Quinto atto (1948-1952)
p. 164-229
Texte intégral
Preda dell’angoscia
1Il 13 gennaio 1948 Zuskin si trovava in teatro per alcune prove. Quel giorno era arrivato in anticipo, prima degli altri, e aveva convocato soltanto tre o quattro attori. Lo disturbava che coloro che non partecipavano alla prova attendessero in corridoio. Ecco perché, fatta eccezione per quel piccolo gruppo e alcuni impiegati dell’amministrazione, il teatro era deserto. Zuskin terminò di provare la prima scena in programma e lasciò la sala per qualche minuto. In quel momento sentì squillare il telefono nella stanza del direttore amministrativo. Pensava che nella stanza non ci fosse nessuno e che bisognasse andare a rispondere. Aprì la porta e vide una persona dello staff amministrativo in piedi accanto al tavolo, era irriconoscibile: il volto era contratto, aveva il terrore negli occhi. Teneva la cornetta con una mano tremante e gridava con una voce che non gli apparteneva: «Cosa?! È sicuro?!»
2Di norma le persone passano da uno stadio all’altro della propria vita in modo graduale e soltanto in alcuni momenti coloro che li circondano si accorgono improvvisamente che quello che era un ragazzo ormai è un uomo adulto. Nonostante questa sia la norma, io posso indicare con precisione il momento in cui la mia infanzia è finita per sempre: fu il 13 gennaio 1948.
3Quel giorno sedevo al tavolo del nostro soggiorno, stavo pranzando prima di andare a scuola, dove avrei avuto il secondo turno. Mangiavo da sola perché mia madre era in un’altra stanza e stava aspettando mio padre, che era stato trattenuto in teatro.
4Si sentì sbattere la porta d’ingresso, mio padre entrò correndo senza togliersi il cappello né le galosce, cosa assai inusuale. Ancora più strano fu che non rispose alle mie domande giocose: «Da dove vieni e dove vai?», non mi diede un bacio, non mi sorrise, mi chiese soltanto con uno sguardo tetro: «Tua madre è in casa?», «È di là», dissi indicando la camera. Mio padre irruppe nella stanza e bisbigliò qualcosa a mia madre, che emise un grido agghiacciante.
5Corsi verso di loro in preda al terrore: «Che cosa è successo?», Sonia, la governante, spaventata, entrò di corsa in cucina; «Michoels è stato ucciso, a Minsk. Sono stati investiti da un camion», papà rispondeva con calma e lentamente, come se riuscisse a malapena a fare uscire le parole. «Sono stati investiti? Chi?», «Lui e Golubov-Potapov, il critico teatrale che viaggiava con lui», disse con voce ancora più flebile e chiese a mia madre: «Per favore aiutami a fare i bagagli. Vado a Minsk», «Perché?», «Per trovare dettagli sul posto. Devo sbrigarmi. Ho meno di due ore prima della partenza del treno. Alla stazione un fattorino del teatro mi aspetterà con i biglietti».
6Andai a scuola. Quel giorno non mi lasciarono studiare molto. Fui chiamata fuori a ogni lezione, a volte anche due volte durante la stessa lezione. Mi chiedevano sempre la stessa cosa: «Dov’è tuo padre?», «È partito», «Per andare dove?», «A Minsk», «Quando?», «Adesso», «Vuoi dire che lo hai visto prima di venire a scuola? Era a casa?», «Sì», «E sai di Michoels?», «Sì». A scuola ovviamente non fu possibile sentire la radio, non sapevo se avessero già annunciato la tragica notizia o se si trattasse soltanto di voci. Avevo capito molto bene soltanto una cosa: dopo che gli insegnanti avevano saputo che con Michoels era stata uccisa un’altra persona, avevano dato per scontato che si trattasse di mio padre. Non potevano concepire che qualcun altro e non mio padre avesse accompagnato Michoels in viaggio. Non erano così lontani dal vero.
7Quando tornai a casa da scuola, trovai mio padre a casa. Era arrivata una telefonata dalle “alte sfere” per comunicare che il viaggio non era raccomandabile. Il giorno seguente mio padre uscì diverse volte, da solo o con mia madre, fece alcune telefonate e ricevette una grande quantità di visite. Coloro che venivano a trovarlo non si fermavano molto da noi, scendevano insieme ai miei genitori per andare da Tala, Nina o Asia.
8Il 15 gennaio il corpo arrivò in treno da Minsk. Mio padre e mia madre andarono alla stazione per l’arrivo della bara. La salma sarebbe giunta in teatro soltanto una volta che il volto mutilato di Michoels fosse stato ricostruito in una clinica. Dalle quattro del pomeriggio fino a mezzanotte e anche il giorno seguente dal mattino fino al primo pomeriggio, con trenta gradi sotto zero, si formò incessantemente una lunga coda di esseri umani in direzione dell’ingresso del teatro Goset. La sala in cui si trovava la bara era affollato. Si trattava però di una folla sommessa, il silenzio regnava ovunque, chi parlava lo faceva sussurrando.
9Sono passati più di settant’anni da allora, ricordo ancora quella folla, il silenzio opprimente in teatro e in casa, il volto terreo di mio padre, il quale, nonostante fosse di statura media, sembrava fluttuare su quell’assembramento di persone.
10Una guardia d’onore si alternava accanto alla bara aperta ogni quarto d’ora. Asia, la figlia Barbara, e le figlie di Michoels, Tala e Nina, i suoi amici più stretti, i colleghi del Goset e ovviamente mio padre, restarono a vegliarlo quasi senza sosta.
11Mia madre restò lì per molto, anche io in momenti diversi. Ricordo la fitta al cuore di cui non riuscivo a liberarmi in quei giorni così difficili. Mi riferisco a quel misto di orgoglio, senso di appartenenza a qualcosa di tragico e allo stesso tempo nobile. Si tratta di un circuito di emozioni diverso da qualunque altro. Soltanto coloro che hanno provato questo tipo di sentimenti possono comprendere (e coloro che non hanno vissuto questo genere di situazione, buon per loro).
12Il 16 gennaio 1948 ebbe luogo la cerimonia di addio ufficiale. Michoels fu portato via dal teatro per sempre. Una grande folla accompagnò la bara dal teatro al cimitero.
13Alcuni giorni dopo, in teatro fu organizzata una serata in sua memoria. Ci furono discorsi e alcune performance. A colpirmi fu più di tutto quella della stella del Teatro Bol’šoj, Galina Ulanova. Più tardi, a casa, venni a sapere che i miei genitori ne erano stati altrettanto colpiti. La danza della Ulanova era tratta dalla Morte del cigno. Aveva danzato in un cerchio di luce sulla scena buia, direttamente sotto un grande ritratto di Michoels verso il quale aveva ripetutamente teso le braccia e nel momento della “morte” del cigno era crollata ai piedi del quadro.
14Nessuno durante la serata in memoria di Michoels o durante i funerali aveva espresso la propria commozione come la Ulanova, non perché non conoscessero l’arte della danza ma perché possedevano l’arte di soffocare sentimenti che era meglio tacere. Secondo l’usanza convenzionale, ogni intervento al servizio funebre fu fatto a nome di una qualche istituzione, di tale e tal altro teatro, di un’associazione piuttosto che un’altra e così via. Fu Zuskin a tenere il discorso funebre del Goset.
Amici, il dolore è grande. Siamo diventati orfani […]. Cercate di capire quanto sia difficile per me, per tutti noi. Era il simbolo della vita, associare Michoels alla morte è impossibile […]. La perdita è troppo grande, non c’è rimedio […]. Sappiamo quali tempi stiamo vivendo nel nostro paese. Sappiamo che tu, Solomon Michoels, ci hai insegnato a lavorare con passione e dedizione […]. Ti promettiamo di lavorare per colmare, anche soltanto un poco, il vuoto creato da questa morte assurda, insensata e inattesa. Addio.1
Un altro evento scosse mio padre in quei giorni.
15Il 14 gennaio 1948, il giorno dopo la morte di Michoels, gli attori si riunirono intorno al lungo tavolo della sala prove, dove di solito sedevano per ascoltare la prima lettura dei testi che avrebbero messo in scena.
16Quel giorno tra gli attori c’era anche Moyshe Goldblatt, che aveva lasciato il Goset molto tempo prima per diventare direttore artistico del Teatro Ebraico di Kiev, capitale della Repubblica Ucraina. Durante la Seconda guerra mondiale, questo teatro era stato mandato in una città delle retrovie, ma alla fine della guerra, quando stava per rientrare a Kiev, le autorità avevano comunicato che non c’era più modo di trovargli uno spazio. A Kiev! Nella città il cui nome era associato al Babi-Yar non si trovava spazio per il Teatro Ebraico! Avevano deciso di trasferirlo a Černivci, sempre in Ucraina; Golblatt era partito da lì per venire ai funerali di Michoels.
17Sedevano tutti in silenzio. L’assenza di Michoels si faceva sentire, il suo posto era vistosamente vuoto.
18Poco per volta le persone iniziarono a disperdersi. Zuskin prese Goldblatt da parte e gli disse del contenuto del foglio lasciato da Michoels che aveva letto tre giorni prima, l’11 gennaio. Circa venticinque anni dopo, nelle sue memorie Goldblatt avrebbe rivelato: «Secondo Zuskin, in quell’appunto Michoels aveva scritto che presto gli sarebbe accaduto qualcosa e il destinatario della lettera, Zuskin, avrebbe dovuto prendere il suo posto alla direzione del teatro. La lettera conteneva anche una velata allusione al fatto che Michoels fosse stato invitato diverse volte “in quel luogo” [nella sede della polizia segreta]. Ciò che era accaduto a Minsk era qualcosa di più terribile di un incidente d’auto? Zuskin non si aspettava risposte a questa domanda».2 Perché mio padre, che non aveva detto a nessuno della lettera, neanche a mia madre, aveva scelto Golblatt per parlarne? Forse perché Goldblatt viveva in un’altra città, cosa che escludeva ulteriori eventuali discussioni in merito alla questione tanto spaventosa e pericolosa.
19Zuskin era immerso in riflessioni come: «Continuare a vivere, ma come? Che ne sarà del teatro, di Eda, di me stesso? Chi ci proteggerà?». Proteggerci? Michoels non era riuscito a proteggere neanche se stesso. No, a Zuskin non importava neanche nei propri pensieri comprendere quale fosse stata la vera causa della morte di Michoels. Dicevano che si era trattato di un incidente d’auto. Quindi si trattava di un incidente d’auto, nient’altro.3
20Ricordava i momenti di gioia vissuti al fianco di Michoels e si stupiva di come spargere sale sulle vecchie ferite gli facesse dimenticare quale fosse il vero rapporto che aveva con Michoels. «Come tutti i mortali, Michoels doveva avere alcuni difetti. Non voglio ricordarli e non ho motivo di farlo. La verità? Ora non li vedo»,4 scrisse Aleksandr Tyšler subito dopo la morte di Michoels.
Compagno
21Ho affrontato la questione “Michoels e Zuskin” in diverse pagine di questo libro. Ho già fatto presente che, riferendosi a Michoels, mio padre ne vedeva due personalità distinte: rivolgeva la propria amarezza a Vovsi, si riferiva invece con gioia al proprio rapporto con Michoels. Vorrei aggiungere che nonostante questa gioia Zuskin sentiva il bisogno di prendere le distanze dallo stereotipo “Michoels e Zuskin” e di vivere senza quella congiunzione restrittiva.
22A dire il vero, tra loro neanche la “e” c’era sempre. Questo è interessante: «Zuskin-Michoels…» disse mio padre al processo «Quando prima della guerra mi presentai al commissariato di leva di zona, il capo del commissariato che mi accolse prese la tessera militare e dopo averla letta mi chiese: “Perché c’è solo il cognome Zuskin, dov’è Michoels?” I due nomi erano legati in modo così inscindibile che anche al momento della messa in stato d’accusa ho continuato ad attendere che le persone menzionassero Michoels e a seguire Zuskin, ma non è successo».5
23In quanto figlia di Zuskin anche io ho atteso a lungo, invano. Quando mi sono messa a scrivere questo libro, mi sono ripromessa di fare ciò che non è riuscito a fare mio padre, ovvero separare Zuskin non da Michoels, ma dall’idea Zuskin-Michoels o Michoels-Zuskin. Il mio desiderio si è rivelato irrealizzabile.
24Per coloro che hanno tracciato l’ultima tappa del sentiero della vita di Zuskin, questa affermazione fu alle fondamenta dell’accusa, orientò il processo e determinò il destino di mio padre. A loro non interessavano la personalità di Zuskin né le sue convinzioni, neanche i crimini che gli attribuivano e di cui era accusato. L’essenza dell’associazione “Michoels-Zuskin” ebbe i suoi effetti esattamente come molti anni prima era stata formulata dal commissario dell’ufficio di reclutamento, e sarebbe stata il fondamento anche dei loro piani diabolici. Con mio profondo rammarico, gli amici di mio padre, anche i più leali e i più sinceri ammiratori della sua arte, non seppero vedere oltre ciò che aveva visto il commissario dell’ufficio di reclutamento. Quando ricordavano Zuskin, tingendo i loro ricordi di affetto e di nostalgia, lo ricordavano principalmente come parte dell’assioma “Michoels-Zuskin”. Mio padre era però degno di essere riconosciuto come personalità autonoma e di essere ricordato in questo modo.
25Nel 2000 in Israele è stato prodotto un film documentario su Zuskin, i cineasti coinvolti hanno presentato Michoels con grande rispetto ma al centro della loro attenzione c’era la personalità di Zuskin. Il film offre il ritratto vivo di un uomo dotato di una personalità autonoma, forte e coerente. A spezzare la congiunzione tra i due nomi sono state persone nate e cresciute in Israele a distanza di decenni e di migliaia di chilometri dalla realtà che ha dato vita all’assioma “Michoels-Zuskin”.
26Ma questo libro sono io a scriverlo. Nei miei sforzi di dipingere un ritratto completo di mio padre, non posso ignorare l’assioma “Michoels-Zuskin”, perché è parte integrante della mia formazione e del mio ambiente ed è necessario interpretare l’utilizzo tragico che ne è stato fatto dai boia. Questo assioma dopotutto è stato utilizzato per portare Zuskin alla morte.
27La storia della vita di ognuno dei due soggetti interessati dall’assioma, se privata di quel “Michoels-Zuskin”, non sarebbe autentica. «Pensando a Michoels vedo Zuskin, un attore di grande talento, inseparabile da Michoels così come Michoels era inseparabile da lui. Insieme hanno saltato, danzato, pianto e riso, hanno fatto vivere al pubblico gioie e tristezze. Il destino che ha preso tra le proprie braccia Michoels e Zuskin li ha condotti lungo tutta la loro vita di attori e il loro destino comune e tragico non li ha abbandonati neanche nella morte»,6 ha scritto Tyšler nel suo articolo Vedo Michoels.
28Pavel Markov è giunto alla conclusione che all’interno di questa coppia inscindibile vi fosse un discussione, nella vita e in scena. «Guardando Michoels si aveva di fronte un uomo il cui aspetto condiscendente e timido nascondeva la sua intelligenza e gli permetteva di fare tutto ciò che voleva. I personaggi di Michoels sapevano come combattere un potere superiore o elevare questioni esistenziali alle vette della filosofia, gli eroi di Zuskin si aggrappavano a una loro piccola verità – che era poi davvero così piccola? – e non intendevano risolvere i problemi del mondo».7 In effetti, nel mondo in cui vivevano entrambi, i problemi si risolvevano senza di loro e nel modo più perentorio.
29Quando nel 1928 il Goset era stato in tournée nell’Europa occidentale, Michoels e Zuskin erano stati intervistati insieme da un giornale tedesco. Alla richiesta di spiegare la propria “unione”, Michoels aveva risposto ironico: «È come la creazione perfetta che si potrebbe ottenere se uno scultore utilizzasse noi due come materia grezza per realizzare la scultura di un solo uomo».8 Un quindicennio più tardi, la risposta data da Michoels sarebbe stata completata dalle parole di Hotzmakh, il personaggio di Zuskin in Stelle vagabonde: «Un solo uomo tra molti lupi».9
Braccato (inizio)
30I lupi si ritirarono. Temporaneamente.
31I giorni del lutto erano terminati, il teatro aveva riaperto le porte al pubblico. Negli ultimi anni Michoels non era stato un attore, quindi non era da sostituire in scena. Le prove si tenevano per rinfrescare la memoria, il repertorio era sempre lo stesso. Eppure non si può dire che la vita fosse tornata alla normalità. Mentre il teatro e la scuola di recitazione erano tornate alla loro routine, cicolavano dicerie che nessuno aveva il coraggio di ripetere ad alta voce. Chi non è vissuto in Unione Sovietica o in un paese con un regime totalitario non può credere che le voci possano diffondersi senza farsi sentire. I pettegolezzi si diffondevano in silenzio. Per queste cose bastava uno sguardo, un sospiro, un’alzata di spalle. Si può sempre bisbigliare qualcosa all’orecchio di qualcuno, certo, ma non è sempre necessario. Per esempio, per quanto riguarda le ragioni della morte di Michoels, tutti senza alcuna eccezione si attenevano alla versione ufficiale dell’incidente d’auto, ma è assai improbabile che tutti ci credessero.
32La personalità di Michoels era così forte e fuori dall’ordinario, la sua morte in un incidente d’auto così banale. D’altra parte, la messa in scena di una morte è adeguata a un grande attore, e colui che ha avuto una così grande idea superava in brutalità i limiti dell’ordinario. Colui che ha avuto l’idea, così come i suoi sottoposti, non aveva bisogno di parole, gli bastava una “stenografia delle espressioni di indignazione”.
33È possibile che fosse la polizia segreta a diffondere voci contrastanti con la teoria dell’incidente. Se ciò fosse vero, queste insinuazioni erano progettate non per esporre la verità ma per intimidire e fare da deterrente. Insieme alle paure che le voci connesse alla morte di Michoels sollevavano, l’aria era impregnata di un terrore più vago ma non meno angosciante: l’incertezza relativa al futuro del teatro, al futuro del Comitato Antifascista Ebraico e di chiunque fosse legato a tali istituzioni.
34In pubblico Zuskin agiva come tutti, fingendo che andasse tutto bene. A casa fingere era più difficile. L’umore depresso in cui i miei genitori piombarono in seguito alla morte di Michoels lasciò un segno nella vita di casa nostra. Naturalmente io notavo che l’atmosfera stava gradualmente cambiando e che non ero più al centro della vita della nostra famiglia, per esempio sembrava che nessuno si fosse accorto che giravo per casa con le pantofole rotte. La mattina del mio compleanno non trovai la solita fila di sedie con le pile di regali. Quando mi alzai dal letto e senza pensarci infilai i piedi nelle pantofole i miei piedi si sentirono comodi, invece del tessuto strappato c’era qualcosa di piacevole. Guardai in basso e ai miei piedi c’erano pantofole nuove. Mi piacevano. Eppure, per una frazione di secondo, fui delusa. «Tutto qui?» In un baleno mi resi conto: «Se anche il giorno del mio compleanno niente è come prima significa che il mondo dei miei genitori è collassato e con esso anche il mio».
35Mi sento un po’ a disagio nei confronti del lettore. Sono qui a parlare di eventi così effimeri e relativi a un contesto apparentemente meno importante, forse scontato. Devo però ricordare al mio lettore che sto tornando ancora una volta alla vita degli oggetti inanimati che popolano le nostre esistenze. Questa volta sono pantofole.
36Il mio compleanno era stato preceduto da un evento che avrebbe dovuto incoraggiare mio padre, invece gli causò ulteriore sofferenza.
Direttore artistico
37Nel febbraio del 1948 i miei genitori mi informarono che quella sera si sarebbero trattenuti in teatro dopo le prove perché era prevista una riunione. Dopo la riunione mio padre rimase in teatro mentre mia madre tornò a casa, non era sola ma in compagnia di alcuni attori. Erano tutti eccitati, uno degli attori mi aggiornò sul fatto che alla riunione si era affrontata una sola questione: chi avrebbe diretto il teatro? La riunione era stata molto breve perché l’intera squadra aveva votato all’unanimità la proposta. Nelle famiglie ebraiche vige l’usanza secondo la quale quando il padre muore, il figlio maggiore diventa il capofamiglia. Se viene a mancare il primogenito, quello dopo di lui prende il suo posto. Nella nostra famiglia di attori, Zuskin era sia il primogenito che il fratello di Michoels: chi altro avrebbe potuto assicurarne la successione?
38Mancava soltanto l’approvazione delle autorità. In ogni caso, il processo poteva avvenire al contrario: l’amministrazione del teatro fu informata prima del voto della decisione di nominare Zuskin. Qualunque fosse la spiegazione, il 17 febbraio 1948 il Comitato per gli Affari Artistici pubblicò un ordine con cui nominava Veniamin Zuskin, Artista del Popolo delle Repubbliche Russa e Uzbeca, nonché Premio Stalin, direttore artistico del Teatro Ebraico di Stato di Mosca.
39Questo ordine rese Zuskin felice e lo lusingò? Se così fu, durò per un tempo molto breve. Dopotutto, diceva sempre che i ruoli ufficiali non facevano per lui. In quello stato, depresso, tormentato dall’ansia e dominato da un senso di incertezza, era il momento di assumersi la responsabilità di un teatro il cui futuro era incerto? La sua tempestività o il suo rifiuto non significavano niente e non determinarono nulla. C’era un ordine e gli ordini non si potevano discutere. Si poteva solo obbedire. Zuskin ne era cosciente, era anche consapevole di qualcosa che per lui era più importante. Comprendeva che tutti al Goset riponevano la propria speranza in lui, perché era il primo attore, per la generale simpatia che avevano per lui e per via di quel “Michoels-Zuskin”.
40Quando si fermava a riflettere sul destino del Goset, gli si spezzava il cuore. Nel 1938, quando aveva preso in considerazione di lasciare il teatro, aveva già compreso che nel momento in cui se ne fosse andato, il teatro avrebbe smesso di esistere.
41Mentre ricopriva il ruolo di direttore artistico non smise di andare in scena come attore. Dovette però abbandonare uno dei suoi numerosi impegni, l’insegnamento alla scuola di recitazione. E prima di tutto fu costretto a tornare a una occupazione che aveva svolto quando era giovane ed era stato il segretario del teatro, doveva controllare i libri contabili. Scoprì così che la situazione finanziaria del teatro era pessima. In passato il teatro aveva ricevuto un solido supporto governativo, che poi era stato tagliato, e attualmente non aveva alcun sostegno statale. La salvezza doveva venire dal pubblico. Le casse sarebbero state riempite portando in sala il più alto numero di spettatori possibile. Ultimamente però non avevano allestito alcuno spettacolo nuovo e i titoli in cartellone andavano in scena da troppo tempo. Tutto ciò non permetteva di coprire le spese. Giunse così alla conclusione che si dovesse riprendere in mano il repertorio. Per farlo era necessario investire molte energie, allo stesso tempo l’idea di lavorare sul repertorio lo tranquillizzava. Dopotutto era un attore, non un contabile. Pieno di energia, iniziò a spulciare i documenti di lavoro di Michoels. Anche qui lo attendeva una delusione, vi trovò soltanto quattro opere.
42Nel marzo 1948 il sostegno governativo al Goset si estinse del tutto. Zuskin decise di riprendere alcuni vecchi testi, a cominciare dalla Strega. Lo spettacolo che ne venne fuori non era stupefacente come quello di Granovskij, che era stato un vero e proprio fuoco d’artificio. Lo stesso Zuskin non aveva più l’ardore giovanile né l’energia mentale necessaria a interpretare la Strega come un tempo. Eppure per lui e per i suoi amici era piacevole ridare vita a opere che avevano amato molto interpretare in passato. Riprese Hershele Ostropoler, che aveva già diretto. Verso la fine di marzo del 1948 fu organizzata una riunione con il pubblico del teatro e nel proprio discorso Zuskin riferì i propri progetti e suggerì che i presenti acquistassero degli abbonamenti.
43Pochi giorni prima di questa riunione, il 23 marzo, il Comitato per gli Affari Artistici fece passare la comunicazione secondo la quale a tutti i teatri era permesso vendere gli abbonamenti a prezzi scontati. Secondo l’esperienza dei teatri dove questo sistema era già impiegato da tempo, ciò permetteva di incoraggiare il pubblico a recarsi a vedere gli spettacoli. Anche al Goset una parte del pubblico acquistò abbonamenti, ma la sala non si riempiva. La situazione creava un’atmosfera di insoddisfazione e frustrazione. Zuskin stesso viveva questa situazione in entrambi i propri ruoli, da direttore artistico e da attore. Aveva sempre costruito i propri ruoli tenendo in considerazione la reazione del pubblico e ora, davanti alla platea mezza vuota, aveva difficoltà a recitare. Gli era difficile trovare una spiegazione. Dopotutto, grazie agli abbonamenti, la situazione finanziaria del teatro aveva iniziato a migliorare leggermente: «Perché sta succedendo tutto ciò?», si domandava. Perché i lupi erano a caccia di una preda.
44La vendita degli abbonamenti era appena iniziata quando cominciarono a diffondersi alcune voci secondo le quali la polizia segreta sorvegliava le persone che frequentavano il Goset. Alcuni affezionati tra il pubblico acquistavano gli abbonamenti con lo scopo di salvare il teatro dalle difficoltà economiche, ma preferivano non andare agli spettacoli e restare a casa. I Don Chisciotte non erano molto numerosi e il bilancio, seppur migliorato, non era soddisfacente. Zuskin scrisse una lettera dai toni disperati a un funzionario responsabile dei teatri presso il Comitato Centrale del Partito. Costui gli promise che il Goset non sarebbe stato chiuso. Zuskin continuò a scrivere.
45Puntellando le proprie speranze in base alle promesse ricevute, agì in modo energico e mise insieme un nuovo repertorio. Prendeva contatto con coloro che decidevano per chiedere l’autorizzazione in merito a un testo o a un regista che aveva scelto. Non riceveva risposte. Perché chi decideva avrebbe dovuto rispondergli? Che interesse potevano avere che il bilancio del Goset migliorasse?
46Nonostante tutto, il 4 maggio 1948 andò in scena un nuovo spettacolo basato sul testo di La vita vale la pena di essere vissuta (Kedai tsu lebn) di Isaac Hoberman, una delle opere che aveva trovato tra i documenti di Michoels. Zuskin era il regista. Si andò in scena per tre volte con la sala più o meno gremita, poi l’affluenza del pubblico diminuì visibilmente. Il numero di persone che andavano a vedere gli spettacoli del Goset si era notevolmente ridotto. Dieci giorni dopo, con la proposta di La vita vale la pena di essere vissuta come titolo di repertorio, Zuskin si rese conto che i posti vuoti in platea erano troppi. Se fosse stato un normale giorno feriale non avrebbe pensato ad altro che al botteghino, ma era il 14 maggio 1948.
47Il 14 maggio 1948 è il giorno della fondazione dello Stato di Israele. Molti ebrei sovietici ne erano felici. Erano anche orgogliosi che l’Unione Sovietica avesse immediatamente riconosciuto Israele, così come erano stati orgogliosi del sostegno dell’Unione Sovietica per il Piano di Partizione della Palestina votato dalle Nazioni Unite il 29 novembre. «Nel maggio 1948, con l’approvazione di Molotov [il ministro degli Esteri], il Comitato Antifascista Ebraico mandò un telegramma di congratulazioni al primo presidente dello Stato di Israele, Chaim Weizmann».10 Il testo fu pubblicato su «Eynikayt» [ «Unità» in yiddish, giornale sovietico]. Al Comitato Antifascista Ebraico e presso l’ufficio del giornale iniziarono ad arrivare cartoline di congratulazioni da parte di persone comuni e di ebrei in posizioni chiave, tra esse anche le congratulazioni firmate dal direttore artistico del Teatro Ebraico di Stato, Veniamin Zuskin.
48Il cuore ebraico di Zuskin era gonfio di gioia e di orgoglio. Eppure, non poteva dimenticare la strana coincidenza della scomparsa della registrazione del discorso di Michoels alla serata dedicata alla memoria di Mendele Moykher Sforim. Presagi nefasti oscuravano la sua gioia. Nascondeva comunque i propri sentimenti per concentrarsi sui problemi del teatro. Poiché dalle alte sfere tardavano ad arrivare risposte, decise di discutere la situazione economica con il personale amministrativo del teatro e con l’ufficio contabile. Insieme stabilirono che non vi era altra via d’uscita se non licenziare alcuni attori. Fu una decisione difficile sotto tutti i punti di vista, in repertorio vi erano però pochi spettacoli e tra questi quasi nessuno aveva scene di massa.
49Quando mio padre usciva, le attrici dei ruoli secondari venivano a casa nostra per parlare con mia madre e chiedere di avere pietà di loro. Speravano che avrebbe potuto evitare che mio padre scrivesse il loro nome sulla lista delle persone da licenziare. Mia madre le capiva, ma non poteva aiutarle. Sapeva che le mani di suo marito erano legate e che i licenziamenti erano una soluzione necessaria. Soluzione in che senso?
50Le autorità compresero che il Goset stava lottando per non arrendersi alla situazione e cambiarono tattica. Nell’estate del 1948 mandarono il teatro in tournée in diverse città. A un primo sguardo una cosa normale, in passato il teatro aveva fatto queste tournée ogni estate. Era molto chiaro però che in questo caso ci fosse una trappola. Dopotutto, il teatro aveva appena iniziato a preparare due nuovi spettacoli e stava lavorando alla revisione di altri che erano già in repertorio, necessità dovuta al licenziamento di alcuni degli attori. Inoltre, in passato le spese di viaggio e i costi per l’alloggio erano coperte dal finanziamento governativo, ora no. Le autorità non erano più interessate alla promozione della cultura ebraica, anche se non lo ammettevano ufficialmente. Le tournée a Leningrado e Odessa prosciugarono le casse.
51Ricordo molto bene la tournée a Leningrado, in ogni dettaglio. I miei genitori mi portarono con loro per mostrarmi la città splendida, i suoi musei e i luoghi mozzafiato. Tutto ciò naturalmente avrebbe arricchito il mio bagaglio culturale, più di tutto però a imprimersi nella mia memoria fu il dolore inconsolabile di mio padre. Ho già detto che una volta, abbracciandomi, pieno di disperazione, mi fece camminare con lui avanti e indietro nella stanza e che poco dopo poi lo osservai nel ruolo di Hotzmach, in cui era un uomo disperato. Non avevo menzionato il fatto che ciò accadde proprio durante la tournée a Leningrado in quell’estate del 1948.
52Ebbe un significato simbolico il fatto che non fosse in scena la sera del debutto di Freylekhs a Leningrado. Mandò il proprio sostituto come a dimostrare che il teatro era vivo anche senza di lui e che c’era una generazione di giovani che ne avrebbe tenuta alta la bandiera. «Dall’inizio del 1948, quando Zuskin divenne direttore artistico del teatro, non gli fu necessario fare appello alla sua ipersensibilità, la catastrofe si avvicinava al suono delle fanfare».11 Quando lo spettacolo concluse le repliche a Leningrado, mio padre era esausto.
53Riposo. «Papà deve riposare». Non aveva dimenticato il piacevole benessere di cui aveva goduto la famiglia durante le due vacanze precedenti, trascorse con me e mia madre sulle coste del Mar Baltico. Anche quell’anno volle andare in vacanza negli stessi luoghi. Ci recammo nuovamente sul Baltico, questa volta però la località turistica non era tra i sobborghi di Riga, ma vicino a Leningrado.
54Affittammo una casa in un villaggio molto carino e i miei genitori trovarono immediatamente un gruppo di persone con le quali fare vita sociale. Per la prima volta mio padre fu convinto a giocare a carte. Forse era un modo come un altro per mettere a tacere le proprie preoccupazioni. Il compagno di gioco di mio padre si univa a lui sulla via di casa. A mia madre quell’uomo non andava a genio, probabilmente non soltanto perché giocava a carte, cosa che lei disapprovava, ma perché le aveva dato a intendere di essere uno che non si limita a colpire con il proprio bastone da passeggio intarsiato ma anche con la lingua, insomma era un informatore.
55Quando tornammo a Mosca, mio padre ricevette una chiamata dalla segreteria del Comitato Antifascista Ebraico, gli dissero che era arrivata una lettera dal Canada indirizzata a lui. Venne fuori che la lettera era di mio zio Yitshak. Il fratello lo informava che il padre, Leybe, era venuto a mancare in Sudafrica. Non ricordo il lamento di mio padre, non pianse amaramente come quando aveva saputo della morte della madre. Forse la situazione in cui si trovava era così difficile che gli era impossibile dare sfogo al proprio dolore.
56Erano passati vent’anni dal suo ultimo incontro con il nonno, si erano visti nel 1928 a Parigi. In quegli anni, fatta eccezione per un periodo iniziale, mio padre non aveva tenuto una corrispondenza con il nonno, con la propria madre né con i fratelli e le sorelle, i quali vivevano tra il Sudafrica e il Canada, nel “pericoloso Occidente”. Non poteva neanche scrivere alla figlia, la mia sorellastra Tamara, nonostante lei vivesse nella Polonia cosiddetta “democratica”. Invece Tamara era riuscita a tenere una corrispondenza con nostro nonno. Gli aveva scritto da Varsavia e lui le aveva risposto: «Mia cara nipote, io sto bene. Lavoro come capo responsabile del taglio nel negozio più grande e più alla moda di Johannesburg e guadagno bene… Soltanto una cosa mi preoccupa ed è che per qualche motivo tuo padre non mi scrive. So del suo successo dai giornali. Chiedigli di scrivermi quando può».12 Come poteva il vecchio Leybe, che viveva una vita normale, lontana dalla paura, immaginare e comprendere quale fosse quel «qualche motivo» per cui il suo famoso figlio non gli scriveva? Nonostante ciò, quando molti anni più tardi ho letto questa lettera, sono rimasta scioccata che fosse datata 12 gennaio 1948. Il giorno prima del 13 gennaio 1948, giorno in cui Michoels fu assassinato. Era trascorso un solo giorno e il mondo di Nyomke era andato in frantumi. Il ventesimo secolo aveva disperso padre e figlio su due continenti lontani, mettendo tra loro una distanza incolmabile non soltanto geografica.
57Immediatamente dopo il ritorno dalla vacanza, mio padre cominciò a dividere il proprio tempo tra la regia e le questioni amministrative. La sera andava in scena, ancora e ancora, di tanto in tanto partecipava alle riunioni del consiglio comunale e del Comitato Antifascista Ebraico. La notte non riusciva a dormire, le preoccupazioni lo attanagliavano.
58La sera del 14 settembre 1948 ebbe improvvisamente un fitto dolore all’addome. Fu portato in ospedale e subito mandato in sala operatoria. Gli trovarono l’appendice infiammata. L’intervento ebbe successo, fu ricoverato in un convalescenziario vicino a Mosca. Insomma gli avevano salvato la vita. Ma per cosa? Si riprese e tornò in forze, tornando a svolgere le proprie mansioni di direttore artistico. Nel 1999 il professore Mordechai Altshuler dell’Università Ebraica di Gerusalemme, nel discorso che apre questo libro, avrebbe detto che questo suo ultimo ruolo fu per Zuskin «il più difficile della sua vita». Sono d’accordo con lui. Questo fu il ruolo più difficile. Non il più inquietante, quello che lo attendeva ancora.
59Poco tempo dopo fu evidente che i lupi erano ormai pronti ad attaccare. Il 20 novembre 1948 tutti i quotidiani del mattino pubblicarono la notizia che da quel momento gli abbonamenti e i biglietti dei teatri di Mosca e delle grandi città sarebbero stati venduti da botteghini centralizzati. Perché questa notizia, apparentemente poco rilevante, apparve contemporaneamente su tutti i giornali? E nell’annuncio non era chiaro quale fosse il motivo per fare vendere i biglietti dai botteghini centralizzati.
60Negli stati totalitari gli spettacoli teatrali e ogni genere di intrattenimento non sono questioni marginali, sono utilizzati per trasmettere messaggi di carattere ideologico. In uno stato totalitario ogni istituzione, anche la più piccola, è costantemente controllata dall’occhio vigile delle autorità. Quando il botteghino centrale vendeva un biglietto per un evento presso una istituzione culturale che si trovava sulla lista di quelle che dovevano rendere conto, il cassiere mandava un rapporto alla divisione preposta. Poteva anche ricevere istruzioni su che cosa dovesse riferire a un certo teatro. Quindi, quando informarono il Goset che i biglietti erano stati venduti tutti, la vendita non era neanche ancora iniziata.
61Quello stesso giorno i lupi attaccarono. Il 20 novembre 1948, negli uffici delle più alte sfere del Partito Comunista e dello stato fu presa la decisione di sciogliere il Comitato Antifascista Ebraico.
Antifascista (fine)
62Comitato Centrale del Partito di tutta l’Unione Comunista (Bolscevico), 20 novembre 1948.
63Verbale del Procedimento # 66 della sessione del Politburo [organo supremo del partito comunista dal 1917 al 1952].
64[Estratto]
65Articolo 1. Sul Comitato Antifascista Ebraico.
66La seguente risoluzione dell’Ufficio del Consiglio dei Ministri dell’Urss è approvata. L’Ufficio del Consiglio dei Ministri dell’Urss incarica il Ministro per la Sicurezza dello Stato dell’Urss di sciogliere immediatamente il Comitato Antifascista Ebraico, poiché i fatti dimostrano che tale Comitato è un centro di propaganda antisovietica e diffonde regolarmente informazioni antisovietiche agli organi dei servizi segreti stranieri.
67In accordo con quanto affermato, gli organi di stampa di questo Comitato devono essere chiusi e i loro documenti confiscati. Per ora, nessuno deve essere arrestato.
68Il segretario Generale del Comitato Centrale: J. Stalin13
69Il 20 novembre 1948 quando tornai a casa da scuola trovai i miei genitori che bisbigliavano in uno stato di grande agitazione. In risposta alla mia domanda muta, mi dissero che si era deciso di chiudere il Comitato Antifascista Ebraico. Non aggiunsero altro. In effetti non erano a conoscenza dei dettagli. Mio padre andò in corridoio, al muro era appeso un telefono. Parlò a lungo con qualcuno, sentivo le sue parole: «Sai già di via Kropotkin?», e capii che si riferiva allo scioglimento del Comitato Antifascista, che aveva sede in quella strada. Anche mia madre poteva sentirlo, il suo volto teso si faceva sempre più pallido, come se non avesse più sangue. Mio padre posò il ricevitore e tornò nella stanza: «Perché ne parli per telefono?», gli chiese mia madre con voce tremante. Mio padre sembrava confuso: «È venuto fuori», cercò di giustificarsi. Chiaramente pensava che mia madre avesse ragione. L’apprensione di mia madre era soltanto una espressione di disapprovazione? Era la sua paura a parlare.
70Quella sera vennero a casa le sorelle di mia madre, Emma e Lisa, avevano lo spavento negli occhi. Emma lavorava come bibliotecaria in un istituto scientifico, Lisa era segretaria in uno studio dentistico. Che legame poteva esserci tra questi luoghi e il Comitato Antifascista Ebraico? Nessuno, ma c’era una ragione se Mosca era definita un grande paese in cui tutti sanno tutto. Le zie non volevano spargere sale sulle ferite di mio padre e presero mia madre da parte: «Che cosa accadrà?», mia madre non sapeva che cosa dire e alzava le spalle disperata. Mio padre si ricordò di non avere ancora aperto il giornale. Si sedette e si mise a leggere «Eynikayt»: «Questo numero, datato 20 novembre 1948, è l’ultimo. A partire da domani questo giornale non sarà più stampato».
71Il giorno seguente, il 21 novembre 1948, presso il Comitato Antifascista Ebraico in via Kropotkin numero 10, i funzionari del Ministero per la Sicurezza dello Stato fecero una perquisizione e sequestrarono tutti i documenti. Lo stesso giorno fu perquisita anche la sede di «Eynikayt».
72Il 25 novembre la casa editrice Der Emes, che pubblicava libri in yiddish, fu chiusa. La sua liquidazione, che ebbe luogo in presenza del personale, fu un vero e proprio pogrom. Nel reparto stampa la macchina per la composizione tipografica fu distrutta insieme ai manoscritti, come quando i barbari attaccavano i villaggi. Rovistarono nell’ufficio di Michoels, che era stato anche il museo del Goset, sequestrando tutto ciò che era collegato al Comitato Antifascista Ebraico. Più tardi fu il turno della Divisione Ebraica dell’Autorità per le Telecomunicazioni e la Radio di Stato.
73Permettetemi ora di tornare un po’ indietro e descrivere Zuskin come membro del Comitato Antifascista Ebraico.
74Zuskin si era sentito di troppo sin dall’inizio della propria partecipazione alle attività del Comitato. Non era alla ricerca di onori, ma in quanto cittadino responsabile non rifiutava mai, se non andava in scena quella sera, di scrivere un articolo o di partecipare a un incontro. Dopo la morte di Michoels era stato così impegnato in teatro che si era tenuto ancora più lontano dal Comitato; molte delle attività erano infatti svolte senza che lui ne fosse al corrente e senza la sua partecipazione.
75Il Comitato aveva pubblicato alcune statistiche sul numero di ebrei che erano stati insigniti del titolo di Eroe dell’Unione Sovietica.14 Secondo loro, la percentuale di Eroi tra gli ebrei sovietici era più alta che tra le altre nazionalità sovietiche, ma scrivere di queste figure era un crimine. Dopotutto, l’Unione Sovietica si vantava dell’uguaglianza tra tutte le nazionalità.
76Forse qualcuno aveva detto qualcosa a Zuskin, il quale però non sapeva nulla circa la raccolta di questi dati. Il Comitato consegnò il Libro nero15 affinché fosse approvato da chi prendeva le decisioni. Era un libro scritto in russo da diversi autori, tra essi vi erano membri del Comitato Antifascista Ebraico e persone che vi avevano lavorato, conteneva una descrizione della Shoah che aveva riguardato gli ebrei durante la guerra nei territori sovietici occupati dai nazisti. La pubblicazione del libro fu immediatamente vietata, con la motivazione che le sofferenze vissute sotto l’occupazione nazista dovevano essere presentata in modo paritario per tutte le nazioni.
77Zuskin aveva presenziato a una sola riunione del consiglio del Comitato durante la quale si era discusso del Libro nero ma non lo aveva mai letto.
78Alla fine della guerra e dopo, il Comitato Antifascista Ebraico aveva iniziato a ricevere innumerevoli richieste da parte di ebrei, i suoi membri cercavano di gestirle. Quelle provenienti da persone del popolo si riferivano alle difficoltà che incontravano nel tentativo di essere ammessi alle università o di ottenere un lavoro o una casa. Prima di tutti c’era il problema degli alloggi. Nel 1944, la direzione del Comitato aveva mandato una lettera alle autorità sovietiche con la proposta di creare una repubblica sovietica ebraica autonoma in Crimea.
79Nella lettera spiegavano che dopo la Shoah era chiaro che gli ebrei sovietici avessero bisogno di un loro territorio, che già negli anni Venti e Trenta i kolkhoz in Crimea avevano operato con successo, mentre ciò non era successo con la Regione Ebraica Autonoma del Birobidžan, lontana dal centro del paese.
80A chiunque si intenda anche soltanto un poco della realtà sovietica risulterà chiaro che soltanto le autorità sovietiche potevano mettere in testa ai membri del Comitato l’idea di scrivere una lettera del genere. Nonostante tutto, i membri del Comitato speravano che fosse possibile prendersi cura delle persone che avevano perso la propria casa durante la guerra, mentre nella mente dei carnefici sovietici, il contenuto della lettera sarebbe stato invece trasformato nel cosiddetto «Progetto Crimea», il cui obiettivo sarebbe stato scorporare la penisola della Crimea all’Unione Sovietica. «Soltanto qui [in prigione], scopro che la questione della Crimea era un problema del gennaio 1944»,16 avrebbe affermato Zuskin durante il processo.
81Zuskin non partecipò agli eventi legati al nuovo Stato di Israele per motivi personali.
82Il 16 settembre 1948, quando l’ospite d’onore, Golda Meir, il primo Ministro Plenipotenziario, capo della missione diplomatica dello Stato di Israele in Unione Sovietica, accompagnata dai membri della missione, fece la propria comparsa al Goset, accolta dagli applausi entusiasti degli attori e del pubblico, Zuskin era ricoverato in ospedale. La notte tra il 14 e il 15 settembre 1948 aveva subito un intervento chirurgico. In seguito fu in convalescenza presso una casa di riposo perdendosi un altro evento: un ricevimento durante il quale Golda Meir incontrò molti personaggi del potere sovietico insieme a numerose personalità di spicco tra gli ebrei sovietici. Zuskin non poté neanche partecipare alle funzioni che si tennero presso la sinagoga di Mosca il 3 ottobre 1948, alla vigilia di Rosh Hashanah, e il 13 ottobre 1948, in occasione di Yom Kippur, data in cui circa cinquemila ebrei salutarono entusiasticamente Golda e i diplomatici israeliani.
83Questi eventi elettrizzavano la mia tranquilla e serafica zia Emma. Un giorno d’autunno del 1948, mi invitò a fare una passeggiata con lei. Arrivammo lontano da casa e svoltammo in una strada: «Guarda dritto a sinistra», mi disse con una eccitazione di cui non sapevo fosse capace. Dall’altra parte della strada vidi una strana bandiera svolazzare sopra l’ingresso di un palazzo: «È la bandiera dello Stato di Israele, questo edificio è la sede della missione diplomatica israeliana». Quando arrivammo davanti a casa sentii mia madre aprire la porta al quarto piano e gridai a piena voce: «Mamma! Ho appena visto la bandiera dello Stato di Israele!». Mia madre rimproverò la sorella e mi disse che non dovevo parlare con nessuno di ciò che avevo visto. Tutti possono capirlo, l’emozione più forte in quei giorni era la paura.
84Quando, dopo l’intervento e la convalescenza, Zuskin tornò in teatro, era troppo impegnato per trovare il tempo di partecipare alle riunioni nel corso delle quali il Comitato discuteva dello Stato di Israele.
85Questo per dire che gli ebrei sovietici trattarono la fondazione dello Stato di Israele in modo imprevisto, sorprendendo anche loro stessi, ma soprattutto lasciando senza parole le autorità. Migliaia di ebrei espressero il desidero di partecipare alla Guerra di Indipendenza scoppiata in Medio Oriente subito dopo la proclamazione dello Stato di Israele. Questi ebrei contattavano il Comitato Antifascista Ebraico, che per loro rappresentava la leadership della comunità ebraica sovietica, non avendo familiarità con la gerarchia ufficiale. Ciò accadeva nonostante questa leadership non fosse stata formalmente autorizzata a svolgere il ruolo di guida e ufficialmente non esisteva alcuna comunità ebraica. Nelle lettere si leggeva: «Il Comitato Antifascista Ebraico e il comitato editoriale di Eynikayt sono gli unici rappresentanti della popolazione ebraica in Unione Sovietica».17 Questi ebrei non avevano ancora imparato la lezione degli ultimi trent’anni di governo sovietico, nonostante le purghe e le persecuzioni. Credevano nel Partito Comunista, nel governo Sovietico e nel compagno Stalin; firmavano infatti le lettere con il nome completo e scrivevano il proprio indirizzo e luogo di lavoro. (Non ci si deve stupire quindi della scomparsa di molti di loro). Ecco alcuni estratti di queste missive: «Sono orgoglioso che noi ebrei siamo diventati una nazione al pari di tutte le altre […] Agli ebrei sovietici dovrebbe essere permesso di recarsi in Palestina per arruolarsi nell’esercito […] Per quanto tempo il Comitato Antifascista Ebraico continuerà a non fare nulla in proposito?».18 Il Comitato respingeva tali manifestazioni e in ogni occasione ribadiva che per gli ebrei sovietici l’unica madrepatria era l’Unione Sovietica.
86Insomma, Zuskin si teneva al di fuori delle attività del Comitato, ma la pena che dovette scontare non ne tenne conto in alcun modo.
Braccato (continuazione)
87«Per ora, nessuno deve essere arrestato», in questa frase della decisione del Politburo le parole più importanti sono “per ora”. Potevano, “per ora”, parlare educatamente con Zuskin in una casetta carina dal giardino fiorito nella quale aveva sede una delle sezioni del Ministero per la Sicurezza dello Stato, anche se non vi era alcun segno che indicasse ciò, oppure nel teatro vuoto nelle ore libere. “Per ora” potevano seguire Zuskin per strada, avvicinarglisi e stargli con il fiato sul collo, fare squillare il suo telefono con chiamate anonime che restavano in silenzio, mandargli lettere anonime di minacce. La paura diffusa da costoro era più forte di quella che incutono al viaggiatore solitario i lupi che ululano nella foresta di notte.
88Zuskin era braccato ma non cedeva, lottava. Quando appariva in teatro e incontrava gli attori preoccupati, tormentati dall’incertezza se le prove si sarebbero fatte oppure no, tutti si rivolgevano a lui, come se nella sua borsa ci fosse una bacchetta magica capace di ridare loro speranza. Stava in piedi di fronte a loro come se, esausto dopo una notte insonne, potesse sentire ciò che provavano. Chi altro sapeva sentire il pubblico come Zuskin? Per la prima volta nella vita non era del tutto sincero quando metteva in scena la sincerità richiesta dal proprio ruolo. E gli attori, anch’essi esperti di finzione, iniziarono a credere sinceramente alla sua messa in scena: «Perché ve ne state lì come manichini? Al lavoro! Iniziate a provare!», si mettevano a ridere e ognuno prendeva il proprio posto. Qualcuno tra loro sapeva quali demoni stessero minacciando Zuskin, la cui anima era attanagliata dall’angoscia e dalla paura?
89Eda sapeva. Quando Zusa vedeva comprensione da parte della moglie o un suo sguardo ansioso, gli sembrava di dover assumere l’aria di chi fosse convinto che tutto sarebbe passato. La notte fingeva di dormire e pensava ingenuamente di poter nascondere a Eda l’insonnia che dalla morte di Michoels lo affliggeva. Non le raccontava delle educate conversazioni che avevano luogo nella casetta con giardino e nel teatro vuoto, non condivideva con lei le esperienze con coloro che gli stavano con il fiato sul collo, le telefonate e le lettere anonime. Perché aprire un’altra stanza degli orrori, perché aggiungere altra paura alla sua paura?
90Zuskin la preda sperava di confidarsi con qualcuno, ma con chi? Con gli amici? Era chiaro che non vi fosse casa in cui ci si potesse sentire al sicuro da chi origliava alle porte, forse si poteva smettere di fingere almeno restando in silenzio. Fuggì da Yekhezekel Dobrušin, il suo amico più caro. Lì incontrò Josef Kerler. Dobrušin e Kerler non erano membri del Consiglio del Comitato Antifascista Ebraico ma erano attivi presso le istituzioni del Comitato. Il problema quindi li riguardava tutti. Parlarono senza parlare, restavano più tempo in silenzio di quanto ne trascorressero a parlare.
91Nelle memorie di Josef Kerler si legge: «Accompagnai Zuskin a casa […] “Se solo sapessi, Kerler, quanto sia difficile per me! Perché Michoels è dovuto andare in quella maledetta Minsk? Oy! Che cosa ci ha fatto!” Dopo il funerale di Michoels avevamo di fronte un altro Zuskin. Era stato un grande attore ebreo, baciato dalla fortuna, amato da tutti, dagli amici del teatro, dal pubblico e dai critici. Ora vedevo un altro Zuskin, aveva perduto il passo agile ed elegante, camminava con pesantezza trascinando i piedi… “Se solo sapessi, Kerler… sono malato, molto malato”».19 Kerler sentì che Zuskin voleva dirgli qualcosa, togliersi un peso, ma tacque.
A passeggio per i viali
92La casa in cui vivevamo si trovava su via Tverskoj. Per raggiungere il teatro da casa nostra si attraversava il viale e camminando verso destra si raggiungevano la Scuola di Recitazione oppure la Casa dell’Attore di Mosca, andando a sinistra si arrivava al Comitato Antifascista Ebraico.
93Mio padre aveva l’abitudine di camminare avanti e indietro quando voleva rilassarsi o prendere una decisione. Inoltre, via Tverskoj era un luogo, come pochi altri, dove io e lui ci sentivamo in intimità tra di noi. Dopo che Zuskin ebbe perso Michoels e preso il suo posto a capo del teatro, non passeggiava quasi più lungo il viale. Di tanto in tanto, la sera tardi, nel tentativo di vincere l’insonnia, faceva ancora qualche passeggiata.
94Una sera, dopo che ebbe lasciato il teatro al termine di un spettacolo, gli si avvicinò un uomo vestito con abiti in stile europeo. Venne fuori che stava aspettando proprio lui. Si presentò e aggiunse di essere un medico, di vivere e lavorare in Polonia, a Varsavia, e di essere lì per lavoro: «Le porto i saluti di Tamara. Lavora con me, siamo nello stesso ospedale». Con sguardo attento, Zuskin sondò i dintorni senza notare alcunché di sospetto, si calmò un po’ e offerse all’uomo che veniva dal paese straniero di passeggiare con lui, lungo via Tverskoj ovviamente. Non ebbe il coraggio di invitarlo ad accompagnarlo a casa, era pur sempre un messaggero della figlia che aveva lo status di straniera. Dovunque intorno a casa sua giravano informatori della polizia segreta.
95Non ebbe neanche il coraggio di camminare allo scoperto in compagnia della nuova conoscenza: «Per favore mi segua», suggerì all’ospite, «poi ci daremo il cambio». L’uomo camminava dietro di lui e gli raccontava di Tamara, alla quale era perfino vietato scrivere. «Che cosa dovrei dire a sua figlia?», accelerò il passo e passò a camminare davanti a Zuskin; quest’ultimo spostò lo sguardo lungo il viale a lui famigliare, si avvicinò all’uomo in modo da non lasciare spazio tra loro e gli bisbigliò in yiddish: «Le dica che mi brucia la terra sotto i piedi».
Braccato (fine)
96I lupi erano ormai vicini, potevano quasi toccarlo. Il loro latrato non si interrompeva mai, non lo lasciava dormire la notte. I loro occhi luccicavano nel buio.
97Continuava a recarsi in teatro, ad andare in scena, a dirigere prove e a fare progetti. Dopotutto doveva mettere insieme un repertorio, cosa essenziale, poiché dopo che le istituzioni che utilizzavano la lingua yiddish – il giornale, la casa editrice, la divisione per le trasmissioni radiofoniche – erano state chiuse, tutto ciò che restava della cultura ebraica ruotava intorno al Goset.
98Il suo enorme sforzo non fu sufficiente ad allontanare i lupi.
99Il Comitato per gli Affari Artistici mandò il Goset in tournée a Leningrado. Una tournée! Ancora, e nel momento più inopportuno. Per la situazione economica del teatro era un’impresa davvero rischiosa. Inoltre erano trascorsi soltanto quattro mesi da quando il pubblico di Leningrado aveva visto gli spettacoli del Goset l’ultima volta. Era inverno, periodo dell’anno in cui i teatri di Leningrado non lasciavano la città lasciando libera la piazza al Goset.
100Per la tournée, Zuskin scelse spettacoli in cui non aveva ruoli, tutte produzioni in cui non aveva un personaggio o in cui altri attori potevano sostituirlo. Prima della tournée aveva sistemato varie scene, in particolare quelle in cui recitavano i suoi sostituti. Arrivava al mattino alle prove quasi incosciente, ma nella sala prove la sua voce risuonava come sempre; quale spirito lo faceva andare avanti? Il suo umore era evidente per tutti, il calore che irradiava confondeva gli attori inducendoli a credere anche solo per un momento e contro tutte le evidenze, che quello fosse lo Zuskin che tutti conoscevano.
101Perché Zuskin investiva così tante energie nel lavoro con i propri sostituti? Non aveva più intenzione di andare in scena? Proprio adesso, quando la sua comparsa in scena avrebbe potuto offrire un barlume di speranza rispetto alla possibilità che la situazione del teatro potesse ancora migliorare? Era vero; aveva deciso di non andare in scena a Leningrado, aveva persino previsto di non andare a Leningrado. Come poteva essere? «Sono malato, molto malato».
102Dal 1938, quando mio padre si era ripreso dall’esaurimento nervoso e dall’insonnia, aveva fatto regolarmente visite di controllo. In quanto insignito del titolo di Artista delle Repubbliche Russa e Uzbeca, aveva diritto a ricevere cure presso i migliori istituti di Mosca. Nel 1948 però, nessuno degli illustri medici di questi istituti riuscì a curare l’insonnia che lo tormentava. Consultò il Professor Aleksandr Vyšnevskij, il chirurgo che aveva inventato una tecnica speciale per l’anestesia locale. Durante la Seconda Guerra Mondiale, nell’ospedale diretto da Vyšnevskij era stato creato un reparto per il monitoraggio degli effetti di questa tecnica su coloro che avevano subito un intervento. Dopo la guerra, il reparto ammise altri pazienti che necessitavano di cure che comportavano vari tipi di anestesia e Vyšnevskij mise Zuskin in contatto con i propri collaboratori.
103I medici promisero a Zuskin che il sonno artificiale lo avrebbe significativamente aiutato: lo avrebbe calmato, liberato dall’ansia e riportato alla vita. Si rendeva conto che la medicina non poteva fare granché per risolvere la situazione in cui si trovava, ma si affidò lo stesso ai dottori e, riluttante, accettò di essere ricoverato.
104Tutto ciò è comprensibile. Eppure, perché proprio a quel punto? E perché tale urgenza, prima di una tournée così importante per il teatro da poterne anche decidere la sorte? In fondo non si trattava di un’appendice infiammata che deve essere operata immediatamente per evitare complicazioni. Gli fecero tutti pressione affinché posticipasse il ricovero di almeno due settimane, ma aveva già deciso.
105Gli amministratori del Goset vennero persino a casa per tentare di convincerlo ad andare a Leningrado. Stavano facendo ricorso a tutto un repertorio di ragioni quando improvvisamente lui si alzò dicendo: «Scusate, mi sono dimenticato di dire una cosa a Tala Michoels, che sta andando via», fece la rampa di scale di corsa e andò a suonare il campanello di Tala. La figlia di Michoels riferisce di questa visita imprevista nel proprio libro: «Zuskin entrò e chiese a tutti di lasciargli la stanza in cui c’era il telefono. Meno di due minuti dopo aveva già terminato la misteriosa telefonata e, senza dire niente a nessuno, tornò nel suo appartamento. Da quel momento in poi, aveva il terrore negli occhi, segno che in quei giorni terribili avevamo imparato a riconoscere nello sguardo di coloro che erano ormai condannati».20 Zuskin tornò nel proprio appartamento e gli ospiti continuarono con i loro tentativi di persuasione. Lì fermò con un «No» deciso e loro se ne andarono così come erano venuti.
106È una ipotesi diffusa quella secondo la quale al Ministero per la Sicurezza dello Stato mio papà sarebbe stato costretto a firmare un documento in cui si impegnava a non lasciare Mosca e in cui si dichiarava che gli era proibito parlare con chiunque di tale divieto. Quattro anni più tardi mia madre e io fummo costrette a firmare un documento simile prima di essere esiliate da Mosca,21 quindi anche io tendo a pensarla così. Se ciò fosse vero, sarebbe plausibile che la telefonata che mio padre fece all’ultimo, fosse un disperato tentativo di chiedere un’eccezione. È altamente probabile che avesse firmato un documento, ma non ve ne è alcuna prova.
107Nei giorni precedenti la partenza del Goset per la tournée, Zuskin cercò di comportarsi come sempre, riuscì quasi a convincersi che l’unica ragione per cui era stato irremovibile rispetto alla decisione di restare erano alcuni problemi di salute passeggeri. Purtroppo non si trattava di problemi di salute e in ogni caso non erano passeggeri.
Arrestato
108Il 5 dicembre, gli attori del Goset, mia madre compresa, lasciarono Mosca e andarono in tournée a Leningrado. Per i miei genitori era difficile separarsi ma in questo caso era inevitabile. A causa dei licenziamenti in teatro, non vi erano sostituti per i ruoli di mia madre. Il 19 dicembre, alla vigilia del suo ricovero in ospedale, mio padre consegnò una lettera a uno degli attori che aveva tardato a lasciare Mosca per Leningrado.
109Era mattina presto del 20 dicembre 1948 quando vidi mio padre per l’ultima volta.
110Ero a casa. Sentivo che nella stanza vicina mio padre stava preparando le cose che gli sarebbero servite in ospedale, poi, con addosso il cappotto e due pacchi in mano, era apparso nella camera dove stavo io. Posò i pacchi, uno più grande e uno più piccolo, sulla credenza accanto alla porta, e venne verso di me. Ci baciammo e ci salutammo, uscì dalla stanza. In mancanza di qualcos’altro da fare, controllai la stanza: «Cosa? Che cos’è?», vidi sulla credenza l’involucro più piccolo, probabilmente conteneva le pantofole: «Papà le ha dimenticate!».
111Sono cresciuta in una casa di attori, e gli attori sono superstiziosi. Se devi rientrare a metà di un viaggio, il tuo viaggio sarà un fallimento. «Non tornare!», lo pregai tra me e me. La porta d’ingresso si aprì, era tornato indietro. Fui presa dal panico. Mi baciò un’altra volta, prese il sacchetto con le pantofole e uscì.
112Ancora un oggetto inanimato e ancora una volta le pantofole!
113Mio padre uscì e non tornò più. Allora non potevo saperlo, ma il panico non mi abbandonava; corsi alla finestra. Per raggiungere la strada dal nostro appartamento bisognava attraversare un cortile. Nella penombra della mattina presto, alla luce di un lampione, vidi mio padre fluttuare. Aveva fretta, era un uomo educato, non voleva far aspettare l’autista del taxi.
114Un pensiero mi colse: sulla scena fluttuava allo stesso modo in Freylekhs.
115Giaceva nel suo letto d’ospedale, tra lenzuola bianche inamidate. Si prendevano cura di lui, era calmo, per la prima volta dopo quasi un anno un sorriso felice gli illuminava il volto. Dormiva il sonno dei giusti e sognava.
116Nel bel mezzo della notte tra il 23 e il 24 dicembre 1948, a Leningrado, a casa del dottor Horatsi Shapiro, gli ospiti sedevano intorno a un tavolo. Erano arrivati intorno alla mezzanotte, dopo avere visto lo spettacolo La vigilia della festa messo in scena dal Teatro Ebraico di Stato di Mosca, una delle sue rappresentazioni in città. L’ospite d’onore era l’attrice che interpretava il ruolo principale, Eda Berkovskaja, mia madre. Non era soltanto la moglie del famoso Zuskin, ma anche amica d’infanzia dell’ospite. Come mia madre, il dottor Shapiro era cresciuto a Minsk e aveva studiato con suo fratello Josif. Era diventato un membro della famiglia Berkovskaja.
117Eda non voleva partecipare alla serata di festa, ma la moglie del dottor Shapiro l’aveva convinta. A Eda faceva piacere stare in questo ambiente di attenzione e di calore umano. Improvvisamente si sentì stanca: «Ho un brutto aspetto», pensò, ed estrasse il portacipria dalla borsa per guardarsi nello specchio. Lo specchio che aveva funzionato per tanti anni era rotto. Sentì una fitta al cuore. Dopotutto era un’attrice, gli attori sono superstiziosi, uno specchio rotto senza ragione è una pessima notizia. Il portacipria non era caduto, ne era sicura. Guardò l’orologio e disse ai suoi ospiti che doveva andare. Le chiamarono un taxi.
118Nel bel mezzo della notte tra il 23 e il 24 dicembre 1948, nel momento in cui mia madre si accorse della rottura dello specchio – più avanti avremmo confrontato i tempi – qualcuno aveva suonato il campanello del nostro appartamento a Mosca. Nel sonno sentii il suono del campanello. Che cosa poteva essere? Il letto di mia zia Emma, che sarebbe stata con me fino al ritorno di mia madre, era vuoto. Il campanello suonò ancora. Attraverso le pareti potevo sentire Sonia tossire e la voce di Emma nell’ingresso: «Chi è?», «Apra!», disse la voce autoritaria di un uomo. Dopo essermi vestita di corsa, andai nell’ingresso.
119Quando Emma aprì la porta entrarono in casa tre uomini. Due di loro indossavano l’uniforme del ministero per la Sicurezza dello Stato, il terzo era Michail Vašukov, il custode dell’edificio in cui abitavamo. Più tardi avremmo scoperto che lo avevano assoldato come una sorta di testimone. Uno degli ufficiali, quello che sembrava il più anziano dei due mostrò a Emma un foglio di carta e le chiese qualcosa sottovoce, lei gli rispose sussurrando. Non riuscii a capire che cosa si fossero detti perché non ebbi il coraggio di avvicinarmi. Mi resi conto che parlavano di mio padre solamente quando l’ufficiale al telefono disse: «Non è qui. È in ospedale». Silenzio. Era chiaro che l’altro ufficiale stesse aspettando una risposta. Mi avvicinai: «Quale ospedale?»; «L’Istituto di Chirurgia dell’Accademia di Scienza Mediche»; disse poi qualcos’altro nella cornetta e la rimise al suo posto. Chiamò l’altro ufficiale e gli diede un ordine. Quest’ultimo scomparve. Alcuni minuti dopo comparve un altro ufficiale, sull’uniforme aveva mostrine simili a quelli dell’alto ufficiale.
120Gli ospiti indesiderati iniziarono a perquisire la casa. Il primo dei due ufficiali estrasse vari oggetti da diversi mobili mentre l’altro li catalogava e stilava elenchi. Quest’ultimo mi sembrava più importante o dotato di poteri particolari. Dopo un po’ il più giovane rientrò e si unì alla perquisizione. I tre lavoravano con metodo ed efficienza; si rivolgevano a noi soltanto per chiedere: «Che cos’è? Dov’è? Come si apre questo?».
121Anche se non potevo parlare con mia zia, riuscii ad avvicinarmi e a chiederle senza che se ne accorgessero: «Tutto questo è per il Comitato Antifascista Ebraico?», non mi venne in mente che tutto ciò fosse legato direttamente a mio padre. «Non lo so. Io non so niente», mi rispose nervosamente la zia. Silenzio. Improvvisamente sentii un grido da parte dell’ufficiale più giovane: «Valuta straniera!». I due più anziani lo raggiunsero correndo. Quello che aveva gridato era in camera da letto in piedi su una sedia davanti a una finestra e teneva in mano l’asta a cui era appesa la tenda. L’asta era una sorta di tubo in metallo chiuso alle estremità da tappi di legno. Sapevo che uno dei tappi era troppo piccolo, perciò era avvolto in carta di giornale, all’ufficiale erano sembrate banconote straniere. I tre cercarono di estrarre la carta senza riuscirci, quando alla fine riuscirono, si resero conto dell’errore. Che imbarazzo! Pensai che avrebbero dovuto attendere ancora a lungo prima di ricevere una promozione.
122Dopo avere svuotato tutti gli armadi e i cassetti e fatto l’elenco di tutto il contenuto, passarono a esaminare i quaderni, i libri mastri, le lettere e ogni altro pezzo di carta seguendo un sistema noto soltanto al secondo alto ufficiale. Iniziai lentamente a capire il principio. Da tutti i giornali, per esempio, estraevano le pagine che titolavano “Il Comitato Antifascista Ebraico. Materiale informativo. Solo per uso interno” e le archiviavano con grande cura. Poi fu il momento dei libri; la catalogazione dei libri fu più faticosa, ma i nostri distinti ospiti affrontarono il lavoro con grande professionalità. Si organizzarono in una catena di montaggio: il più giovane li prendeva dagli scaffali partendo dall’alto e li passava al primo ufficiale più anziano che teneva ogni libro per la rilegatura, lo scuoteva, gli dava qualche colpetto e controllava le annotazioni e le dediche scritte a mano. Poi il secondo alto ufficiale guardava il nome dell’autore e classificava i libri secondo un certo criterio, apparentemente secondo il livello di pericolosità rappresentato dall’autore per la sicurezza del popolo sovietico. Alla pila di libri degli autori più pericolosi furono aggiunti quelli degli scrittori sconosciuti, ai nostri ospiti almeno, insieme ai libri che riportavano dediche e appunti a mano.
123Quando arrivarono ai libri in yiddish dovettero infrangere la barriera che ci separava e chiedere la collaborazione di mia zia Emma come traduttrice.
124Fecero ricorso all’aiuto di Emma anche per classificare i mobili, i piatti, gli utensili da cucina e simili. In sua presenza posarono sul tavolo due lenzuola e due federe, due asciugamani, quattro fazzoletti, un caldo maglione di mio padre, tre paia di suoi calzini, due saponette e alcune banconote, centocinquanta rubli. Elencarono tutto ciò che avevano messo sul tavolo su un piccolo quadernetto. Il significato della raccolta e dell’elenco di questi oggetti non mi era ancora chiaro, dopotutto non sapevo ancora che mio padre era stato arrestato. Più tardi avrei capito che si trattava della confisca dei suoi effetti personali e che avrebbe potuto disporne in prigione.
125La perquisizione durò tutta la notte e il giorno seguente, fino a sera.
126A mia zia Emma non fu permesso di andare a lavorare e a me fu vietato di andare a scuola. Ci proibirono di rispondere al telefono. L’altra mia zia, Lisa, terrorizzata dal nostro silenzio telefonico, decise di venire a casa. La fecero entrare ma le vietarono di andare a lavorare e di avvisare telefonicamente per la propria assenza. Il nostro appartamento si riempì gradualmente di persone. Il processo che si verificò fu il contrario di ciò che accade in Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, in cui i personaggi scompaiono uno alla volta. Nel giallo vengono commessi diversi omicidi, ma l’atmosfera che regnava nel nostro appartamento era ben più inquietante. Dopo Lisa arrivò Clara Mirkin, la mia insegnante di pianoforte. La lezione fu cancellata ovviamente, ma lei fu costretta a restare. In quei momenti, negli uffici dell’amministrazione del teatro si resero conto che Zuskin aveva con sé un documento che a loro serviva e diedero per scontato che fosse a casa. Così arrivò anche uno degli impiegati, seguito dal sostituto del direttore, arrabbiato perché costui non era ancora tornato in teatro e per la nostra mancata risposta al telefono. La carovana si concluse con l’arrivo del coordinatore della compagnia.
127La perquisizione e l’interrogatorio di tutti i presenti ebbero fine. Gli ufficiali chiusero la porta della stanza grande con due sigilli in cera e la porta della biblioteca nella nicchia del muro del corridoio con un sigillo. Sotto le tre copie dei sigilli rimase la prova che mio padre era un artista e un uomo, i suoi appunti relativi al lavoro teatrale e ai suoi ruoli. Restavano circa cinquecento libri e oggetti che permettevano di chiamare «casa» il proprio indirizzo di residenza: cuscini, divano, tende, lampade.
128Prima che coloro che avevano effettuato la perquisizione se ne andassero, furono così scrupolosi da fornire alle zie Emma e Lisa e alla mia insegnante di pianoforte, certificati medici da portare nei rispettivi luoghi di lavoro, io ne ottenni uno simile per la scuola.
129Nel bel mezzo della notte tra il 23 e il 24 dicembre 1948, nell’ingresso dell’Istituto di Chirurgia dell’Accademia di Scienze Mediche, comparvero due ufficiali con l’uniforme del Ministero per la Sicurezza dello Stato chiedendo di essere accompagnati dal medico di turno.
130Sarebbero passati anni prima che io e mia madre venissimo a conoscenza di ciò che accadde quella notte. Per la precisione, sarebbero passati otto anni. Una sera, mentre studiavo, mi accorsi che mi mancava un quaderno. Mi ricordai di un ragazzo che si era seduto di fianco a me in aula magna, si chiamava Slava Tsuckerman, pensai che avesse preso il mio quaderno per sbaglio. Gli telefonai, mi rispose il padre. Disse che Slava non era in casa e di lasciargli un messaggio. Gli dissi il mio nome e spiegai la questione.
131Il giorno seguente arrivai a lezione in ritardo, come sempre, l’aula magna era piena. Slava però si era accorto del mio arrivo e poiché il professore non era ancora arrivato, venne verso di me e disse con grande emozione: «Chi è tuo padre? Era un attore del teatro yiddish?», gli risposi affermativamente e Slava continuò: «Vivi con tua madre?», «Sì», «Bene, allora voi due dovete venire a casa nostra questa sera. Mio padre ha alcune cose importanti da dirvi».
132Quella sera andammo a trovare la famiglia Tsuckerman. Il padre di Slava, medico di professione, ci disse che nel 1948 lavorava come chirurgo presso l’Istituto di Chirurgia dell’Accademia di Scienze Mediche e che la notte tra il 23 e il 24 dicembre era di turno come responsabile dell’intera struttura. Conosceva l’attore Zuskin ma non come paziente, Zuskin era ricoverato in un reparto diverso dal suo. Gli fecero leggere il mandato d’arresto, lui disse di avere ricevuto istruzioni di non disturbare il sonno del paziente Zuskin per alcuna ragione. I visitatori si limitarono a spostare il dottor Tsuckerman ed entrarono nella camera in cui Zuskin giaceva in un sonno profondo, lo avvolsero in un lenzuolo, lo portarono fuori dall’ospedale, lo caricarono su un’auto e lo condussero in carcere. Come si fa a non ricordare le parole di Dante Alighieri: «E vegno in parte ove non è che luca» (Purgatorio, v. 151). I poeti! Dante aveva davvero visto che niente è luce nel suo inferno? Un inferno in cui i malati erano portati via dai letti degli ospedali e trasportati direttamente in cella senza neanche potersi svegliare per protestare e parlare. Lo scrittore Felix Kandel si riferisce al risveglio di Zuskin con queste parole: «Che facce da maiale lo circondavano? Dov’è Goya per descrivere i suoi dolci sogni e il suo duro risveglio in una realtà terrificante? Dov’è Kafka per descrivere il terrore della sua mente sconvolta?».22
133Dante. Goya. Kafka. Dilettanti.
134Aleksandr Solženicyn, insuperabile esperto di inferno – non di quello dantesco – definisce l’arresto con queste parole: «L’arresto […] è uno shock che la mente non assorbe […] È la transizione più brusca, un salto, una spinta da una situazione a un’altra […] L’arrestato è strappato al tepore del proprio letto, è debole, la mente è annebbiata […] la routine degli arresti».23 E qui io parlo di un arresto non di routine! Decine di migliaia di persone hanno subito arresti, non ho però mai sentito di un arresto simile a quello di mio padre.
135Il 31 dicembre 1948, nel tardo pomeriggio, il teatro rientrò da Leningrado. Lisa e io andammo a prendere mia madre alla stazione. «Lisa – le dissi – non dire a mia madre della perquisizione. Glielo dico io». Ma Lisa, che cedeva sempre alle mie richieste, questa volta fu inamovibile. Non capii perché fosse stata così testarda. Arrivammo al binario. Le famiglie degli attori vi si erano già riunite. La maggior parte di loro conosceva me e Lisa, ma con mia grande sorpresa, evitarono di venirci incontro. Il treno arrivò. Ecco la mamma. Lisa chiamò un portantino, che prese la valigia della mamma e si avviò verso la stazione dei taxi. Lisa e mia madre lo seguirono, io dietro di loro. Lisa continuava a parlare. Non sentivo ciò che diceva ma sapevo di che cosa stava parlando. Mia madre taceva. Improvvisamente, di colpo, si immobilizzò. Le corsi incontro. Sul suo volto c’era la disperazione, una disperazione così terribile che non si può immaginare niente di peggio. Cercai di confortarla: «Mamma, non ti agitare. È vero, c’è stata una perquisizione. Hanno chiuso una delle nostre stanze, ma la cosa più importante è che papà si sta riprendendo».
136In casa mia madre vide i sigilli. Lisa ci convinse ad andare con lei nell’appartamento in cui viveva con mia zia Emma e la nonna. Quest’ultima ci attendeva con un pranzo in onore del nuovo anno, il 1949.
137Il giorno seguente, a casa, mia madre mi disse la verità.
Figura chiave
138Nella realtà irreale che descrivo si sentivano palpabilmente la paura, gli arresti, le esecuzioni, era però del tutto impensabile chiedere perché. Con ciò, specialmente riguardo a mio padre e agli altri processati all’interno dello stesso caso giudiziario, la risposta data a questa domanda: «Sono stati processati in quanto membri del Comitato Antifascista Ebraico»,24 appariva sbrigativa e inequivocabile. Apparentemente, erano accusati di qualcosa di concreto: erano membri di una organizzazione che secondo la definizione degli inquirenti e della corte svolgeva attività antisovietica. Uno sguardo più attento al cuore della questione rivela però una sfaccettatura diversa: «All’interno del Comitato Antifascista Ebraico […] le espressioni ebraiche di orgoglio nazionale erano le più rappresentate pubblicamente».25 Interpretare sentimenti di orgoglio come attività ostile? «Fin quando l’espressione dell’identità nazionale era rimasta in scena in lingua yiddish, era stata raramente notata e aveva provocato ben poca opposizione ufficiale. Nel momento in cui questi sentimenti furono portati fuori dalla scena, nella sfera pubblica, non poterono più essere ignorati».26
139Michoels operava in settori che toccavano tutto il pubblico sovietico e lo faceva con la massima efficienza, nel caso del Comitato tutte le più grandi responsabilità furono infatti attribuite a Michoels, anche dopo la sua morte. L’accusa preferì accettare la versione secondo la quale Michoels era colpevole di tutto e al processo si documentarono i rapporti che aveva avuto con gli imputati. «Giunse l’ordine di arrestare le due figure chiave del Comitato Antifascista Ebraico, Fefer e Zuskin, i due successori di Michoels al Comitato e al Teatro Ebraico […] Il Ministero per la Sicurezza dello Stato sperava di usarli per ottenere […] materiale compromettente sul defunto Michoels».27
140All’interno del Comitato Antifascista Ebraico, il ruolo di Zuskin era stato sempre marginale. Lui stesso dichiarò: «Quando sono entrato al Comitato per me era un di più», mentre nel processo istruito contro il Comitato era, secondo quel piano demoniaco, una figura chiave. Un paradosso? Tutt’altro.
141Considerato l’accusato principale, anche se non era più in vita, Michoels era stato il presidente del Comitato Antifascista Ebraico. Era possibile venire a sapere delle sue attività dal suo vice, Fefer, ragione per cui costui fu arrestato come uno dei due principali sospettati. Verificare con Fefer questo o quell’altro fatto per poi distorcerlo era questione di routine; non era però abbastanza per mettere insieme un processo.
142Il caso giudiziario sarebbe stato montato a dovere soltanto a condizione di infangare il nome dell’accusato principale. Perché a questo proposito non utilizzare l’attore drogato dall’anestesia? Fu così che la stessa notte arrestarono Zuskin e Fefer.
143Durante gli undici mesi e undici giorni che separano l’omicidio di Michoels dall’arresto di Zuskin, quest’ultimo fu sottoposto a tormenti inimmaginabili. Lungo tutto questo periodo, nonostante non avesse mai smesso di essere in lutto per la morte di Michoels, Zuskin fu incapace di eliminare dalla propria mente il pensiero costante che in precedenza, in tempi normali, sopraggiungeva soltanto di rado. Nella sua immaginazione creativa, Michoels era come incoronato da un’aura di luce abbagliante, che aveva il potere di restituire la vibrazione vitale e la gioia della creazione, Vovsi invece era avvolto da una tetra oscurità.
144Quando Zuskin si risvegliò in cella, gli inquirenti lo trivellarono di domande, ancora e ancora, perforarono la sua mente annebbiata e vi impiantarono quattro parole: «Michoels. Nazionalista. Spia. Nemico». Ancora e ancora, durante i tre anni e mezzo di un’inchiesta che fu la più terribile che si possa immaginare. Zuskin, il cui ruolo nel Comitato era stato del tutto marginale, divenne una figura chiave anche a causa di quel «Michoels-Zuskin». Bene, e allora? Dei due, soltanto uno era già stato ucciso? Che problema c’è, la cosa si poteva facilmente sistemare.
Detenuto
145Veniamin Zuskin fu condotto a scontare la detenzione nel carcere del Ministero della Sicurezza dello Stato dell’Unione Sovietica, noto a tutti come “Lubjanka”.28
146Il detenuto Zuskin fu risvegliato dal proprio sonno – meglio non specificare come – e portato di peso presso l’ufficio del carcere per compilare i questionari di routine. Poi fu fotografato e presero le sue impronte digitali. Al termine di questa trafila, mentre si trovava ancora in stato di stordimento, dovette subire un interrogatorio da parte del Tenente Colonnello Rassypninskij, vice capo dell’Unità Investigativa per Casi particolarmente importanti del Ministero per la Sicurezza dello Stato. L’efficiente Rassypninskij non aveva tempo da perdere, doveva sbrigarsi e approfittare del fatto che il detenuto fosse confuso e semiincosciente. Per seguire la procedura, ripeteva alcune delle domande scritte sul questionario che avrebbero dovuto condurre al punto sostanziale. Non stette a interrogarlo, si limitò a dichiarare che il detenuto sotto inchiesta era coinvolto in attività ostili in quanto membro del Comitato Antifascista Ebraico; l’inquirente gli chiese di rilasciare una testimonianza riguardo i crimini commessi. Zuskin negò, non di essere un membro del Comitato, ma respinse l’accusa di avere preso parte ad attività ostili. Non aveva mai neanche avuto il sospetto che tali attività avessero avuto realmente luogo: «Dopo l’omicidio di Michoels, il suo lavoro in teatro è passato a me». Ovvero, era troppo impegnato in teatro per venire a conoscenza di altre questioni.
147C’era del vero in ciò che affermava: «Ciò che la sobrietà nasconde, l’ubriachezza rivela». Questo Zuskin inebetito non era a questo punto come un ubriaco? Prima dell’arresto, se c’era davvero stato un tempo prima, non avrebbe mai osato utilizzare la parola “omicidio”. L’idea era rimasta sepolta nella sua coscienza. Inoltre, non aveva alcuna intenzione di parlare della morte di Michoels. Il termine gli era sfuggito.
148Ma Rassypninskij approfittò della svista, colse l’occasione con soddisfazione: «Si spieghi: Michoels è stato ucciso?»,29 chiese enfatizzando ogni parola, posticipando le domande che intendeva fare su altri argomenti. Zuskin balbettò, biascicò che erano pettegolezzi.
149Mi avevano riferito che mio padre era quasi svenuto accanto alla bara di Michoels. In queste occasioni, come ovunque si trovasse una certa folla, non mancavano gli osservatori, inclusi coloro che notarono con chi stesse parlando Zuskin. Si trattava di con una donna celebre: Polina Žemčužina. Era corsa voce che lei gli avesse chiesto se la ragione della morte di Michoels era stata un incidente d’auto oppure qualcos’altro. Questa conversazione ebbe davvero luogo? Alcune delle domande e delle risposte contenute nei registri degli interrogatori furono citate nel corso del processo.
Imputato (1949)
150Durante l’indagine, Zuskin apprese gradualmente di essere colpevole di tradimento nei confronti della madrepatria, di propaganda antisovietica, di avere preso parte a una organizzazione clandestina e soprattutto di nazionalismo borghese. Fu ritenuto colpevole fin dall’inizio del procedimento giudiziario, ma teoricamente era ancora un sospettato e sarebbe stato ritenuto colpevole soltanto in seguito a un verdetto della corte alla quale fosse stato presentato il caso, sulla base di una indagine e con un verdetto basato sul risultato di quest’ultima. Teoricamente. Nella Prefazione il lettore è stato avvisato che la logica non trova posto in questa vicenda.
151Zuskin ammise di avere preso parte al «movimento nazionalista ebraico clandestino guidato da Solomon Michoels».30 Questo è vero. Quando con Michoels avevano cantato la canzone Che sogno! nei Viaggi di Beniamino Terzo e quando avevano cercato insieme riparo nella foresta nel Re Lear, era stato senza dubbio allora che aveva stabilito un rapporto criminale con Michoels.
152Tornarono diverse volte sulla questione Žemčužina. Perché gli era scappata di bocca la parola “omicidio” o forse perché gli avevano messo in bocca quel nome costringendolo a proferire quella parola in un momento di incoscienza, tra il sonno e la veglia durante il viaggio tra l’ospedale e la “realtà” della prigione?
153Gli interrogatori continuarono, dedicati all’attività ostile del Comitato e del Consiglio, al Progetto Crimea, al giornale yiddish «Eynikayt», al viaggio di Michoels e Fefer in America, agli incontri di Michoels in teatro invece che al Comitato con ebrei che chiedevano disperatamente il suo aiuto, al rapporto Zuskin-Michoels e alla personalità di Michoels.
154Depresso dalla situazione e dal proprio stato mentale, sconvolto dalle accuse scagliate contro di lui, su Michoels pronunciò parole come «era un grande egoista […], amava le frasi altisonanti e la gloria»,31 che non riflettono in alcun modo il suo vero atteggiamento nei confronti di Michoels, ma che forse si annidavano nel profondo del suo cuore.
155Gli interrogatori continuarono, le aree d’interesse degli investigatori erano pressoché sempre le stesse, con qualche variazione di tanto in tanto. Ad esempio la Scuola Ebraica di Recitazione. Rassypninskij comprese istantaneamente che, se vi era stato nazionalismo ebraico, doveva essere stato utilizzato per fomentare e nutrirne i giovani. Se era così, allora «alla Scuola Ebraica di Recitazione si creavano le future riserve per poter mantenere e promuovere il nazionalismo ebraico».32 In verità, c’era una buona ragione per la quale «tra gli investigatori della Lubjanka Rassypninskij era considerato un intellettuale».33 Si faceva strada senza alcuna difficoltà all’interno di qualsiasi argomento.
156Sui «legami sovversivi» di Michoels con alcune persone, Zuskin non sapeva che cosa dire. Di chi? E Zaltsman? Ciò che segue è riportato così come fu verbalizzato: «Sì, ora ricordo che Michoels aveva rapporti stretti con Isaac Zaltsman, l’ex direttore generale dello stabilimento per la fabbricazione dei carri armati» ;34 frase che destò una certa sorpresa. Zuskin, che al processo avrebbe testimoniato: «La mia memoria è scarsa […] sono quasi quattro anni che non dormo»,35 improvvisamente ricordava dettagli relativi a Zaltsman, il quale aveva vissuto in un’altra città e che conosceva solo vagamente. È interessante notare perché fu costretto a parlare di Zaltsman proprio in data 17 giugno 1949, poiché soltanto il 24 seguente il Comitato Centrale del Partito avrebbe deciso che il comportamento di Zaltsman non era «conforme alle linee guida del partito».36 Perché Zuskin chiamava Zaltsman «l’ex direttore generale» quando in realtà Zaltsman sarebbe stato rimosso dal proprio incarico di direttore generale un mese dopo l’interrogatorio in questione. Zuskin poteva prevedere il futuro o più verosimilmente gli investigatori avevano la straordinaria capacità di inventare e costruire i testi dei verbali degli interrogatori.
157Il modo in cui Zuskin formulava le proprie risposte appare artificiale, sembra stesse leggendo un testo. Un testo che certamente non aveva scritto lui.
158Era un attore, imparò rapidamente ciò che in questo nuovo ruolo era necessario dire: ogni descrizione di qualsiasi attività ebraica doveva essere integrata dagli aggettivi nazionalista o antisovietica. Se avesse detto che nella Russia zarista c’erano norme restrittive per l’ammissione degli ebrei presso le istituzioni scolastiche o che la cultura ebraica era stata cancellata, sarebbe stato accettabile, ma se avesse voluto dire che cose simili avevano luogo in Unione Sovietica avrebbe dovuto aggiungere la formula obbligatoria «sono pettegolezzi senza fondamento» oppure insinuare il dubbio sui loro contenuti utilizzando l’avverbio «evidentemente». In riferimento a ogni atto compiuto dal Comitato bisognava menzionare che esso rappresentava una minaccia per lo stato sovietico. E così fu.
159Che ne fu di mio padre il 28 aprile 1949? Ricordava che era il suo cinquantesimo compleanno? Ci aveva pensato? Quanto eccitazione ci sarebbe stata se fosse stato un uomo libero! Il teatro avrebbe organizzato una serata di gala, Zuskin sarebbe andato in scena interpretando i personaggi che più amava, in costume, senza giacca né papillon. Avrebbe recitato il monologo di Hotzmach in Stelle vagabonde, cantato qualcosa di Freylekhs o la canzone del Fool del Re Lear. Il duetto di Beniamino e Senderl, il più grande di tutti, non avrebbe potuto recitarlo. Come avrebbe potuto fare un duetto da solo?
160Se ci stesse pensando durante uno degli interrogatori, la voce di Rassypninskij lo avrebbe risvegliato dai propri pensieri: «Dopo che Granovskij si fu reso latitante», «Quando Granovskij non tornò».37 Zuskin non si era ancora tolto di dosso il ricordo dello spettacolo I viaggi di Beniamino Terzo, la migliore regia di Granovskij, e non si rassegnava all’utilizzo del dispregiativo «latitante».
161E ancora, sotto l’influenza di Michoels, l’imputato Zuskin era arrivato dove ora si trovava, e Michoels era considerato un criminale. Quest’ultimo aveva privilegiato l’attività del Comitato Antifascista Ebraico rispetto al lavoro in teatro. I sentimenti di Michoels erano ovviamente antisovietici. Zuskin tornò a dichiarare di avere voluto molto bene a Michoels e di avere imparato molto da lui. Nell’interpretazione degli inquirenti tale affermazione non era innocente: se “gli voleva molto bene” allora i suoi rapporti con lui erano di carattere sovversivo, e se “aveva imparato molto da lui”, che cosa aveva imparato esattamente?
162Se i verbali di questi interrogatori fossero stati pubblicati in un mondo libero nella forma di un racconto, se in quel mondo il lettore ne sfogliasse le pagine avrebbe l’impressione di vedere due uomini seduti, un investigatore della polizia segreta e il suo interlocutore, l’investigatore fa alcune domande su una terza persona e riceve risposte chiare e dettagliate che confortano il sospetto che il terzo uomo in questione sia un criminale. Se invece il lettore che vive in un mondo libero leggesse il racconto con attenzione, si renderebbe conto che si tratta di un’assurdità. A dire il vero, c’è di che vergognarsi a farsi coinvolgere nell’attività pubblica a spese del proprio lavoro? Sentirsi avviliti è da considerarsi un crimine? Qual è il reato commesso da un egoista o da chi è in cerca di gloria? Il lettore intelligente che vive in un mondo libero, quando capisce che i sospetti contro la terza persona sono basati su frammenti di frasi che escono dalla bocca di un uomo che non dorme da molto tempo e che il sospettato di cui stanno parlando è morto, vorrà essere rimborsato dei soldi che ha speso per un racconto privo di senso e di scarso interesse.
163Mio padre fu accusato di essere stato per più di trent’anni il protagonista di un racconto privo di senso e di scarso interesse.
Imputato (1950)
164Dall’inizio del 1950 in poi, Zuskin non fu più interrogato da Rassypninskij ma da Tsvetaev, considerato una persona dal comportamento tranquillo e dal linguaggio inoffensivo. Ciò non impedì a Tsvetaev di bruciare i registri, le lettere e gli appunti di Zuskin, come descritto nella Prefazione. Di sua iniziativa o eseguendo un ordine, Tsvetaev introdusse un nuovo metodo: documentava l’orario di inizio e di fine dell’interrogatorio da lui svolto.
165Come è possibile che i verbali di interrogatori che duravano quattro ore stiano tutti in una pagina e mezza scritta a macchina, con doppi spazi, mentre i verbali di un altro interrogatorio durato anch’esso quattro ore si estendono per quattordici pagine di caratteri a macchina fitti, con spazi singoli e senza margini? Molto più tardi avremmo scoperto che durante l’interrogatorio l’inquirente scriveva parole singole o frammenti di frasi su fogli di brutta e che poi «il Colonnello Jakov Broverman, vice capo della segreteria del Ministero della Sicurezza dello Stato, romanzava le testimonianze in modo da farle diventare autoaccuse e confessioni di attività criminale».38 In un interrogatorio successivo, al detenuto fu consegnato un documento da firmare, si intitolava Verbale dell’interrogatorio e portava la data dell’interrogatorio precedente. «Dopo settimane di torture e provocazioni, con le bozze dei verbali, i gemiti e la disperazione, il mormorio insignificante dei poveretti sotto interrogatorio, nella cucina di Broverman si mettevano insieme “verbali riassuntivi”».39 In realtà, la stesura di questi verbali riassuntivi era realizzata con il metodo utilizzato dalla propaganda sovietica: prendere un fatto più o meno vero e adattarlo alle necessità del momento distorcendolo, rendendolo irriconoscibile o fabbricando una “realtà” contestuale fittizia.
166Durante gli interrogatori successivi, a Zuskin fu chiesto di svariate persone, ma Tsvetaev non riusciva ad avere la meglio. Le risposte di Zuskin erano così monotone che era tedioso anche solo stare a sentirle: «Sì, conosco le persone menzionate», «No, non ho avuto rapporti di natura antisovietica o criminale con costoro, neanche con Golda Meir, che non ho mai incontrato». Non un singolo dettaglio di questi interrogatori faceva luce sulla presunta colpa di Zuskin. Neanche il 21 marzo la grande luce dell’universo entrò nella sua cella solitaria. Era il primo giorno di primavera del 1950. Il compleanno di mia madre.
Assente
167Come abbiamo vissuto mia madre e io rispettivamente senza marito e senza padre?
168Fino alla chiusura del teatro nel novembre 1949, mia madre continuò a lavorarci. Andava alle prove o agli spettacoli all’ultimo momento. Era un modo per evitare gli incontri e le conversazioni. In verità quasi nessuno la cercava o desiderava parlarle. Nel migliore dei casi, gli attori e le attrici, in particolare gli impiegati dell’amministrazione, la salutavano con un cenno del capo. Quasi nessuno veniva a casa nostra e di norma quando mia madre camminava per strada con me o da sola, le persone che prima sarebbero venute a salutarla, adesso si spostavano sull’altro lato della strada. Alla fine mia madre e io trovammo un modo per evitare il problema: quando camminavamo per strada, controllavamo con attenzione se qualcuno dei passanti fosse un conoscente o un amico, e quando compariva un appartenente a quelle categorie, attraversavamo immediatamente la strada così da non mettere nessuno in imbarazzo o in pericolo.
169Il 28 gennaio 1949 la «Pravda» [La verità] pubblicò un editoriale intitolato Sul gruppo antipatriottico dei critici teatrali. Nell’articolo si accusavano alcuni critici del teatro sovietico di stroncare i drammaturghi sovietici e di prodigarsi invece nelle lodi di alcuni autori occidentali, motivo per cui erano definiti «cosmopoliti senza patria». Il punto centrale dell’articolo non era la preoccupazione per l’arte sovietica, ma quello di evidenziare i nomi ebraici dei critici teatrali in questione. Così si ruppero gli argini. L’inondazione di diffamazioni fu accompagnata dalle dimissioni di coloro che portavano quei nomi. Nel migliore dei casi, le autorità si accontentavano dei licenziamenti. Tra i diffamati si trovavano critici letterari e teatrali, giornalisti, impresari, scienziati; prima furono colpiti gli ambiti della cultura e della storia, poi tutti gli altri. La corrente travolse gradualmente economisti, capi di industria, civili e militari, docenti universitari e studenti degli alti istituti d’istruzione, infine anche persone ai vertici del Partito Comunista e persino funzionari del Ministero per la Sicurezza dello Stato.
170Questa follia durò dall’inizio del 1949 alla primavera del 1953, quando Stalin morì. In quel lasso di tempo furono intraprese due campagne: una apertamente rivolta contro chiunque fosse considerato un cosmopolita, l’altra segretamente rivolta contro i nazionalisti, ovvero i membri del Comitato Antifascista Ebraico.
171In queste pagine ho posto l’accento più di una volta sul fatto che nella realtà sovietica non vi era spazio per la logica. Cosmopolitismo significava «pensare e sentire al di fuori delle nazione»40 mentre per nazionalismo si intendeva l’essere fedeli a una nazione. La conclusione era che il cosmopolitismo eliminava il nazionalismo e viceversa. Eppure lo spirito della diffamazione suggeriva che entrambi i fenomeni si riferissero allo stesso segmento della popolazione sovietica, cosmopolita e nazionalista allo stesso tempo. In realtà il conflitto tra i due concetti non sembrava preoccupare le autorità, dopotutto questo segmento della popolazione era costituito da ebrei. La tempesta della diffamazione pubblica oscurò la tragedia dei membri del Comitato Antifascista Ebraico, mio padre compreso.
172Due mesi dopo l’arresto di mio padre, mia nonna si ammalò, ebbe una emorragia cerebrale. Recuperò quasi completamente, ma poco tempo dopo fu colpita da un ictus. Nell’agosto del 1949, mia nonna Chaja-Rocha Berkovskaja morì all’età di settantanove anni. Non piansi quando venni a sapere che mio padre era stato arrestato, anche se ero molto spaventata e sentivo moltissimo la sua mancanza. Anche mia madre e le sue sorelle riuscirono a non piangere. Quando morì la nonna piangevamo tutte, mia madre, Emma, Lisa e io. Pare che affrontare la morte dovuta a una malattia sia sentito come un motivo legittimo e naturale per piangere, è una naturale espressione di una emozione umana e non un eccesso di emotività.
173Vorrei fare riferimento a un’altra espressione naturale dei sentimenti umani. La più coraggiosa. All’inizio dell’estate del 1949, il sindacato degli attori di teatro organizzò un giro in barca sul Volga. Mia madre e io decidemmo di partecipare. I viaggiatori venivano soprattutto da piccole città e non conoscevano mia madre. La nostra barca raggiunse un villaggio turistico sulle rive del Volga, dove ci attendeva un pranzo in un hotel di lusso. Gli attori di Mosca che soggiornavano nell’hotel uscirono per dare il benvenuto agli ultimi arrivati. Quando si resero conto della presenza di mia madre che scendeva dalla barca, sgattaiolarono velocemente, scomparendo come non ci fossero mai stati. Tutti. Anzi, non tutti. Maria Miranova, attrice e donna di spettacolo molto nota, accompagnata dal figlio Andriuša, in futuro noto come Andrej Mironov, grande star del cinema sovietico, si avvicinò a mia madre per darle il benvenuto: «Come sono felice di vederla», disse in una voce nota a tutti e riconoscibile anche da lontano. La sua conoscenza con mia madre era abbastanza superficiale, non avevano mai parlato a lungo. Mia madre la guardò in preda al panico e le bisbigliò: «Mi stia lontana. Non capisce? Tutti ci guardano», «Che vadano all’inferno», rispose Mironova a bassa voce.
174Eccoci, noi quattro in piedi al nostro posto, con Mironova che chiacchierava con leggerezza insieme a mia madre del tempo, di teatro, degli studi di Andriuša e dei miei. Mia madre menzionò uno sketch di Mironova in cui era “una donna non istruita” che si lamentava di problemi matematici nei quali l’acqua viene fatta passare in un tubo per fuoriuscire da un altro e concludeva che i bambini dovevano soltanto pensare a stare a galla. Mironova rise di gusto. Salutandoci, aggiunse tristemente: «Siamo state per un po’ a galla insieme, ed è stato di conforto». Mia madre rimase emozionata a lungo dopo l’incontro con quella donna meravigliosa.
175Quando rientrammo dal nostro viaggio, mia madre corse all’Ufficio del Pubblico Ministero di Stato come faceva almeno una volta a settimana, settimana dopo settimana. Lì doveva mettersi in una lunga fila davanti allo sportello e sentire sempre le stesse parole: «Il caso di suo marito è ancora in esame»; qualche volta accettavano di fare avere a mio padre piccole somme di denaro.
176Questa volta dissero a mia madre che le era concesso portare un pacco con alcuni oggetti personali: calze, asciugamani, articoli per l’igiene personale, forse un capo di abbigliamento invernale, non ricordo esattamente. Mia madre andò in giro per negozi e acquistò tutto il necessario. Quando tornò a casa ed esaminò i propri acquisti la sentii sospirare: «Pensavo di avere comprato tutto. Adesso vedo che manca il sapone». Guardai i pacchi che aveva portato a casa e mi accorsi che vi erano numerose saponette di ottimo bagnoschiuma. «Non capisco. Qui c’è il sapone», «Guarda», replicò, a quel tempo il sapone era venduto senza confezione, sulla parte liscia della saponetta vidi impresso il marchio dell’azienda che lo produceva, Svoboda [libertà]: «Tuo padre è molto sensibile ai simboli, sarà difficile per lui accettare una saponetta su cui c’è scritto Libertà mentre è rinchiuso tra le mura di una prigione». Il giorno seguente cercammo tra i negozi di cosmetici e trovammo un altro tipo di sapone.
177Non ci fu permesso mandare alcun altro pacco, ma per tutto il periodo di reclusione di mio padre inoltrammo denaro. Soltanto in seguito alla sua riabilitazione ci fu comunicato che da un certo momento in poi avevano cessato di consegnargli quelle somme e in un moto di generosità ci restituirono quanto dovuto. Gli onnipotenti amavano l’ordine.
178Una sera, in casa, facevo i miei compiti mentre mia madre stava imparando una nuova canzone. Cantava a voce bassa per non disturbarmi. All’inizio la ignorai, poi mi resi conto che la canzone mi era familiare. Era quella che mia madre cantava danzando nella scena del mercato nella Strega nella versione che mio padre aveva messo in scena mentre era alla direzione del teatro. Conoscevo il testo a memoria, improvvisamente mi resi conto che le parole erano diverse, sconosciute. Nell’originale erano:
Lanciami per favore un po’ di monete, un po’ di soldi!
Dov’è il mio sposo, il mio amore?
Scomparso, mai tornato,
E io cerco ancora…
Nel nuovo testo non si faceva menzione dello sposo mancante e del desiderio della sposa. Non si facevano domande e ovviamente non vi erano risposte. Compresi immediatamente e mia madre me lo confermò. Sì, l’amministrazione del teatro si era presa la briga di commissionare un nuovo testo e l’avevano obbligata a cantarlo al posto dell’originale, per essere sicuri di evitare ogni possibile allusione.
179Furono molte le persone colpite dal cambio del testo e dalla danza di mia madre che sembrava simboleggiare la vita in mezzo alle rovine. Il poeta Joseph Kerler diede voce a questi sentimenti in una poesia (che cito a memoria): «Questa danza era a Maydanek, mi sbaglio? / Anche in Spagna, durante l’Inquisizione». Eda danzò e cantò la canzone con le nuove parole per un breve periodo di tempo. Il tempo in cui il teatro fu ancora vivo e metteva in scena nuovi spettacoli; mancavano soltanto un direttore artistico, un primo attore, un repertorio, un pubblico e la speranza: «C’era soltanto paura, paura e paura… Un giorno anche la paura terminò. Il nostro teatro fu chiuso»,41 ricorda Kovensakaja.
180Il 14 novembre 1949, il Comitato per gli Affari Artistici pubblicò un documento ufficiale:
Ordinanza #959:
Il Teatro Ebraico di Stato di Mosca ha chiuso l’anno 1948 con una perdita di 1.274.000 rubli e nei dieci mesi del 1949 ha permesso che andasse perduta la somma di 815.000 rubli. Le presenze in teatro, nel 1948 e nel 1949 sono state del tutto insufficienti e attualmente per una capacità del 13,7 per cento […]
Si ordina pertanto la liquidazione del Teatro Ebraico di Stato di Mosca dal giorno 1 dicembre 1949 a causa della sua mancata redditività.42
Come se non fossero stati loro a tagliare brutalmente e completamente le sovvenzioni statali, come se non fossero stati loro a terrorizzare ogni possibile spettatore di quel teatro. «Il 16 novembre 1949 il sipario si chiuse per l’ultima volta sul palcoscenico del Teatro Ebraico di Mosca. Il teatro cessò di vivere con la performance di un buffone del folklore ebraico, Hershele, che andò per l’ultima volta in scena sulle assi di quel palcoscenico di Mosca».43 Fu anche l’addio di Veniamin Zuskin al proprio pubblico: erano sue le regie dell’Hershele Ostropoler del 1937 e di quello del 1948. Aveva messo in scena una nuova versione dello spettacolo, che mise fine alla carriera del Goset.
181Sempre nell’Ordinanza #959 dichiaravano di avere costituito una Commissione di liquidazione. I membri della Commissione classificarono con attenzione tutto ciò che trovarono e prelevarono materiale di grande valore: liste di attori, verbali delle discussioni sugli spettacoli e molti altri documenti.
182Il lettore sa già che durante la perquisizione della nostra casa erano stati confiscati gli effetti personali di mio padre. Aggiungerò qualche informazione sulle fotografie che si sono salvate per miracolo. Circa due mesi dopo la perquisizione, un uomo giovane venne a casa per restituirci gli album di fotografie di mio padre. Poteva essere uno studente o un giornalista a inizio carriera. Aveva voluto scrivere di Zuskin e gli aveva chiesto di prestargli i suoi album di fotografie. Mio padre li custodiva con grande cura; oltre alle fotografie contenevano ritagli di giornale e articoli sui suoi ruoli, in uno di questi mio padre conservava la bozza della propria Autobiografia. Che colpo di fortuna che quel giovane non avesse assecondato la sua richiesta di restituirgli gli album il più presto possibile!
183Quando i membri della Commissione di liquidazione ebbero terminato lo “sgombero”, molti oggetti rimasero in teatro. Un bel giorno, però, una “missione di giustizia” della polizia segreta apparve in teatro; controllarono il mobilio, le attrezzature sceniche, i costumi… Trovarono tutto in buone condizioni e lo trasferirono in alcuni magazzini utilizzati da gruppi di attori dilettanti. Per il resto degli oggetti e dei libri fu scelto un sistema in uso da generazioni: li impilarono nel cortile del teatro e ne fecero un rogo: «Estranei e indifferenti con un calcio dei loro stivali lanciavano nel fuoco oggetti e ricordi che erano stati preziosi per la gente del teatro. Schegge nere si spandevano nell’aria, rimpiazzando le piume dei cuscini che avevano caratterizzato i pogrom. Tutto il resto corrispondeva esattamente alle consuetudini dei pogrom più antichi».44 Alla fine il cortile del teatro fu vuoto. Dal cortile si accedeva ad alcuni appartamenti degli attori; quando scese la sera, gli attori iniziarono a recuperare ciò che restava. Uno per volta, di nascosto, lanciando occhiate a destra e a sinistra, da sotto la coltre di cenere bianca e nera, estraevano ciò che potevano. C’era ben poco da salvare.
184L’anno 1950 iniziò con un annuncio terrificante. Il 13 gennaio 1950 i media annunciarono che in Unione Sovietica era stata istituita la pena di morte. Non che ciò dicesse niente di nuovo ai cittadini sovietici, la pena di morte era stata abolita meno di tre anni prima, ma mia madre fu presa della disperazione. La sua reazione mi sorprese, non riuscivo a collegare questa novità al destino di mio padre.
185Nel corso dell’anno mia madre si mise a cercare un lavoro. Inizialmente cercò di far valere il diploma conseguito presso l’Istituto di Danza, avrebbe potuto trovare un posto come insegnante di danza presso le associazioni giovanili. Queste associazioni facevano però parte del fronte ideologico e alla moglie di un nemico del popolo non era permesso insegnarvi: utilizzando lo strumento della danza avrebbe potuto sabotare quelle pure anime giovanili. Allora lasciò perdere e iniziò a lavorare per una fabbrica che produceva accessori destinati ai teatri e articoli per la casa. La nostra cucina diventò un laboratorio. Mia madre e io facevano fiori finti e con l’aiuto di alcuni stampi decoravamo piatti in plastica.
186Degli attori del Goset, soltanto una minoranza riuscì a lavorare in altri teatri. Molti di loro diventarono nostri colleghi in quel lavoro: «La compagnia del teatro Goset, quasi nella sua totalità, dovette soffrire della punizione per il resto della propria vita. Un lavoro enorme, al minimo della paga. La vita si interruppe in modo brutale. Fumi tossici esalavano dalle decorazioni e rendevano difficile respirare. Le forze declinavano, i talenti si smorzavano, l’impotenza avanzava solcando il volto privo di trucco».45 Gradualmente mia madre portava in un negozio di roba usata i nostri oggetti di porcellana e d’argento. Il proprietario, un ammiratore di Zuskin e amico di uno degli attori del Goset, sospirava con amarezza e attaccava alle nostre cose etichette con un prezzo più alto del valore degli articoli.
187Mia madre si recava presso il Pubblico Ministero per fare sempre le stesse domande e ricevere le stesse risposte, prive di ragione e di significato. Lei e io avevamo il morale a terra a causa della preoccupazione per mio padre, pensieri che ci opprimevano incessantemente. Che cosa ne sarebbe stato di lui? Nel periodo dei processi a Rosenberg e Slansky, il nostro umore si fece ancora più cupo. Julius e Ethel Rosenberg, scienziati americani che lavoravano nel settore dell’energia atomica, furono condannati alla sedia elettrica per avere passato segreti relativi all’atomo all’Unione Sovietica. In Unione Sovietica il verdetto, emesso nella primavera del 1951, fu accolto con accese proteste dai toni moraleggianti nonostante i Rosenberg avessero davvero tradito il proprio paese. Però non furono mai picchiati in prigione né dovettero soffrire la fame. Certamente non fu loro inflitta la deprivazione del sonno. Lo spionaggio nel campo dell’energia nucleare non era una questione prioritaria per me e mia madre, ma fummo scioccate da una scena dello spettacolo sui Rosenberg messo in scena da un teatro polacco e portato a Mosca: la coppia di ebrei, i Rosenberg, attendevano in prigione la propria esecuzione.
188Alla fine del 1951, in Cecoslovacchia, furono arrestati e nel 1952 uccisi quattordici membri di punta del governo e del Partito Comunista del paese, tra loro Rudolf Slansky, segretario generale del partito. Erano accusati di spionaggio in favore dell’Occidente. Undici su quattordici, incluso Slansky, erano ebrei. Se con i Rosenberg mia madre e io avevamo fatto una associazione e avevamo alcuni presentimenti, in questo caso erano “le mani di Mosca” a essere coinvolte e non avevamo alcun dubbio che il problema della Cecoslovacchia fosse anche il nostro.
Dimenticato
189«Nel marzo del 1950 il primo stadio del caso del Comitato Antifascista Ebraico era terminato. Nel corso degli anni di indagini la struttura del processo era cambiata. Inizialmente era stato pianificato un processo di ampio raggio… Ma il processo allargato non ebbe mai luogo. Le ragioni per la sua cancellazione richiedono ulteriori studi. È noto, comunque, che nel 1950 molti dei principali partecipanti – Solomon Lozovsky, Joseph Yuzefovič e Veniamin Zuskin – ritrattarono le confessioni che erano state ottenute con le minacce, i ricatti e la tortura».46 Come fece mio padre a sopportare questa prima fase degli interrogatori? E come resistette a quell’anno e mezzo, dal marzo 1950 al settembre del 1951, quando non vi furono interrogatori? Chi sa che cosa gli fecero in quel lasso di tempo! Quali erano le sue condizioni fisiche e mentali?
190Dopotutto, le condizioni di mio padre non potevano essere misurate con criteri umani. «L’insonnia è il più potente strumento di tortura che non lascia alcun segno sul corpo», afferma Solženicyn, e io mi chiedo: i torturatori di mio padre si accontentavano di privarlo del sonno o utilizzavano anche altri strumenti che invece lasciano segni sul corpo? «L’insonnia – continua Solženicyn – offusca la mente, spezza la volontà. La persona perde il proprio “sé”».47 Così, un giorno segue l’altro, una notte insonne segue l’altra, notte dopo notte, giorno dopo giorno.
191Sentiva di essere stato dimenticato. Che cosa stava succedendo?
192Ci furono confessioni ritrattate, e anche senza queste alterazioni, il Ministero per la Sicurezza dello Stato non aveva la certezza che fosse possibile istituire un processo perché anche se le accuse non erano state rinnegate, non vi era abbastanza per un processo aperto e con la montatura richiesta da Stalin.
193A fare “abbandonare l’idea” furono altre circostanze. «L’interesse [da parte del Ministero per la Sicurezza dello Stato] per i leader del Comitato Antifascista Ebraico era considerevolmente diminuito… A quel tempo tutte le forze […] erano volte a creare un nuovo complotto antisemita, ossia, il caso “secondario” sulle “attività di spionaggio” di Myriam Ayzenshtadt, Nakhum Levin e Samuel Persov [membri del Comitato uccisi nel 1950] e […] a preparare una punizione legale per il cosiddetto gruppo di Leningrado. Questo stato dei fatti continuò fino a metà del 1951, quando all’interno del Ministero per la Sicurezza dello Stato fu fatta una drastica pulizia».48 In sostanza il Ministro della Sicurezza dello Stato Victor Abakumov fu arrestato e il suo subalterno, Mikhail Riumin, fu promosso da Stalin in persona tra una serie di ranghi e posizioni fino a diventare Ministro Deputato alla Sicurezza dello Stato. A quel punto gli interrogatori ai membri del Comitato Antifascista Ebraico ripresero con rinnovato vigore e con la totale inosservanza delle ritrattazioni delle precedenti ammissioni di colpa.
Giudicato colpevole (1951-1952)
194Con il nuovo andamento dell’indagine, il contenuto degli interrogatori non cambiò rispetto a quelli che lo avevano preceduto: domande senza senso e risposte su persone diverse. Nonostante ciò, qualcosa risvegliò l’attenzione. Prima di tutto, a Zuskin e ad altri detenuti fu chiesto di persone diverse e innanzitutto dei loro legami con questo e quest’altro. Si può supporre che questi interrogatori fossero condotti per ottenere testimonianze in grado di fornire un sostegno alla presentazione del Comitato Antifascista Ebraico come centro di una rete di spionaggio più estesa. In secondo luogo, al posto dell’espressione “attività antisovietica”, come era stato in uso in precedenza, ora si utilizzava l’espressione “contatti criminali antisovietici”. Riumin, il quale «aveva ottenuto domande preparate da Stalin in persona»,49 esigeva formule più chiare.
195Terzo, parte delle domande ruotavano intorno ai medici. Precisamente in quel periodo al Ministero per la Sicurezza dello Stato si iniziava a preparare l’infame Congiura dei Medici.
196Fu sostituito anche l’inquirente. Ora era il maggiore Pogrebnoi a fornire al detenuto una soluzione in cui si definiva quale fosse la ragione della ripresa dell’indagine: «Per cercare nuove testimonianze sulle attività di spionaggio di Zuskin e per una migliore esposizione dei crimini di Zuskin e dei suoi compari».50 Quel giorno gli inquirenti di tutti i “compari” di Zuskin firmarono una identica risoluzione.
197Per tre anni consecutivi Zuskin aveva atteso l’opportunità di essere interrogato sul lavoro della propria vita. Ma l’inquirente era ottimista: il teatro non era altro che una maschera per nascondere l’attività ostile. Un momento, il teatro “era”? Sì, Pogrebnoi annunciò a Zuskin che il teatro era stato chiuso da qualche tempo. Senza esitazione Zuskin disse: «Era la cosa giusta da fare».51 Avrebbe ripetuto questa frase anche durante la sua ultima testimonianza in tribunale, aggiungendo: «Sono finito al Teatro Ebraico di Mosca in modo del tutto casuale, sarebbe diventata la tragedia della mia vita».52 Quando ho letto queste parole di mio padre per la prima volta, non potevo crederci. Come aveva potuto pronunciarle? Mio padre? L’uomo che era la carne e il sangue del teatro ebraico?
198Per prima cosa, dopo l’omicidio di Michoels e dopo l’arresto di Zuskin, senza pubblico e senza soldi, il teatro non aveva più senso. In secondo luogo, anche dando per scontato che mio padre fosse nato per il teatro ebraico, fu in effetti ammesso al Goset per pura coincidenza (si ricordi la storia della macchina da scrivere). Terzo, nel 1938 aveva preso in considerazione di lasciare il Goset non perché desiderasse abbandonare l’arte ebraica, ma proprio per il suo profondo attaccamento all’arte ebraica, dalla quale quel teatro aveva iniziato ad allontanarsi.
199Definire la propria carriera al Goset con le parole “sarebbe diventata la tragedia della mia vita” non richiede una ulteriore interpretazione, poiché Zuskin lo affermò nel corso della sua ultima testimonianza in tribunale l’11 luglio del 1952, esattamente una settimana prima che la corte pronunciasse il verdetto che lo condannava a morte, un mese e un giorno prima della sua esecuzione.
200Era stato chiamato a esprimere la propria opinione sulle conclusioni degli organi competenti. Competenti? Che cosa significava? «Furono fatti tentativi per ottenere alcune prove delle attività di spionaggio […] Il compito non parve difficile al Ministero per la Sicurezza dello Stato […] nonostante ciò, il caso stava andando in pezzi […] Per comprovare le conclusioni prodotte raggiunte dall’indagine, fu chiamato un gruppo di esperti. Nonostante le sottigliezze, gli inganni, le indorature, le invenzioni e la crudele e palese pressione sui testimoni esperti, il ministero per la Sicurezza dello Stato non fu in grado di ottenere documenti convincenti che provassero né lo spionaggio né l’attività nazionalista».53
201Gli interrogatori proseguivano. I crimini di Zuskin si possono riassumere come tre attività: vendita, infiltrazione, contrabbando. Vendita – della propria anima alla rete di spionaggio; infiltrazione – all’interno del Comitato Antifascista Ebraico; contrabbando – di idee nazionaliste all’interno del teatro ebraico. Quando gli interrogatori terminarono, il 7 marzo 1952, Zuskin fu informato che gli sarebbe stato ripresentato un elenco delle accuse nei suoi confronti. Dopo che questo elenco fu ripresentato a tutti i detenuti, gli inquirenti si ritirarono nelle loro stanze, dove, in un’atmosfera pacifica e tranquilla, compilarono la “Dichiarazione conclusiva dell’inchiesta, ”54 una per ogni detenuto. I moduli non erano cambiati dal marzo 1950, quando la prima fase dell’inchiesta era stata chiusa, ma c’era ancora un duro lavoro da fare, a mano: trascrivere le dichiarazioni degli imputati e cambiare qualche numero.
202La conversione del numero romano I in numero romano II riflette una situazione in cui gli organizzatori del caso non avevano scelta. Nel Codice Penale della Repubblica Russa, i numeri romani sono utilizzati per indicare le sotto-clausole che forniscono dettagli sul crimine definito nella clausola. Quindi, il crimine definito dalla clausola 58- 10 è «Propaganda antisovietica» e nella sotto-clausola I si dà una specifica: «invocando la sovversione contro l’autorità sovietica», mentre nella sotto-clausola II la specifica è: «Approfittando della superstizione nazionalistica di alcuni segmenti della popolazione». Poiché non fu trovata alcuna prova di chiamate alla sovversione contro l’autorità sovietica, fu deciso di utilizzare la sotto-clausola che era più facile provare. Se, per esempio, al teatro ebraico il pubblico applaudiva Zuskin quando ritraeva un personaggio ebraico di qualsiasi tipo, così facendo non dimostrava fedeltà alla superstizione nazionalistica? E se era così, allora non si trattava anche di propaganda antisovietica?
203Inoltre, il numero del caso dovette essere cambiato nella Dichiarazione conclusiva e ciò riflette in modo evidente il nuovo atteggiamento. L’obiettivo era presentare il caso non più come una collezione di crimini individuali ma come una impresa ad ampio raggio e ben organizzata, antisovietica, pro-americana e sionista. A tal proposito, nel mucchio di schede sulle persone legate al Comitato Antifascista Ebraico, ne selezionarono quindici, che furono riunite sotto un unico caso.
204La decisione di creare un unico Caso fu presa il 5 marzo 1952, esattamente un anno prima della morte di Stalin, il quale era stato la fonte d’ispirazione per il Caso del Comitato Antifascista Ebraico. Il numero della scheda personale di Zuskin, il 2020, era incluso, sotto la definizione di “Volume 23”, nel Numero del Caso 2354, la scheda condivisa da quindici persone tra uomini e donne.
205Questa volta il processo avrebbe avuto luogo.
Preparandosi al processo
206Un processo è un evento per il quale è necessario essere preparati.
207In ciò non vi era assolutamente niente di nuovo per Zuskin, che era sempre stato scrupoloso nella preparazione di qualsiasi ruolo dovesse interpretare. Salvo che ora quello che lo attendeva non era un ruolo individuale determinato dalla scheda del caso n. 2020, si trattava piuttosto di un ruolo in cui era parte di una scena di massa come descritto nel caso numero 2354, condiviso da quindici imputati.
208Anche gli organizzatori del processo si stavano preparando, e non mancavano di esperienza in materia. Già negli anni Venti, il pubblico ministero di stato Nikolaj Krylenko sosteneva che per avere successo in un processo «è necessario premurarsi di non sbagliare nella selezione degli imputati […] Soltanto colui che sopravvive alla selezione e la supera – lo cura, lo nutre e affronta il processo».55
209Il processo della “cura” è documentato: «Il reparto medico della Prigione di Lefortovo conferma che al detenuto Veniamin Zuskin è stata diagnosticata una arteriosclerosi cardiaca e una moderata ipertensione».56 La verità è che nessuno intendeva fornire a mio padre alcuna terapia.
210Per l’obsoleta dizione “lo nutre”, è possibile che i carnefici si tenessero al passo con i tempi e avessero deciso di integrarlo, se non di rimpiazzarlo del tutto, con il nuovo ordine “tortura”. Per quanto ne so, nella Prigione di Lefortovo trattavano i prigionieri molto peggio che alla Lubjanka.
211Scrivo di mio padre e vorrei concentrare tutta la mia attenzione su di lui e sul cammino di sofferenze che lo condusse fino all’esecuzione capitale, ma non posso ignorare il fatto che nell’ultimo atto della sua vita fu stabilito che percorresse questo sentiero insieme ad altri. Mi sento in dovere anche nei confronti di costoro, perciò ecco l’elenco degli imputati processati insieme a mio padre: David Bergel’son, scrittore e drammaturgo; Solomon Bregman, Viceministro al Controllo dello Stato nella Repubblica Russa; Isaac (Itsik) Fefer, poeta yiddish, vicedirettore del Comitato Antifascista Ebraico; David Hofshteyn, poeta yiddish; Leyb Kvitko, poeta yiddish, in particolare specializzato nella poesia per bambini (la sua opera è stata tradotta in tutte le lingue delle nazioni dell’Unione Sovietica); Solomon Lozovskij, direttore dell’Ufficio di Informazioni Sovietico (Sovinforburo) e capo della Direzione delle Relazioni Internazionali della Scuola di Alta Formazione del Partito, dal 1936 al 1946 Viceministro agli Affari Esteri; Perets Markiš, poeta yiddish e drammaturgo; Boris Shimelyovič, medico, direttore del prestigioso Ospedale Botkin di Mosca; Lina Shtern, direttore generale dell’Istituto di Fisiologia dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica e membro dell’Accademia, Capo della Presidenza dei fisiologi presso la Scuola di Medicina di Mosca; Leon Talmi, traduttore e giornalista; Emilia Teumin, vicedirettore dei dizionari diplomatici; Ilia Vatenberg, direttore capo della casa editrice di Stato per i libri tradotti da lingue straniere; Chaia Vatenberg-Ostrovskaja, moglie di Ilia Vatenberg, traduttrice presso il Comitato Antifascista Ebraico e le sue case editrici; Josip Yuzefovič, ricercatore presso l’Istituto di Storia, Accademia Sovietica delle Scienze; Veniamin Zuskin, attore e direttore artistico del Teatro Ebraico di Stato di Mosca.
212Di questi quindici, sei erano illustri esponenti della cultura ebraica in Unione Sovietica: i poeti David Hofshteyn, Perets Markiš, Issac (Itsik) Fefer e Leyb Kvitko, lo scrittore David Bergel’son e l’attore Veniamin Zuskin. «Quando Zuskin fu interrogato, aveva imparato che l’accusa nutriva poco interesse per l’estetica o l’ideologia del teatro yiddish» ;57 in realtà i giudici non erano interessati a ciò che caratterizzava gli imputati e avevano deciso in anticipo i criteri con i quali avrebbero classificato e selezionato il gruppo di quindici persone.
213Mentre preparavano i documenti per il processo, i cuochi della cucina di Broverman non furono mai particolarmente meticolosi riguardo gli aspetti estetici né a proposito degli appunti degli investigatori. A volte spostavano una frase da un verbale a un altro, o addirittura tra diversi “protocolli” di indagine e documenti della corte. Gli accusati erano obbligati a farsi strada tra ciò che era stato scritto: «Gli imputati ebbero otto giorni per leggere quarantadue enormi volumi» ;58 il dossier del Caso n. 2354 consisteva di quarantadue volumi, che dovettero essere studiati in otto giorni (dal 15 al 22 marzo 1952), per almeno otto ore al giorno, in altre parole, gli imputati ebbero sessantaquattro ore.
214Ognuno dei quarantadue volumi consisteva di circa quattrocento pagine. Ciò significa che dovevano leggere quattrocento pagine moltiplicate per quarantadue volumi, ovvero sedicimilaottocento pagine, con una media di duecentosessantadue pagine all’ora o più di quattro pagine al minuto: «È difficile immaginare come queste persone tormentate, consumate dal carcere e dagli interrogatori interminabili, potessero leggere quarantadue volumi in otto giorni. Il corso del processo mostra invece che avevano studiato tutto il materiale che riguardava non soltanto loro stessi ma anche gli altri imputati».59 Zuskin meditò su come registrare tutto nella propria memoria, perché agli imputati non era permesso registrare nulla su carta, e la sua memoria straordinaria era fiaccata dalle condizioni in cui si trovava. Eppure ricordò. Tutti ricordarono.
215Le sofisticate torture scelte per Zuskin erano iniziate presto, il 13 gennaio 1948, il giorno in cui Michoels fu assassinato, e non terminarono fino ad allora. Dopo millecinquecentoventitré giorni e notti di tormenti che superano ogni immaginazione umana, gli affibbiarono otto disgraziati “giorni di lavoro”, come l’osso per un cane. Gli sembrava che la sua vita, sull’orlo del baratro, sarebbe stata salvata soltanto se avesse saputo rispondere a ogni parola che riempiva quelle quattro pagine e un quarto che doveva leggere al minuto. Ma gli autori di quella trama crudele erano indifferenti, si attenevano al loro piano, sapevano che il cappio intorno al collo della vittima si sarebbe stretto da solo, a prescindere dalle pagine e dai minuti.
216Mentre gli imputati studiavano i documenti dell’inchiesta nei volumi del caso giudiziario collettivo, gli alti ranghi del Ministero per la Sicurezza dello Stato stavano già inviando una bozza del rinvio a giudizio al Comitato Centrale del Partito e al suo capo, Stalin.
217Il 3 aprile 1952 il Comitato Centrale del Partito approvò il rinvio a giudizio e ordinò al Collegio Militare di trasmettere una sentenza di condanna a morte per quattordici imputati del gruppo; Lina Shtern sarebbe stata mandata in una qualche remota landa desolata. (Oggi esiste una teoria secondo la quale Stalin era interessato a portare avanti le ricerche condotte dalla Shtern anche nel luogo del suo esilio. Prima dell’ arresto aveva concentrato le proprie ricerche sull’allungamento dell’aspettativa della vita umana. È possibile che Stalin volesse eludere il destino prescritto per la carne mortale?)
218Tutto ciò ebbe luogo esattamente un mese e mezzo prima che il processo avesse inizio.
219In realtà furono tredici gli uomini e le donne condannati a morte, a metà giugno del 1952 Solomon Bregman perse conoscenza, fu quindi ritenuto inadatto ad affrontare il processo e ricoverato all’interno del carcere, dove sarebbe deceduto nel gennaio del 1953.
220«In data 8 maggio 1952 la farsa giudiziaria ebbe inizio» ;60 «Fin dall’inizio la corte dovette fare molti sforzi per nascondere l’infondatezza delle accuse […] Il processo fu una finzione, un’azione meramente formale diretta dal Ministero per la Sicurezza dello Stato su ordine di Stalin».61
Attore. Ebreo
221Anche prima che il caso n. 2354 fosse mandato al Collegio Militare, «un gruppo di inquirenti suggerì di rimuovere Veniamin Zuskin, Emilia Teumin e Chaia Vatenberg-Ostrovskaja dalla lista degli imputati perché le accuse contro di loro erano deboli. Riumin respinse il suggerimento con fermezza per paura che l’intero caso potesse crollare».62 Continuò a convincere Stalin della validità delle accuse rivolte all’intero gruppo, pur sapendo che erano prive di fondamento.
222Anche il presidente del Collegio Militare Aleksandr Čepstov lo sapeva; pochi giorni prima della fine del processo contattò persino il Comitato Centrale del Partito chiedendo il permesso di sospendere per ristudiare il caso n. 2354. La richiesta fu rifiutata. Se tra la data della sentenza (18 luglio 1952) e l’esecuzione (12 agosto 1952) fosse trascorso un mese in più forse il caso sarebbe stato messo in dubbio.
223Sì, il “caso comune” era discutibile, il rinvio a giudizio comune, assurdo. Nel rinvio a giudizio, il nome di ognuno dei quindici era accompagnato da un paragrafo che ne menzionava i “crimini”. Quanto le accuse comuni fossero discutibili e assurde lo rivela in modo evidente il paragrafo riguardante mio padre. Cito: «L’imputato Zuskin […] realizzava spettacoli teatrali […] che risvegliavano sentimenti nazionalisti tra gli spettatori ebrei».63
224Una volta avevo pensato che a mio padre fossero stati attribuiti questi non-crimini perché quando erano state inventate le accuse contro i suoi compagni-imputati non ne era rimasta nessuna da rivolgere a lui, neanche una inventata, neanche l’ombra di un’accusa. Oggi mi rendo conto di essermi sbagliata. L’accusa era questa: risvegliare sentimenti nazionalisti, nazionali per essere più precisi. Era questa la più probabile e la più seria delle accuse, ed era vera per tutti loro.
225Mentre Zuskin era impegnato a prepararsi per il processo e a concentrarsi sui volumi che costituivano il caso n. 2354, si rese chiaramente conto di quanto fosse falso tutto ciò che vi era scritto. E durante il processo avrebbe detto la verità.
226Ora aveva capito che gli inquirenti lo avevano costretto con la forza a imparare un ruolo i cui monologhi riguardavano il teatro ebraico come un “centro di nazionalismo ebraico”. Sì, nessuno poteva battere questi inquirenti per astuzia e abilità; erano sicuri di sé perché avevano già avuto la meglio su altre persone più forti di Zuskin. Un attimo, altre persone? Sì, questo era poco ma sicuro. Non persone come lui però. Avrebbe imparato il ruolo che doveva interpretare per dichiarare: «Sono un attore» al processo.
227«Ho pensato molto al tragico destino toccato a entrambi e soltanto ora vedo che Michoels e Zuskin sono stati assassinati in larga misura perché erano attori. Erano una minaccia per il regime di Stalin, perché il risultato delle loro intuizioni e dei loro meta-significati, costruiti con la loro stessa natura di attori, decifrava l’essenza di questa dittatura»,64 avrebbe scritto uno storico del teatro molti anni dopo.
228Lo storico del teatro fa riferimento a qualcosa di intangibile, mentre gli inquirenti volevano fatti reali per decifrarli. Sciocchezze! Le persone che erano sotto processo lo erano per qualcosa che avevano fatto davvero oppure no? Quarantadue spessi volumi di indagine preliminare e altri otto non meno spessi che documentavano il corso del processo non sono altro che cinquanta volumi di un borbottio che la polizia segreta correggeva o distorceva a seconda delle proprie esigenze.
229Più di una volta Zuskin «si arrese tra sé e sé, ma non si diede mai realmente per vinto»,65 perché era dominato da una «inusuale armonia»66 che risultava più importante di quei cinquanta volumi privi di qualsiasi armonia, dei quali soltanto un quarto riguardava Zuskin.
230Apparentemente le parole dello storico del teatro rendono giustizia, aggiungerei però che non erano soltanto attori, erano attori ebrei. È vero che Zuskin non espresse mai questo sentimento a voce alta. Fu lui stesso a dire: «Non so tenere discorsi. So soltanto interpretare un ruolo; posso leggere ciò che è già stato scritto».67 Era tuttavia permeato da un profondo senso di appartenenza al proprio popolo, dallo spirito che lo portò ad agire come fece e infine alla morte. Alla sua morte in quanto ebreo. I carnefici che trasformarono la sua carne in cenere non erano a conoscenza di ciò che è scritto nel libro del popolo ebraico: «Non c’è uomo che abbia potere sullo spirito per poterlo trattenere» (Ecclesiaste 8: 8).
Epilogo
2318 maggio - 18 luglio 1952.
232Processo.
233Documento del Collegio Militare della Corte Suprema dell’Urss.
234La Corte: presiede il Presidente del Collegio Militare Tenente Generale della Giustizia Aleksandr Chepstov; i membri: Generale Maggiore di Giustizia Jakov Dmitrev; Generale Maggiore di Giustizia Ivan Zarianov; il segretario: Tenente Maggiore Michail Afanasiev.
235Condotto senza l’azione legale del governo e senza la partecipazione di una squadra di difesa.
2368 maggio 1952, mezzogiorno.
237Presidente: «Dichiaro aperta questa seduta del Collegio Militare della Corte Suprema dell’Urss. Il caso in udienza riguarda accuse di tradimento contro…68
238Il segretario ha riportato che gli accusati […] sono stati scortati all’udienza da guardie. Gli imputati […] hanno reso la propria testimonianza…
239Zuskin: Io, Veniamin Zuskin, sono nato nel 1899. Sono originario della Lituania, della città di Ponevež, nella Repubblica Socialista Sovietica Lituana. Mio padre era un sarto. Ho studiato presso l’Accademia Mineraria […]. Sono stato insignito dell’Ordine della Bandiera rossa, ho ricevuto la medaglia al valore durante la guerra mondiale del 1941-1945 e sono stato insignito del Premio Stalin, secondo grado. Non sono mai stato membro del Partito. Sono un Artista del Popolo della Repubblica Socialista Federale Sovietica Russa e della Repubblica Socialista Sovietica Uzbeca. Prima del mio arresto ero il direttore artistico del Teatro Ebraico di Stato di Mosca. Sono stato arrestato il 24 dicembre 1948. Ho ricevuto copia della messa in stato d’accusa il 3 maggio 1952.69
240Presidente: Imputato Zuskin, conosce i suoi diritti?
241Zuskin: Conosco i miei diritti.
242Presidente: Che istanza ha per la corte?
243Zuskin: Ho alcune istanze. Il rinvio a giudizio afferma che ho mandato alla stampa americana un certo numero di articoli riguardanti lo stato dell’arte in Unione Sovietica. Ho già affermato di avere scritto del lavoro del Teatro Ebraico di Mosca. Ho scritto non più di quattro o cinque articoli sugli artisti. Chiedo che questi materiali siano allegati ai materiali relativi al caso così che la corte abbia un’idea di che cosa vi si trova…
244Presidente: Il Collegio Militare della Corte Suprema dell’Urss, avendo udito le istanze dell’imputato e fornito immediata delibera, ha determinato che le istanze saranno affrontate nel corso del processo…
245Presidente: Imputato Zuskin, comprende il motivo del rinvio a giudizio?
246Zuskin: Comprendo.
247Presidente: Si dichiara colpevole?
248Zuskin: In parte…70
24911 giugno 1952; ore 20.40.
250Testimonianza di Zuskin.
251Presidente: Imputato Zuskin, di che cosa si dichiara colpevole?
252Zuskin: In quanto membro del Comitato Antifascista Ebraico sono responsabile per le sue attività […] Il grado della mia colpa sarà stabilito dalla corte.
253Presidente: Ci racconti della sua attività.
254Zuskin: Vorrei leggere una dichiarazione riguardante la mia testimonianza.
255Presidente: Può consegnare la sua dichiarazione alla corte tramite il segretario.71
25612 giugno 1952; ore 14.45.
257Continuazione dell’interrogatorio a Zuskin. Zuskin risponde alle domande di altri imputati.
258Fefer: Lei ha testimoniato che invece di occuparsi di propaganda, il Comitato Antifascista Ebraico inviava informazioni confidenziali. Lo ha saputo dai quarantadue volumi [del Caso]?
259Zuskin: Tutto ciò che ho dovuto dire mi era ignoto prima del mio arresto.
260Con ciò, la testimonianza di Zuskin è conclusa.72
2612 luglio 1952.
262Decisione concernente le istanze degli imputati.
263Il Collegio Militare della Corte Suprema dell’Urss, avendo studiato le richieste degli imputati raccolte durante i procedimenti della corte, prosegue: […] e Zuskin – includere nel caso il materiale di carattere letterario scritto da loro (poesie, racconti e articoli) che li presenterebbe in una buona luce […]
264Si prende in considerazione il fatto che le opere letterarie cui si fa riferimento nelle istanze non sono direttamente collegate alle accuse […]
265Non trovando base alcuna per garantire le istanze sopra menzionate ha deciso di respingerle.73
26611 luglio 1952; ore 12.45.
267Dichiarazione finale degli imputati.
268Dalla dichiarazione finale di Veniamin Zuskin.
269Cittadini giudici del Collegio Militare!
270Nella mia ultima dichiarazione vorrei dire qualcosa sulla mia vita. Avevo diciotto anni quando ebbe luogo la grande Rivoluzione d’Ottobre […] Dopo la Rivoluzione sono diventato un cittadino a pieno titolo e uguale agli altri dell’Urss […] Sono finito al Teatro Ebraico di Stato […] ed è stata la tragedia della mia vita […] Per concludere, voglio dire alla corte che sento di avere la coscienza pulita […] non ho commesso nulla che fosse ostile o malevolo [… ]74
271Alle ore 17.50 la corte si ritirò per deliberare la sentenza.
272Il 18 luglio 1952, alle ore 13.05 il processo della corte fu dichiarato chiuso.75
27318 luglio 1952; dalle ore 12.00 alle ore 13.05 fu comunicata la sentenza:
274In nome dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche,
275il Collegio Militare della Corte Suprema dell’Urss […] in una deliberazione a porte chiuse, a Mosca, dall’11 al 18 luglio 1952, ha esaminato il caso degli imputati:
276[…]
2779. Zuskin, Veniamin L’vovič, nato nel 1899 [… ]76
278L’inchiesta preliminare e il procedimento della corte hanno stabilito che per mobilitare la popolazione ebraica all’estero nella lotta contro il fascismo e per pubblicizzare le conquiste dell’Unione Sovietica sulla stampa estera, il Comitato Antifascista Ebraico fu fondato nell’aprile del 1942 sotto l’egida dell’Ufficio Sovietico per l’Informazione.
279Imputato Lozovskij […] come vice direttore [e in seguito direttore] del Sovinformbureau […] ha utilizzato il Comitato Antifascista Ebraico […] per riunire gli ebrei nazionalisti nella lotta contro […] lo stato sovietico […], per accendere sentimenti nazionalisti e sionisti tra la popolazione ebraica e per diffondere voci calunniose secondo le quali l’antisemitismo era presumibilmente fiorente all’interno dell’Urss […] Tutte queste attività criminali […] attestano il fatto che il Comitato Antifascista Ebraico è stato trasformato in un centro di attività nazionalistica e di spionaggio…77
280[Segue un elenco dettagliato delle “attività ostili” di ogni imputato del caso, incluso un elenco delle accuse a carico di Zuskin].
281L’imputato Zuskin […] in quanto membro del Comitato Antifascista Ebraico e allo stesso tempo primo attore del Teatro Ebraico di Mosca, il quale, come stabilito dai materiali del caso, era uno dei rami della propaganda nazionalistica del Comitato Antifascista Ebraico, insieme a Michoels, ha prodotto spettacoli che mettevano in risalto antichi costumi ebraici, tradizioni delle piccole città e della vita quotidiana e ha presentato il popolo ebraico come tragico e condannato, risvegliando sentimenti nazionalistici tra gli spettatori ebrei. Ha anche inviato un certo numero di articoli nazionalisti in America sullo stato dell’arte nell’Urss [… ]78
282Sulla base di quanto detto, il Collegio Militare della Corte Suprema dell’Urss dichiara […] Zuskin […] colpevole di avere commesso crimini riferiti agli articoli 58-Ia; 58-10 parte II e 58-11 del Codice Penale della Federazione Russa. Guidato dagli articoli 319 e 320 del Codice di Procedimento Penale della Federazione Russa, il Collegio Militare della Corte Suprema dell’URRS ha condannato:
283[…]
284Zuskin Veniamin, sulla base dell’articolo 58-Ia del Codice Penale della Federazione Russa, alla misura punitiva più severa per i crimini congiuntamente connessi: esecuzione da plotone di esecuzione con confisca di tutte le proprietà.79
285La sentenza è definitiva e non soggetta ad appello.80
28613 agosto 1952: La sentenza è stata eseguita il 12 agosto 1952.
2872 marzo 1953: Quindici documenti [relativi alle esecuzioni] sono stati ricevuti, da inserire nel documento riassuntivo generale.
2884 aprile 1953: Le schede relative alle esecuzioni sono state contrassegnate con numeri d’archivio.81
Buio
289È solo da qui, a distanza di tanti anni, che sono in grado di contemplare quel buio.
290Vedo mio padre. È in piedi in mezzo alla stanza e ha davanti i giudici. Anche se è giorno e di giorno la stanza è illuminata dal sole e di notte dalle luci elettriche, mio padre è sempre nell’ombra.
291Vedo mio padre in una cella senza finestre. Nemmeno il bagliore di fuoco del fucile riesce a penetrare l’oscurità.
292Che cos’è? Buio. Buio in scena. In distanza si sentono i colpi di una battaglia che sta morendo. I suoni della battaglia si fanno meno forti e diventano una melodia funerea. Contro il fondale buio appaiono alcune candele. Sono tenute dagli assistenti dei badkhen, ma a causa dell’oscurità lo spettatore non può vederli, sembra che le candele fluttuino nell’aria.
293A Mosca, al Teatro Ebraico di Mosca, è la sera della prima di Freylekhs.
294Con la mente torno indietro nel tempo e mi vedo nella mia infanzia lontana, in una sala buia, davanti ai miei occhi si sta svolgendo una fiaba incantata e dall’oscurità inizia a emergere una figura. È la figura di Reb Yekl. È il Primo badkhen, lo spirito della gioia, una piccola parte di lui è lo spirito della tristezza. È Veniamin Zuskin, mio padre.
295Fluttua da una parte all’altra del palcoscenico. Guarda il tremolio della luce opaca delle candele. In cielo, il soffitto sopra il palcoscenico, brilla una sola stella.
296Reb Yekl fa un cenno con il fazzoletto e spegne la stella e le candele, una a una. A ogni candela spenta la sala e il palcoscenico si illuminano gradualmente, fino a quando una luce piena avvolge tutto. Il suono tenue della musica cresce e su di esso la voce trionfante di Reb Yekl è sempre più forte, la voce di Zuskin, un uomo modesto, tranquillo, discreto, lontano dall’essere un combattente.
297Lo sento. Perché né il tempo né tutto il male del mondo può sconfiggere il suo appello gioioso:
298Spegnete le candele!
299Spegnete i dolori!
Notes de bas de page
1 Dal discorso di Zuskin alla cerimonia funebre, pp 5-6. Con l’espressione «Sappiamo quali tempi stiamo vivendo nel nostro paese» Zuskin intendeva dire che nonostante le difficoltà del dopoguerra bisognava tenere duro. Qualcuno ha citato questo passaggio in forma distorta, come se Zuskin alludesse alla crudeltà del regime, ma attribuirgli intenzioni politiche è sbagliato.
2 M. Goldblatt, A vort vegn Zuskinen cit., p. 127.
3 A cinquant’anni di distanza da quell’evento sono emerse nuove informazioni sulla decisione di Stalin e dei suoi fedelissimi di eliminare Michoels, che in effetti fu brutalmente assassinato prima di abbandonarne il corpo, sul quale sarebbe passato un camion, in una stradina secondaria, così da simulare un incidente stradale.
4 Alexander Tyšler, Ya vižu Mikhoelsa [Vedo Michoels], in Mikhoels cit., p. 498.
5 J. Rubenstein, V. Naumov, eds, Stalin’s Secret Pogrom cit. p. 386.
6 Alexander Tyšler, Ya vižu Mikhoelsa cit. p. 501.
7 P. Markov, Teatral’nyie portrety cit., p. 458.
8 H. Taschemka, Beschpechung mit zwei Schauspielern cit.
9 Sholem Aleichem, Bluždayuščie zvezdy cit., p. 300.
10 S. Redlikh, Yevreysky antifašistsky komitet cit., p. 272.
11 A. Borščagovsky, Obviniaetsa krov cit., p. 166.
12 Lettera di Leybe Zuskin alla nipote Tamara, 1948.
13 G. Kostyrčenko, Out of the Red Shadow cit., pp. 112-113.
14 Quella di «Eroe dell’Unione Sovietica» è stata tra 1934 e il 1989 la più alta onorificenza del paese. Il titolo era accompagnato dalla decorazione dell’Ordine di Lenin, dalla medaglia detta Stella d’Oro e da un solenne certificato.
15 Il Libro nero documenta il brutale assassinio degli ebrei nell’Unione Sovietica durante l’occupazione nazista e nei campi di concentramento e sterminio polacchi durante la Seconda guerra mondiale. Il libro fu preparato dal Comitato Antifascista Ebraico sotto la direzione degli scrittori Ilia Ehrenburg e Vasily Grossman e pubblicato in prima edizione in Francia nel 1944. A ciò seguì la proibizione di pubblicarlo in russo e in Unione Sovietica, dove apparve soltanto in yiddish nel 1945 con diversi tagli redazionali. Nei decenni seguenti il libro ebbe varie traversie, a partire dalla pubblicazione negli Stati Uniti, in inglese, nel 1946, a quella del 1980 a Gerusalemme, in russo, e infine a quella di Vilnius, in russo, del 1993, corredata da un’ampia prefazione che racconta per la prima volta la storia dal finale tragico del Comitato Antifascista Ebraico. In italiano si vd. l’edizione Mondadori del 1999.
16 J. Rubenstein, V. Naumov, eds, Stalin’s Secret Pogrom cit., p. 389.
17 S. Redlikh, Yevreysky antifašistsky komitet cit., p. 284.
18 Ivi, pp. 290-293.
19 J. Kerler, “12 agosto 1952” cit., p. 60.
20 N. Vovsi-Michoels, Moi otets Solomon Michoels cit., p. 11.
21 Le autorità sovietiche imponevano alle persone che intendevano arrestare o esiliare di non abbandonare le proprie abitazioni, così che di esse si potesse disporre altrimenti. Mia madre e io fummo costrette a firmare questo accordo un mese prima del nostro esilio in Kazakistan all’inizio del 1953, pochi mesi dopo l’esecuzione di mio padre. Ci informarono che ciò era dovuto al fatto che eravamo famigliari di un traditore della madrepatria ma non ci dissero che era morto. L’esilio doveva durare dieci anni, ma dopo la morte di Stalin ci fu concesso di tornare a Mosca nell’estate del 1954. Sapemmo dell’avvenuta esecuzione soltanto alla fine del 1955.
22 F. Kandel, “Zakoldovanny teatr” cit., p. 36.
23 Aleksandr Solženicyn, Arcipelago Gulag, 3 voll., Mondadori, Milano 1974- 1978, p. 18.
24 Joshua Rubenstein, dichiarazione rilasciata all’autrice, Gerusalemme, 2001.
25 J. Veidlinger, The Moscow Yiddish Theater cit., p. 274.
26 Ibid.
27 G. Kostryčenko, Out of the Red Shadow cit., pp. 112-114.
28 Lubjanka (dal nome della piazza in cui si trovava) era la famigerata prigione di Mosca in cui Zuskin fu rinchiuso per tutto il tempo dell’istruttoria.
29 Koliazin, ed, Vernite mnie svobodu cit., p. 340.
30 Ibid.
31 J. Rubenstein, V. Naumov, eds, Stalin’s Secret Pogrom cit., p. 386.
32 A. Borščagovsky, Obviniaetsa krov cit., p. 228.
33 Ivi, p. 229.
34 G. Kostyrčenko, Out of the Red Shadow cit., p. 223.
35 J. Rubenstein, V. Naumov, eds, Stalin’s Secret Pogrom cit., p. 394.
36 G. Kostyrčenko, Out of the Red Shadow cit., p. 224.
37 Koliazin, ed, Vernite mnie svobodu cit., p. 342.
38 V. Numov, ed., Nepravednyj sud cit., p. 8.
39 A. Borščagovsky, Obviniaetsa krov cit., p. 95.
40 Pheng Cheah e Bob Robbins, eds, Thinking and Feeling Beyond the Nation, University of Michigan Press, Ann Arbor 1988.
41 L. Finkel, Videnia cit., p. 24.
42 J. Veidlinger, The Moscow Yiddish Theater cit., pp. 270-271..
43 Mordechai Altshuler, “Teatron yiddish ve hatsibir be Israel”, in Id., ed, TheJews in the Soviet Union: Studies - Essays - Documents, HE, Jerusalem 1996, p. 52.
44 F. Kandel, Zakoldovanny teatr, cit., p. 43.
45 Ibid.
46 V. Naumov, ed, Nepravednyj sud cit., p. 9.
47 A. Solženicyn, Arcipelago Gulag cit., p. 129.
48 G. Kostyrčenko, Out of the Red Shadow cit., p. 124. La dizione “gruppo di Leningrado” designa diverse figure chiave della città e della zona liquidate tra il 1949 e il 1953 per ordine di Stalin che li considerava potenziali rivali.
49 V. Naumov, ed, Nepravednyj sud cit., pp. 9-10.
50 Koliazin, ed, Vernite mnie svobodu cit., pp. 350-351.
51 J. Rubenstein, V. Naumov, eds, Stalin’s Secret Pogrom cit., p. 480. Vd. anche l’Epilogo di questo libro, da p. 225.
52 Ibid.
53 V. Naumov, ed, Nepravednyj sud cit., p. 10.
54 Koliazin, ed, Vernite mnie svobodu cit., p. 351.
55 A. Solženicyn, Arcipelago Gulag cit., p. 398.
56 Koliazin, ed, Vernite mnie svobodu cit., p. 353. La prigione di Lefortovo si trova a Mosca in un’area in cui sorgevano all’inizio del diciottesimo secolo un palazzo reale e il primo ospedale militare russo. Il nome deriva dall’Ammiraglio Lefort, uno svizzero che aveva servito sotto lo zar Pietro il Grande.
57 J. Veidlinger, The Moscow Yiddish Theater cit., p. 272.
58 V. Naumov, ed, Nepravednyj sud cit., p. 11.
59 Ibid.
60 Ibid.
61 G. Kostyrčenko, Out of the Red Shadow cit., pp. 129-130.
62 V. Naumov, Nepravedny sud cit., p. 10.
63 J. Rubenstein, V. Naumov, eds, Stalin’s Secret Pogrom cit., p. 490. Vd. anche l’Epilogo del libro, da p. 225.
64 V. Pimenov, “Dve sud’by”, «Teatr», 6 (giugno 1990), p. 129.
65 P. Markov, Teatral’nyie portrety cit., p. 459.
66 A. Azarkh-Granovskaja, Vospominania cit., p. 134.
67 J. Rubenstein, V. Naumov, eds, Stalin’s Secret Pogrom cit., p. 388.
68 Ivi, p. 65.
69 Ivi, p. 68.
70 Ivi, pp. 75-77.
71 Ivi, pp. 383-384.
72 Ivi, p. 400.
73 Ivi, p. 428.
74 Ivi, p. 480.
75 Ivi, pp. 480-482.
76 Ivi, p. 482.
77 Ivi, pp. 482-488.
78 Ivi, p. 490.
79 Ivi, pp. 491-492.
80 Koliazin, ed, Vernite mnie svobodu cit., p. 358.
81 Ivi, p. 360.
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