Introduzione
Antonio Gramsci fra leggende, storia indiziaria, storia sacra, e qualche verità
p. VII-XXXIV
Note de l’auteur
L’idea del volume è nata in seno alla Redazione centrale di «Historia Magistra». Il sottoscritto, con la collaborazione di Francesca Chiarotto, si è assunto l’onere di trasformarla in progetto. A contribuire al volume furono invitati, oltre a coloro che vi compaiono come autori, altri studiosi e studiose, che indico qui di seguito: Bartolo Anglani, Francesco Barbagallo, Cesare Bermani, Renato Caputo, Dario Biocca, Francesco M. Biscione, Alberto Burgio, Joseph Buttigieg, Giuseppe Cacciatore, Luigi Cavallaro, Giuseppe Cospito, Chiara Daniele, Giancarlo De Vivo, Paolo Favilli, Michele Filippini, Eleonora Forenza, Gianni Francioni, Gianni Fresu, Fabio Frosini, Marco Gervasoni, Francesco Giasi, Marcus E. Green, Francesca Izzo, Dora Kanoussi, Lelio La Porta, Domenico Losurdo, Fiamma Lussana, Gesualdo Maffia, Stefano Martinelli, Luigi Masella, Chiara Meta, Claudio Natoli, Leonardo Paggi, Mauro Pala, Andrea Panaccione, Salvatore Prinzi, Luigi Punzo, Leonardo Rapone, Maria Luisa Righi, Giovanna Savant, Giancarlo Schirru, Carlo Spagnolo, Giuseppe Vacca, Fabio Vander, Albertina Vittoria. Tra loro, alcuni non hanno risposto, altri hanno risposto negativamente, con varie motivazioni (aggiungendo in qualche caso commenti negativi sull’iniziativa…); o hanno in un primo tempo aderito per poi rinunciare a consegnare il loro contributo.
A Luciano Canfora e Franco Lo Piparo, preoccupati che il volume potesse essere un “plotone d’esecuzione”, è stato offerto il privilegio di leggere, prima di consegnare il loro saggio, i testi altrui. Lo Piparo lo ha fatto, mentre Canfora, per sopraggiunti gravosi impegni, alla fine ha soprasseduto. Ringrazio entrambi, comunque, per avere accettato di buon grado, con grande signorilità, la proposta.
In appendice abbiamo pensato di collocare la relazione tenuta da Antonio Gramsci jr, alla presentazione del volume Il nostro Gramsci. Antonio Gramsci a colloquio con i protagonisti della storia d’Italia (a mia cura, Viella, Roma 2011), svoltasi a Torino, al Teatro Vittoria, il 20 gennaio 2012.
Offro il mio ringraziamento a lui, per aver concesso il permesso della pubblicazione in questa sede, e a tutti coloro che hanno accettato di farsi coinvolgere, anche per il sostanziale accoglimento del mio invito a evitare, nella misura del possibile, di cadere in polemiche personali. Grazie a Cristina Accornero per la collaborazione. L’ultimo grazie è per Francesca Chiarotto, che oltre ad aver curato la redazione (di un volume particolarmente complesso), è stata preziosa interlocutrice in ogni fase del lavoro.
Texte intégral
1Se anche l’autorevole «Le Monde» recensisce con congruo numero di righe un libro italiano su Gramsci, allora vuol dire che la faccenda è seria. Nella primavera 2014, in effetti, appare la traduzione francese del primo volumetto di Franco Lo Piparo (I due carceri, 2012), e a seguito giunge la recensione1; fatto in sé insolito, non essendo così aperta, negli ultimi decenni, la cultura francese verso quella italiana. Che il libro, insomma, sia stato tradotto rapidamente, e recensito con dovizia di spazio sul più importante quotidiano transalpino, indubbiamente un po’ sorprende. Ma rappresenta, ciò, la prova che la riflessione collettiva proposta in questo volume ha un senso. Rispetto ai momenti immediatamente successivi alla pubblicazione del primo saggio, le polemiche, solo in parte rinfocolate dal secondo saggio (L’enigma del Quaderno, 2013), e che non dovrebbero essere riaccese dal terzo (Il professor Gramsci e Wittgenstein. Linguaggio e potere, 2014, apparso mentre scrivo), sembrano già quasi alle nostre spalle, ma ciò, ritengo, avvalori l’opportunità di una riflessione collettiva, che pur non essendo, né potendo essere, sine ira et studio, mira quanto meno ad enumerare i punti di contrasto che, su un vasto insieme di temi, toccano, e talora fanno fibrillare il cuore della comunità gramsciana. Del resto, fin dall’apparizione del primo volume di quella che ormai si può chiamare, senza sarcasmi, una “trilogia”, qualche foglio estero, colpito dal battage italiano – fra le «prove inoppugnabili» vantate da Luciano Canfora, pro Lo Piparo, e la «tesi romanzesca» liquidata da Joseph Buttigieg (presidente della International Gramsci Society)2 – si era affacciato sulla polemica, che presentava, da subito, una evidente bizzarria: una discussione su qualcosa che non esisteva3. E, aggiungo, una discussione che diventava aspra soprattutto quando si entrava nel merito del “contenuto” di un Quaderno fino a prova contraria inesistente.
2Naturalmente, lungi dall’essere una replica corale alle interpretazioni di uno studioso, sia pur discutibili e discusse, il libro che qui si propone mira da un canto a “stanare” i gramsciani, dall’altro a costringerli, in certo modo, a confrontarsi pubblicamente su questioni che per quanto minime, sono state trascurate, o a riprendere pazientemente il filo di tanti discorsi interrotti sul piano della ricerca, ma fiorenti su quello della chiacchiera giornalistica. L’intento mio personale, e di quanti hanno accolto l’invito, è quindi quello di fare un po’ di luce su problemi reali delle ricostruzioni biografiche su Antonio Gramsci, sulle interpretazioni del suo pensiero, senza posizioni pregiudiziali, ma anche di sgomberare il campo dalle troppe inutili erbacce che inceppano la ricerca storica, la quale è volta incessantemente ad aggiungere, correggere, “revisionare”: e la revisione, vale la pena di ribadirlo, è anima stessa della storiografia, suo inevitabile e necessario strumento di lavoro, che si differenzia e anzi si contrappone al revisionismo, che non è invece una pratica storiografica, bensì ideologica4.
3Se ci poniamo nell’ottica, appunto, della revisione, allora le incessanti, talora stucchevoli, polemiche intorno a Gramsci, possono ricuperare un po’ di dignità; ma nel libro, come molti interventi pongono in luce, anche rudemente, si fa notare che molte di tali polemiche, vecchie e nuove, sono semplicemente strumentali, persino, secondo qualcuno, inseribili all’interno di un preciso quadro di attacco politico-ideologico alla tradizione comunista, e specificamente al patrimonio ideale del PCI.
4Personalmente rifuggendo da qualsivoglia chiesa, non mi turba se qualche studioso (non un opinionista, beninteso) si pone l’obiettivo di affrontare in modo nuovo, critico verso le “tradizioni”, che siano idee ricevute o risultati generalmente accettati; ma mi pongo in attesa, aspettando la prova documentaria. Convinto che la storia sia innanzi tutto racconto di ciò che è stato realmente – sul piano dei fatti avvenuti, o su quello dei pensieri espressi – confesso di provare diffidenza verso un ricorso alla pratica della costruzione indiziaria, benché essa abbia illustri teorici, e una oggettiva necessità in taluni ambiti, specialmente quando le fonti sono scarse, corrotte, a volte contraddittorie, come nel vasto campo dell’antichistica.
5Nel caso della biografia di Antonio Gramsci effettivamente, si pone un problema di fonti, o mancanti o ancora inaccessibili: e il fatto che si siano compiuti, su tale piano, maggiori progressi negli ultimi quindici-vent’anni, grazie in primo luogo al motore dell’Edizione Nazionale, è significativo del problema, che indica scarsità, lenta disponibilità, contraddizioni e aporie; specialmente per quanto concerne le testimonianze, orali o scritte, di familiari, amici, compagni di lotta (e di prigionia), e di altri protagonisti, deuteragonisti o comparse della vita pubblica o di partito. Si aggiunga a ciò la natura particolarissima della produzione di Gramsci, che si compone di una triplice tipologia: (a) articoli giornalistici; (b) documenti di partito, non sempre interamente di suo pugno; (c) materiale carcerario. In fondo le diverse categorie di testi corrispondono, grosso modo, alle tre fasi della vita: la giovinezza, la dirigenza politica, la reclusione. Ciascun tipo di testo pone a sua volta dei problemi: gli articoli non venivano quasi mai firmati (e ciò implica dunque il problema dell’attribuzione, anche se oggi disponiamo di una tradizione consolidata, a cui si aggiunge un software acquisito ai fini del lavoro dell’Edizione Nazionale); i testi di partito sono talora frutto di collaborazione con altri (vedi le celeberrime Tesi di Lione, opera di Togliatti, forse persino più che di Gramsci), e in ogni caso si tratta di documenti interni; infine, il materiale carcerario, le Lettere e le note vergate nei Quaderni, fa emergere due ordini di questioni: la cronologia, quasi esclusivamente per i secondi (essendo le Lettere quasi tutte datate), e l’interpretazione, soprattutto per le prime; e quando parlo di interpretazione, mi riferisco ai problemi – posti con un crescendo notevolissimo, specialmente negli ultimi anni – della decrittazione del pensiero dell’autore, talora nascosto o velato sotto formule criptiche, allusioni oscure, metafore di non univoca lettura, il che ovviamente ha dato il via ad esercizi ermeneutici di diverso valore, e non sempre chiarificatori, anzi, talora, generatori di distorsioni ed equivoci.
6Certo, la scrittura cifrata e dunque le interpretazioni metaforiche della stessa sono lecite, tenendo conto della situazione in cui il detenuto Gramsci versava, prigioniero speciale, oggetto di una sorveglianza occhiuta; e qui non concordo con chi, da Giuseppe Vacca a Franco Lo Piparo, nei loro ultimi libri parlano di “privilegi” concessi5: o meglio, si tratta di apparenti privilegi, legati alla condizione speciale di quel detenuto, specie con il crescere della mobilitazione internazionale per la sua salvezza, sul piano pubblico, e del procedere, sotto banco, di trattative per la sua liberazione. Era oggettivamente impossibile trattare Antonio Gramsci come un detenuto qualsiasi, ma vi era nel regime, e in Mussolini stesso, la deliberata volontà di fiaccare quel corpo e di piegare quella mente. Le condizioni nelle quali dopo due anni e quattro mesi – dal novembre 1926 al febbraio 1929 – il detenuto potrà esercitare il diritto di scrivere in cella (a parte le lettere contingentate ai familiari), costituiscono un dato significativo; altrettanto lo è quello relativo alle limitazioni imposte a quella concessione, ossia il poter scrivere e leggere propri libri solo per quattro ore quotidiane, divise peraltro in due tranches, mattina e pomeriggio; e, infine, l’altro dato, relativo alla quantità di materiali cartacei che il detenuto poteva avere in cella: non più di quattro. Il che significava una pesantissima limitazione, anche di carattere temporale, in quanto il detenuto se avesse voluto interrompere la lettura di un volume in quel momento nella sua cella, avrebbe dovuto chiamare il secondino di guardia, il quale si sarebbe rivolto al collega che controllava il corridoio e così via, e prima che fosse giunto nelle mani di Gramsci il libro richiesto o il Quaderno aspettato – conservati in un apposito magazzino – ovviamente sarebbe trascorso tempo prezioso, tanto più prezioso essendogli concesse soltanto, come dicevo, quattro ore complessive di “lavoro”.
7Si trattava forse di clausole necessarie per la sicurezza del detenuto, del carcere, del regime? Ovviamente no. Si trattava di inutili vessazioni, che non avevano altro significato che far pesare su Gramsci la sua condizione, fargli sentire che non era un uomo libero. E che non poteva disporre di sé, del suo tempo, della sua stessa vita.
8Tra l’altro, proprio riflettendo sulle condizioni di lavoro del prigioniero Gramsci, appare remota l’ipotesi di un Quaderno (o più), nel quale egli avrebbe, unitariamente, in un periodo di tempo concentrato, confinato le sue note, smettendo di aggiungere righe agli altri, e per di più note in certo modo “monografiche”, addirittura di addio al comunismo. Ma su ciò tornerò più avanti.
9Forse non siamo davanti a un disegno preordinato – come pure sembra ritenere qualcuno dei collaboratori dell’Inchiesta –, ma il combinato disposto che negli ultimi tempi si è dispiegato, fra ricerche, in buona fede, di studiosi, rielaborazioni giornalistiche, tra sciatteria, frettolosità e malafede, interventi più ideologici che scientifici a vario livello, e qualche sciagurata incursione di politici in cerca di appigli per le loro campagne elettorali (in un paese come il nostro, in perenne campagna elettorale), non si sbaglia – credo – a tentare di ricostruire il puzzle, e la figura che ne risulta suscita qualche inquietudine. Ne emerge, in sintesi, un uso tanto disinvolto quanto fastidioso di Gramsci, e, in parallelo, di Togliatti, a fini di delegittimazione non più di un avversario politico, ormai assente sulla scena nazionale (benché anche recentissimamente v’è chi – il signor Grillo – abbia denunciato la «peste rossa», e chi – il solito Berlusconi – si sia spinto a individuare una matrice comunista persino nelle politiche di Matteo Renzi…), ma una presenza culturale: che è il pensiero critico, o se si può ancora usare l’espressione, “di sinistra”; più precisamente il pensiero di matrice comunista. E Gramsci, giustamente, viene individuato quale nume tutelare, o comunque faro che illumina, oggi più che mai, quel pensiero e quell’aura culturale. Attaccato come prototerrorista (mi riferisco al primo delirante libro di Orsini)6, o come già ricordato, idealtipo della sinistra “cattiva” appunto, da un canto; ovvero, sull’altro fronte, proposto nei panni del compagno che a un certo punto corregge i propri errori, si emenda dal «dirizzone» nel quale era caduto (la tesi esposta e ribadita da Lo Piparo)7; o che, osteggiato da Togliatti, al quale vengono indirizzate le più infamanti accuse (da ultimo, ma davvero solo da ultimo, Mauro Canali)8, non ha potuto portare a termine, chissà, un suo disegno di comunismo dal volto umano, o di socialismo democratico, o di franca, esplicita sottomissione al liberalismo. A dire, insomma: su di un versante, ci imbattiamo in un Gramsci comunista autentico, che rappresenta il volto oscuro, torbido, e sanguinoso della falce e martello, pozzo di nequizie nel quale sono stati generati crimini orrendi; e sull’altro versante, ecco invece un Gramsci buono, in quanto, in sintesi estrema, non comunista. Due letture parallele, entrambe prive di serio fondamento scientifico, che si incrociano comunque nella damnatio comunista. Al riguardo Alexander Höbel denuncia «il rovesciamento della realtà effettuale delle cose»9 e Raul Mordenti fa esplicito riferimento alla categoria di «rovescismo», di mio conio10.
10Nel gioco della contrapposizione manichea Gramsci/Togliatti, che vanta una buona tradizione, sia testimoniale, sia storiografica, il punto centrale è, naturalmente, la vicenda dello scambio di lettere fra i due nell’ottobre 1926: nelle risposte all’Inchiesta i giudizi variano, ma anche coloro che pure non sottovalutano quel contrasto, reale, sottolineano la diversità di situazione in cui i due si trovavano, in quel momento: Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca, come recita il titolo della raccolta completa di lettere e documenti di quel drammatico momento della storia del Partito comunista d’Italia11. La diversa dislocazione geografica dei due protagonisti implica una diversa percezione degli avvenimenti, e soprattutto un grado di informazione disuguale: «mentre Togliatti, in URSS, era immerso in una realtà difficile, Gramsci, incarcerato, era gravato da una responsabilità enorme nei confronti quel che rimaneva del suo partito»12, ma – sia detto in riferimento a quanti propongono una piatta giustificazione della scelta di Togliatti e Bucharin di non far conoscere la lettera di Gramsci all’Esecutivo del Comintern (ma certamente Stalin la lesse) – non è affatto sicuro, anzi, personalmente lo ritengo improbabile, che ove Gramsci fosse stato a Mosca e avesse avuto una migliore conoscenza della lotta interna al Partito russo, avrebbe accettato, in silenzio, la linea della maggioranza (Stalin-Bucharin) volta a «stravincere» – per riprendere l’espressione gramsciana nella prima lettera – sulle opposizioni della sinistra (Trockij-Kamenev-Zinov´ev). Certamente, come si osserva in più di un contributo nell’Inchiesta, emerge nel contrasto una diversa lettura degli scenari internazionali13, oltre che una diversa percezione del ruolo che i “compagni russi” stavano svolgendo, in relazione agli altri partiti aderenti al Comintern, e delle prospettive che il movimento rivoluzionario poteva o meno avere a livello quanto meno continentale.
11Si sostiene, tuttavia, da parte di qualcuno14, che comunque Gramsci era concorde con Stalin, a prescindere dalla forma della lettera, e dalle sfumature che essa esprime, e che, specie nella seconda, di risposta a Togliatti, la linea gramsciana è dichiaratamente (ma, ci si potrebbe chiedere, quanto autenticamente, intimamente tale…) antitrockista e filostaliniana. Una interpretazione cui corrispondono posizioni specularmente opposte, che non da oggi vedono invece in Gramsci il rappresentante più alto dell’eterodossia marxistica, dell’antistalinismo, e, persino, del trockismo, spesso in funzione semplicemente o prevalentemente antitogliattiana; le interpretazioni, vigorose ma più che discutibili (in tal senso qui taluni contributi sottolineano che il giudizio di Gramsci su Trockij fu di ammirazione ma assai critico15), che in Italia sono state proposte specialmente da Livio Maitan, bella figura di studioso e militante quartinternazionalista16, e che hanno trovato non molti ma convinti adepti pronti ad attaccare Togliatti, appiattendone la figura e il ruolo come mero esecutore-complice di Stalin, proprio come ha fatto gran parte della pubblicistica e della storiografia più corriva al mainstream17. È probabile che sulla già vexata quaestio si continuerà a versare ruscelli di inchiostro, dopo i fiumi già corsi; i recenti libri di Vacca e di Canali, da due diverse impostazioni, aggiungono alcuni elementi di chiarificazione, sia pur non definitiva. Ma in fondo, la speculazione politica su quel carteggio fa aggio sulla realtà storica: nel Partito era prassi costante la direzione collegiale (e lo sarebbe rimasta anche nell’età del post-comunismo, fino si può dire all’era Renzi), e la discussione aperta su tutti i temi, a maggior ragione su quelli di importanza strategica18. In ogni caso, lo stesso Ufficio Politico del PCd’I consentì alla decisione togliattiana di non consegnare la lettera di Antonio, sia pure a guisa cautelativa, in attesa di ulteriori elementi conoscitivi.
12Ritengo di poter aggiungere che le due lettere di Gramsci, specialmente la prima, la più netta ed aspra nel tono, non si spiegherebbero senza considerare quella «ossessione pedagogica»19, o detta in altro modo l’inesausta «passione educativa», che anima Antonio Gramsci e che ne accompagna l’intero tragitto umano, intellettuale, politico20. Ossia, le scrive proprio perché vuole “educare” i compagni russi, ad ogni costo. Una posizione forse politicamente ingenua, non scevra da una dose di utopismo, ma profondamente intessuta di moralità, base essenziale dell’afflato pedagogico gramsciano. Si potrebbe dire, semplificando, che il contrasto fra i due uomini politici è fondato su una concezione antropologica prima che su un dissidio politico.
13Comunque, al netto delle speculazioni, quello scambio epistolare segnò formalmente la rottura politica e umana fra i due leader; ma come dimostrato appunto, da ultimo da Vacca, e qui da quasi tutti gli interventi ribadito, il rapporto Gramsci-Togliatti non venne mai meno, sia pure indirettamente, essenzialmente per il tramite di Tatiana Schucht e di Piero Sraffa; ma non soltanto, e fu un rapporto intenso e di grande rilievo politico. E lo stesso Togliatti assolse un compito importantissimo, sia pure nell’ombra, di sostegno al detenuto Gramsci21. Il che non toglie che questi, proprio a partire dallo scontro del 1926, mentre da un lato accumulasse una carica di risentimento e sospetto verso Togliatti, più tardi, dopo la «famigerata lettera» di Ruggero Grieco del 1928, ne vedesse proprio in lui l’ispiratore, e quindi maturasse nella reclusione, accanto a sentimenti penosi di isolamento, con qualche punta di mania persecutoria, un tenace sentimento negativo, addossando all’intero partito pesanti responsabilità: accusa, d’altronde, non immotivata, benché ingiusta se riferita a tutti i compagni22.
14Rimane comunque inoppugnabile, contro ogni rigurgito di antitogliattismo, che noi abbiamo oggi Gramsci grazie a Togliatti23, il quale ha salvato gli scritti, a dispetto delle mutilazioni e delle omissioni della loro prima edizione, peraltro lievi, le une e le altre. E questo avvenne non soltanto perché Togliatti si servì dell’icona gramsciana per accreditarsi come erede del pensiero del leader scomparso, e tesaurizzarne la valenza, da ogni punto di vista; ma anche perché si agganciò al suo pensiero per presentare un partito comunista “fratello”, ma autonomo e davvero “italiano” (attento com’era al versante nazionale, ben presente nel pensiero di Gramsci, quale fu, comunque, e si sentì “un italiano”)24. E, del resto, nella storia del PCd’I le consonanze politiche fra i due furono forti, e non v’è dubbio che l’arresto di Gramsci abbia impedito un dialogo dopo la rottura dell’ottobre ’26: lo osservava, a ragione, Giorgio Amendola (1978)25. E opportuno è altresì ricordare che della vicenda della lettera si parlò solo dopo che Tasca la rese pubblica: v’era forse un istinto di conservazione nel PCd’I, e della sua immagine di compattezza, ma vi era altresì, ritengo, una valutazione concorde sulla modesta importanza dell’episodio, che invece nella polemica politica è diventato un macigno26.
15E tuttavia, all’epoca, le linee dei due stavano divergendo e, a mio giudizio, non soltanto per le diverse valutazioni sugli avvenimenti interni al PCR e sulla situazione internazionale, e il rapporto tra centro (Mosca e Comintern) e periferia (i partiti comunisti), ma per un diverso modo di concepire la politica e il rapporto tra l’agire politico e la sua dimensione etica e intellettuale. Mentre Togliatti è davvero totus politicus (come qualcuno volle invece etichettare, polemicamente, Gramsci, all’apparire dei Quaderni del carcere nel Dopoguerra, a fini di svalutazione della sua elaborazione teorica)27, Gramsci dà una fondazione etica alla politica, e ritiene imprescindibile un robusto sostrato culturale: il suo intellettuale è un politico, il politico è un intellettuale. Inoltre la dimensione critica – elemento essenziale non soltanto del pensiero, bensì della personalità di Gramsci –, la sua concezione antidogmatica, il rifiuto del burocratismo, gli rendeva e gli avrebbe probabilmente reso impossibile adottare un punto di vista ortodosso, se l’ortodossia era il realismo, anzi, l’iperrealismo politico staliniano, e anche quello in versione minore, e non sanguinaria, togliattiana. E, infine, certamente il tragitto teorico di Gramsci andrà in una diversa direzione, secondo linee di assoluta originalità, pur non abiurando al marxismo, ma in qualche misura dilatandone le coordinate, e fuoriuscendone, in certo senso, senza mai voltare le spalle, tuttavia, a quel patrimonio, a cominciare dal suo fondatore, mentre Togliatti rimase entro quelle coordinate, sia pur a sua volta adattando, con il rientro in Italia, e la fine del fascismo, il suo comunismo leninista e gramsciano alla specifica situazione nazionale e al quadro internazionale, e adottando un punto di vista genuinamente democratico. In fondo, sia Togliatti, sia Gramsci adattarono il loro comunismo alle circostanze storiche, solo che il secondo fece un poderoso e innovativo sforzo teorico di allargamento e arricchimento del quadro marxistico, mentre il primo si limitò, come era del resto ovvio, alle problematiche della strategia e della tattica politica.
16Le polemiche peraltro si estendono sovente all’intero gruppo dirigente del Partito comunista: si potrebbe dire che si tratta di un “processone” che dal 1928 ad oggi non è mai finito, anche se le condanne variano in relazione alle stagioni e alla composizione dei tribunali. E le requisitorie dei diversi pubblici ministeri succedutesi nel corso dei decenni si concentrano ora su questo, ora su altro imputato.
17A parte Togliatti, sappiamo che, come pone in risalto una delle domande del Questionario, a Ruggero Grieco è toccato essere accusato ora di inettitudine politica, ora di cialtroneria, ora, persino, di collaborazionismo, più o meno volontario e consapevole, con la polizia fascista. In attesa di una completa e attendibile biografia di questa notevole figura di militante e dirigente comunista28, la maggior parte dei contributi all’Inchiesta scagiona completamente Grieco, e mi pare in modo convincente29. I diversi interventi di Luciano Canfora, che sono stati oggetto d’attenzione nella comunità degli studi gramsciani, ma anche sul più ampio terreno del dibattito pubblico, vengono qui richiamati più volte, con qualche sarcasmo. In realtà, a me pare che la ricerca di Canfora sia sempre in progress – il che può rivelarsi un limite in determinate circostanze, quando i risultati siano presentati in modo apodittico – ed egli abbia via via aggiustato o corretto il tiro della ricerca sulla base di due fattori: documenti nuovi (che non erano nascosti, in precedenza, ma che, magari, semplicemente nessuno aveva preso in considerazione), e, soprattutto, capacità di porre domande nuove, sia a documenti noti, sia alle nuove combinazioni fra ciò che è già assodato e ciò che ancora non lo è, sulla base della forza degli indizi. Forza suggestiva, sempre, ma non sempre in grado di scardinare la gabbia documentaria. Anche se non condivido il parere tranchant di Silvio Suppa, il quale liquida la storia indiziaria asserendo che è improponibile, tal quale il processo indiziario30: altri esprimono punti di vista più articolati.
18Storia indiziaria versus storia documentaria, in certo senso. Ma, come altri fra coloro che qui rispondono, ritengo che la contrapposizione sia accettabile solo in extrema ratio: la storia si fa sui documenti, e su questo non dovrebbero esserci contestazioni; ma la storia – ossia il racconto storico – non nasce dal documento, bensì dalle domande che ad esso sappiamo porre: «in principio fu il documento. No, in principio fu la domanda»: le immortali parole di Marc Bloch31. E, in relazione a questo tema, come alla vicenda, ormai un po’ stucchevole, della improbabile “sottrazione” di Quaderni, dobbiamo sempre ricordare che verità storica e verità processuale non coincidono: ossia, che ciò che in fondo mette al riparo dalle contestazioni un Canfora – per riferirsi al più autorevole dei rappresentanti della storia indiziaria nell’ambito degli studi gramsciani – è che egli non cerca dei “colpevoli”, bensì delle spiegazioni, che, come insegna tutta la migliore tradizione della metodologia della ricerca storica, da Droysen a Bloch, possono essere mutevoli, proprio sulla base dell’accesso a nuove fonti, o delle nuove intuizioni che suggeriscono diverse piste di ricerca, o ancora del perfezionamento delle stesse tecniche della ricerca. Il che fa meglio comprendere i mutamenti di rotta del ricercatore Canfora relativi all’arresto di Gramsci e alla lettera di Grieco, e alla stessa figura di questo militante comunista, indubbiamente ondivago, ma come ammise lo stesso Togliatti che non ebbe simpatia per lui, fedele32. D’altronde, sulla vicenda Grieco, come su altri passaggi biografici, come qui scrive Naldi, «la documentazione disponibile e scarsa e l’accesso a documentazione ancora ignota, conservata specialmente in archivi russi, potrebbe arricchire e modificare in modo significativo le nostre conoscenze»33.
19E tuttavia anche storici seri possono cedere talora alla tentazione giudiziaria, o lasciarsi prendere la mano dal gusto della investigazione senza prove, o persino dal gioco giallistico: ma come ogni mediocre Maigret insegna, si può cadere in errori clamorosi, anche prescindendo dai nostri personali sistemi di valore, bagagli ideologici, e persino empatie e idiosincrasie. Eppure quando il giudizio storico affronta temi di grande rilievo la cautela diventa necessaria, tanto più ove tali giudizi si fondino su ricostruzioni nelle quali la storia fattuale arretra davanti a quella congetturale. Il problema è anche la superfetazione mediatica: il fatto che ipotesi seriamente e in assoluta buona fede messe in campo dagli studiosi, finite nelle mani rapaci di professionisti del gossip e dello scoop, si sono trasformate quasi sempre in “casi” buoni soltanto a riempire pagine di carta stampata o di programmi televisivi, o recentemente anche di spettacoli. E su quei casi, si è avventato quasi sempre qualche idéologue in cerca di perline colorate da spacciare sul mercato della (pseudo)storia, traendone sbrigative conclusioni che, come si diceva, sono sempre anticomuniste: o insistendo sulla contrapposizione di Gramsci buono a Togliatti cattivo (e più in generale al comunismo stesso), o, all’opposto, facendo di Gramsci il cattivo maestro di discepoli poi impegnatisi con zelo nelle nequizie della storia.
20Nel ricco leggendario gramsciano (nel volume si differenzia il contributo di Flavio Silvestrini che non si dedica a conversioni, religiose o politiche, censure e Quaderni scomparsi, ma si concentra sulla malevola leggenda di un Gramsci interventista34), la famiglia Schucht riveste un ruolo speciale, tra pettegolezzi, insinuazioni e qualche malcerta, mutevole “verità”. Non è da «prender sul serio l’idea di Julka come “controllore” di Antonio», ed è vero che la famiglia nutriva «forti riserve» verso Togliatti35; ma prendere per assolute certe dichiarazioni, attribuire un valore di prova decisiva a frammenti di documenti per “dimostrare” che Togliatti fosse nella sostanza “nemico” del compagno, e che gli Schucht ne fossero consapevoli, appare del tutto inaccettabile sul piano storico e altresì su quello politico.
21Neppure Tatiana, come sottolineano con dati di fatto e alla luce del semplice buon senso (una categoria su cui richiama l’attenzione più di un contributore)36 quasi tutti i contributi qui raccolti, è sospettabile di essere un’agente dei Servizi sovietici, e anzi sulla sua incondizionata “fedeltà” al cognato e alla sua causa, pur con qualche errore dettato da ingenuità e da troppo affetto, non v’è dubbio. È facile rispedire al mittente (un mittente collettivo, che trovò in Enzo Bettiza, sedicente conoscitore del mondo russo, il suo portavoce più noto, già sul finire degli anni Ottanta), l’accusa rivolta alla «cognata organica».
22Si vedano anche le più analitiche riflessioni di Luzzi, che ricorda in proposito un grottesco articolo di Vittorio Strada37. In ogni caso, pur ammettendo che vi fossero relazioni tra la famiglia di Giulia e i servizi sovietici, di qui appunto a sostenere che fosse un nido di spie ce ne passa: del resto appare più che esauriente la recente ricostruzione di Vacca, sulla famiglia, dopo i succosi appunti di Antonio Gramsci junior. Come scrive Liguori: «Siamo nel regno delle facezie, stupide ma non disinteressate»38. Tutto vale per screditare, insieme con l’autentico Gramsci, il comunismo, la tradizione in esso raccolta, e il suo valore storico.
23Ancor più numerosi e inquietanti sono fioriti dubbi e sospetti su un’altra figura chiave, come Piero Sraffa. L’insinuazione che lo etichetta addirittura come “agente coperto” del Comintern o direttamente di Stalin (espressione ripresa provocatoriamente nel Questionario), non solo è priva di fondamento documentale (qui la storia indiziaria, suggestiva per un film, è meglio si fermi, lasciando il passo alla vecchia storia positivistica), ma appare in fondo denigratoria non solo verso Sraffa, ma verso lo stesso Gramsci: Piero fu certo uomo molto addentro alle segrete stanze del comunismo internazionale, ma non svolse mai il doppio ruolo, di amico fraterno di Antonio Gramsci, da un canto e di occhiuto sorvegliante dall’altro, per conto terzi: fra quegli stessi terzi, ecco la più grave insinuazione, tanto grave quanto infondata, ci sarebbe colui (Togliatti?) che avrebbe commissionato il furto del XXIV (o XXXV?) Quaderno. Oltre tutto, come si fa notare, durante la vita di Gramsci, Togliatti era a Mosca e dunque al centro dell’Internazionale. Che bisogno avrebbe avuto di un emissario? Solo dopo la morte di Gramsci, Togliatti partì per la Spagna. Certo Piero Sraffa fu comunista, benché «irregolare»39 (egli stesso si autodefinì «indisciplinato», e lo richiama qui opportunamente uno dei più informati studiosi, Nerio Naldi)40, legato al Partito e al Comintern; ma fu anche un uomo libero, e soprattutto un «grande amico» che stimava enormemente Antonio Gramsci41, al quale rimase fedele fino all’ultimo instante di vita di questi. Da militante comunista (quasi sicuramente non iscritto), ovviamente non ostentò la sua fede politica42.
24Insomma, che fosse o no organico al Partito, «comunista coperto»43, comunista di fatto, senza vincoli con l’organizzazione, è accertata la sincerità del rapporto che lo legò prima alla persona di Gramsci, e, dopo la morte, al suo lascito; e le asserzioni (come quelle di Lehner) che lo etichettano tout court come «spia», lasciano il tempo che trovano44; ma proprio l’attenzione che Piero Sraffa ebbe per l’eredità gramsciana, e la sua indipendenza di giudizio, al di là di dati di fatto (che non sussistono) o di documenti (mai rintracciati sin qui), da sole basterebbero a far cadere l’ipotesi che proprio questo gentiluomo gramsciano, e comunista, si sia prestato a sottrarre un Quaderno, e lo abbia consegnato (senza neppure sbirciarne il contenuto?), tramite Tania Schucht (che a sua volta non si degnò neppure di sfogliarlo!), al diabolico Togliatti.
25Eccoci dunque, di ritorno, alla vicenda o diceria del “Quaderno mancante”. Mi sembrano sinteticamente condivisibili le osservazioni di Guido Liguori al riguardo, che riassumo così: (1) se vi fosse un 34° Quaderno, come spiegare che in esso l’autore abbia concentrato una riflessione di totale abiura del contenuto dei 33 Quaderni conosciuti? (2) se Togliatti, usando Sraffa o chicchessia come esecutore, lo avesse trafugato, come mai non lo avrebbe fatto scomparire per sempre finché era al sicuro, per così dire, in Unione Sovietica; ma se lo sarebbe tenuto, rischiando di farsi scoprire, portandolo in Italia (come sostiene Lo Piparo)?
26Sul punto, ritengo particolarmente condivisibili le riflessioni di Nerio Naldi, il quale respinge, sulla base dei dati noti e dei documenti acquisiti, la tesi del XXXIV o addirittura del XXXV Quaderno45.
27Come ebbe a notare a suo tempo Sergio Luzzatto46, a Franco Lo Piparo va il merito di aver indotto a guardare ai Quaderni gramsciani sotto l’ottica della fisicità dei materiali: la carta, le copertine, le etichette, le scritte e le sovrascritte. E, indirettamente, di aver indotto la comunità degli studi a interrogarsi o reinterrogarsi sulle vicende di quei manoscritti. Che poi alla domande nuove si siano date risposte vecchie, nel senso di già acquisite, è altro discorso; comunque non fa male ritornare su ciò che si ritiene certo, se si hanno interrogativi di qualche fondatezza da esporre. Vincere le pigrizie, le proprie prima che quelle altrui, costituisce sempre un buon esercizio, e anzi una prova costante da affrontare nella ricerca storica. Del resto la disponibilità della Fondazione Istituto Gramsci a dar vita a una commissione di indagine, che non ha appurato nulla di rilevante, è valsa a mettere in evidenza l’utilità, se non la necessità, di un supplemento di indagine sulle problematiche della numerazione, dei Quaderni47. Oltre che sollecitare l’attenzione allo stesso stato di conservazione dei materiali48.
28In ogni caso, negli interventi qui raccolti – compresa l’autodifesa appassionata, ma misurata, di Lo Piparo – si troverà un coro quasi unanime, con qualche eccezione, come quella di Montanari, di Polizzi, di Zanantoni, i quali peraltro semplicemente non escludono la possibilità che manchi un Quaderno, ma come ipotesi direi di scuola, pur ritenendola improbabile. Polizzi invita, a ragione, a non confondere studi seri, anche se dalle conclusioni opinabili, con volgari operazioni ideologiche o mercantili: mettendo comunque in evidenza un dato che a tutti i contributori di questo volume appare piuttosto evidente: «la storia del PCI sembra ancora oggi oggetto di attacchi politici e giornalistici a dir poco sorprendenti»49. E anche allontanando il sospetto che Lo Piparo appartenga al novero dei denigratori, tanto del PCI, quanto, tanto meno, di Gramsci, rimane il fatto che la sua teoria del Quaderno o dei due Quaderni mancanti (ormai Lo Piparo si attesta sulla cifra di due), poggia su basi assai fragili, la principale delle quali – come egli qui ribadisce – sarebbe che gli errori di numerazione compiuti da Tatiana, sulle copertine dei Quaderni, non furono casuali. Più d’uno fra i partecipanti all’Inchiesta lancia la sfida: perché Tatiana lo avrebbe fatto? La risposta di Lo Piparo non c’è stata in passato, non c’è in questo volume50. Si tratta, in definitiva, di indizi che rimangono privi di riscontri documentali in grado di dare sostanza alla ricostruzione: questa mi pare la situazione. Come su Sraffa, che Lo Piparo contribuisce a collocare in una luce di soffusa malevolenza. Sraffa il misterioso, Sraffa l’enigmatico, Sraffa il doppiogiochista, insomma. Che, in combutta con Togliatti (perfidia che si somma a perfidia), controlla e sovrintende, malgrado la stima intellettuale, a tutto ciò che concerne Antonio, il quale, dunque, si sarebbe trovato tra tre fuochi tutti ostili, cosa tanto più grave in quanto si trattava di tre centri – affettivo, politico, amicale – dai quali egli si attendeva sostegno, e invece… Invece, la famiglia, in combutta con Stalin, Togliatti, subornato e complice di Stalin, Sraffa, longa manus di Togliatti, e dunque di Stalin, furono persecutori quasi altrettanto (o più?) di Mussolini, che, in fondo, aveva gran considerazione per quel cervello (a cui però volle impedire di funzionare «per almeno vent’anni», stando alla celeberrima chiusa della requisitoria del PM Isgrò nel maggio 1928).
29La lettera di Mario Montagnana a Togliatti del 21 aprile 1937 – ossia quando Gramsci è quasi in punto di morte – con un riferimento all’ultimo colloquio del leader con Piero Sraffa, non solo conferma la piena fiducia reciproca fra i due51, ma smentisce qualsivoglia ipotesi di un Gramsci che ormai è o “si sente” fuori del movimento: è al comunismo italiano e internazionale che egli si rivolge, sostenendo la scelta dei Fronti Popolari, non a torto assimilati, almeno parzialmente, da lui alla sua proposta dell’Assemblea costituente, che fa parlare molti, peraltro di una svolta verso la democrazia. E quella lettera fu resa nota da Paolo Spriano52, additato oggi come esponente di una storiografia denigratoriamente appellata come «sacra» (ma ci ritornerò oltre).
30Nelle sue risposte all’Inchiesta, Franco Lo Piparo esprime il proprio punto di vista, come del resto ha fatto anche in occasione di pubblici dibattiti, anche con il sottoscritto. Dunque non avrebbe senso riprendere le sue tesi, sintetizzandole ulteriormente: basta leggere il contributo qui raccolto. Fatta salva la buona fede, a me pare che nella diversità del comunismo gramsciano – su cui concordo con lui, come fanno numerosi altri autori qui, pur nettamente dissentendo dalle tesi di Lo Piparo – egli tuttavia tralasci del tutto un dato: Gramsci non abbandona il perimetro del comunismo internazionale, anche se per cultura, profondamente italiana, per vocazione, fortemente pedagogica, per indole, intrisa di eticità, e per una maturazione politica, egli in qualche modo anche all’interno di quel perimetro si differenzia. Come sul piano teorico egli finisce per allargare le coordinate del marxismo, superandolo ma mai voltandogli le spalle. Ho scritto «un dato», in quanto il comunismo e il marxismo di Gramsci sono, a mio parere, fuori discussione. E nessuna abiura, nessun rinnegamento, nessun “tradimento” egli ha compiuto né verso il primo, né verso il secondo. Ma ritengo, altrettanto fermamente, che negli ultimi suoi anni Gramsci, pur avendo già maturato nel decennio precedente – diciamo dal 1926 in avanti – dubbi e insofferenze verso il socialismo reale, definisca una linea politica e filosofica originale, costituente la ragione fondamentale della sua fortuna attuale: la sua distanza dal socialismo reale sul piano politico, l’innovazione recata nel bagaglio del marxismo, sul piano teorico53.
31Ma anche chi, nell’Inchiesta, come Montanari, ritiene plausibile l’ipotesi del XXXIV Quaderno (pur facendo rilevare come sia improbabile che esso sia stato occultato da una generale «congiura del silenzio»), esclude radicalmente che esso possa contenere un’abiura del marxismo e del comunismo, ma osserva sagacemente, pur forzando un po’ – a mio giudizio – che «nei Quaderni già noti la revisione gramsciana del marxismo e la sua critica del soviettismo è chiara e netta»54.
32Simile la interpretazione e il giudizio che fornisce Angelo Rossi, pur non escludendo in linea teorica la possibile esistenza di un Quaderno ad oggi mancante: Gramsci fu certamente un «eretico», ma un eretico, appunto, di una fede che condivideva: non fu, insomma, un apostata di quella fede. Eretico, sicuramente, rispetto al comunismo ufficiale della sua epoca, ma altrettanto certamente comunista fino alla fine. E Rossi, come Montanari, fa osservare come siano i 33 Quaderni presenti a far considerare – ad essere generosi – improbabile non tanto il trentaquattresimo, bensì l’abiura: non era da rifiutare, il comunismo, ma da impostare su basi diverse da quelle prevalenti (Rossi pensa che secondo Gramsci fosse da «riformare», all’insegna della sua ben nota «riforma intellettuale e morale»), e l’esempio che giungeva dalle liberaldemocrazie era pessimo, certo poco invogliante a porsi su quella strada55.
33Si tratta di un’analisi a mio parere del tutto convincente. La sua stessa proposta dell’Assemblea costituente – sulla quale moltissimo si è scritto – non pare una svolta in senso liberaldemocratico, ma una traduzione politica complessiva della linea dei Fronti Popolari interna all’Internazionale Comunista e, ancora più precisamente, una estrinsecazione di quella ricerca delle nuove, diverse modalità della «rivoluzione in Occidente», rispetto a quella in Oriente, alla cui determinazione è indirizzata gran parte dello sforzo teorico del Gramsci in carcere. La critica del determinismo economicistico, il rifiuto del dogmatismo terzinternazionalistico, il giudizio negativo tanto della versione staliniana del comunismo quanto di quella trockista, la persistente convinzione della supremazia dell’egemonia, intesa essenzialmente come costruzione di consenso sull’esercizio della coercizione, e molto altro, fanno di Gramsci un pensatore e un rivoluzionario – in una stretta unione di teoria e prassi – che non rinuncia all’opzione rivoluzionaria, non rinnega Marx, ma si permette il lusso di rivedere criticamente tutti i classici del marxismo, e alla dogmatica sovietica risponde rispolverando l’obliato Antonio Labriola, alla cui lettura in fondo era stato indotto, sia pur indirettamente, da Benedetto Croce.
34Insomma, se si può, in ipotesi, pensare che esistano testi gramsciani non ancora noti, nessun appiglio testuale o documentario concreto consente di ritenere che via sia stata una qualche folgorazione sulla via di Damasco per Antonio Gramsci. Riprendendo quel che con saggezza venata di sarcasmo gramsciano qui scrive Giuseppe Prestipino, credo si possa concludere in merito così:
La repentina conversione politica di Gramsci in punto di morte vale alla stregua della similmente presunta sua conversione religiosa. In ogni caso, il nostro Gramsci non sarebbe il Gramsci che muore, ma il Gramsci che vive nel suo poliedrico e insieme unitario pensiero teorico e politico, da lui approfondito sin dagli anni giovanili e non soltanto nella grande summa dei Quaderni e delle Lettere dal carcere.56
35E ancora Prestipino, in modo ineccepibile, mi pare, conferma che nessun elemento né di carattere teorico, né fattuale lascia spazio a un Gramsci liberale. Il che non toglie – su questo Lo Piparo concorda pienamente, persino più di me – che «una vocazione (anche in una, memore, versione gobettiana) per la libertà, per la libertà comunista di tutti e di ciascuno, sia presente nell’intero lascito dei Quaderni e in alcune note particolarmente»57.
36Peraltro anche Lo Piparo richiama Gobetti (ma personalmente non concorderei né con lui, né con Prestipino, su tale riferimento), e certamente ha ragione a sottolineare la difficoltà di essere “comunisti” negli drammatici anni Trenta, specie per chi come Gramsci – o meglio il “suo” Gramsci – non aveva mai cessato di «trafficare» con i princìpi e la cultura del liberalismo. Di nuovo addolcendo le apodittiche affermazioni dei due volumi del 2012 e 2013, lo studioso apparentemente accetta, al di là della denominazione, l’idea a molti gramsciologi comune di un «comunismo critico», ma di fatto ribadisce una interpretazione che vede una fuoruscita di Gramsci da quello che chiamerei il “cerchio magico” del comunismo: che, in tale interpretazione, tuttavia, non è soltanto quello pratico, dell’URSS, ma anche quello dell’intero universo teorico che lo sorregge. Respingere il termine “abiura”, ritenendolo una forzatura polemica da parte di ideologi chiusi da impenetrabili paraocchi non serve a cambiare le carte in tavola. Al di là delle tante affermazioni in senso contrario raccolte nel volume, il gioco delle citazioni portato avanti da Lo Piparo nei suoi volumi come nel breve intervento qui raccolto, potrebbe essere facilmente sgominato con altrettante citazioni in senso uguale e contrario. E nella sommatoria, quelle di intrinsechezza al comunismo risulterebbero sicuramente maggioritarie. E non mi pare che Lo Piparo abbia mai dato una replica all’osservazione, banalissima, fatta da molti: se fosse stato così estraneo e addirittura ostile al comunismo, anche nella sua forma staliniana, come mai Gramsci meditava, una volta finita la detenzione, di emigrare in Unione Sovietica?
37In vero, per Lo Piparo sembrerebbe più che di un’abiura del marxismo o di un tradimento del comunismo per Gramsci, si tratti di una sostanziale estraneità di lunga data. Anzi, ab origine, in fondo, Gramsci mai fu un marxista, potrei spingermi a interpretare così il pensiero di Lo Piparo, che, nel suo primo studio su Gramsci, e nella sua trilogia “scoopistica”, compreso l’ultimo volumetto, interessante (e altrettanto discutibile tentativo di dimostrare un Wittgenstein che dipende da Gramsci)58 ricorre alla linguistica – che è il suo campo specifico di competenza – per trarre ulteriori appigli antimarxisti relativamente al suo Gramsci; ossia per spiegare come e qualmente la linguistica “borghese” a cui fin da giovane studente all’Università di Torino, il sardo era attentissimo, lo teneva in realtà al di fuori del perimetro marxistico. Gli replica, qui, con competenza, un linguista dell’ultima generazione, Alessandro Carlucci, sottolineando che Palmiro Togliatti (la cui intelligenza politica non era seconda alla sensibilità culturale), aveva «intuito come tra interessi linguistici e “filosofia della praxis” ci fossero più elementi di continuità che di rottura»59.
38Con vari argomenti, Carlucci smonta la tesi di Lo Piparo che presenta «un contrasto radicale» di Gramsci con Togliatti, che avrebbe nascosto invece le propensioni linguistiche del suo ex compagno, che, stando a Lo Piparo, «proprio in virtù della sua formazione linguistica, si sarebbe avviato verso un’abiura del comunismo»60. La tesi di una “egemonia” che discende da matrici linguistiche e filosofiche borghesi, che dovrebbe contribuire a preparare il terreno alla scoperta della propria alterità rispetto al marxismo, con conseguente condanna autocritica del «grande errore […], un dirizzone» che sarebbe stata la sua intera esistenza, viene mi pare messa a durissima prova dalle fini osservazioni di Carlucci.
39Naturalmente occorre sempre tenere a mente la situazione in cui il detenuto Gramsci scrive: non solo le limitazioni a cui ho accennato, ma la necessità di non lasciare intendere all’eventuale lettore che esercitava la potestà carceraria: il rischio di un peggioramento delle condizioni, la vanificazione delle speranze di una liberazione anticipata, senza nulla concedere in fatto di ritrattazione o “pentimento”, inducevano la penna di Gramsci alla prudenza. Per cui, come tutti non solo nelle riposte all’Inchiesta mettono in luce, la scrittura cifrata, o quanto meno allusiva, ricca di metafore, e di modificazioni di nominativi era una pratica costante e persino ovvia. Si tratta del resto di una prassi in uso da tempo immemorabile, come ricorda Antonio Di Meo, nei contesti ove vige un regime di controllo, e dunque di censura. E dunque è lecita la lettura metaforica, e in certi casi indispensabile, purché sia condotta con misura e, in particolare, relativamente soltanto ad alcuni dei testi del detenuto, e a specifici loro passaggi. Altrimenti, si corre il rischio di gravi fraintendimenti61.
40In effetti, nel procedere degli studi, questo tipo di lettura sta diventando corrente, ad un livello che personalmente mi pare esagerato, con modalità talora invasiva, usata quasi come chiave universale per reinterpretare il pensiero di Antonio Gramsci; opportunamente Montanari, che pure ammette trattarsi di un accorgimento utile, mette in guardia contro: «il rischio che possa essere utilizzata e codificata come l’unica chiave di lettura possibile»62, come sembra fare anche nel suo intervento qui, Angelo Rossi63. Su tale strada, i fraintendimenti sono dietro l’angolo. Nerio Naldi scrive in proposito parole sagge quando invita alla cautela, in particolare quando si affrontino, con letture che provano a penetrare l’oscurità di formule che si suppongono metaforiche, i temi dell’elaborazione concettuale del prigioniero: in specie, non appare giustificato «individuare codici interpretativi semplici e meccanici, quale ad esempio l’uso dei nomi Giulia o Julka per indicare la moglie o gli apparati sovietici» – come ha fatto Lo Piparo, preceduto e seguito, almeno in parte, da Angelo Rossi e Giuseppe Vacca, per esempio – cercando in tali interpretazioni la “prova” testuale delle sue ipotesi sull’abbandono del marxismo e del comunismo da parte di Gramsci64. Lo Piparo replica attribuendo a Tatiana Schucht la prima lettura in chiave metaforica della lettera da lei stessa definita esopica65; ma, domando, siamo sicuri che con questa parola Tatiana volesse dire «metaforica»? Intanto Esopo fa delle allegorie, e non delle metafore; in secondo luogo, quell’aggettivo potrebbe semplicemente indicare “degna di Esopo”, quasi una favola, insomma. E in ogni caso l’interpretazione attribuita da Lo Piparo alla lettera, appare davvero difficile da accettare, specie nella formulazione datane nel volume del 2012, anche se nel suo pacato intervento nelle risposte alla nostra Inchiesta, la sua posizione appare decisamente più sfumata. In definitiva, sottoscrivo l’affermazione per la quale, non si può non leggere «le sue Lettere anche tra le righe. Sarebbe però metodologicamente scorretto, come in qualche occasione é stato fatto, leggerle oltre le righe»66.
41Rimanendo in tema, dall’autocensura passiamo alla “eterocensura”. In proposito, si va da coloro che, come Agosti e Albeltaro, distinguono nettamente fra Quaderni (le censure furono «abbastanza limitate e tali da non stravolgere la riflessione del prigioniero») e Lettere («pesantemente censurate»)67; a chi, come Francesca Chiarotto, ritiene tutto il tema delle censure argomento polemico più che scientifico: e ne ridimensiona la portata, anche sulle Lettere, pur ricordando il severo giudizio di Giorgio Amendola, che, nel 1965, all’apparizione della seconda edizione delle Lettere, giudicò le censure «un errore» tanto sul piano critico, quanto su quello politico, ma affiancandolo con quello “giustificazionistico” di Paolo Spriano, che invece preferì sottolineare la ricchezza della nuova edizione68. Sulla stessa linea, Guido Liguori, che parla di «limitato carattere censorio» di tagli e omissioni tanto nei Quaderni, quanto nelle Lettere, al primo apparire a stampa degli uni e delle altre. Più deciso – forse troppo – il giudizio di Raul Mordenti, che sostanzialmente, testi alla mano, nega si possa parlare di censure, e invita, riferendosi alla filologia vivente gramsciana, alla collazione dei testi chi voglia smentirlo69. Nerio Naldi, dal canto suo, ritiene accertati i tagli (e ne indica alcuni, anche se pochi), ma non ritiene che essi abbiano influito per nulla sulla nostra lettura dei testi, anche se essi erano motivati da ragioni politiche, ancorché sovente comprensibili70. Per le Lettere, va ribadito, anche alla luce delle specifiche ricerche degli specialisti, che nel 1947 il materiale epistolografico a disposizione era quello che fu poi pubblicato, salvo le omissioni sostanzialmente dovute a ragioni di opportunità, contenendo riferimenti a persone in vita.
42Una assoluta unanimità di giudizio si rivela tra i contributori al volume sulla speciosa contrapposizione Gramsci/Turati, oggetto di un libretto tanto inconsistente, quanto lodato da certa critica; un libro che nella sua furia demolitrice di Gramsci finisce per travolgere lo stesso Turati, «in una triste banalizzazione di entrambe le figure», come osserva qui Giacomo Tarascio71. Marcello Montanari esprime in modo pacato ed efficace un punto di vista che possiamo considerare definitivo: «Così come è stata proposta da Alessandro Orsini (2012), l’opposizione Gramsci-Turati non ha alcun senso. Aggiunge tuttavia che il confronto tra i due leader della sinistra italiana del tempo, potrebbe ben darsi, ma «andrebbe spostato su un terreno storiografico più serio»72. Semplicemente serio, e non quello parossistico dell’ideologia revisionistica o forse ormai ultrarevisionistica: come opportunamente nota Pasquale Voza, il libretto di Orsini (e, aggiungo, la recensione incensatoria di un inopinato maître à penser, Roberto Saviano), si spiegano solo come frutto del «diffuso clima revisionistico, che si è andato sempre più caratterizzando nel corso degli anni per i suoi caratteri spicci, perentori e – vorrei dire – selvaggi»73.
43Infine, la storia sacra, sulla quale quasi tutti gli autori esprimono un parere che scagiona da accuse forse frettolose e condanne sommarie una intera generazione. Ancora Voza, giustamente, prima di votare pro o contro la storia sacra, ci invita a interrogarci su tale nozione. Se essa vuole intendere «una storia ufficiale imposta e perpetuata con l’autorevolezza rituale e burocratica di una qualsivoglia “chiesa”», non si può che respingerla; ma forse, in riferimento soprattutto alla storiografia comunista italiana, si tratta di altro: di «una storia complessa, fondata su una linea interpretativa che si è affermata tra altre e su altre possibili, che ha un suo spessore storicamente significativo, tutto da analizzare e leggere criticamente»74.
44Ogni epoca ha la sua storia sacra75, e a un certo punto arriva la storia dissacratrice; la prima ha la sua utilità, la seconda la sua legittimità. Ossia, è inevitabile che una comunità (Stato, partito, movimento, confessione religiosa…) crei i propri storici che raccontino una storia ad usum; ed è persino giusto, per cementare la comunità. Ed è altrettanto inevitabile, e giusto, che a un certo punto arrivino i dissacratori: relativamente alla storiografia comunista – nella quale, lo notano diversi contributi, certamente non si può svilire il lavoro di studiosi di vaglia, quali Ragionieri, Spriano, Gerratana, Sereni, Manacorda, Procacci, per citarne soltanto alcuni – si tratta anche di una questione generazionale, come osserva Zanantoni, e un problema di mutati contesti storici e politici e culturali76; nuove fonti, nuovi studiosi, nuovi orizzonti metodologici, favoriscono una storia laica, che mira semplicemente ad accertare la verità, incurante degli usi pubblici e politici che dalla sua ricerca, e soprattutto dei risultati possibili, possono scaturire.
45Mi pare di poter concludere con le parole di una tra i più giovani partecipanti a questa piccola intrapresa collettiva, quando osserva che in fondo le contese su Gramsci ne confermano «la perdurante vitalità» del pensiero, e, aggiungo, la sua irriducibile originalità; e, ancora, su Gramsci non si smette di discutere, e di litigare, perché egli stesso è, nella sua dimensione antropologica, come “uomo intero”, figura di fascino straordinario, esempio forse irraggiungibile di coerenza morale e insieme di rigore intellettuale. E dunque, in fondo, non v’è «motivo di indignarsi ogni qualvolta i non “specialisti” entrano nel merito di questioni al centro del dibattito storiografico, anche se ciò avviene sovente in maniera estemporanea o inopinata». Che cento fiori sboccino, insomma, ma, avvertendo, che è necessario, da parte dei “professionisti” della ricerca, «vigilare con grande attenzione su tenore e contenuto di questi interventi, smentire con metodo scientifico le eventuali mistificazioni»77.
46In ogni caso, va ammesso che nell’intensa discussione storiografica degli ultimi anni, talora condotta su agguerrite basi filologiche, al netto delle speculazioni giornalistiche, anche le ipotesi rivelatesi fragili o decisamente fallaci, hanno fornito un contributo di approfondimento e in definitiva di chiarezza sulla vita di Antonio Gramsci, sul ruolo degli altri personaggi che incrociano la sua esistenza, e in definitiva ci hanno consentito di precisare, correggere o ribadire, ma in ogni caso, arricchire il patrimonio di conoscenze su questo gigante del pensiero non soltanto comunista, non soltanto italiano e non soltanto del “secolo breve”.
47Il contributo fornito dal volume a più voci che qui si presenta è un modesto tassello in questo variegato, complesso, ma affascinante mosaico.
Notes de bas de page
1 Cfr. S. Audier, Gramsci Code, in «Le Monde», 2 mai 2014; F. Lo Piparo, Les deux prisons de Gramsci, traduit de l’italien par J.-P. Maréchal, CNRS Editions, Paris 2014.
2 Cfr. L. Canfora, in «Corriere della Sera», 29 marzo 2012; J. Buttigieg, «la Repubblica», 9 febbraio 2012. Nella polemica intervennero fra gli altri, G. Francioni («l’Unità», 2 febbraio 2012), G. Liguori («il manifesto», 2 febbraio 2012), A. d’Orsi («La Stampa», 15 marzo 2012, con replica di Lo Piparo, 30 marzo 2012, e controreplica di D’Orsi, 1° aprile 2012). Un’intensa discussione si svolse sulla lista dell’IGS-Italia.
3 Cfr. H. Klüver, Die Lücke. Streit um die “Gefängnishefte” von Antonio Gramsci, in «Suddetusche Zeitung», 28 februar 2013.
4 Cfr. D’Orsi 2003 e 2006.
5 Concorda su questa linea N. Naldi, p. 124. Ma vedi, in senso contrario, qui F. Lo Piparo, p. 84.
6 Cfr. Orsini 2009.
7 Cfr. Lo Piparo 2012.
8 Cfr. Canali 2013.
9 A. Höbel, pp. 59-60.
10 Cfr. R. Mordenti, p. 117.
11 Cfr. Daniele (a cura di) 1999.
12 S. Luzzi, p. 98.
13 Cfr. per es. i contributi di A. Agosti - M. Albeltaro e di R. Mordenti.
14 Cfr. per es. i contributi di E. Alessandroni e S. Tinè.
15 Cfr. E. Alessandroni, pp. 19-20; G. Polizzi, p. 139.
16 Mi riferisco in particolare a Maitan 1987.
17 Per esempio A. Moscato, A proposito del rapporto tra Gramsci e Togliatti. Molto rumore per nulla?, in «Liberazione», 27 luglio 2003.
18 Cfr. in particolare nel vol. i contributi di R. Giacomini, F. Chiarotto, R. Mordenti, G. Liguori.
19 Cfr. Vacca 2012, p. 103 e passim.
20 D’Orsi 2014, pp. 153-76.
21 Cfr. qui, in particolare, per la sua nettezza, l’intervento di R. Mordenti, pp. 116-23.
22 Rinvio oltre che a Vacca 2012, a Rossi e Vacca 2007, e recentissimi a Giacomini 2014, e Rossi 2014.
23 Esauriente al proposito la ricerca di Chiarotto 2011, le cui linee portanti sono in questo vol. ribadite.
24 Cfr. la mia Introduzione, intitolata: Antonio Gramsci: l’italiano, in D’Orsi 2011, pp. xiii-xxxvi, poi ripreso, con modifiche, in D’Orsi 2014, pp. 25-50.
25 Lo richiamano qui, in un contributo di grande equilibrio, A. Agosti e M. Albeltaro.
26 Cfr. tra gli altri, per la sua efficacia, l’analisi di S. Tinè, che pure non condivido se non parzialmente, pp. 18-79.
27 Cfr. D’Orsi 2008, p. 94; mi riferisco in particolare alla recensione di Benedetto Croce al volume Il Risorgimento.
28 Copre solo il periodo giovanile il recente volume di A. Lovecchio 2013.
29 Si veda in particolare S. Tinè, pp. 179-80.
30 Cfr. S. Suppa, p. 169.
31 Bloch 1969, pp. 69-70.
32 Lo ricorda più volte il figlio Bruno nel suo libro ovviamente agiografico (Grieco 2004).
33 N. Naldi, p. 127.
34 Cfr. F. Silvestrini, pp. 159 e sgg.
35 D. Boothman, p. 24.
36 Vedi soprattutto G. Santomassimo, fin dal titolo dell’intervento.
37 Cfr. V. Strada e J. Leontiev, Gramsci, la sposa mandata da Lenin, in «Corriere della Sera», 24 febbraio 1999; S. Luzzi, p. 100.
38 G. Liguori, p. 70. Cfr. E Bettiza, La cognata organica, in «La Stampa», 19 marzo 1988.
39 R. Giacomini, p. 57.
40 N. Naldi, p. 129.
41 G. Liguori, p. 71.
42 A. Di Meo, p. 44.
43 Cfr. Rossi e Vacca 2007; Vacca 2012.
44 Cfr. Lehner 2008, pp. 45 e sgg.
45 N. Naldi, p. 128.
46 Cfr. S. Luzzatto, L’eredità materiale di Gramsci, in «Il sole 24 ore. Domenica», 17 febbraio 2013.
47 Gli esiti sono qui: http://www.fondazionegramsci.org/5_gramsci/ag_antonio_gramsci.htm.
48 Da ultimo, cfr. l’allarmato intervento di L. Canfora, “Portate i testi di Gramsci all’Istituto del Restauro”, in «Corriere della Sera», 20 giugno 2014; ma vedi anche il rassicurante Comunicato della Fondazione Gramsci, datato 25 giugno, e leggibile in http://www.fondazionegramsci.org/pdf/2014/comunicato_quaderni.pdf.
49 G. Polizzi, pp. 140-141.
50 Cfr. F. Lo Piparo, pp. 80 e sgg.
51 Cfr. A. Höbel, p. 62.
52 Cfr. Spriano 1988.
53 Vedi G. Liguori, p. 72.
54 M. Montanari, p. 113.
55 Cfr. A. Rossi, p. 151. Ma cfr. anche per una distesa trattazione: Rossi 2014.
56 G. Prestipino, p. 146.
57 Ivi, p. 147.
58 Cfr. Lo Piparo 1979 e 2014.
59 A. Carlucci, p. 27.
60 Ivi, p. 29.
61 A. Di Meo, p. 45.
62 M. Montanari, p. 114.
63 Cfr. A. Rossi, p. 153.
64 N. Naldi, p. 133.
65 F. Lo Piparo, pp. 78-79.
66 S. Luzzi, p. 103.
67 A. Agosti - M. Albeltaro, pp. 9-10.
68 Cfr. F. Chiarotto, pp. 37-38 (anche per i riferimenti ad Amendola e Spriano). Ma rinvio più distesamente a Chiarotto 2011.
69 Cfr. R. Mordenti, p. 122.
70 Cfr. N. Naldi, pp. 134-35.
71 G. Tarascio, p. 174.
72 M. Montanari, p. 115.
73 P. Voza, p. 185.
74 Ivi, p. 187.
75 Cfr. G. Polizzi, p. 141.
76 Cfr. M. Zanantoni, p. 191.
77 A. Lovecchio, p. 91.
Auteur
Ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino, coltiva da decenni gli studi gramsciani: membro della Commissione per l’Edizione Nazionale degli scritti di A. Gramsci, ideatore e direttore della BGR (Bibliografia Gramsciana Ragionata), a Gramsci ha dedicato numerosi articoli, saggi e volumi (ultimo: Gramsciana. Saggi su Antonio Gramsci, Mucchi, Modena 2014). Fondatore e direttore di «Historia Magistra. Rivista di storia critica» (2009), presiede il Comitato scientifico della Fondazione L. Salvatorelli e dirige FestivalStoria.
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