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Antonio Gramsci tra postmodernismo e Rapporto Chruščëv

p. 13-22

Note de l’auteur

Il testo tenta di costituire una risposta, da un’angolatura più ampia, ai problemi posti nelle domande 1, 2, 5, 7 del Questionario.


Texte intégral

1In una delle note che Gramsci dedica in carcere al Segretario Fiorentino, leggiamo quanto segue:

Duplice interpretazione del Machiavelli: da parte degli uomini di Stato tirannici che vogliono conservare e aumentare il loro dominio e da parte delle tendenze liberali che vogliono modificare le forme di governo… Il Croce scrive che ciò dimostra la validità obbiettiva delle posizioni del Machiavelli e ciò è giustissimo.1

2Il fatto che delle teorie del Machiavelli si servissero forze politiche contrapposte costituisce, ad avviso di Gramsci, un segno dell’oggettività di quelle teorie. Proseguendo la lettura, nei Quaderni si evoca nuovamente il «fatto constatato dal Croce (e in sé giustissimo) che il machiavellismo, essendo una scienza, serviva tanto ai reazionari quanto ai democratici»2. Un fenomeno che Gramsci constata altresì a proposito del «fondatore della filosofia della praxis»: la «posizione del Machiavelli si ripete per Marx: anche la dottrina di Marx è servita oltre che alla classe alla quale Marx esplicitamente si rivolgeva (in ciò diverso e superiore al Machiavelli) anche alle classi conservatrici, il cui personale dirigente in buona parte ha fatto il suo tirocinio politico nel marxismo»3. La medesima dialettica possiamo constatarla oggi per Gramsci: pressoché tutte le principali correnti culturali e politiche hanno tentato, al di là di ogni evidenza, di rivendicare l’autore dei Quaderni alla propria parte. Tutto ciò sta a testimoniare la solidità oggettiva contenuta in nuce nelle riflessioni dell’intellettuale sardo. Questo comporta, tuttavia, anche il rischio della progressiva sostituzione del Gramsci autentico con un Gramsci postmoderno, flessibile, adatto a tutti gli usi e consumi.

Le influenze del postmodernismo

3Un primo dato di cui occorre tener conto è che la ricezione degli scritti gamsciani è avvenuta di pari passo all’affermarsi di un mondo culturale che, a detta dei suoi difensori, ha costituito «uno dei discrimini forti, delle frontiere temporali oltre le quali nulla più è stato simile del tutto a come era prima»; si tratterebbe di un «mutamento epocale» paragonabile a quello verificatosi «tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, in coincidenza con la prima rivoluzione industriale, le rivoluzioni politiche e i ribaltamenti e sconvolgimenti nelle più diverse aree della vita materiale, della sensibilità, dei modelli culturali, dei sistemi retorici e tematici dell’immaginario a cavallo fra i due secoli»4. Chiaramente si tratta di una estremizzazione che va ben oltre la realtà dei fatti: qualcuno fece già a suo tempo notare al suo autore come il mutamento verificatosi a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso non abbia invero «portato al potere una nuova classe» sociale, né «segnato l’affermazione di nuovi rapporti di produzione» o «fatto nascere nuove forme di organizzazione politica». Non v’è stata alcuna rivoluzione sociale paragonabile a quella francese, né la distruzione di un intero sistema produttivo come avvenne nel passaggio dal feudalesimo alla modernità; a ben vedere «la rivoluzione informatica segna una svolta come quella elettrica» e come quella si situa sempre «all’interno di una storia cominciata alla fine del Settecento»5. Cionondimeno una svolta, o quantomeno una novità, in ultima analisi non soltanto culturale v’è stata. L’eclettismo, la dissoluzione dei nessi logici tradizionali, il pastiche, il relativismo, il ribellismo e la dissacrazione fine a se stessi, la violazione di tutti i principi d’autorità, la distruzione della dialettica, della ragione, il conformismo dell’anticonformismo, il trionfo dell’irrazionale, lo humor quale valore in sé, costituiscono gli ingredienti di quella condition postmoderne, descritta e orgogliosamente rivendicata da François Lyotard sul finire degli anni Settanta, che contrassegnerà in maniera vieppiù crescente, l’orizzonte culturale della seconda metà del Novecento. In letteratura assistiamo al nascere di fenomeni differenti, a seconda del contesto nazionale, come realismo magico, teatro dell’assurdo, neoavanguardia, beat generation, in pittura Jackson Pollock e la body art, in filosofia al diffondersi di un autore come Nietzsche e dello spirito dionisiaco, specie grazie all’affermarsi di nuovi filosofi come Michel Foucault, Gilles Deleuze, Felix Guattari e, naturalmente, lo stesso Lyotard. Ciò che determinava il consolidarsi di un orizzonte culturale interamente costruito su quelle che Franco Fortini aveva definito le «negazioni a basso prezzo», le quali finivano per corroborare proprio quello stato di cose a cui, nelle intenzioni soggettive, intendevano opporsi6.

4Con gli inizi degli anni Settanta e il passaggio dal fordismo al postfordismo, questo fenomeno di denuncia adattiva (tutta interna alle compatibilità sistemiche), aumenta vertiginosamente. Sono gli anni in cui il movimento del ’68 comincia una indolente degenerazione, lasciando sempre maggior spazio, al proprio interno, alle componenti più nietzscheane e messianiche, quelle più incentrate, per usare ancora le parole di Fortini, sulla «rivendicazione anarchico-esistenziale dell’istante e dell’immediato»7. Il fenomeno concorrerà a plasmare una certa idea indifferenziata di potere, la quale, a sua volta, avrà pesanti ripercussioni sul concetto di intellettuale condizionando inesorabilmente il loro stesso rapporto8.

5È all’interno di questo quadro che si colloca la ricezione del pensatore sardo. L’orizzonte prospettico all’interno del quale tale ricezione è avvenuta, è sempre stato quello in qualche modo condizionato a vedere, nell’intellettuale, il ribelle e il contestatore del potere, non già il partigiano, come piuttosto suggeriva lo stesso Gramsci. Il disobbediente solitario e romantico che si scaglia contro tutti i governi e tutti i partiti, non l’esaminatore delle forze in lotta e il sostenitore di quelle spinte motrici presso cui soltanto, in quel dato momento storico, le circostanze oggettive fanno passare i processi di emancipazione. Per confutare queste letture ideologiche di Gramsci sarebbe sufficiente ricordare la centralità che occupa nel suo pensiero la categoria di «contraddizione reale», la quale, prima di ogni altra, costituisce l’asse orientativo delle sue teorie, e al di fuori della cui cognizione resterebbe soltanto il regno dell’indifferenza o dell’utopia9. Ma esaminiamo ora come questo intero orizzonte culturale, di cui abbiamo sin qui parlato, abbia trovato un terreno fertile in un evento di portata storica e di dimensioni planetarie, del quale, altrettanto rigorosamente, non si può non tener conto allorché ci si accinge a studiare il pensiero di Gramsci e a entrare nell’ampio laboratorio dei Quaderni del carcere.

Lo spartiacque del rapporto Chruščëv

6Il 21 gennaio 2001, l’allora leader del Partito della Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, pronuncia a Livorno un discorso per celebrare l’80° anniversario della fondazione del PCd’I. In esso egli condanna «la tragedia dello stalinismo»: una tragedia cominciata che ha colpito l’intero «movimento comunista internazionale» con le sue erronee convinzioni circa le «vie nazionali al socialismo», per poi insinuarsi capillarmente all’interno di «tutto il movimento operaio, nel quale prevalse una concezione etica per cui la risposta della fedeltà al partito prevaleva su qualunque altra». Si tratta di vere e proprie «tragedie e non di semplici errori», la cui mancata condanna è dovuta al fatto che da sempre «sulla ricerca della trasformazione» ha prevalso «la logica del potere». Ma esiste una figura che, in barba a tutta questa sequela di orrori e tragedie, a tale logica ha saputo eroicamente sottrarsi. Si tratta di Antonio Gramsci:

Egli stava nelle carceri del fascismo, era un uomo stimato anche se controverso. In carcere… maturò l’idea che i suoi stessi compagni preferivano lasciarlo lì piuttosto che liberarlo. Come mai Gramsci resta comunista? Lo fa perché egli pensa che al di là della tragedia di una persona e di un intero periodo vale di più la ragione della liberazione che è l’essenza del comunismo.10

7Vediamo qui configurarsi l’immagine dell’intellettuale-eroe che combatte contro il potere-oppressivo in tutte le sue forme e manifestazioni. Il ritratto di Gramsci non è quello di un uomo che ha compreso come pochi il proprio tempo e si è schierato con le forze progressive ed emancipatrici contro quelle conservatrici e antidemocratiche, lottando al loro fianco prima politicamente e, una volta arrestato, con gli unici mezzi che gli rimanevano (quelli culturali e intellettuali), bensì quella di una figura metafisica (o vuoi soltanto metastorica), che rifugge dalle contraddizioni reali del proprio tempo, scorgendo in esse «la tragedia di un intero periodo», alla quale contrappone la liberazione ipotetica, vale a dire la «ragione della liberazione», che apparterrà forse a un altro tempo e ad altre forze. Di Gramsci, Bertinotti non celebra l’intelligenza unita alla partigianeria, bensì l’intelligenza unita all’ermetismo: le forze di riferimento cui guarda Gramsci non sarebbero dunque soggetti reali, bensì categorie, soggetti astratti, giacché i soggetti reali sono sempre espressioni di poteri, cui l’intellettuale dovrebbe opporsi senza esitazione. Questa nuova coscienza, aggiunge Bertinotti, ha cominciato a liberarsi dalle grinfie feroci dello stalinismo, soltanto «dopo il 1956»11. Quel 1956 da qualcuno definito «l’anno spartiacque»12. Si tratta, chiaramente, dell’anno del Rapporto Chruščëv, di quel vero e proprio «terremoto»13, che «ebbe un effetto enorme… sul movimento comunista internazionale»14. Non è qui il caso di sentenziare se quel rapporto fosse oggettivo o costituisse piuttosto una manovra politico-propagandistica: importante è tenere bene a mente l’impatto che esso determinò sulle anime di sinistra di tutto il mondo. Ancor prima del rapporto segreto, importanti personalità della cultura e della politica mondiale avevano espresso profonda stima per la figura di Stalin, celebrato come un grande statista: ci si limiti qui a tenere a mente discorsi pieni di lodi provenuti dalle più svariate autorità morali, politiche e culturali della scena internazionale: da Mahatma Gandhi ad Hannah Arendt, da Alcide De Gasperi a Sandro Pertini, da Norberto Bobbio a Thomas Mann, tutti avevano guardato a Stalin con ammirazione e simpatia15. Persino un politico come Pietro Nenni, che aveva sempre espresso profonde riserve nei suoi confronti, nel 1953 pronunciò un discorso alla Camera dei Deputati nel quale affermò di aver avuto modo, nell’ultimo periodo, di «correggere l’errore secondo cui Stalin fosse un dittatore sostenuto da un sistema di forza, laddove la sua vera forza è stata fino all’ultimo il consenso di milioni e milioni di uomini»16.

8Dopo il XX Congresso il quadro cambia radicalmente: pressoché nessuno avrà piu il coraggio di pronunciare un discorso come quello, pur critico, di Nenni. La nuova immagine di Stalin, che comincia rapidamente a divulgarsi, risulta ben lontana da quella di un uomo amato dal suo popolo, ma riflette piuttosto quella di un uomo malato e paranoico che con la sola brutalità poliziesca ha sottomesso, per poco meno di trent’anni, i corpi e le menti dei suoi cittadini, trasformando la Russia in una sorta di enorme lager, nel quale non si poteva far altro che scegliere tra venerare il sovrano o essere barbaramente giustiziati. Non è importante sindacare ora sulla verosimiglianza di questo quadro: ci interessa soltanto tener conto, per il momento, che esso emerse soltanto molti anni dopo la morte di Gramsci e che pertanto non poté condizionare i suoi scritti, ma condizionò senz’altro noi e la nostra lettura di essi. Avvicinarsi alle Lettere e ai Quaderni, a quelle pagine così pregne di sensibilità e profondità umana, di pervasività analitica e rigore logico, di conoscenza, cultura e spirito combattivo, avvicinarsi a quei testi con l’eco del Rapporto Chrušcˇëv nelle nostre orecchie, ci doveva per forza di cose far avvertire una incompatibilità di fondo tra essi e il quadro che quel rapporto aveva impresso, per via mediata o immediata, nelle nostre menti. Quel quadro sembrava invero esprimere il contrario di ciò che emergeva dalle pagine carcerarie, le quali pertanto, per la forza d’animo e la moralità che sprigionavano, non potevano che esser state pensate in contrapposizione ad esso. La «ragione di Gramsci» non avrebbe mai potuto sopravvivere senza prima aver fugato ogni sua connivenza con la «ragione di Stalin»: anch’essa, come le altre, aveva bisogno di una destalinizzazione ermeneutica. Quando, dopo la morte di Togliatti, l’universo immaginifico e sentimentale scaturito dal Rapporto Chruščëv cominciò a fondersi e ad amalgamarsi con quello del postmodernismo, stabilire la verità storica divenne oramai un obiettivo pressoché impossibile: ogni minima disquisizione che, date permettendo, Gramsci poteva aver avuto nel corso della sua esistenza, ogni frase o espressione appena ambigua (e vista l’autocensura preventiva a cui era costretto in carcere possiamo immaginare quante esse siano frequenti), ogni categoria non direttamente referenziale, serviva a costruire l’immagine dell’intellettuale eretico contro il potere e la doxa incarnati da Stalin.

9Questa costruzione esegetica del paladino solitario contro la tragedia del mondo è divenuta poi particolarmente feconda presso quegli studiosi di Gramsci che hanno smarrito la mappatura della lotta tra le forze conservatrici ed emancipatrici che contraddistingue il loro presente storico, e pertanto si sentono, più o meno consapevolmente, come catapultati in quella medesima condizione che, per via di forzature ermeneutiche, vorrebbero ascrivere all’intellettuale sardo.

10Ma le cose in realtà (e questo non ha nulla a che vedere con il giudizio che noi oggi possiamo formulare rispetto a Stalin), stanno diversamente: Gramsci ha sempre considerato Trockij un uomo di grande valore, con qualità eccezionali, dedito con tutto l’animo alla causa dell’emancipazione operaia, ma anche una persona incline a cadere in errori tattici molto gravi ed estremamente pericolosi per la sopravvivenza del movimento comunista internazionale. Tutte le divergenze in cui egli si è trovato nel corso della sua militanza politica hanno costituito, per Gramsci, una conferma di questa sua inclinazione. In un articolo pubblicato su «Stato Operaio» del maggio 1925 e poi ripreso da «l’Unità» (il 4 giugno), l’intellettuale sardo saluta felicemente la temporanea ricomposizione tra l’ex comandante dell’Armata Rossa e la maggioranza uscente del Partito: «il punto di vista di Trockij è stato battuto; fedele alla causa del proletariato, disciplinato al partito, Trockij ne ha accettato le decisioni e ha ripreso il lavoro». Tuttavia, non si esime dal mettere in guardia circa le pericolosità rappresentate dalla sua persona:

È possibile che la lunga militanza tra i menscevichi non abbia lasciato in lui tracce profonde, incancellabili? Egli è riuscito… ad eliminare anche gli ultimi residui di una ideologia lentamente maturata attraverso decenni di lavoro politico? Le recenti polemiche del PCR dimostrano che questo non è avvenuto. Quando la nuova politica economica [la NEP] della Russia soviettista ha creato una situazione profondamente diversa da quella iniziale della rivoluzione, la vecchia ideologia menscevica ha impedito a Trockij di applicare ad essa i criteri del leninismo. Trockij è caduto in un errore tanto grave che se non fosse stato combattuto a tempo e avesse preso radice avrebbe avuto conseguenze incalcolabili minacciando la solidità delle fondamenta dello Stato proletario: il blocco tra operai e contadini.17

11Nel celebre dissidio epistolare del ’26 con Togliatti, la posizione di Gramsci rimane la medesima: Trockij è un uomo di grande valore e operosità, la cui perdita, oltre a costituire un fatto deplorevole per la Russia sovietica, rischierebbe di aprire fratture insanabili all’interno del movimento comunista internazionale, come quello che si era aperto nel PCd’I con la corrente bordighista. Tutto l’intento della lettera indirizzata al Comitato Centrale del PCUS era di ricomporre la frattura: essa muove accuse ad ambo le parti, invitando gli stessi dirigenti del Politburo a una maggiore sensibilità e flessibilità nella risoluzione dei conflitti interni. Il tono di Gramsci non è per nulla formale, ma riflette la drammaticità della situazione. Togliatti, che si trovava a Mosca e poteva pertanto avere un maggior polso della situazione rispetto a Gramsci, sapeva che ormai era troppo tardi: che la frattura non si sarebbe più ricucita e che Trockij aveva già dato vita, con Kamenev e Zinov´ev, all’«Opposizione Unificata» con la quale si apprestava a organizzare, con tutti i mezzi, un rovesciamento del governo. In quella situazione, già da mesi compromessa, la lettera di Gramsci non avrebbe potuto sortire alcun effetto se non il rischio di determinare una frattura tra il PCUS e il PCd’I clandestino che avrebbe di fatto condannato a morte quest’ultimo. Togliatti risponde a Gramsci con la fermezza dei toni che la drammaticità della situazione recava con sé; a sua volta Gramsci replica a Togliatti con toni altrettanto duri, ma rassicurandolo su un punto che ci tiene a ribadire più volte:

non credo che nella nostra lettera… ci sia un qualsiasi pericolo di indebolire la posizione della maggioranza del Comitato centrale […] Le opposizioni rappresentano in Russia tutti i vecchi pregiudizi del corporativismo di classe e del sindacalismo che pesano sulla tradizione del proletariato occidentale e ne ritardano lo sviluppo ideologico e politico […] La nostra lettera era tutta una requisitoria contro le opposizioni, fatta non in termini demagogici ma appunto perciò più efficace e più seria.18

12Dopo l’arresto, la partigianeria di Gramsci non viene meno ed egli mantiene intatte le posizioni. L’intera polemica che leggiamo nei Quaderni è diretta contro Trockij, in seguito accusato di essere l’artefice di una nuova forma di «bonapartismo» che costituiva un «pericolo» e conduceva pertanto alla «necessità inesorabile di stroncarla»19. Un altro passaggio dei Quaderni, su Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi, contiene una vera e propria celebrazione dell’allora sistema politico sovietico che rende le anime dei cittadini partecipi della vita politica: non le devitalizza trasformandole in masse amorfe (come avviene nei regimi rappresentativi occidentali) alle quali viene concesso un voto ogni cinque anni con cui non si fa altro che attestare l’efficacia del processo di subordinazione psicofisica20. La stessa categoria di cesarismo progressivo (con la quale si dimostra come l’irrigidimento giuridico-politico non ubbidisca a scelte arbitrarie, bensì a circostanze e rapporti di forza oggettivi) appare come un evidente rinvio concettuale alla situazione dell’Unione Sovietica, proprio come ad essa sembra rinviare il concetto di «guerra di posizione» in antitesi a quello di «guerra di movimento». Ma questo passo dei Quaderni può aiutare, forse più di ogni altro, a far chiarezza sulla questione:

Certo lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è «nazionale» ed è da questo punto di partenza che occorre prender le mosse […]

Su questo punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici e Bessarione come interprete del movimento maggioritario. Le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei maggioritari si vede che la sua originalità consiste nel depurare l’internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica21.

13Gramsci, qui come altrove, inserisce Stalin nella linea dei maggioritari, dipingendolo come il legittimo prosecutore dell’operato teorico e politico di Lenin. Se a ciò aggiungiamo le recenti intuizioni maturate attorno all’intero Quaderno 22, come difesa concettuale dello sviluppo industriale e tecnologico dell’Unione Sovietica22, comprendiamo quanto le ricezioni di Gramsci siano state, e continuino ad essere, inesorabilmente influenzate dagli avvenimenti storici e culturali successivi alla sua morte.

Notes de bas de page

1 QdC (Q 4), (4 A), p. 425; non ripreso direttamente in un testo C, ma ricompreso in un altro testo A, quello del QdC (Q 4, 8), p. 431 sotto il titolo di Machiavelli e Marx.

2 QdC (Q 4), (8 A), p. 431; ripreso come testo C in QdC (Q 13, 20).

3 QdC (Q 4, 8 A), p. 431.

4 R. Ceserani, Su periodizzazioni e canoni nella letteratura contemporanea, in «L’asino d’oro», n. 4, 1991 p. 149.

5 R. Luperini, Appunti per una risposta a Ceserani, in «L’asino d’oro», n. 5, 1992, p. 162.

6 Cfr. F. Fortini, Opus servile, in Fortini 2003, pp. 1649-1650.

7 Id., Di alcuni critici, ivi, p. 219 (corsivo mio).

8 Cfr. la critica di Edward W. Said alla «dimensione indifferenziata e totalizzante» assegnata da Foucault al concetto di potere, cui l’intellettuale palestinese contrappone la sobrietà della riflessione gramsciana, nella quale «la nozione di potere non è mai occulta né irresistibile o in ultima istanza unidirezionale» come per l’appunto in Foucault: E.W. Said, Foucault e l’immagine del potere, in Said 2000, pp. 286-88; Id., Storia, letteratura e geografia, ivi, p. 520.

9 Cfr. su ciò E. Alessandroni, Antonio Gramsci, per un marxismo non travolto dall’utopia, in «Marxismo oggi», n. 1, 2008.

10 Ibid.

11 Ibid.

12 Cfr. Canfora 2008.

13 D. Fertilio, Budapest 1956, le lettere della rottura, in «Corriere della Sera», 23 ottobre 2006.

14 Medvedev e Medvedev 2006, p. 122.

15 Cfr. Losurdo 2008.

16 Canfora 2008, p. 30.

17 A. Gramsci, La morale del ritorno di Trockij, in «l’Unità», 4 giugno 1925.

18 A. Gramsci, Lettera a Palmiro Togliatti del 26/11/1926, in Spriano 1988, pp. 129-132.

19 QdC (Q 22), (11 A), p. 2164. Cfr. anche Q 7, 16.

20 QdC (Q 9), (69 A e 13), (30 C), pp. 1140-41; 1624-26.

21 QdC (Q 14), (68 B), p. 1729.

22 Cfr. D. Losurdo, L’americanismo? Non è da avversare, in «il Manifesto», 27 giugno 2013.

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