una sorta di involontario transfert. Per il Gramsci che conosco, dalle opere edite, ciò mi appare inverosimile.
46. Il ruolo di Piero Sraffa è stato innanzitutto quello risultante dalle ricerche e dalla documentazione a nostra disposizione. Di sicuro era un comunista, amico di Gramsci e Togliatti e con buoni rapporti con i dirigenti del PCI, anche delle generazioni successive. Bisogna tuttavia comprendere bene che cosa volesse dire essere un comunista negli anni Venti-Cinquanta, soprattutto durante il fascismo e il nazismo, per di più con la funzione di trait-d’union fra Gramsci, il Centro estero del PCI, Togliatti e la famiglia Schucht, nonché in quella di “architetto” di tentativi di liberazione di Gramsci. Poi, in vario modo, tutore del lascito intellettuale di questo. Nel Regno Unito (per non dire nell’Irlanda), dove nell’anteguerra parte dei ceti dirigenti simpatizzavano col fascismo e col nazismo, dichiararsi esplicitamente comunista sarebbe stata una inutile manifestazione di appartenenza che, tra l’altro, gli avrebbe impedito di svolgere il ruolo di cui si è detto, tanto più data la sua condizione di straniero, antifascista, integrato nel mondo accademico britannico all’Università di Cambridge e, da un certo punto in poi, appartenente a un paese nemico. Non capisco la questione dell’“agente coperto del Comintern”: che cosa si vuol intendere esattamente? Quali sono le probabili fonti di una tale supposizione? La riterrei comunque senza senso dato che egli già svolgeva il ruolo di collegamento fra Gramsci e il Centro Estero del partito (Parigi, Mosca); che aveva rapporti molto stretti con Togliatti, che dal 1934 era appunto entrato nella Segreteria dell’IC. Penso che – al di là dei ben noti aspetti caratteriali – le funzioni ben note dello Sraffa “documentabile” giustifichino molto bene la sua reticenza a non rendere visibile la propria appartenenza politica. Tutta la curiosità – a tratti morbosa – sullo Sraffa “agente” di qualche entità, sta a rilevare piuttosto sia una scarsa conoscenza delle condizioni nelle quali ci si trovava a operare all’epoca, ma, ancor più gravemente, l’idea che una salda scelta di campo – ideale e politica – dovesse (o debba) necessariamente impedire una libera ricerca in un qualche campo del sapere, economico o altro.
58. In ogni contesto dove vige una situazione di censura, la scrittura non può essere esercitata in maniera aperta e libera e quindi richiede sempre una qualche forma di dissimulazione (cosa che, per vari motivi, avviene talvolta anche in maniera indipendente dalla censura). La cosa, come è noto, riguarda gran parte degli scritti pubblicati in epoca moderna, anche di tipo scientifico o filosofico, dove la dissimulazione si rendeva necessaria (e talvolta era imposta, come nel caso di Galileo Galilei) per ottenere dalle autorità – civili o religiose – l’imprimatur. La cosa è notevolmente esaltata nel caso dei prigionieri – a maggior ragione se politici – poiché alla censura si aggiunge spesso una qualche forma di persecuzione e di disagio predisposta dagli oppressori. In questo caso quando un “coatto” cerca di comunicare all’esterno in forma scritta, dato che la corrispondenza è sicuramente sottoposta a controlli, l’uso relativo di un linguaggio metaforico o allusivo (anche per questioni private) è inevitabile. Di qui a ritenere che tutto ciò che un prigioniero scrive alluda ad altro, ce ne corre. Anche perché sarebbe un lavorìo estenuante per la mente del mittente e potrebbe dar luogo al paradosso che il prigioniero non riesca più a far capire il proprio pensiero autentico, perché ognuno dei destinatari può interpretarlo sempre come allusivo di altro. La questione, d’altronde, comprende anche la natura e la funzione del destinatario, e il rapporto che il mittente ha con esso. Nel caso di Gramsci mi sembra che in alcuni momenti – soprattutto quelli di grave crisi personale – nelle lettere si riferisca in maniera criptica a questioni di varia natura e lo stesso si può dire per i Quaderni. Però, appunto, non bisogna scambiare una cosa per un’altra: perché se tutto viene ritenuto criptico, ogni testo diventa un trattato ermetico facendo correre il rischio all’interprete di accanirsi in ricerche che poi risultano insensate, i risultati delle quali sono spesso “proiezioni” poco controllate dell’interprete stesso. È questo il caso, forse il più significativo, dell’uso nei Quaderni della espressione filosofia della praxis, inizialmente scambiata per un modo indiretto per significare il marxismo e non – più giustamente, come poi si è compreso – una particolare rifondazione di questo. Perciò penso sia bene che la decifrazione degli scritti gramsciani si svolga in maniera molto sobria e accurata, evitando per quanto sia possibile di proiettare sui testi esaminati le proprie convinzioni troppo rigide o i propri desideri. Perciò, in questo caso è ancora più utile il confronto intersoggettivo e rigoroso fra studiosi, col presupposto comune che si voglia ricercare una “verità” che – sebbene circostanziale e provvisoria – deve tuttavia essere il fine etico di ogni ricerca, e non cercare di imporre a ogni costo la propria personale (e spesso irrevocabile) convinzione.
69. Se per “oggettivo” si intende qualcosa che abbia avuto una influenza rilevante nei confronti della politica o della cultura italiane o nei confronti di una prima conoscenza diffusa del pensiero gramsciano e la utilizzazione di questo, mi pare che questo “peso” sia stato relativamente scarso. Diverso è il discorso per quanto riguarda gli “specialisti” e gli storici: per entrambi il poter avere accesso a una documentazione via via più completa e a una strutturazione filologicamente più rigorosa di essa è risultato di enorme vantaggio. Tuttavia, rimane l’impressione che i pareri sulla prima edizione delle Lettere e dei Quaderni, tengano in scarsa considerazione alcuni aspetti della vicenda editoriale: (1) La gran parte delle persone coinvolte in una eventuale pubblicazione completa dei documenti, all’epoca era ancora vivente (compresi i membri della famiglia di Gramsci, residenti a Mosca, ancora in regime staliniano; mentre a Mosca e a Praga, vi erano anche molti comunisti italiani delle prime emigrazioni o partigiani perseguitati in Italia dopo il 1948) quindi, in ogni caso, una questione di riservatezza si poneva. (2) La funzione della prima edizione dei Quaderni aveva uno scopo anche, diciamo così, “didattico”, la qual cosa richiedeva un qualche ordinamento secondo un criterio “razionale” facilitante – sebbene approssimato – per consentire a un pubblico ampio di lettori – tenuto all’oscuro (durante il fascismo) delle notizie, delle vicende, dei personaggi di cui spesso si trattava e dei dibattiti politici e filosofici (compresi nell’ambito del marxismo) degli anni Trenta. (3) La raccolta dei documenti relativi a queste pubblicazioni non è stata repentina, ma ha richiesto tempo, dato che la dirigenza del PCI non li possedeva tutti. In sostanza, credo ci sia stato (e ci sia) un eccesso di mitizzazione e di luoghi comuni intorno al reperimento e agli usi delle fonti primarie che riguardano Gramsci, il che non esclude – e mi sembrerebbe strano che così non fosse stato, dato il rilievo del personaggio e delle vicende di cui è stato protagonista – prudenze, reticenze, rimozioni, proprio nel momento in cui veniva avviata una vera e propria politica di innervamento del suo pensiero nella cultura italiana, tanto più in un periodo che vedeva una rottura delle forze politiche e culturali antifasciste e un ritorno a politiche di duro e anche drammatico scontro – in Italia e nel resto del mondo – fra i soggetti politici e statali della precedente alleanza antifascista. Mi sembra che s’inclini a gettare uno sguardo sempre negativo su tutta la questione: ovvero, piuttosto che valutare comunque in maniera positiva la continua apertura nella progressiva messa a disposizione dei documenti, si rilevi invece, puntigliosamente e talvolta con astio, il fatto che essa non sia stata istantanea: cosa che non avviene in nessun caso per archivi personali o collettivi che richiedano forme di riservatezza, che spesso non sono strumentali alla occultazione interessata di documenti. Tanto è vero che la stessa attenzione, altrettanto severa, non si riscontra nei confronti di altri partiti politici o di altri importanti pensatori e leader politici italiani. Si arriva poi all’assurdo di ritenere il principale ostacolo alla salvezza e alla diffusione del lascito letterario di Gramsci, proprio colui che più ha operato fattivamente per entrambe, ossia Togliatti. Solo a lui si deve se oggi si può studiare e discutere dei pensieri contenuti in quel lascito. Altra questione è il giudizio su Togliatti dirigente politico del PCI e dell’IC, oppure anche “editore” delle opere di Gramsci o delle vicende del PCI.
710. Non ne vedo proprio il senso, dato che poi è rientrata ben presto nell’ambito che più gli competeva, ossia quello dello scoop editoriale, delle ambizioni sbagliate e malriposte, della cronaca minuta del lorianismo italiano, ecc.
811. La storiografia sul PCI e su Gramsci dovrebbe essere argomento di ricerca… storiografica. Fuor di battuta: bisogna distinguere la storia degli storici dall’immaginario storico diffuso, non sistematico, prodotto e alimentato da storie raccontate e tramandate in molti modi (discorsi, giornali, memorie, racconti orali o scritti, opuscoli di propaganda, trasmissioni televisive, lezioni nelle scuole di partito e non, celebrazioni, commemorazioni funebri, ecc.), talvolta anche dagli stessi protagonisti o da persone prossime e in qualche modo interessate alla ricostruzione delle loro vicende. Per quanto riguarda la storia degli storici, penso che una “storia sacra” del PCI non solo non sia esistita, ma in gran parte è stato lo stesso gruppo dirigente di quel partito a non volere che esistesse: contrariamente ad altre esperienze nell’ambito del movimento comunista (anche europeo), il PCI si è sempre rifiutato di promuovere una storia ufficiale, approvata o autorizzata. Magari sono stati gli stessi dirigenti di alto livello a esporsi nelle ricostruzioni e nella fornitura dei documenti (Togliatti, Amendola, Longo, Secchia, e molti altri) e a cercare di influenzare col loro punto di vista gli eventuali storici professionisti presenti e futuri. Anzi, direi che è esistita ai vari livelli dei dirigenti del PCI, una vera e propria, diffusa passione storiografica e memorialistica (quasi fino alla “mania” e al compiacimento intellettuale). La stessa opera di Paolo Spriano, che oggi passa – nell’opinione di alcuni – per apologetica, nella ricostruzione storica delle vicende del PCI, non è né una storia sacra, né “ufficiale”, sia per l’editore scelto (Einaudi), sia per la libertà con la quale l’autore si è mosso (se vi sono stati momenti di cedimento nella libertà del giudizio – e non credo ci siano stati – certo è dipeso dall’autore). Di sicuro, essa ha riscosso all’epoca simpatie da parte di molti dirigenti del PCI, di cui lo storico stesso faceva parte (ma ne facevano parte anche Gastone Manacorda, Giuliano Procacci, Ernesto Ragionieri, Rosario Villari, Renato Zangheri, ecc.), per non parlare dei militanti (Luciano Canfora, Giorgio Mori, Enzo Santarelli, per citarne solo alcuni). Tuttavia, non mancarono da parte del PCI prudenze, reticenze e non piena disponibilità a offrire tutti i documenti necessari all’impresa. Come nel caso dello stesso Ragionieri, curatore delle opere complete di Togliatti: di fronte alla negazione dell’accesso alle carte più recenti dell’attività politica di questo dirigente, per l’ultimo volume della raccolta, Ragionieri rifiutò di terminarla, e il volume fu affidato ad altro studioso non storico (che tuttavia lo fece malvolentieri, per disciplina, per risolvere una grossa “grana” alla quale il PCI non sapeva come far fronte). Non tutto, dunque, è stato lineare, nei rapporti fra PCI e storici, ma non risulta essi abbiano ricevuto – comunisti o meno che fossero – indicazioni nel campo della loro ricerca. Le opere scritte dagli storici “comunisti” sul proprio partito possono piacere o meno, ma devono essere discusse nei modi e negli stili nella varia comunità scientifica di appartenenza.
9Tuttavia una “storia sacra” c’è stata, e appartiene a quella che ho chiamato storia diffusa. Non c’è dubbio che le vicende di Gramsci (martire antifascista), e poi di Togliatti e dei dirigenti più in vista del PCI; la partecipazione di alcuni di questi alla difesa della Repubblica spagnola o alla Guerra di Liberazione in Italia, con tratti addirittura di leggenda, abbiano costituito alcuni elementi di un immaginario storico che ha prodotto molte convinzioni, fondate e non fondate, come certe continuità (del tipo Marx-Engels-Lenin-Stalin, De Sanctis-Labriola-Gramsci-Togliatti, ecc.), in realtà molto più complicate, come la storia degli storici è venuta scoprendo nel tempo. Il vero problema è che la storia specialistica opera non in un vuoto di pensieri storici, che si potrebbero definire di “senso comune”: questo, in realtà, è un “pieno” di conoscenze storiche acquisite nei modi sopra accennati, e spesso più saldamente radicate nelle menti delle persone di quelle ricavate dalle ricerche specialistiche, soprattutto in quelle dei militanti di un qualche movimento storicamente significativo. Tralasciando gli aspetti più profondi dei convincimenti più diffusi, talvolta inconsciamente, nelle mentalità popolari, di sicuro gli appartenenti a organizzazioni politiche e sociali di massa, di quelle culturali in senso stretto, di quelle religiose, ecc., o anche di qualsiasi comunità operativa nel mondo della produzione, comprese quelle scientifiche o istituzionali, possiedono – e non potrebbe essere altrimenti – una pur minima consapevolezza storica, magari non critica, magari appresa solo oralmente, relativa all’organizzazione alla quale appartengono. Spesso questa storia si configura come “sacra” e riguarda specialmente i personaggi rilevanti che ne hanno segnato l’esistenza: per l’Italia, vedi Adriano Olivetti o Giovanni Agnelli o, appunto, Mussolini, Gramsci, Togliatti, De Gasperi, Nenni, ecc. (Per Mussolini si può citare il recente racconto Canale Mussolini di Antonio Pennacchi).
10La storia degli storici, quindi, spesso è necessitata a entrare in attrito con la storia diffusa, per non parlare della storia scritta da intellettuali e costruita ad hoc per fini estrinseci rispetto alla ricerca “disinteressata” e anche alla formazione dei miti storiografici. La funzione della “storia sacra”, intesa laicamente, penso sia innanzitutto una funzione identitaria: come la bandiera, l’inno nazionale o di partito o di movimento, come il canto liturgico, la lingua, ecc. Spesso essa si richiama al mito di fondazione del gruppo sociale coinvolto: dall’azienda, alla squadra di calcio, al partito, alla nazione. Talvolta, però, questo tipo di elaborazione ha una funzione culturale più generale: per esempio, il vero e proprio mito ottocentesco di Louis Pasteur, che aveva anche il suo rito celebrato all’Institut Pasteur di Parigi, continuato fino a oggi, aveva il chiaro scopo di contrapporre un mito laico, repubblicano, scientifico, agli altri di tipo religioso o politico (Napoleone I). Mito, quello di Pasteur, fondato su una ricostruzione della vita e delle opere dello scienziato, che in seguito gli storici della scienza hanno dimostrato in qualche parte infondata e appunto funzionale al mito. Così come in Italia la ricostruzione delle vicende della scuola di fisica romana (o di “via Panisperna”) a capo della quale vi fu Enrico Fermi, ha sempre contenuto una parte “mitica”, ripetuta continuamente dai protagonisti o dagli immediati successori ed eredi, in moltissime occasioni: lezioni, convegni, celebrazioni, interviste. Se si tiene ben distinta la storia degli storici dalle altre, la “storia sacra” può anche avere una funzione positiva: quando celebriamo il 25 aprile sappiamo bene che la Resistenza non è stata una epopea solo esaltante, anche fra gli stessi resistenti, tuttavia il significato generale di questa data ci consente di considerare “sacra”, comunque, la sua memoria. Nel caso specifico di Gramsci è stata una costante linea di condotta del PCI il non trasformare il suo pensiero in “gramscismo”, cioè in ideologia ufficiale di partito. Quel pensiero – nella visione togliattiana e tanto più in quella successiva – apparteneva alla cultura italiana e mondiale, a tutti coloro che erano interessati a studiarlo e a utilizzarlo. Tanto è vero che le opere di Gramsci sono state fatte pubblicare dall’editore Einaudi e le iniziative di studio (convegni più o meno periodici) dall’Istituto Gramsci, con partecipazione pluralistica, senza nessuna pretesa di possedere interpretazioni migliori di altre. In particolare si è sempre affermato da parte del PCI che la sua politica poteva richiamarsi al pensiero di Gramsci, ma non esclusivamente e non necessariamente, dato, oltretutto, che la situazione concreta del Secondo dopoguerra era tanto diversa – per molti riguardi – rispetto a quella nella quale Gramsci aveva operato. Il PCI del Secondo dopoguerra è il partito di Togliatti, non di Gramsci. Del resto molti dirigenti-intellettuali e intellettuali del PCI avevano un rapporto col pensiero gramsciano rispettoso, ma spesso non concordante, sia dal punto di vista “filosofico”, sia da quello dell’analisi storico-politica. Gli esempi potrebbero essere numerosi. L’unica cosa che si può dire, in negativo, è che da parte dei critici spesso ha prevalso l’omaggio formale al personaggio piuttosto che una esplicita motivazione del dissenso, spesso analiticamente molto profondo.
1112. Alle condizioni che ci siano gli indizi… e che si possegga un metodo rigoroso per accertarne la fondatezza e soprattutto la loro capacità potenziale di consentire un allargamento del campo della ricerca in direzione di ambiti inattesi e “invisibili” senza quegli stessi indizi e senza la loro guida iniziale. Gli indizi possono essere inedite chiavi di accesso a nuovi territori da riportare alla luce e da descrivere. Ma la vera e propria “costruzione” indiziaria del passato ritenuto significativo – rendendolo accessibile nel presente – ha senso solo se lo storico si sforza di “farsi contemporaneo” della situazione, degli eventi o dei personaggi che studia, anche nel senso di comprendere bene la mentalità e i significati dei simboli e delle parole coinvolti e utilizzati in una data epoca, che per chi indaga può essere anche molto lontana. Ora, per tornare agli eventi dai quali abbiamo preso le mosse, ho l’impressione che molti degli intervenuti sul “caso Gramsci” non abbiano tenuto conto appieno che cosa volesse dire essere comunista in quegli anni; quale fossero il ruolo e la funzione di centri clandestini di un partito (peraltro a volte “caduti” a causa delle spie) e come (con quali logiche) dovessero operare in una situazione estrema e spesso inedita. Per di più, c’è un aspetto della storia indiziaria che è stato sollevato dallo stesso Gramsci nei Quaderni e sul quale mi sembra si sia poco riflettuto. Mi riferisco al ruolo che nel processo storico può essere assolto da eventi, forze, movimenti, definiti da Gramsci, con metafora chimica, «corpi catalitici», ossia che partecipano al processo in maniera decisiva, talvolta lo rendono addirittura possibile, ma non sono presenti in qualche modo nello stato finale di questo. Quindi l’approccio indiziario, per essere efficace, insieme a quello filologico, deve possedere un esprit de finesse tale da consentire anche la individuazione di realtà che – come i catalizzatori chimici – hanno operato alla “reazione”, però possono non risultare visibili nella sintesi finale. La sintesi storica, cioè, può anche non contenere tutti gli elementi che hanno concorso alla sua realizzazione.
Auteur
Storico della scienza e della cultura, Roma.
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