Quarto atto (1939-1947)
p. 110-160
Texte intégral
Insignito di riconoscimenti
1In occasione del ventesimo anniversario del Goset, al teatro arrivarono telegrammi, lettere e telefonate da tutta l’Unione Sovietica, furono pubblicate sulla stampa e trasmesse per radio congratulazioni, gli auguri ricevuti furono numerosi.
2Il 31 marzo 1939 il governo sovietico emanò un decreto che assegnava titoli prestigiosi, ordini e decorazioni a molti membri dello staff del teatro. Solomon Michoels ricevette il titolo di Artista del Popolo dell’Unione Sovietica e l’Ordine di Lenin; Zuskin e Pul’ver, il direttore musicale del teatro e direttore d’orchestra interno, furono entrambi insigniti del titolo di Artista del Popolo della Repubblica Federale Socialista Sovietica Russa e dell’Ordine della Bandiera rossa. Molti attori ottennero il titolo di Artisti distinti della Repubblica Federale Socialista Sovietica Russa e varie medaglie.
3La serata di festa si tenne nell’edificio del Goset, era organizzata come un evento teatrale e terminò con un grande ballo, cui parteciparono attori dei migliori teatri di Mosca e di altre città.
4I decorati furono invitati al Cremlino, dove Michail Kalinin, presidente del Consiglio Supremo dell’Unione Sovietica, avrebbe assegnato certificati, decorazioni e medaglie. Al ricevimento che si tenne dopo la cerimonia, Kalinin e i suoi assistenti rimarcarono i risultati del teatro come parte integrante dell’Arte Sovietica. Della natura unica di quel teatro in quanto rappresentante della cultura di una nazionalità specifica, neanche una parola. Gli attori e le attrici lasciarono il Cremlino eccitati per i premi, anche Zuskin sorrideva, scherzava con i propri amici. I dubbi che lo avevano attanagliato recentemente si sarebbero risvegliati di colpo più tardi, quando nella sua mente baluginò il pensiero che non vi fosse più alcun bisogno del teatro.
Insegnante (fine)
5Se non vi era più bisogno del teatro, perché educare una nuova generazione?
6Nonostante fosse un uomo sincero, Zuskin fu costretto a ingannare i ragazzi e le ragazze che volevano studiare l’arte teatrale. Erano pieni di speranza e lui prometteva loro un futuro legato all’arte ebraica: ma che tipo di futuro aveva il teatro? Avevano davvero bisogno di lui? Se lo chiedeva in particolare in riferimento a coloro per i quali il legame tra i valori ebraici e la lingua yiddish non era connaturato come era stato per la sua generazione.
7Quando consegnò la lettera di dimissioni era appena tornato a lavorare alla scuola dopo il periodo di vacanza. Michoels e Belinskij non vollero neanche sentirne parlare, tantomeno in quel momento, era il 1939, l’ultimo anno di studi della classe di Zuskin. Fu costretto a continuare a insegnare ma accettò a condizione che il proprio impiego si concludesse con il diploma della sua classe. Come abbiamo già visto nel Terzo atto, Una serata con Peretz realizzato con i suoi studenti fu un grande risultato.
8Nonostante il successo del saggio finale, non accantonò l’idea di lasciare l’insegnamento. Acconsentì soltanto a fare parte del comitato di ammissione per la classe entrante. Sognava di cercare talenti ma temeva che avrebbero dovuto addentrarsi nella selva dell’assimilazione. Con sua grande sorpresa, le sue previsioni più pessimistiche si rivelarono impraticabili a causa dei fatti che seguirono. A sorprenderlo più di tutto fu che le sue speranze si realizzassero grazie alle forze del male.
9Con il Trattato di non aggressione tra la Germania e l’Unione Sovietica firmato il 23 agosto 1939, la mappa dell’Europa orientale fu ridisegnata e nel 1939-1940 gli stati del Baltico furono annessi all’Unione Sovietica insieme alle province occidentali dell’Ucraina e della Bielorussia. In questi stati e nelle province la gioventù ebraica aveva preservato intatto lo spirito ebraico che Zuskin tanto amava. Il comitato di ammissione vide infatti presentarsi alla selezione alcuni giovani di una specie che era ormai stata dimenticata.
10Un giovane con una chioma di capelli mossi e gli occhi sognanti, su richiesta di Michoels, recitò Černiševskij in ebraico, una cosa proibita in Unione Sovietica. I membri della commissione osservarono non senza entusiasmo tutto ciò che fece, lo stesso fu per il candidato che entrò dopo di lui. Poi fu il turno di una giovane di soli sedici anni, alta ma che sembrava così lontana dall’età adulta, iniziò timidamente e a voce bassa con una storia che aveva preparato. Lentamente la sua voce si fece più forte e si liberò della propria timidezza. Era incredibile! Flessuosa, bella, brava! Possedeva senza alcun dubbio la “scintilla” ebraica che l’insegnante Zuskin aveva per anni sognato di riconoscere nei propri studenti e di cui sentiva la mancanza.
11Abbandonare studenti così?! No, non aveva perso la ragione fino a questo punto.
12Il primo giorno di lezione, quando si affacciò alla porta, sentì che gli studenti bisbigliavano: «Zuskin!». «Zuskin?», si chiese Ethel Kovenskaja, la giovane che lo aveva colpito all’audizione: «Lo avevo visto la prima volta nel ruolo di Senderl, indossava abiti miseri. Poi era entrato in classe un uomo di bell’aspetto, atletico, mi resi conto del potere della magia di ciò che sta tra la scena e la vita»,1 avrebbe affermato molti anni dopo. Quest’ultima, Israel Rubinčik (il giovane che aveva recitato Černiševskij) e Israel Becker (che fece il provino subito dopo), in Israele alla fine della loro vita, avrebbero ricordato agli altri Solomon Michoels e Veniamin Zuskin.
13Zuskin era convinto che per rendere l’insegnamento produttivo fosse importante conoscere bene le persone a cui si rivolgeva e affinché l’insegnante conoscesse i propri allievi, questi ultimi dovevano potersi esprimere. Inventò alcuni particolari strumenti di espressione, Rubinčik avrebbe raccontato in seguito: «Zuskin ci disse: il primo anno non parlerete ma vi esprimerete con il movimento. Solo a fine anno ci fu permesso di dire “neve” e “fiori”».2 Ci voleva una immaginazione speciale per scegliere parole precise come queste per rompere un muro di silenzio durato tanti mesi.
14Nonostante gli studenti fossero lontani dall’essere pigri, gioivano delle rare occasioni in cui insegnante era in ritardo, perché sapevano che avrebbe interpretato coloro che lo aveva fatto tardare o avrebbe raccontato storie interessanti.
15Gli studenti si preoccupavano, e non senza ragione, di essere oggetto di altrettante imitazioni. L’insegnante non si limitava a punzecchiarli, insegnava loro a “rubare”, ovvero a guardare e a comprendere come approcciare il proprio ruolo da attori e perché.
16Il 12 aprile 1941 l’insegnante Veniamin Zuskin ricevette il titolo di “docente” [equivalente di professore associato]. Il titolo fu conseguito grazie al successo di Una serata con Peretz e alla qualità del suo insegnamento.
17Il primo anno terminò nel giugno del 1941 con il diploma della classe del ciclo 1940-1944, molto amata da Zuskin. Alcuni giorni dopo le truppe tedesche invasero l’Unione Sovietica.
18La scuola di recitazione e il teatro furono traferiti lontano dal fronte, nella città di Taškent, capitale della Repubblica Sovietica Uzbeca. Qui il secondo anno di scuola ebbe inizio in aule non riscaldate, in assenza di molti uomini tra gli studenti e tra gli insegnanti, chiamati alle armi. Gli studenti pativano la fame e non avevano contatti con le famiglie, lavoravano occasionalmente nei kolkhoz o nelle fabbriche per rimpiazzare gli operai al fronte. Si deve tenere conto di tutto ciò per apprezzare gli sforzi di studenti e insegnanti, Zuskin tra gli altri.
19Comunicò alla classe che durante questo secondo anno erano autorizzati a parlare. Con ciò, prima che uno studente si esprimesse «con il proprio linguaggio», avrebbe dovuto essere «multilingue», ovvero essersi messo alla prova con tutti gli stili. «Assegnò a ognuno un ruolo opposto rispetto al proprio carattere»,3 ricorda Rubinčik. Era buono e gentile ma sapeva come ottenere ciò che desiderava e in arte non ammetteva compromessi. Il piano didattico del terzo anno prevedeva un lavoro su frammenti di opere diverse.
20Quel metodo avrebbe lasciato il segno sulla futura attività dei suoi studenti una volta diventati attori? Rubinčik racconta: «In tutti i miei ruoli ho sempre pensato: quale chiave avrebbe trovato Zuskin per questo ruolo? Era un insegnante straordinario. Era un dono di Dio. Insegnava come ha fatto Leonardo con i propri studenti, come avrebbe insegnato Michelangelo».4 Per questo motivo vorrei citare le parole di Giorgio Vasari: «A volte, in momenti di benevolenza e nobiltà, il paradiso concede a una persona il dono di una grande grazia e insieme ad esso un talento straordinario… I grandi artisti del Rinascimento aiutavano molto i propri studenti e insegnavano loro come se non fossero i loro studenti ma piuttosto i loro figli».5 L’analogia con Zuskin mi pare perfetta.
21Nel 1943 la scuola di recitazione tornò a Mosca per l’ultimo anno. Fu preparato il saggio finale Lo scherzo sanguinoso [Der blutiker shpas], tratto da un racconto di Sholem Aleichem. La trama si svolge in Russia ed è la storia di un ebreo e di un gentile, due amici del ginnasio che decidono di scambiarsi il diploma e l’identità: l’ebreo doveva assumere l’identità del gentile con il suo diploma che ha voti appena mediocri e il gentile quella dell’ebreo eccellente negli studi. Nel corso dello spettacolo il gentile si rendeva conto di quanto fosse difficile essere un ebreo. L’espressione «è difficile essere ebreo» [Shver tsu zayn a yid] sarebbe diventato il titolo dell’opera, andata in scena in molti altri teatri in tutto il mondo. Lo spettacolo era una performance molto potente in termini di regia e di recitazione, tanto che subito dopo essere stato messo in scena alla scuola entrò nel cartellone del Goset, incontrando regolarmente un grande successo. Nella comunità teatrale moscovita girava voce che Zuskin avesse diretto un’opera interessante; tra il pubblico vi erano numerosi artisti russi molto noti.
22La classe del ciclo 1940-1944 aveva quindi terminato gli studi. Zuskin ebbe difficoltà a separarsi dai propri allievi. Sapeva che non avrebbe più avuto studenti così. Ne era già convinto a Taškent, secondo lui, dove la scuola aveva iniziato a essere meno severa nell’esigere che gli studenti si dedicassero alla professione che avevano scelto, alla cultura e al teatro yiddish. Si rivolse a Belenkij e a Michoels rinnovando la propria richiesta di dimissioni dall’insegnamento. Michoels reagì con rabbia: «Che diritto hai di abbandonare come un topo la nave che sta affondando?». Non c’era via d’uscita. Rimase a bordo della «nave che stava affondando».
23Con l’ingresso della nuova classe nel 1944 il percorso di studi cambiò radicalmente. Le materie erano ancora molto varie e gli insegnanti eccellenti, ma fu tagliato il numero di ore dedicate alle materie ebraiche. Zuskin utilizzava le lezioni di recitazione per instillare nei propri studenti l’amore per i classici della letteratura ebraica.
Arn Friedman
24Torno al 1939, anno del ventesimo anniversario del Goset. Nel novembre del 1939 il teatro debuttò con una nuova produzione, la prima dopo le celebrazioni, Il banchetto [Der moltsayt] di Peretz Markiš, dedicato alla lotta contro le bande antisovietiche in Ucraina durante la guerra civile seguita alla Rivoluzione d’Ottobre nel 1917.
25Zuskin non era nel cast ma Eda aveva un ruolo abbastanza importante, Blumke la Rossa, una giovane sognatrice che mette coraggiosamente in atto una vendetta: durante un banchetto a cui partecipano i membri di una banda, che si ubriacano, in una danza che passava dall’essere contenuta per diventare gradualmente molto appassionata, uccideva il loro capo «come lo Yael della Bibbia uccide Sisera».6 Anche Markiš fu soddisfatto dell’interpretazione che Eda aveva realizzato di Blumke.
26Parallelamente al Banchetto il teatro preparò un’altra nuova opera, Arn Friedman, di Shmuel Halkin, e a Zuskin fu assegnato il ruolo del protagonista, Arn.
27I personaggi lavorano in un kolchoz nella penisola della Crimea. Arn è un insegnate in pensione entusiasta della nuova vita nel kolchoz, in contrasto con il figlio Lev, che sente la mancanza della vita cittadina. L’opera prevede anche un confronto tra Arn e la figliastra del padre, una negoziante rimasta una individualista; alla fine, Arn si riconcilia con il figlio Lev e lo benedice quando si arruola nell’Armata Rossa.
28La scenografia di Nathan Altman era impressionante e alla produzione parteciparono attori straordinari. Nonostante ciò, lo spettacolo era così cupo che Zuskin temette di affogare nelle sue acque. Riuscì a restare a galla e a riemergere per interpretare un personaggio che sembrava uscito da un manifesto di propaganda trasformandolo in «un personaggio pieno di vita e convincente sia come sovietico sia come ebreo».7 Riuscì insomma in un compito impossibile.
Anima vulnerabile
29Una mattina del dicembre 1939 ci fu una discussione tra Zuskin e Michoels. Inizialmente la disputa era stata pacifica, riguardava un problema marginale, ma gradualmente si estese ad altre questioni e con stupore degli stessi Michoels e Zuskin le loro voci si fecero più alte e acute. Zuskin aprì il proprio cuore a sentimenti che aveva tenuto nascosti, in realtà rivolti più a Vovsi che a Michoels. Michoels era consapevole della capacità di osservazione e comprensione di Zuskin, che su alcune questioni aveva ragione. Ammetterlo però non era facile, tanto più ad alta voce.
30Che cosa aveva da mettere in discussione Zuskin? Michoels. Il fatto che era troppo impegnato con questioni esterne al teatro, al repertorio, alla distribuzione dei ruoli in alcuni spettacoli e così via. E poi se stesso: Michoels non ricopriva più ruoli in scena e Zusa era ormai l’attore numero uno del teatro. Nonostante ciò, continuava a svalutarsi, a voler restare nell’ombra. Per quanto riguarda Eda, riteneva che non le fossero affidati ruoli drammatici e che la ignorassero in occasione di riconoscimenti poiché se l’avessero trattata come meritava sarebbe parso che le espressioni di stima nei suoi confronti fossero dovute al fatto che era la moglie di Zuskin.
31Zuskin era molto sensibile e sentiva di non essersi difeso abbastanza, si rimproverava di essere stato troppo duro con Michoels. I problemi con Michoels lo avrebbero amareggiato molto e sarebbero riemersi dieci anni dopo, nell’estate del 1952, durante il processo: «Dal 1939 non ho più parlato con Michoels, voglio dire con Vovsi. Ho parlato con Michoels soltanto perché ero coinvolto nelle attività del teatro».8 Come era potuta accadere una cosa simile?
32Cerco di visualizzare mio padre in carcere. Quando dal sonno profondo dell’ospedale si risveglia tra le mura della cella è sotto shock. Che cos’altro avrebbe potuto dire mio padre sul proprio rapporto con Michoels o con Vovsi in quelle condizioni?
33È difficile decifrare nelle affermazioni fatte nel corso del processo le relazioni che nella vita si erano stabilite tra loro nel corso del tempo, in periodi di paura e di pressioni esterne, in circostanze che certamente non sono vita quotidiana.
34È un peccato che alcuni estratti delle affermazioni amareggiate di Zuskin riferite all’ultimo Michoels siano state pubblicate da coloro che hanno scritto degli eventi in questione senza fornire alcuna spiegazione. Fu così per tutti tranne Levašov: «Michoels non osava esternare le proprie preoccupazioni neanche con Veniamin Zuskin, il suo amico più caro. Zuskin era più di un amico […] era diventato nervoso, irritabile, soffriva di insonnia […] Zuskin, un attore dotato di una grazia divina, un uomo dall’ “anima vulnerabile”».9
Regista (continuazione)
35Nel 1940 il Teatro Musicale di Nemirovič-Dančenko contattò Zuskin per proporgli di aiutare il regista Pavel Markov a dirigere l’opera La famiglia [Sem’ya]. La trama dell’opera era tratta dal film Cercatori di felicità. I creatori non erano abbastanza preparati sui costumi ebraici, in particolare sul Birobidžan, conoscevano però Zuskin e avevano apprezzato la sua recitazione nel film, sapevano inoltre che durante le riprese aveva avuto un ruolo che si sarebbe potuto definire da “consulente in merito alle questioni etniche” per gli altri attori. «Aveva generosamente condiviso con noi la sua esperienza da attore brillante e le sue vaste conoscenze sulla vita e la cultura ebraiche. I suoi suggerimenti dettagliati e pensati con attenzione, la sua insistenza sulla fusione di lirismo e humor furono accettate dagli interpreti volentieri e con gratitudine»,10 avrebbe riferito Pavel Markov vent’anni dopo.
36Nel 1959, quando mio padre non era più in vita, alla Casa dell’Attore di Mosca, in occasione di una serata speciale che celebrava il suo sessantesimo compleanno, Markov era il primo relatore. L’interessante discorso che tenne quella sera fu in seguito pubblicato nella forma dell’articolo che utilizzo per le mie citazioni in queste pagine.
Solomon Maimon
37Nell’estate del 1940, Zuskin si fece prestare dal critico Joshua Ljubomirskij il libro Sulla vita di Solomon Maimon dello stesso Maimon. Spiegò che al Goset progettavano di mettere in scena l’opera di Mark Daniel Solomon Maimon e gli avevano offerto il ruolo di protagonista: «Ho detto a Michoels: “Il ruolo è adatto a te, dopotutto tu hai studiato storia della filosofia”; “La filosofia e il testo teatrale appartengono ad ambiti diversi”, mi ha risposto Michoels».11 Così Zuskin iniziò a studiare il libro di Maimon.
38Fu felice di scoprire che vi erano alcuni punti chiave che lo legavano al personaggio del filosofo. Entrambi avevano vissuto l’infanzia in Lituania ed era là che i loro desideri avevano trovato compimento: per Zuskin nell’arte del teatro, per Solomon Maimon (1753-1800) nella scienza filosofica. Zuskin era anche eccitato per il fatto che Maimon, un piccolo uomo dello shtetl senza alcuna istruzione formale, avesse raggiunto le vette del pensiero filosofico tanto da essere messo accanto a Immanuel Kant e perfino mettere in discussione le ipotesi dell’eminente filosofo. Dopotutto, anche Zuskin non aveva ricevuto alcuna vera e propria istruzione in ambito teatrale.
39L’opera in effetti trattava meno della filosofia di Solomon Maimon e più della sua vita. Nel periodo di tempo descritto dal testo la sua vita era stata turbolenta, drammatica e caratterizzata da numerose fasi di transizione. Nello shtetl, la vita famigliare più tranquilla era stata interrotta da esplosioni di rabbia contro un uomo che corteggiava sua moglie, poi era passato dallo shtetl a Königsberg, la città di Kant e centro del pensiero filosofico dell’epoca, da Königsberg era arrivato a Berlino dove, dal far parte di una cerchia di intellettuali era passato alla vita vagabonda, in coerenza con le proprie idee anticonvenzionali. Zuskin-Maimon attraversava brillantemente la transizione dalla paura e il senso di impotenza che lo attanagliavano quando incontrava il popolo berlinese agli slanci del cuore verso i più sfortunati, per passare infine alla frequentazione dei salotti berlinesi dove si faceva beffe di Moses Mendelssohn, fondatore del movimento illuminista che avrebbe poi finito per conquistare la sua stima.
40Michoels riteneva che non fosse possibile comprendere la filosofia soltanto ascoltandola, era convinto della necessità di presentare il filosofo agli spettatori ebrei in modo che potessero conoscerlo e provare simpatia nei suoi confronti. Michoels puntò su un numero vincente: «L’attore riesce a trasformare il processo invisibile del pensiero in qualcosa che è possibile vedere e sentire».12 La filosofia e lo spettacolo teatrale non erano mondi poi così lontani.
Il vecchio Bashkir
41Ho già detto che a Mosca vivevo non lontano dalla Casa del cinema che spesso programmava vecchi film. Alla fine degli anni Cinquanta, per una settimana fu proiettato il film Salavat Yulaev. Come titolo del film era stato scelto il nome dell’eroe del Diciottesimo secolo nonché poeta della Baschiria che aveva vissuto sui monti Urali. Il film uscito nel 1940 descriveva la vita dell’eroe e la lotta del popolo baschiriano per la liberazione dal giogo dello zar.
42In questo film Zuskin aveva un ruolo secondario, tanto secondario da non comparire tra i titoli di coda come membro del cast ma soltanto sotto la dizione: «Compaiono anche…», senza indicazione del ruolo. Erano in pochi a sapere di Zuskin in quel film e tra coloro che lo sapevano non molti lo avrebbero ricordato.
43Si tratta di un film d’azione costellato di caratterizzazioni etniche del popolo baschiriano. Salavat Yulaev indossa un cappello decorato da una coda di volpe che ondeggia al vento, monta a cavallo, si muove sullo schermo agitando la spada a destra e a sinistra, trionfa sugli oppressori e salva gli oppressi. Il film racconta anche una storia d’amore e di amicizia: poteva avere successo altrimenti?
44La tensione giunge all’apice quando i soldati dell’esercito zarista entrano nel villaggio in cui vive il protagonista. Salavat è fatto prigioniero e viene portato di casa in casa così che gli abitanti ne confermino l’identità. Fedeli a Salavat, tutti fingono di vederlo per la prima volta in vita loro.
45Quando tocca all’anziano interpretato da Zuskin, i residenti del villaggio, i soldati e il pubblico sono certi che il vecchio denuncerà l’eroe poiché suo figlio è stato ucciso per conto di Salavat, anche se si era trattato di un errore. L’ufficiale si rivolge al vecchio: «Tu! Guarda! È Salavat?». Pausa. L’urlo dei giovani spettatori rompeva il silenzio teso della sala: «Non tradirlo!». Zuskin faceva un gesto che diceva chiaramente che poteva essere considerato incondizionatamente affidabile, guardava Salavat con un lungo sguardo attento e con una voce che sembrava piena di gioia malvagia, in un russo stentato diceva lentamente: «Se vedo Salavat, lo strangolo con le mie mani». Altra pausa. La tensione nel corpo e nello sguardo del vecchio si attenuava, quindi affermava con calma «Quest’uomo non è Salavat» e il pubblico tirava un sospiro di sollievo. Salavat veniva liberato e così anche Zuskin. Prima dell’happy ending avevano luogo altri eventi, come accade nei film d’azione.
46In questo ruolo secondario Zuskin faceva uso di tutte le sfumature di cui era capace come attore. La sua interpretazione servì anche come banco di prova per la sua convinzione che un attore che sa utilizzare correttamente e nella misura adeguata i caratteri distintivi della propria nazionalità è in grado di interpretare qualsiasi nazionalità. Perciò non calcava eccessivamente la mano con la caratterizzazione etnica. Il grande Stanislavkij aveva ragione: non ci sono piccole parti, soltanto piccoli attori.
Hotzmach
47Verso la fine degli anni Quaranta avevo iniziato a vedere mio padre in scena e anche se allora le mie impressioni non erano abbastanza mature, penso di poterle riportare, assieme ad alcuni pensieri sorti in seguito. Quale tra i ruoli di mio padre è il mio preferito? Freylekhs ha un posto speciale nel mio cuore, era uno spettacolo così colorato e denso di significati. Ne ho parlato nel Prologo e ci tornerò. Ma più di tutte ho amato un’altra produzione, il che mi fa sospettare di essere faziosa, dato che la mia predilezione ha ragioni di carattere personale. Mi sono sentita meglio quando ho letto: «Un’altra performance del Goset, meno conosciuta ma non meno stupefacente, è da annoverare tra i miracoli degli anni Quaranta».13 Anche mio padre aveva un rapporto speciale con quest’opera: «Nei miei ruoli cerco di trovare aspetti che siano vicini al mio cuore… È successo per esempio in Stelle vagabonde».14
48Stelle vagabonde [Di blondzhende shtern] è un romanzo di Sholem Aleichem che racconta la storia di due attori ebrei tra la fine del Diciannovesimo e l’inizio del Ventesimo secolo. Il romanzo è stato adattato per il teatro da Dobrušin e lo spettacolo andato in scena nel maggio del 1941 era diretto da Michoels, i costumi e la scenografia erano di Tyšler e le musiche di Pul’ver. Lo spettacolo restò in repertorio fino alla fine della carriera di mio padre, in altre parole per molto tempo, abbastanza a lungo perché io potessi vederlo e ricordarlo. Se nel ruolo di mio padre in Freylekhs si trova secondo me l’essenza del suo essere attore, in Stelle vagabonde era espressa la sua personalità.
49In quest’opera, «quando era il momento di Zuskin in sala calava il silenzio, tutti avevano il fiato sospeso».15 Sono parole di un critico, il “momento di Zuskin” durava diciotto minuti. Era un monologo che il personaggio di mio padre, Hotzmach, teneva nel bel mezzo di un magazzino abbandonato utilizzato come teatro, nel corso del quale raccontava la storia della propria vita. L’Hotzmach di Zuskin raccontava di sé come di un factotum del teatro, uno che non rifiuta di svolgere alcun tipo di mansione, incluso il lucidare le scarpe dei proprietari o dei primi attori o pulire le stalle. Dette da Zuskin, queste parole suonavano come l’eco di ciò che aveva vissuto da giovane, quando si occupava di qualsiasi cosa di cui ci fosse bisogno fosse bisogno pur di trovarsi in teatro e di respirarne l’aria.
50Hotzmach apriva il proprio cuore, con entusiasmo sempre maggiore mentre saltava di ruolo in ruolo. Lì in piedi, con gli occhi coperti da una sciarpa, interpretava Il bluff del cieco e cantava con la propria voce e con quella di un bambino un motivetto rimasto nella mia memoria fino a oggi: «Hotzmach ha gli occhi bendati. Tutti i bambini sono scappati. Dove siete, miei cari? Siamo tutti qui!». Non vedeva l’ora di raccontare un incidente accadutogli. Gli era stato chiesto di andare in scena al posto di un attore che aveva il ruolo di un amante, morto improvvisamente. Quando Hotzmach era entrato in scena, il pubblico era scoppiato a ridere. Più il personaggio si faceva serio, più il pubblico rideva. Alla fine, però, aveva ricevuto il plauso dei proprietari del teatro: «Cattivo! Perché non ci hai detto di essere un attore!».
51Attore? Hotzmach confessava di non sapere neanche che cosa significasse quella parola. Da quel momento però aveva iniziato a interpretare ruoli di ogni tipo. «Mi senti, ragazzo: appena entri in scena, tutti i dispiaceri e i dolori svaniscono… In scena sono un’altra persona»,16 diceva con voce carica di emozione al giovane Leybl che lo ascoltava con attenzione.
52Stregato, Leybl ascoltava Hotzmach e il pubblico. Il pubblico si rendeva conto che Zuskin stava raccontando di sé e di avere davanti agli occhi un’opera d’arte che, come nella vita, mostrava dolore e ironia sempre intrecciati. A un certo punto, Hotzmach dimenticava il ragazzino incantato e raccontava in modo commovente le proprie preoccupazioni per la madre e la sorella. Improvvisamente l’ironia prendeva il posto della tristezza, Hotzmach si voltava verso Leybl e con i gesti e le parole lo invitava: «Vieni, vieni, vieni da me», la canzone della Strega che risaliva agli inizi della carriera di Hotzmach, di Zuskin e di ogni attore ebreo degno di questo nome. «Com’era possibile non andarci e non innamorarsi di questo teatro magico quando il seduttore era Hotzmach-Zuskin? »17 E come ci si poteva ridestare da quell’incantesimo?
53Hotzmach persuade il giovane Leybl a rubare una somma di denaro ai genitori e fuggire in un altro paese. «Ho interpretato il personaggio di Hotzmach come qualcuno che vede nel ragazzino le qualità del grande attore, non come uno che lo sta sfruttando»,18 avrebbe spiegato Zuskin. Con i soldi che Leybl sottrae ai genitori, Hotzmach crea il proprio teatro e fa di Leybl il primo attore, Leo Rafalesko, nominandosi regista e direttore, Bernhard Holtsmann. Avendo avuto fortuna, diventa l’ombra di Leo.
54La trama si sviluppa così, sia nel romanzo che nella versione teatrale. «Sulla scena però le stelle cambiavano strada. Leo Rafalesko era sorpreso di vedere colui che era stato il suo buffone agire con tanta abnegazione».19 All’inizio del monologo, mentre parla, Hotzmach sposta alcune panche in scena sistemandole in file, come le sedie di un teatro. All’apice del monologo sta in bilico su di esse, i suoi movimenti sono miracoli di acrobatica e nonostante ciò appaiono perfettamente naturali. Leybl ne è incantato. Fissa il proprio sguardo su Hotzmach e come ipnotizzato procede verso di lui meccanicamente, fa un balzo per superare le panche, inciampa e cade.
55Nella mente del critico teatrale Inna Višnevskaja, impressionata dal monologo di Hotzmach quanto lo era Leyb, le panche risvegliarono l’associazione con Le sedie di Eugène Ionesco: «Sarebbe passato molto tempo prima che si mettessero in scena Le sedie di Ionesco, ma al Goset le sedie-panche di Zuskin hanno già preso vita e hanno parlato del destino e dei destini».20 Nel testo di Ionesco un uomo e una donna anziani sistemano un numero infinito di sedie per gli ospiti che dovrebbero arrivare, anche se entrambi sanno, come Zuskin, che il pubblico desideroso di ricevere un messaggio dal teatro sta scomparendo. Ancora una volta un oggetto inanimato (qui una panca o una sedia) si trova ad avere un ruolo che più di ogni altro riflette la personalità di mio padre.
56Lo spettacolo proseguiva. Leo Rafalesko e Bernard Holtsmann andavano a Londra, dove Leo otteneva un fulmineo successo, mentre Hotzmach-Holtsmann soffriva per il proprio vergognoso fallimento personale, il suo amore e devozione per il teatro andavano in frantumi nello scontro con il mondo degli affari. Leybl partiva per New York senza Hotzmach. Quest’ultimo, afflitto dal male che lo perseguitava dall’infanzia, la tubercolosi, oltre che abbandonato dall’amato protegé Leybl, si ritrova solo. Inoltre deve prendersi cura dell’anziana madre e della sorella più giovane, Zlatke, innamorata di Leybl, anche lei abbandonata.
57Il destino ha voluto che il teatro mettesse in scena Stelle vagabonde proprio nei giorni in cui qualcosa di particolarmente difficile tormentava il cuore di mio padre. L’omicidio di Michoels era già avvenuto quando una mattina vidi mio padre camminare avanti e indietro per la stanza mentre memorizzava la parte di Hotzmach. Improvvisamente, con un gesto che rivelava un’angoscia profonda, mi abbracciò, mi strinse al petto e insieme a me continuò ad andare avanti e indietro per la stanza ripetendo la parte.
58Quella sera vidi lo spettacolo. Quando in preda al terrore Hotzmach abbracciava la sorella Zlatke sentii qualcosa che pulsava dentro di me: in quei giorni, nonostante i miei genitori fossero chiusi in se stessi, sapevo che mio padre era affranto, ma la profondità della sua disperazione mi si rivelò soltanto in quel momento.
59È interessante che l’attrice che interpretava Zlatke, che ovviamente conosceva alla perfezione la scena, quella sera fosse in preda al terrore per il proprio compagno di scena, mio padre.
60Mio padre attribuiva ai personaggi alcuni tratti e caratteristiche che condivideva lui stesso, come per tutti i ruoli, e il risultato non era mai un’accozzaglia, anzi ne risultava un intreccio raffinato. Questo intreccio così delicato si fece più doloroso quando l’angoscia che attanagliava mio padre si fece più difficile da sopportare.
61Anche i sentimenti devono avere una loro espressione teatrale e anche qui a venire in soccorso fu un oggetto. Quando Hotzmach era sdraiato sul divano, malato e abbandonato, il suo volto era coperto da una sciarpa nera e quando per un momento si risollevava dal proprio scoraggiamento e la speranza gli scaldava nuovamente il cuore, la sciarpa era da lui agitata in segno di trionfo. Poi Hotzmach tornava alla realtà e quando realizzava che non avrebbe più calcato la scena diceva: «I dottori dicono che ho bisogno di riposo, di aria, di mare… Ma per cosa, senza il teatro?»,21 a questo punto si metteva la sciarpa intorno al collo, come un cappio.
62Per mio padre queste parole di Hotzmach erano il leitmotif del ruolo e – credo – della sua vita. Ma la sua performance continuava. C’era ancora spazio per risate e danze, che avevano inizio con l’immortale canzone della Strega: «Vieni, vieni, vieni da me», un maleficio. Terminata la canzone, il maleficio restava e ci ammaliava tutti.
Profeta
63Un incantesimo. Non mi pare una semplice coincidenza che mio padre sia diventato un attore di fama grazie al ruolo della Strega. Aveva infatti una sorta di saggezza stregonesca che lo aiutava a penetrare il passato, a sentire il presente con tutto il proprio essere e a prevedere o indovinare il futuro.
64Quando mi resi conto che mio padre sapeva come trasmettere alcuni messaggi che venivano dal passato utilizzando espressioni del presente, mi venne in mente una vecchia trasmissione televisiva nella quale un noto musicista sovietico affermava con convinzione che in epoca moderna è possibile ascoltare e comprendere la musica di Bach soltanto se suonata a un tempo accelerato rispetto a quello dell’epoca in cui è vissuto il compositore. Il tempo è importante nella musica, chiaramente. In teatro Zuskin utilizzava tecniche precise con le quali il suo pubblico poteva cogliere con i propri sensi l’eco del passato. E anche del futuro: «Zuskin è stato uno dei primi a sentire in lontananza il rumore sotterraneo rimbombante che annunciava la catastrofe, […] presagi che annunciavano il male in giorni all’apparenza sereni e tranquilli».22
65In molti hanno parlato dell’intuizione di Zuskin. Per quanto riguarda lo stesso Zuskin, riteneva che si trattasse del punto di partenza tanto per il proprio lavoro su un ruolo che per le riflessioni necessarie a trovare un modo di stare al mondo. Se così fosse, se l’intuizione è l’abilità di penetrare istantaneamente l’essenza delle cose, allora è una qualità propria della stregoneria, dei visionari e dei profeti.
66Mi vengono in mente alcuni versetti della Bibbia: «Un gruppo di profeti scende dall’alto con un salterio, davanti a loro un tamburello, un flauto e un’arpa; profetizzeranno (1 Sam 10: 5)… Allora la gente dirà: “Che cos’è questo, che è venuto come il figlio di Kish? È Saul tra i profeti?” (1 Sam 10: 11)».
67È fuori luogo pensare che l’attore fosse un profeta?
L’uomo e la guerra (inizio)
68Come ogni estate, Zusa, Eda e il Goset partirono per una tournée.
69Domenica 22 giugno 1941, giorno in cui l’esercito tedesco invase l’Unione Sovietica, si trovavano nella città di Charkiv, in Ucraina. Michoels e lo staff amministrativo del teatro si recarono di corsa dalle autorità locali per capire che cosa fare. Gli altri membri del Goset attendevano in preda al panico nelle loro camere d’albergo, finché Michoels non tornò per annunciare che sarebbero rientrati a Mosca il giorno seguente.
70Quel giorno i nazisti invasero la capitale lituana. Tamara, biglietto del treno in tasca, preparò le valige. In quanto uno dei tre stati baltici, la Lituania era stata annessa all’Unione Sovietica in seguito al Patto di non aggressione tra l’Unione Sovietica e la Germania, quindi dal 1940 era parte integrante dell’Unione. Così, Rachel, la madre di Tamara, era diventata cittadina sovietica. Tamara studiava presso la Scuola di Medicina, aveva terminato gli esami il giorno prima e si stava organizzando per andare in Lituania a trascorrere le vacanze estive con la madre. Ebbe notizia della guerra dalla radio, venendo così a sapere che i nazisti avevano invaso le regioni a ovest dell’Unione Sovietica. Comunque andò alla stazione con la speranza che la madre e la sua famiglia fossero riusciti a scappare. E quando il Goset tornò a Mosca da Charkiv, Zuskin la trovò alla stazione, seduta ad aspettare.
71Un mese dopo gli aerei tedeschi bombardavano Mosca. Le attività proseguirono presso tutte le istituzioni nonostante la maggior parte degli uomini fossero stati chiamati alle armi. I bombardamenti avevano luogo di notte, e mentre le donne, i bambini, gli anziani e i più deboli venivano mandati nei rifugi antiaerei, gli uomini rimasti andavano sui tetti per evitare che le granate incendiassero gli edifici. Michoels e Zuskin erano vigili del fuoco volontari nell’edificio in cui vivevamo.
72Avevano un equipaggiamento che prevedeva casco, grembiule e guanti antifuoco. Assunsero l’incarico con grande senso di responsabilità e nei momenti di quiete tra i bombardamenti sedevano sul tetto, i vicini si univano a loro: improvvisavano qualche scena divertente per allontanare la paura e distrarre tutti dall’apprensione.
73Va detto che tutto ciò aveva luogo la notte, quando non erano in teatro. Gli spettacoli continuarono ad andare in scena nonostante i bombardamenti, la sala si riempiva, le persone arrivavano da ogni dove per trovarsi in un luogo in cui dimenticare la guerra. Stelle vagabonde debuttò a Mosca in settembre, in maggio era a Leningrado.
74All’inizio dell’agosto 1941 un ordine governativo prevedeva che tutti i bambini fino ai quattordici anni fossero sfollati da Mosca per essere trasferiti in zone più sicure. Venivano mandati presso i parenti, se ne avevano, oppure in dormitori. Alcuni parenti di mio padre vivevano ancora a Penza, lontano dalla prima linea del fronte. Mio padre mi portò da sua cugina Bertha e tornò a Mosca. Ero appena arrivata quando cominciai a stare male e mio padre tornò a Penza per parlare con i medici. La notte che passò a Penza, mentre dormivo, nella luce notturna venata di rosso vidi i tratti del suo volto e sentii la sua voce. Balbettava. All’epoca non sapevo che nei momenti di grande emozione il suo problema infantile si ripresentava. Più avanti, molti testimoni mi hanno riferito che ogni tanto quel problema si era manifestato nella vita di ogni giorno, ma non era mai accaduto in scena.
75Il giorno seguente Bertha preparò per mio padre un benvenuto speciale, con le sue prelibatezze ebraico-lituane preferite: teigekhts, un budino di patate grattugiate, e teiglekh, palline di un impasto di noci e miele. I nomi dei due piatti sono così simili che continuo a confonderli. Da allora, ogni volta che si parlava delle difficoltà di mio padre o della sua balbuzie, rivedo la stanza illuminata dalla luce rossastra nella notte e nella mente cerco di non confondere teygekhts
e teiglekh.
Antifascista (inizio)
76Zuskin tornò a Mosca. Il giorno seguente non erano previste attività in teatro, era un giorno di vacanza. Andò comunque a lavorare per rinfrescare la propria parte. Quando ebbe terminato, nel corridoio incontrò Michoels con il poeta Samuel Maršak. «Ecco una persona che può scrivere a macchina per noi», disse Michoels felice. Andarono in ufficio, Zuskin batté a macchina un testo a cui non prestò particolare attenzione ma che gli parve una sorta di proclama antifascista. Michoels lo invitò a presenziare insieme a lui a una manifestazione antifascista.
77C’è un altro oggetto a un altro bivio nella vita di mio padre. Ancora un macchina da scrivere. Questa volta è un bivio da cui non ci fu ritorno.
78Zuskin andò alla manifestazione antifascista e ascoltò il discorso di Michoels, riconoscendo le parole che aveva battuto a macchina. Condivideva ogni parola dei discorsi di Michoels e degli altri oratori. Era chiaro che non avevano partecipato a un incontro qualsiasi ma si trattava di una manifestazione contro il fascismo, qualunque cosa fosse stata detta sarebbe venuta dal cuore e sarebbe arrivata dritta al cuore di coloro che ascoltavano. Quella che fu chiamata “Manifestazione della Radio” fu trasmessa in tutto il mondo. In tutti i discorsi «il tema centrale era la solidarietà ebraica e l’espressione «fratelli ebrei» era continuamente ripetuta. Idee, emozioni ed espressioni che erano state tabù per molti anni in Unione Sovietica ricevevano improvvisamente la benedizione del regime.23 Da un giorno all’altro era diventato possibile chiamare “fratelli” gli ebrei oltreoceano e persino chiedere il loro aiuto; si potevano menzionare le tradizioni del popolo ebraico, la sua storia antica e fare riferimento alle sofferenze degli ebrei rinchiusi nei ghetti.
79Il 24 agosto, giorno della Manifestazione della Radio, la creazione di un Comitato antifascista ebraico non era ancora stata annunciata, nessuno sapeva che Michoels ne sarebbe stato presidente e che lo avrebbero mandato in America in questa veste. Zuskin non poteva sapere che la propria presenza alla manifestazione sarebbe stata notata e che sarebbe stato nominato membro del Comitato. Non poteva neanche immaginare che con le sue mani – non con una penna ma con una macchina da scrivere – aveva firmato la propria condanna a morte.
80È possibile che questa condanna fosse stata sottoscritta molto prima, quando subito dopo avere terminato di battere qualcosa a macchina (nuovamente una macchina da scrivere!) aveva preso il volo a cavallo di una scopa come la Strega? O ancora prima, quando nella cittadina di Ponevež Chaya Zuskin aveva dato alla luce il proprio terzo figlio, Veniamin.
Residente a Taškent
81Il 16 ottobre 1941 la guerra aveva già preso una brutta piega per l’Unione Sovietica e iniziava a correre voce che i tedeschi stessero per invadere Mosca. Le autorità iniziarono immediatamente a evacuare le istituzioni e trasferire le persone in città nelle retrovie. Il Goset fu mandato a Taškent, capitale della Repubblica Sovietica dell’Uzbekistan. Michoels fece una deviazione sulla strada per Taškent per recarsi a Kujbyšev, dove si erano trasferite le istituzioni. Doveva sistemare i documenti del teatro e svolgere i propri doveri di uomo pubblico. Mio padre viaggiò insieme al teatro ma fece una deviazione per venire a prendermi a Penza.
82Quando il Goset giunse a Taškent fu chiaro che non era stato preparato nulla per il suo arrivo, allora fu spostato a Samarcanda, dove rimase per cinque settimane. Tornammo infine a Taškent, dove saremmo rimasti per due anni. Nelle prime due settimane abitammo in un hotel in cui condividevamo la stanza con l’artista Aleksandr Tyšler e sua moglie. In seguito fummo alloggiati nell’appartamento di una famiglia uzbeca in cui il marito e i figli erano andati a combattere al fronte; in casa erano rimaste soltanto la moglie e la figlia.
83L’edificio del teatro si trovava poco lontano dalla casa in cui vivevamo, ma la scuola di recitazione era relativamente lontana e arrivarci richiedeva molto tempo, non tanto per la distanza ma perché il percorso attraversava un mercato affollato. Vi si incontravano uzbeki avvolti da cappe colorate vicino a banchi che invitavano i passanti a comprare frutti asiatici altrettanto colorati. Residenti temporanei che si trovano in soggiorno obbligato correvano di qua e di là cercando di scambiare gli abiti della loro vita precedente, verosimilmente più eleganti, che avevano portato con loro da città occupate o bombardate, con del cibo.
84Non vi era alcun tipo di trasporto pubblico. Zuskin soffriva di piedi piatti e nonostante il sovraccarico di lavoro doveva organizzare la propria giornata in modo da farli riposare prima degli spettacoli.
85Non interruppe l’insegnamento presso la scuola anche se in teatro gli era richiesto di impiegare le sue energie mentali anche più del normale: le numerose attività di Michoels non davano pace a Zuskin. Michoels era spesso in viaggio tra Taškent e Kujbyšev. Si presumeva che vi sbrigasse faccende importanti. E così era. Michoels era impegnato in discussioni sulla costituzione del Comitato antifascista ebraico che avrebbe dovuto presiedere. La fondazione del Comitato sarebbe stata annunciata nel momento in cui a Kujbyšev fossero organizzati gli uffici del governo. Inoltre Michoels stava offrendo una consulenza alla direzione del Teatro d’opera e balletto della Repubblica Uzbeca, era regista di uno spettacolo presso il Teatro Uzbeco del Dramma e le sue tracce erano rintracciabili in tutto ciò che accadeva nelle diverse organizzazioni culturali della città.
86Zuskin non ammetteva neanche con se stesso di avere la sensazione che Michoels stesse abbandonando il proprio teatro. Michoels presentava le proprie attività “tra gli antifascisti e gli uzbechi” come un contributo alla lotta al fascismo e come un modo per sdebitarsi per l’accoglienza ricevuta dalla città.
87Nel maggio del 1942 a Mosca si tenne una seconda manifestazione antifascista e vi parteciparono molte figure istituzionali: fu annunciato che nell’aprile di quell’anno era stato finalmente costituito un Comitato antifascista ebraico.
88Passò ancora un anno e il regime mandò Michoels con il suo vice all’interno del Comitato, il poeta yiddish Itsik Fefer, negli Stati Uniti, in Canada, Messico e Inghilterra. L’obiettivo della missione era richiamare l’attenzione del pubblico in quei paesi, ottenere il loro aiuto per i cittadini sovietici che stavano combattendo contro i nazisti e raccogliere fondi per questi fini.
89La sera prima della partenza Michoels chiese a Zuskin di prendere il proprio posto in teatro mentre si trovava all’estero. Zuskin rifiutò, la direzione non era il suo campo. In ogni caso, di fatto Zuskin si era assunto la responsabilità di mandare avanti il teatro anche senza esserne stato ufficialmente nominato direttore. Era responsabile degli spettacoli e delle prove, assegnava le sostituzioni degli attori che erano stati chiamati alle armi, dava conforto alle attrici che aspettavano lettere dal fronte, imponeva disciplina e ordine affinché nella nuova situazione tutt’altro che semplice il teatro e la scuola di recitazione non si rovinassero la reputazione. A tutto ciò si aggiungeva la sua attività come attore, regista e insegnante, che non si interruppe mai. In questo periodo ebbe persino alcuni svenimenti, ma non si concesse mai alcuna espressione di insoddisfazione, né con se stesso né con gli altri, soltanto con Eda, forse.
90All’inizio del 1942 il Goset mise in scena il primo spettacolo preparato a Taškent, Khamza, un testo tradotto in yiddish dall’uzbeco che racconta la vita di Khamza Niyazi, un poeta, drammaturgo e compositore uzbeco vissuto tra il 1889 e il 1929. Khamza era stato il fondatore del teatro nazionale uzbeco e vi erano alcune somiglianze e un denominatore comune tra il teatro uzbeco e quello yiddish. Entrambi avevano dovuto mettere in atto il principio che prevedeva di «eliminare il vecchio per fare spazio al nuovo», ovvero l’abbandono di una cultura ritenuta superata per quella sovietica. Entrambi i teatri erano comunque riusciti a preservare una certa fedeltà alla tradizione e alla cultura nazionale e le autorità presentavano questo fenomeno come un modello.
91Mi sento legata a Khamza. Mio padre non vi aveva un personaggio, la “fedeltà alla cultura nazionale” era incarnata da mia madre, che danzava una danza popolare uzbeca con una brocca sul capo.
92Il secondo spettacolo a Taškent fu Occhio per occhio [An oyg far an oyg], un’opera di Perets Markiš che andò in scena nell’autunno del 1942. Il soggetto era la guerra in corso, una cittadina polacca sotto assedio nazista e gli ebrei che vivevano nel ghetto. Nel testo gli occupanti non distinguono tra ebrei e non ebrei: nel primo atto uccidono un gruppo di polacchi e distruggono la statua del poeta nazionale Adam Mickiewicz. Poi iniziano a perseguitare gli ebrei e i più giovani della comunità ebraica, per i quali i nazisti non sono soltanto persecutori del popolo ebraico ma nemici di ogni uomo che crede nella libertà, si uniscono ai partigiani polacchi.
93La trama rifletteva l’atmosfera prevalente nei corridoi delle istituzioni sovietiche al potere: era permesso esprimere sentimenti nazionalisti ma non era raccomandabile sottolineare l’unicità di una nazionalità in particolare. Tale enfasi avrebbe infatti leso l’idea di uguaglianza tra le nazioni e portato inevitabilmente a un nazionalismo borghese, Dio ce ne scampi!
94Il “nazionalista borghese” Perets Markiš aveva in effetti adattato il testo all’ “atmosfera dominante”, con ciò, nonostante gli ebrei andassero a combattere i nazisti al fianco dei non ebrei, la loro benedizione erano le parole di Mosè sul Monte Sinai: «Se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita, occhio per occhio» (Esodo 21: 23-24). Non era un caso che Markiš avesse scelto il titolo Occhio per occhio. Zuskin aveva il ruolo del vecchio Dottor Sephard, un devoto del movimento illuminista tedesco che inizialmente non crede alla brutalità dei tedeschi.
95Oltre al lavoro in teatro, Zuskin e gli altri attori erano volontari in una moltitudine di eventi, andavano negli ospedali a trovare i feriti o i militari disabili, negli ostelli per i rifugiati, negli orfanotrofi e nei dormitori; partecipavano a serate musicali alle quali il ricavato dalla vendita dei biglietti era devoluto alle suddette istituzioni. Poiché lo yiddish non era la lingua di tutto il pubblico, gli attori del Goset presentavano canti e danze o pantomime umoristiche. Il pubblico amava Il vecchio sarto, l’eterno one-man show di Zuskin, la canzone da spaccone di Hotzmach tratta da Stelle vagabonde e così via. In questi momenti l’angoscia era messa da parte.
96Zuskin amava stare in mezzo ai giovani. A Taškent il Goset condivideva l’edificio con il Conservatorio. Una volta, durante un pasto nella sala condivisa, uno degli studenti riconobbe in Zuskin l’attore che aveva interpretato Pinia in Cercatori di felicità. Tra i due nacque una conversazione, altri studenti si unirono, futuri musicisti e cantanti fecero amicizia con Zuskin, il quale chiese dei loro progetti e parlò con entusiasmo di svariate questioni artistiche. Stare in mezzo alla gente gli dava sollievo.
Incantato
97Nonostante la guerra intorno portasse con sé tragedie e gravi perdite, le persone dovevano evitare di sprofondare nella disperazione e perdere la capacità di ridere. Chi poteva aiutarli se non Sholem Aleichem e le sue «risate tra le lacrime» che avevano saputo resistere al tempo? Nel 1943 Zuskin curò la regia del suo racconto Il sarto incantato [Der farkishefter shnayder], adattato per la scena da Dobrušin, e ne era l’interprete principale.
98Sullo sfondo di una vicenda famigliare, messa in evidenza da una musica sempiterna, il sarto Shimen-Ele procede nella vita a grandi passi pieni di speranza. È povero ma il suo spirito è forte sotto tutti i punti di vista: fa scherzi, allontana l’aggressività della sua “dolce metà” con discorsi che attingono alle fonti ebraiche e, anche se molto lontano dalla realtà, sogna una iniziativa imprenditoriale dai grandi profitti.
99Shimen-Ele sente da un vicino che nel villaggio accanto una capra è in vendita a poco prezzo. Si reca al villaggio, compra la capra e sulla strada di casa si ferma in una taverna. Lì lo fanno ubriacare e scambiano la capra con un caprone. Una volta a casa, la sua “dolce metà” lo insulta dandogli del buono a nulla: non ha neanche saputo distinguere tra una capra e un caprone. Così il povero imprenditore torna al villaggio e si ferma nuovamente alla taverna, dove scambiano nuovamente il caprone con una capra e poi nuovamente la capra con il caprone finché alla fine non torna a casa.
100Non ci sono molti personaggi in questo testo. A dire il vero, fu anche una delle ragioni per cui scelsero di metterlo in scena, molti degli attori erano infatti sotto le armi. In veste di regista che lavorava individualmente con un solo attore o con piccoli gruppi, Zuskin ebbe la possibilità di lavorare con il metodo che preferiva, combinando l’insegnamento e la regia. Riuscì a figurarsi l’intero quadro dello spettacolo in modo estremamente chiaro, più di quanto gli fosse riuscito fino ad allora. A guidarlo era stato il movimento ostinato di Shimen-Ele verso la felicità.
101L’attore Zuskin, ancora immerso nell’aura del fascino esercitato dal proprio Senderl, diede quindi al personaggio un passo distintivo e comico, facendo ricorso al grottesco. Il regista Zuskin era ancora sotto l’incantesimo delle tecniche teatrali dei tempi di Granovskij e strutturò i propri movimenti così che Shimen-Ele fosse sempre rivolto al pubblico sempre di profilo. Al posto della borsa di Senderl, in una mano aveva un sacco, nell’altra una corda a cui è legata la capra, o il caprone, a seconda dei casi. Gran parte delle scene erano costruite secondo questo principio guida.
102È chiaro che negli anni Trenta e Quaranta gli stili della scena erano cambiati rispetto agli anni Venti, ma le situazioni comiche del Sarto incantato permettevano di scherzare, soprattutto vista la propensione delle autorità a permettere l’allestimento di spettacoli che aiutassero a dimenticare la guerra e le sue ripercussioni sulla popolazione.
103Il pubblico era incantato. Si sbellicava dalle risate con una fitta di disperazione al cuore. Era un fenomeno che con i personaggi interpretati da Zuskin si presentava ogni volta: «Ognuno dei suoi personaggi ha la forza di soffrire, di mantenere l’autocontrollo e la compostezza, di piangere e di raccogliere le ceneri della sua gente».24 Tutti i suoi personaggi alla fine restavano con il caprone.
L’uomo e la guerra (fine)
104Il 4 ottobre 1943 il Goset fece ritorno a Mosca, la guerra non era finita ma adesso era lontana dalla capitale. La gente doveva tornare alla vita di ogni giorno. Michoels non era rientrato a Mosca e non lo avrebbe fatto fino a dicembre. Intanto, in teatro e all’interno della scuola di recitazione bisognava fare ordine. In casa Zuskin di spalancarono le finestre, si fecero le pulizie e si rimise ogni cosa al proprio posto. Che ne era dei famigliari?
105Tamara era ancora al fronte, all’inizio della guerra si era arruolata nell’esercito e come la maggior parte degli studenti di medicina lavorava come infermiera in un ospedale da campo. Al fronte aveva incontrato un ufficiale di nome Samek Greenstein, un ebreo polacco rifugiato. Avevano deciso di sposarsi e Tamara era andata con lui a Taškent perché conoscesse suo padre. Dopo un breve soggiorno a Taškent e poi a Mosca, Tamara era tornata al fronte per operare i feriti sotto il fuoco nemico e infine entrare a Berlino con l’Esercito Sovietico. Nei momenti cruciali della guerra avrebbe ritrovato Samek, il fidanzato, con il quale in seguito si sposò e si trasferì in Polonia, il suo paese. Alla fine degli anni Cinquanta, quando Samek morì in un incidente aereo, emigrò in Israele, dove si costruì una nuova famiglia e lavorò come medico per trent’anni.
106Rachel, la madre di Tamara, suo marito e due dei loro tre figli furono uccisi nel ghetto di Kovno; soltanto Bela, la più grande, sopravvisse.
107Il fratello di mia madre, Max (Mordechai) Berkovskij e sua moglie Rosa morirono nel ghetto di Minsk. Max fu uno dei primi a essere ucciso mentre Rosa, dentista conosciuta, ufficialmente curò i denti dei soldati e degli ufficiali tedeschi, mentre segretamente si prendeva cura degli abitanti e dei partigiani che vivevano nei boschi intorno alla città. (Non si può mai dire quanta forza si nasconda in una “signora viziata”!). La loro figlia, con il marito e il figlio più piccolo, riuscì a scappare da Minsk poco prima dell’invasione nazista, l’altro figlio morì in un carro armato che prese fuoco in battaglia.
Antifascista (continuazione)
108Il 2 aprile 1944 Zuskin partecipò a Mosca a una manifestazione ebraica antifascista, la terza di questo tipo. Dalla precedente, che risaliva al primo agosto 1941, a cui si era unito per caso – il lettore ricorderà che c’era una macchina da scrivere – non aveva più partecipato all’attività antifascista. Durante una pausa, Shakhno Epshteyn, il segretario del Comitato, lo invitò alla riunione plenaria del Comitato prevista per la settimana seguente. Zuskin non promise nulla poiché non ricordava il calendario delle proprie rappresentazioni, Epshteyn insistette, era richiesta la presenza di tutti i membri del Comitato.
109Fu solo allora che Zuskin prese atto di essere un membro del Comitato, e di lunga data, era stato fatto membro dalla prima ora, quando il Comitato era stato fondato nella primavera del 1942. «A Taškent […] ho vissuto fino all’ottobre del 1943. Nessuno mi informò di essere stato nominato membro del Comitato e nessuno mi inviò mai alcun tipo di documentazione»,25 avrebbe affermato anni dopo al processo.
110Si recò presso l’edificio in cui aveva sede il Comitato Antifascista Ebraico per la riunione plenaria e vi apprese che si doveva nominare un presidente e un “Consiglio del Comitato”. Dal podio lessero la lista di persone raccomandate dalle autorità. Zuskin fu sorpreso di sentire il proprio nome e chiese a Epshteyn come avrebbero potuto eleggerlo dato che era già eccessivamente carico di lavoro. Epshteyn rispose che in quanto attore conosciuto da tutti, Zuskin era obbligato a fare parte della Consiglio e che non avrebbe dovuto lavorare, altri lo avrebbero fatto per lui.
111Infatti Zuskin non fu mai molto attivo all’interno del Consiglio. Epshteyn aveva avuto ragione in merito, ma nessuno dei due era consapevole che essere membro del Consiglio del Comitato Antifascista Ebraico, non avrebbe sottratto tempo a Zuskin, gli avrebbe tolto la vita.
112In cuor suo Zuskin malediva la propria abilità con la macchina da scrivere e anche Eda non era felice del ruolo che gli era stato imposto. Secondo lei, Zusa era prima di tutto un attore e temeva che potesse essere soggetto a crisi dovute alla tensione, come era accaduto a Taškent quando era stato coinvolto in questioni esterne ai suoi impegni artistici.
113Come Zuskin aveva previsto, sarebbe successo. Mancava alla maggior parte degli incontri a causa dell’impegno richiesto dagli spettacoli del teatro. Perciò non partecipò agli accesi dibattiti interni al Consiglio e al Comitato stesso che riguardavano il fatto che il Comitato dovesse impegnarsi esclusivamente in attività di propaganda in Occidente oppure anche dei problemi degli ebrei del paese. Le discussioni al riguardo si intensificarono dopo la guerra, ma vi fu anche un momento di esultanza dovuto al successo di Michoels e Fefer in Inghilterra, America, Canada e Messico, che aveva superato le aspettative dei più fedeli ammiratori e quelle delle autorità sovietiche. «La dirigenza sovietica intendeva utilizzare il Comitato Antifascista Ebraico come strumento per attingere alla ricchezza americana»,26 ma la profonda fede di Michoels nella giustizia della lotta contro il nazismo, il dolore cocente per la sofferenza del suo popolo sotto il giogo nazista, il sincero desiderio dell’Occidente di assicurare supporto morale e finanziario, il talento come attore e oratore che sapeva toccare le corde delle folle, tutto ciò ebbe un potere magnetico e portò a raccogliere contributi straordinariamente superiori rispetto alle previsioni.
114Alla fine e dopo la Seconda guerra mondiale, a causa della Guerra Fredda tra Unione Sovietica e Occidente, la necessità di mantenere legami internazionali andò riducendosi e nello stesso tempo in Unione Sovietica i problemi degli ebrei aumentarono. Gli ebrei che erano riusciti a scampare ai nazisti ed erano sopravvissuti nei ghetti e al fronte iniziarono a tornare in patria. Trovavano le proprie case distrutte oppure occupate. Con loro grande sorpresa, le autorità locali non avevano alcuna fretta di trovare loro una nuova sistemazione né di risolvere gli altri problemi. A chi potevano rivolgersi? In ogni paese occidentale c’erano comunità ebraiche. Anche in Russia prima della Rivoluzione c’era una situazione simile.
115In Unione Sovietica non vi erano comunità ebraiche, ma c’era il Comitato Antifascista Ebraico. Gli ebrei che avevano problemi non si chiedevano chi vi fosse al di sopra né prendevano in considerazione il fatto che nessuno aveva autorizzato il Comitato a occuparsi dei loro problemi. Poiché nessun’altra organizzazione era disponibile, attribuirono al Comitato il ruolo di guida della comunità, per loro era una certezza. Coloro che non erano a conoscenza dell’esistenza del Comitato, conoscevano però colui al quale rivolgersi: Solomon Michoels, Capo del Popolo Ebraico, Cremlino, Mosca, oppure si recavano personalmente da Michoels in teatro, sedevano fuori in fila attendendo il proprio turno come dal dentista. Zuskin iniziò a dirsi apertamente contrario al fatto che Michoels ricevesse in teatro. Il teatro per lui era un luogo sacro. Michoels smise di ricevere in teatro.
116Mio padre fu costretto a svolgere attività politica non soltanto all’interno del Comitato Antifascista Ebraico e del Consiglio. Subito dopo la fine della guerra, Michoels e Zuskin furono eletti come delegati del governo locale di Mosca, Michoels nella municipalità cittadina e Zuskin in uno dei distretti della città. Al Consiglio, Zuskin si comportava come al Comitato: preferiva le cose tangibili agli affari burocratici. Ricordo come papà cercasse in ogni modo di rispondere alle richieste di coloro che lo avevano eletto nonostante fosse assente alle tediose riunioni a causa degli spettacoli o perché in tournée con il teatro, oppure a quelle riunioni andava a sedersi in ultima fila e giocava a scacchi.
Molkho
117Nel 1944 al Goset fu permesso di mettere in scena il testo Il Principe Reubeni [Prints Reuveyni]27 di David Bergel’son. La trama si svolge nel Sedicesimo secolo, il protagonista, David Reubeni, è un ebreo portoghese e come dichiara lui stesso discende da una delle tribù perdute. È conosciuto nella storia ebraica come un falso messia. Ricevuto nelle corti cristiane europee con gli onori concessi a chi è di stirpe reale, sarebbe stato poi arrestato e morto in prigione.
118Michoels avrebbe curato la regia dello spettacolo e progettava di interpretare David Reubeni. Il ruolo del suo compagno d’armi Shlomo Molkho, un convertito tornato a essere ebreo, devoto a Reubeni con tutto se stesso, più a contatto con la realtà di lui, sarebbe stato interpretato da Zuskin.
119Zuskin era affascinato dalla personalità di Molkho, era entusiasta di avere l’opportunità di trattare la storia del proprio popolo, di smettere di “camminare sul posto” in teatro e di andare in scena con Eda, per la prima volta in vita loro, come una coppia di amanti.
120Lo spettacolo Il Principe Reubeni non debuttò mai. Le autorità ne proibirono la messa in scena nonostante fosse pronto. Dal punto di vista del Goset e dei suoi attori, non era soltanto uno spettacolo in meno, era un mondo. Un mondo di spiritualità, che riportava in vita esperienze dimenticate, un legame tra i tempi e le epoche.
121Per Michoels fu la mancata opportunità di esprimere la propria visione del mondo. «Reubeni è una rappresentazione allegorica di Michoels… Come Reubeni, Michoels era comparso improvvisamente nel mondo occidentale come emissario della dimenticata comunità ebraica dell’est, che cercava supporto in Occidente contro un nemico comune».28 Come Reubeni, Michoels sentiva che se era stato condannato a guidare questa “tribù perduta” non vi era altra strada se non farsi benvolere alla “corte dei re” nel paese in cui viveva e operava. «Sono un principe fasullo e un falso profeta, perché con questi lupi non sono in grado di comunicare in altro modo. Sì, sono lupi che inseguono il mio gregge»,29 scrisse Michoels in una lettera alla moglie. Si può aggiungere qualcosa?
122Soffro molto al pensiero che non abbiano potuto portare in scena quel testo. All’epoca ero ormai in grado di valutare la recitazione di mio padre che interpretava lo stesso personaggio, Molkho, in diverse sembianze: l’amico devoto, l’aristocratico portoghese e l’uomo di stato, l’avventuriero, il convertito e l’ebreo bruciato sul rogo dall’Inquisizione. Tragicamente, l’ultima circostanza ricorda ciò che accadde a mio padre. Furono molti i ruoli che furono offerti a mio padre e quelli che avrebbe desiderato interpretare senza mai poterlo fare.
A metà degli anni Trenta era nata l’idea di mettere in scena Tramonto [Zakat] di Isaac Babel’. A mio padre fu assegnato il ruolo di Benya Krik, sorta di “ladro gentiluomo”, e a Michoels il ruolo di Mendel Krik, il padre di Benya. Dopo un po’ di tempo però Babel fu arrestato e non se ne fece più nulla. I ruoli da “ladri gentiluomini” e “truffatori” non portarono mai fortuna né a Zuskin né al teatro. Sullo stesso cammino di annientamento camminavano Babel’ e Benya Krik in Tramonto, Moishe Kulbak con Il bandito Boytre e Veniamin Zuskin con Ershele Ostropoler, di cui fu regista.
123Re Lear si era rivelato un successo enorme, Zuskin sentì il desiderio di mettere in scena un classico della letteratura mondiale e poiché non aveva mai detto addio a Senderl, sognava di interpretare il Sancho Panza del Don Chisciotte di Cervantes. In teatro però erano iniziati i preparativi per l’allestimento di Piccole tragedie [Malen’kiye tragedii], la raccolta di atti unici di Puškin, compresa la breve tragedia Mozart e Salieri, con Zuskin nel ruolo di Mozart. Molto tempo prima, di Zuskin avevano scritto: «Ha il dono divino del senso del ritmo, una musicalità e un’agilità impensabili… è Mozart».30 Non sono mai riuscita a scoprire perché l’opera non sia andata in scena.
124Quanti monologhi dei classici russi si rincorrevano nella testa di mio padre! Potrebbe essere stato il 1938, quando voleva lasciare il Goset non soltanto perché non aveva più sfide con cui confrontarsi ma anche per liberarsi dei personaggi che tenevano in pugno la sua immaginazione: per esempio il ruolo dello Zar Fëdor. Al Teatro d’Arte di Mosca era stato interpretato da Chmeljov, un attore che Zuskin ammirava. Eppure, quando si trovava da solo non poteva fare a meno di interpretare Fëdor, un animo puro come Senderl ma desideroso di provare a sedere sul trono, come il Fool di Re Lear. Chmeljov e Zuskin avevano molto in comune nello stile della recitazione e nella vita. Chmeljov avrebbe soltanto avuto più fortuna di mio padre: è morto in scena, proprio mentre recitava il monologo dello Zar Fëdor.
125E quale ruolo ebraico Zuskin sognava di interpretare? Dopo Solomon Maimon, aveva sognato di interpretare Baruch Spinoza. Michoels aveva infatti deciso di mettere in scena un’opera sul filosofo. Anche questo progetto non si realizzò. Nel 1945 gli fu proposto di interpretare Mendel Beilis nel film sul processo Beilis. Ne era entusiasta e felice. Con suo rammarico, le autorità ritenevano che non fossero tempi adatti ai film storici. Non era il momento giusto – erano gli anni seguenti il secondo conflitto mondiale, era appena venuto fuori quali fossero state le spaventose proporzioni della Shoah – per affrontare la storia degli ebrei?
Kabtsenson
126A Taškent, prima che Michoels partisse per l’America, si era deciso di mettere in repertorio il vaudeville La sposa capricciosa [Di kaprizne kale], tratto da un testo di Abraham Goldfaden. Con i sui valori quotidiani, l’opera si adattava bene alle esigenze del periodo. Dopotutto, «il regime appagava la necessità di tranquillità, stabilità e conservatorismo delle persone».31 Rientrato in città, il teatro riprese a enfatizzare questi valori tornando così a lasciare Mosca a bocca aperta.
127Invitarono il regista A. Kaplan, ma le musiche, le scenografie e i costumi furono progettati e realizzati dagli artisti del Goset: il compositore era Lev Pul’ver, lo scenografo e costumista Aleksandr Tyšler. La sposa capricciosa debuttò nel 1944, al ritorno di Michoels e prima che la guerra fosse finita.
128I colpi di scena della trama ruotano intorno a una giovane donna che soffre per un eccesso di istruzione. Sogna di costruire la propria vita secondo i libri che legge ma finisce per innamorarsi e si sposa. L’essenza della storia della sposa, presentata nel prologo, ricorda la Commedia dell’Arte: in avanscena ci sono la sposa e lo sposo, tra loro c’è Kabtsenson, sono tutti immobili come statue, la sposa tiene un mano un libro come se stesse leggendo. Kabtsenson si risveglia per primo e con una bacchetta magica sveglia le altre statue. Descritto come il messaggero dello sposo, in realtà è un giullare-commediante che guida la performance. Ovviamente il personaggio era interpretato da Zuskin. Ethel Kovenskaja era la sposa e anni dopo avrebbe ricordato: «Risvegliandosi e tornando a vivere, il mio personaggio doveva fare alcuni particolari movimenti con il corpo allargando le braccia. Ero giovane e avevo poca esperienza, non riuscivo. Il mio insegnante, Zuskin, mi si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio: “Immagina di abbracciare il mondo intero e tutto ciò che contiene”. Ci riuscii, e subito!».32 Il quarantacinquenne Zuskin, ormai un “ragazzo” maturo, come un mago del circo, con un tocco di bacchetta magica motivava tutti a unirsi al gioco.
129In questo gioco, Zuskin-Kabtsenson ricordava «una bambola di pezza, un uomo senza scheletro»,33 quei movimenti virtuosistici esprimevano il suo umorismo, «che per Zuskin è un modo di guardare il mondo».34 A volte quell’ umorismo era nascosto sotto la maschera della serietà, ad esempio nella scena in cui ballava il can can cantando una canzone che pareva il “culmine dell’intelligenza”: «Senza di te sono povero / come una maniglia senza la porta». Zuskin danzava come un bambino, ma nel suo lavoro sul ruolo erano evidenti alcuni segni della maturità appena raggiunta. Non del tutto soddisfatto dichiarava: «Il ruolo mi ricorda alcuni miei lavori precedenti».35 Era alla ricerca di ruoli profondi e questa commedia leggera non lo metteva abbastanza alla prova.
Reb Yekl
130Non meno di Zuskin, anche Michoels era alla ricerca di ruoli di un certo spessore. In cuor suo desiderava qualcosa in grado di intrecciare il dolore e la gioia. Nel febbraio del 1943, quando l’esercito nazista fu sconfitto a Stalingrado, decise di mettere in scena uno spettacolo popolare che sarebbe stato una sorta di Kaddish in memoria delle vittime: ci sarebbe stato un matrimonio, una sorta di promessa per le generazioni future. Le nozze, festa tradizionale, ci volevano perché quando la perdita è così grave, la nazione ha bisogno di tornare alle proprie radici. Michoels preparò uno schema come linea guida per lo spettacolo, implementato dal lavoro di altri artisti: il drammaturgo Zalmen Shneer (Okun’), il compositore Lev Pul’ver, il costumista e scenografo Aleksandr Tyšler e il coreografo Emile Mei. Nel 1943, però, Michoels fu inviato negli Stati Uniti e la produzione di Freylekhs passò sotto la responsabilità di Zuskin.
131Alla prima, che ebbe luogo a Taškent il 15 luglio 1943 e in altre occasioni in seguito, poi anche a Mosca, il teatro era pieno zeppo. Ma secondo Zuskin allo spettacolo mancava qualcosa. Forse, anche con le buone notizie che arrivavano dal fronte, era ancora troppo presto per staccare la mente. Quando Michoels rientrò e aggiornò lo spettacolo fu chiaro a tutti che nella versione registica di Zuskin c’erano alcune trovate che ne avevano determinato il successo. Michoels iniziò rivedendo il testo stesso. Voleva concentrarsi su un pensiero fondamentale: la vita della nazione non si ferma neanche quando i suoi figli e le sue figlie «sono morti, sono stati uccisi, ammazzati, massacrati, bruciati, annegati e strangolati».36 Che cosa voleva dire esattamente Michoels? Si riferiva alle catastrofi della guerra appena conclusa o a quelle future? È difficile dirlo con certezza.
132In effetti Freylekhs riassume il lavoro dell’attore Veniamin Zuskin e del Goset, lo definirei infatti come il quadro a cui guardare per comprendere ciò che racconto in questo libro. Ecco perché alcuni frammenti di quest’opera aprono questo libro nel Prologo e lo chiudono nell’Epilogo.
133Ecco una breve descrizione dello spettacolo.
134Secondo la tradizione, ogni occasione prevede usanze precise. A un matrimonio ebraico tradizionale, la festa dev’essere condotta da un badkhen. In Freylekhs però il matrimonio ha un doppio significato. Come mostrarlo? Non era difficile, il Goset era un teatro! I musicisti che suonavano, gli attori in scena, ci ricordavano i bei tempi andati, quelli dei primi anni del teatro, quando era artisticamente libero e schietto, era tempo di personaggi metamorfici, di maschere, di carnevali. L’alter ego, il badkhen doveva essere scisso e avere due volti, Reb Yekl e Reb Ber.37
135Veniamin Zuskin era Reb Yekl, il Primo badkhen – «Lasciateci raccogliere tutta la tristezza del mondo per trasformarla in amore» –, incarnava lo spirito della gioia, l’altro era lo spirito della tristezza. Reb Ber, il Secondo badkhen, impersonato da Michail Šteyman, era l’intrattenitore tradizionale al quale interessa campare, che sa come fare una battuta plebea e prendere da bere. Il legame tra i due volti del badkhen è lo stesso che intercorre tra le esperienze animiche e quelle quotidiane; era questo a dare allo spettacolo un doppio significato, come il senso della vita.
136I due badkhen erano vestiti allo stesso modo, con un kapote [cappotto] nero e un gilet con le frange che ricordavano lo tsitsit,38 pantaloni neri stretti sulle ginocchia, calze bianche alte e una kippah nera. Ognuno aveva un colore, il gilet di Reb Yekl era mezzo bianco e mezzo rosso, quello di Reb Ber mezzo bianco e mezzo blu. Ognuno teneva in mano un fazzoletto bianco con ricamato il proprio nome in lettere ebraiche, rosse per Reb Yekl, blu per Reb Ber. Gli assistenti dei badkhen, tre ciascuno, erano vestiti allo stesso modo.
137Il costumista e scenografo Aleksandr Tyšler aveva fatto attenzione a evitare le convenzioni in due modi: nonostante l’ambiente sovietico antireligioso, faceva indossare ai badkhen e ai loro assistenti abiti della tradizione religiosa ebraica e sfidando il rigido codice di abbigliamento degli ebrei devoti, ne aveva stilizzato gli abiti in modo teatrale. Aveva inoltre scritto sulla scenografia parte del versetto che si pronuncia ai matrimoni tradizionali: «Il suono della gioia e il suono della tristezza, la voce dello sposo e la voce della sposa». Aveva scritto in ebraico, lingua vietata per un teatro sovietico. Gli informatori però non notarono le scritte, l’ebraico e lo yiddish hanno lo stesso alfabeto.
138Freylekhs non fu soltanto uno spettacolo dedicato al popolo, ne era uno specchio.
139Nel primo atto, i parenti degli sposi attraversavano il palcoscenico insieme agli ospiti. Passavano lentamente, in modo festoso ma con dignità. Andavano da un lato all’altro, di profilo rispetto al pubblico, nel linguaggio del Goset significava che quel popolo era eternamente in cammino. Nel secondo atto, ogni uomo e ogni donna raccontavano qualcosa di sé con una danza. Il successo dello spettacolo fu dovuto in larga misura all’opera del grande coreografo Emile Mei. Eda Berkovskaja, mia madre, era la sua assistente. Le danze erano seguite da un racconto di Reb Yekl e dai commenti di Reb Ber.
140Zuskin non si riferì mai a stesso come a un solista, si sentiva parte del teatro, avrebbe dunque apprezzato il fatto che io menzioni, anche se frettolosamente, i suoi colleghi e amici in scena. La mia memoria ha conservato immagini limpide. Efim Žabotinskij aveva il ruolo di un invitato vecchio e cupo, un ex soldato dell’esercito dello zar. Ethel Kovenskaja era una matrona che si vantava del proprio guardaroba facendo dimenticare agli spettatori che il suo era un ruolo secondario. La scarsa importanza del ruolo passava in secondo piano anche nel caso della vecchia zia interpretata con energia da Kazak Rom. Chi altro ricordo? Una coppia commovente: il vecchio marito Ljova Traktovenko; Chaim Spivak che segue lentamente Rachel Skidelskaja, la quale giustifica la propria presenza alla gioiosa occasione dicendo che lì «è più felice di piangere». Ricordo quanto era bella la sposa Sara Friedman, come cantasse lo sposo, alternativamente Zalman Kaminsky o Emile Horowitz, come io comprendessi che il padre dello sposo Tevye Khazak, di corporatura robusta e dallo spirito vivace, fingeva soltanto di incutere timore, e che Hirsh Lukovskij, timido padre della sposa, fingeva la propria timidezza. E come mi divertiva Adele Mazur, la nonna che riusciva a malapena ad alzarsi dalla sedia a rotelle per poi mettersi improvvisamente a danzare leggera come una giovincella, quest’ultima seminava anche zizzania tra Khana Blinčevskaja, la madre della sposa, e Iustina Minkova, madre dello sposo. Il violino danzante messo in scena da Etia Tayblina era impressionante. Alla fine la sposa era accompagnata al baldacchino nuziale.
141Zuskin-Reb Yekl, in proscenio, osservava la folla impaziente «come se avesse preso le distanze dai preparativi del matrimonio e ora si levasse in quota attraversando spazi aperti».39 Che cosa vedeva, sentiva o prevedeva? «Come un accurato sismografo, l’attore è il primo a cogliere la tempesta in arrivo, il rimbombo delle proteste in società, dei cambiamenti sociali e delle eruzioni dei processi della storia».40 Se ai tempi del Re Lear, nel 1935, Zuskin aveva sentito il rombo del tuono che si stava avvicinando, certamente ora, dieci anni più tardi, doveva sentirlo ancora più distintamente e più forte. Restava all’estremità del palcoscenico, accanto alla buca dell’orchestra: come il Fool, sulla soglia dell’abisso. Reb Yekl trionfava. Trionfava poiché come Sholem Aleichem comprendeva che: «Finché la gente piange, puoi maltrattarla; c’è ancora qualcosa che puoi sottrargli. Quando invece il maltrattato ride, non puoi più intimorirlo in alcun modo; è come se il distacco da ciò che è materiale lo proteggesse. Privati di tutto ciò che è tangibile, resta soltanto lo spirito».41 Lo spirito della gioia e lo spirito del dolore.
142Il 5 giugno 1946, Michoels, Zuskin e Tyšler ricevettero il Premio Stalin per il proprio lavoro nello spettacolo Freylekhs. Circa un anno e mezzo dopo, l’insignito Michoels sarebbe stato assassinato, non molto più tardi anche a Zuskin sarebbe toccata la stessa sorte.
Regista (fine)
143Nel 1944 a Zuskin fu offerto di lavorare come regista in diversi spettacoli. Accettò volentieri. Era affascinato dall’idea di confrontarsi con nuove imprese e trovare un po’ di aria fresca rispetto all’atmosfera ormai dominante all’interno del teatro: fatta eccezione per Freylekhs, non vi erano progetti interessanti.
144Zuskin iniziò con il curare la regia della performance (consistente in un montaggio di brevi scene divertenti) di Arkady Raykin, direttore artistico del Teatro delle Miniature, che poi sarebbe diventato il primo cabarettista dell’Unione Sovietica. Tra Zuskin e Raykin nacque subito un affetto reciproco. Zuskin comprese istantaneamente che i personaggi di Raykin erano molto divertenti pur suscitando una profonda tristezza. Da parte sua, era la prima volta che Raykin incontrava un regista i cui consigli erano una combinazione perfetta di umorismo e poesia.
145Non posso permettermi di omettere il racconto della comparsa di Raykin a Mosca nel 1969, in occasione di una serata dedicata alla celebrazione dei settant’anni dalla nascita di mio padre. Diversamente dagli altri partecipanti alla serata, Raykin non fece alcun intervento pubblico né condivise i propri ricordi. Recitò un monologo in cui un vecchio ebreo racconta delle visite fatte con la propria moglie ai figli che vivono in città lontane. Con ognuno, i due anziani ripetevano la stessa cosa: «Sara fa il bucato e io lo strizzo». Somigliava tanto all’amato Senderl di mio padre che tornava in modo ciclico alla propria vita nello shtetl Tuneyadevke e mi fece pensare a mio padre che tornava al destino del proprio popolo come in un grande cerchio. Per me la vera commemorazione di mio padre fu questa performance di Raykin.
146Ricordo molto bene anche Rugena Sicora, giovane cantante affascinante e talentuosa. Mio padre curò la regia della parte teatrale delle sue performance. Una volta, alla fine di una prova che aveva avuto luogo in casa nostra, mio padre disse a Rugena che andava tutto bene e che molto presto sarebbe stata sommersa di inviti a esibirsi, lei aveva replicato: «No, per me non sarà così semplice perché non sono russa. Vengo dalla Cecoslovacchia, sono ceca». Al che mio padre chiese attonito: «Cosa? Anche essere cechi è così difficile?».
147Un’altra cantante con cui collaborò era Tamara Avetisian. Le sue esibizioni erano composte di canti del folklore, incluse canzoni in yiddish nonostante non fosse ebrea ma armena. Avetisian racconta:
Zuskin curò la regia di tre canzoni che presentavo […], non approcciò mai la canzone in modo diretto, ma sempre spiegando i fenomeni che essa descriveva.
Della madre ebrea ritratta in una delle canzoni disse che una donna nello shtetl ebraico portava sempre un fardello, perciò il suo capo è piegato da un lato, fa come un angolo invece di stare diritto […]
Dopo avere lavorato con Zuskin nessun regista mi affascinava più […]. Zuskin mi insegnò anche il buon gusto: devi evitare di esagerare con le intonazioni […], non rendere una canzone ebraica troppo ebraica […]. Credeva che un cantante dovesse possedere talento, intuizione, saper dominare la propria arte e avere una cultura generale tanto variegata quanto più ad ampio spettro possibile. Lavorare con lui fu per me come frequentare un’università di prim’ordine.42
Degli spettacoli di intrattenimento o delle cosiddette “performance da piccola scena”, nei quali «a volte è possibile vedere della grande arte»,43 Zuskin era innamorato.
Dottor Fišman
148Mentre a Mosca erano in corso le prove dell’ultima versione di Freylekhs, a Kiev il regista Mark Danskoij iniziava a lavorare al film Imbattibili [Nepokorennyie] in lingua russa, basato sul romanzo di Boris Gorbatov, adattato per il film dall’autore stesso e dal regista. Gli spettacoli a Mosca e il film a Kiev erano lavori che intendevano ricordare le vittime della Seconda guerra mondiale e raccontare di coloro che non potevano essere sconfitti.
149Al centro del film c’erano due uomini sulla sessantina, un operaio ucraino di nome Taras Yatsenko e un medico ebreo di nome Aaron Fišman. Mark Danskoij ha scritto: «Nella vita di un artista ci sono momenti che per il loro grande valore restano impressi per sempre nella memoria. Per me si tratta dei momenti in cui la macchina da presa inquadrava due attori straordinari, Amvrosii Buchm e Veniamin Zuskin».44
150La vicenda di Imbattibili si svolgeva in una città dell’Ucraina durante l’invasione nazista. Il nome della città e il nome del luogo in cui avveniva l’esecuzione degli ebrei non erano menzionati, era però chiaro che si trattasse di Kiev e che il campo di battaglia fosse Babi-Yar. Durante il regime sovietico di questa tragedia non era possibile parlare; eccetto Danskoij, nessuno aveva osato farlo.
151Nell’estate del 1960, insieme a Perelman, il mio futuro marito, mi recai a Kiev e visitai Babi-Yar. Lo trovammo vuoto, abbandonato e inquietante. Mi attraversò la mente un pensiero: mio padre era stato qui nel ruolo del Dottor Fišman, nel film una delle vittime, in realtà anche mio padre è stato una vittima: il destino di Fišman e quello di Zuskin era stato lo stesso.
152Guardo una registrazione di Imbattibili e sullo schermo vedo la scena dell’esecuzione degli ebrei a Babi-Yar, una sciarpa scura impigliata tra i rami di un albero e il cielo che sovrasta una folla di cadaveri. Ancora un oggetto.
153Dopo l’arresto di Zuskin le proiezioni di Imbattibili furono sospese. Lo si poteva trovare nominato in qualche articolo, ma non si menzionava mai il fatto che nel 1946 il film avesse ottenuto la medaglia d’oro al Festival del Cinema di Venezia, né si accennava alla questione ebraica e tantomeno a Zuskin. Eppure Imbattibili esiste e il dottor Fišman, in cammino verso la propria fine, attraversa lo schermo con l’inseparabile borsa da medico.
154Forse anche Zuskin, come il dottor Fišman, era imbattibile?
Premiato per l’anniversario
155Il 24 settembre 1946 al pubblico del Goset fu presentato lo spettacolo Freylekhs. Al termine della rappresentazione, Zuskin era in proscenio per i saluti, come sempre. Fu annunciato che in quella data ricorrevano i venticinque anni di carriera di Zuskin (aveva calcato le scene del Goset per la prima volta il 24 settembre 1921). Il pubblico si era alzato in piedi per applaudire l’attore tanto amato. Gli spettatori si erano alzati per avvicinarsi e molti lavoratori del teatro erano saliti sul palcoscenico, attori, membri dell’orchestra e degli uffici amministrativi, maestranze, studenti e insegnanti della scuola di recitazione. Non mancava nessuno, erano tutti lì a congratularsi con Zuskin.
156Zusa e Eda rientrarono a casa eccitati. Il loro appartamento era pieno di mazzi e cestini di fiori. In un cestino c’era un pacchetto. Circa dieci anni più tardi mia madre mi raccontò che, dopo avere tolto la carta da regalo e aperto il borsellino che conteneva, su un foglietto lessero le parole: «Zuska, il mio posto in teatro sarà tuo»; il pezzo di carta era nascosto in uno dei taschini. È possibile che nel 1946 nel cuore di Michoels ci fosse già il presentimento della fine vicina, che avrebbe avuto luogo nel 1948, oppure che sentisse che gli orizzonti del teatro erano ormai troppo limitati per lui. Certamente sapeva che a parte Zusa nessuno sarebbe stato in grado di sostituirlo alla guida del teatro. Secondo Tala, la primogenita di Michoels, dopo il suo ritorno dagli Stati Uniti, il padre e la moglie Asia «non erano quasi mai a casa; negli ultimi anni della sua vita i due ricevevano continuamente inviti di carattere personale e ufficiale: c’erano continuamente problemi legati al repertorio, a irregolarità nella gestione finanziaria del teatro, dovevano accogliere fiumi di ospiti a casa come in teatro».45 Michoels si era venuto a trovare in un vicolo cieco.
157Tutto ciò contrariava gli altri attori, che però evitavano di lamentarsi: «Michoels, è ora di tornare, il palcoscenico ti aspetta», cercava di convincerlo mio padre, «Solomon Michailovič, tu sei un attore, e che attore! Perché ti crei tanta confusione intorno?». Mia madre si univa al coro di mio padre, ma la situazione che era venuta a crearsi era senza via d’uscita.
158Fu deciso di organizzare una festa per celebrare i venticinque anni di Zuskin in teatro. La compagnia era appena tornata alla propria routine in seguito a una tournée seguita dalle vacanze per gli attori, fu quindi deciso di fissare la data nel marzo 1947.
159In teatro ci si preparava alla festa con grande dedizione. Michoels avrebbe aperto la serata con parole sul lavoro creativo di Zuskin e quest’ultimo sarebbe apparso in alcuni frammenti di spettacoli, I viaggi di Beniamino Terzo incluso, il più importante, nelle scene in cui Beniamino e Senderl si addormentano e si risvegliano. Michoels era eccitato, avrebbe nuovamente calcato le scene in qualità di attore! Sarebbe tornato a essere ciò che era!
160Non appena fu noto che ci sarebbe stata una serata in onore di Zuskin, la vendita di biglietti superò ogni previsione. Si decise di festeggiare per due sere, il 24 e il 31 marzo 1947. Il Goset aveva cinquecento posti a sedere, furono stampati mille biglietti. Poi, come se non bastasse, alle file di sedili in platea furono aggiunte sedie laterali per le personalità di spicco, gli altri sarebbero rimasti in piedi lungo le pareti.
161Per molto tempo dopo queste celebrazioni continuarono ad arrivare telefonate, telegrammi e ospiti. In casa l’atmosfera era felice. In uno di quei giorni felici, tornata da scuola, trovai mio madre seduto alla scrivania, la testa tra le mani. Gli corsi incontro. Aveva gli occhi pieni di lacrime, mi disse che suo fratello Yitshak lo aveva informato dal Canada della morte della madre. Per me Chaya Zuskin era una “nonna pupazzo”, non l’avevo mai conosciuta. Mio padre non la vedeva da ventisette anni.
162Aveva vissuto, lavorato e studiato negli Urali senza di lei, si era trasferito a Mosca, si era sposato due volte ed era diventato padre di due figlie. Era diventato un attore importante, tutto senza di lei. Per quale motivo stava piangendo? Perché aveva vissuto così lontano da sua madre? La loro separazione era stata una sua iniziativa, ma chi avrebbe immaginato che sarebbe durata per sempre? Che cosa gli aveva permesso di ottenere? Non poteva lamentarsi. Oppure, forse, una vita tranquilla sarebbe stata meglio di una fama precaria e di un futuro avvolto nella nebbia?
163Capii di doverlo lasciare solo e uscii dalla stanza in punta di piedi. Si sarebbe ricomposto dopo qualche giorno. La vita andava avanti. Il periodo delle celebrazioni per l’anniversario di Zuskin è avvolto da un’aura di gioia: l’estate prima di questa stagione e quella successiva il Goset andò in tournée nelle capitali delle Repubbliche Baltiche: nel 1946 a Riga e nel 1947 a Vilnius. In entrambe le occasioni, al termine delle rappresentazioni i miei genitori ed io avevamo trascorso una vacanza sulle coste del Baltico.
164Poiché la Lettonia e la Lituania erano state annesse all’Unione Sovietica soltanto nel 1940, in seguito al Patto di non aggressione tra i due paesi e la Germania nazista, gli ebrei di Riga e di Vilnius erano noti per il loro forte senso di affiliazione al popolo ebraico e l’occupazione nazista aveva rinforzato tali sentimenti. L’atmosfera che vigeva all’interno della comunità ebraica locale fu una piacevole sorpresa per mio padre. La vacanza sulle coste di Riga seguita alla tournée del teatro nella città rese possibile per mio padre riposare e rilassarsi davvero per la prima volta dopo la guerra.
165L’estate successiva, quella del 1947, il teatro andò a Vilnius e i miei genitori mi portarono con loro per la seconda volta. A Vilnius, come la primavera precedente a Mosca, oltre a mettere in scena gli spettacoli, si celebrò il venticinquesimo anniversario della carriera teatrale di Zuskin. Fu lusinghiero per lui, qui però le relazioni con gli ebrei del posto erano meno serene. A differenza dei nostri conoscenti di Riga, persone che durante l’occupazione nazista erano riuscite a fuggire e a salvarsi, coloro che incontrammo a Vilnius erano i sopravvissuti del ghetto. Un ebreo che era stato in quel purgatorio che fu il ghetto di Vilnius organizzò per il Goset una visita e ci mostrò i luoghi in cui gli ebrei avevano vissuto, erano stati assassinati e dove avevano progettato la rivolta.
Liakovič
166Una delle attrici del Goset mi ha raccontato di avere incontrato mio padre per strada una volta e di averlo trovato diverso dal solito: indossava un lungo cappotto di un tessuto ruvido e spesso, che ricordava quelli indossati dagli operai, e grossi stivali rovinati. Zuskin spiegò che come lei doveva già sapere, era impegnato con le prove di La foresta agitata [Velder royshn] e che quando era senza costume e senza trucco, quell’abbigliamento lo aiutava a entrare nella parte di Liakovič, il suo personaggio. Nelle biografie degli attori si trovano molti casi del genere, io però sto scrivendo di un padre che mi è stato portato via quando ero molto giovane, per questo ogni informazione, ogni piccola caratteristica che rivela un altro aspetto della sua personalità per me è molto preziosa e risveglia in me il fiero desiderio di parlare di lui.
167Nonostante durante la Seconda guerra mondiale gli ebrei avessero sofferto più di qualunque altra nazione, dopo la guerra in Unione Sovietica non era permesso mettere in luce la sofferenza del popolo ebraico. «Invece di mettere in scena opere dei più grandi autori ebrei contemporanei, il teatro fu costretto a portare in scena insipidi testi di autori russi».46 E se per caso tra i protagonisti dei testi tradotti dal russo emergevano personaggi di ebrei, la loro esistenza era accettabile soltanto a patto che agissero al fianco di non ebrei.
168 La foresta agitata ottemperava a tali richieste; il testo russo degli autori Alekseij Brat’ e Grigorij Lin’kov, di certo e per fortuna noti, fu tradotto in yiddish. L’opera era dedicata alla lotta dei partigiani contro l’occupazione nazista. Fu l’ultima produzione diretta da Solomon Michoels. Il compositore era Lev Pul’ver, il costumista e scenografo Robert Falk. La prima si tenne il 7 novembre 1947, data in cui si celebrava il trentennale della Rivoluzione d’Ottobre. Le recensioni ufficiali elogiavano il Goset, ma la compagnia era in lutto perché le era stato impedito di fare uno spettacolo davvero ebraico.
169All’inizio dello spettacolo, la scena mostrava una radura, con una barricata di terra al centro e un albero secco sulla sinistra. Un pezzo di uno scialle di preghiera, impigliato in un ramo, fluttuava al vento. Dalla barricata spuntava la mano di un uomo. I suoi abiti erano laceri, i capelli scompigliati, gli occhi brucianti. Aveva chiaramente l’aspetto di qualcuno che stesse cercando di ricordare e di capire dove si trovasse e come vi fosse arrivato. Si guardava intorno, notava il brandello dello scialle di preghiera. Il suo atteggiamento cambiava immediatamente, adesso ricordava!
170Liakovič, interpretato da Zuskin, si presentava al pubblico in questo modo: senza bisogno di parole, era chiaro che la barricata fosse stata creata scavando una fossa dalla quale quell’ebreo si era liberato, unico sopravvissuto al massacro.
171All’improvviso nella radura arrivava un soldato tedesco, un uomo allegro che non incuteva alcun timore. Sicuro di essere solo in mezzo alla natura, si sbottonava l’uniforme e posava le armi a terra. In preda al terrore, Liakovič afferrava l’arma e uccideva il soldato. Lentamente distendeva il corpo, poi con passo traballante si avvicinava all’albero per baciare l’orlo dello scialle di preghiera. È superfluo dire che i censori, noti per il loro zelo, dopo alcune rappresentazioni vietarono questa scena priva di testo.
172Liakovič si univa ai partigiani, i quali lo informavano che come rappresaglia per l’uccisione di quel soldato tedesco i nazisti avevano giustiziato numerosi residenti del villaggio, suscitando in lui spasmi di rimorso: «Di gente come me si diceva» e qui con profonda amarezza citava un antico detto «che se una pietra cade su una pentola, dispiace per la pentola, ma se la pentola cade su una pietra, dispiace per la pentola. In entrambi i casi insomma dispiace per la pentola».
Orologiaio
173Sempre nel 1947, a Mosca, presso gli studi della MosFilm, fu girato il film Luce sulla Russia [Svet nad Rossiyei]. Qui il ruolo di Zuskin non era molto esteso ma era fondamentale per lo sviluppo della trama. Nel film, i compagni Lenin e Stalin invitavano il protagonista, un orologiaio, nei loro uffici al Cremlino per chiedergli di aggiustare le campane dell’antico orologio di una delle torri del palazzo e di fargli suonare l’Internazionale.
174Zuskin aveva costruito l’immagine dell’orologiaio come un uomo piccolo e dimesso, innamorato del proprio mestiere e maestro di ciò che fa, consapevole del proprio talento; la proposta di dare nuova vita al vecchio orologio del Cremlino gli sembrava del tutto naturale. Quando si confrontava con i clienti entusiasti era pieno di sé.
175Nel pomeriggio del 15 maggio 1947, il regista Sergeij Yutkevič telefonò a Zuskin per annunciargli con eccitazione che il film era stato approvato dalla Commissione per l’Accettazione dei Film. Due giorni più tardi, il 17 maggio, Yutkevič era stato chiamato con urgenza presso il Ministero delle Arti Cinematografiche, dove era stato informato che il film era da considerarsi una distorsione politica. Yutkevič avrebbe raccontato: «“Che cosa è successo?”, ho chiesto, “Il film non è piaciuto al Compagno Stalin”, “Avete registrato i suoi commenti?” “No, non ha detto nulla. Ma l’onorevole Ministro ha sentito alcuni versi di indignazione provenire dal compagno Stalin”. Una nuova pagina nella gestione delle arti, mi sono detto, con l’utilizzo della stenografia per i versi… “Il suo film non arriverà mai nelle sale”».47 Così fu.
176Durante un incontro privato con Zusa e Eda, Yutkevič fu trasparente. Ripeté le parole di Stalin come gli erano state riferite in via ufficiosa: «Oltre ad altre cose, c’era troppo l’orologiaio». “Il revisore supremo dell’Arte” avrebbe trovato un’occasione per liberarsi dell’orologiaio e lo avrebbe fatto con la precisione di un orologiaio.
177Nel 1957 con mia madre visitammo l’Archivio Centrale del Cinema, volevamo vedere i film in cui aveva lavorato Zuskin. Ci permisero di vedere tutti quelli che avevamo richiesto, fatta eccezione per Luce sulla Russia. Pensai che non avrei mai visto quel film. Nel 2010 però, del tutto casualmente, ho trovato l’informazione che Luce sulla Russia era stato trovato e trasferito in dvd; grazie alle meraviglie della tecnologia, ora ne possiedo una copia.
Zorekh Zarkhi
178Zuskin stava per tornare a interpretare uno di quegli operai e artigiani tipici della scena del Goset, con i quali aveva iniziato a confrontarsi nel ruolo di Naftole Hoz in La corte è riunita. Questa volta si trattava di Zorekh Zarkhi, un operaio di fabbrica in pensione, lo spettacolo era intitolato La vigilia della festa [Erev yontev]; era anche il regista.
179All’inizio dello spettacolo Zorekh era impegnato con un grosso e luccicante cuscinetto a sfera. L’oggetto era stato portato a mio padre da qualche fabbrica, gliene avevano forniti due identici. Non riuscivo a capire come un vecchio pensionato potesse avere bisogno di sedere con in mano un cuscinetto a sfera e perché mio padre avesse deciso di decorare la propria scrivania con il secondo. Le scarpe del personaggio interpretato da mio padre stavano ai suoi piedi con la punta del piede rivolta verso l’esterno in modo esagerato e innaturale. La sua camminata era stata pensata per essere comica, il suo vestito era molto accurato, i baffi e la barba erano strani, tutto sembrava voler minare la fede che avevo avuto fino a quel momento nel fatto che mio padre prendesse estremamente sul serio ogni suo ruolo.
180Credo di avere compreso l’approccio che utilizzò in questo caso soltanto quando ho saputo che Alfred Hitchcock aveva l’abitudine di apporre il proprio marchio personale in ogni film che dirigeva: compariva in ogni film in un ruolo secondario, come a dire «Sono qui». Così ho capito che nel film La vigilia della festa il «sono qui» di mio padre era molto più complesso: aveva marchiato il film sia come regista sia come attore. Come regista aveva messo del grottesco qua e là (lascito di Granovskij), come attore invece aveva rivelato al pubblico la propria gamma di tecniche teatrali, ironia compresa. Per quanto riguarda il cuscinetto a sfera, non era divertente giocare con un oggetto – ancora un oggetto – che sembrava collegato a quanto accadeva in scena?
181Per lo spettacolo La vigilia della festa non posso evitare di menzionare il fatto che mia madre avesse un ruolo di primo piano. Quando lo sceneggiatore Moyshe Broderson aveva proposto al Goset questo testo aveva imposto una condizione: il ruolo di Nakhama (in ebraico «conforto») doveva essere interpretato da Eda Berkovskaja.
182Il copione descrive la vita di una famiglia ebraica e dei loro amici non ebrei subito dopo la guerra. Ognuno di loro trovava il proprio posto nella vita del dopoguerra. Soltanto Nakhama non trovava pace dopo che il marito e i figli erano morti nel ghetto. Viveva con la famiglia, che si trova al centro del testo, per motivi di parentela, anche se alla lontana, soltanto perché non aveva altro posto dove andare.
183Berkovskaja-Nakhama restava in silenzio quasi fino alla fine del secondo atto, respingeva ogni tentativo altrui di avvicinarsi a lei per tornare poi lentamente, cautamente e con una certa esitazione a vivere soltanto alla fine dello spettacolo. «Il personaggio che Eda interpretava si comportava esattamente come Eda, era silenziosa e nobile. Eda Berkovskaja non è più tra noi, ci ha lasciati come sempre. Silenziosa e nobile».48 Sono le parole di Joseph Kerler scritte per il necrologio alla morte di mia madre nel 1959. Per Kerler era difficile scindere Eda e Nakhama.
184Nell’ultima scena tutti i protagonisti si riunivano per celebrare la vigilia della festa, da cui il titolo dell’opera. Ovviamente ricordavano l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Erano tutti felici e il vecchio nonno posava finalmente il cuscinetto.
185Se devo essere sincera, allora non mi piacque il personaggio di Zorekh Zarkhi. Era l’opposto di ciò che avevo visto fare a mio padre fino a quel momento: i suoi voli, i salti e la sua sofferenza. Ora ne sono invece soddisfatta: grazie a questo ruolo ho potuto vedere mio padre nelle vesti di un uomo anziano e di un nonno. La vita non gli avrebbe infatti concesso il privilegio di essere né nonno né anziano.
Giovane. Talentuoso. Allegro
186Una volta, nel 1946 o 1947, mio padre stava leggendo un giornale quando improvvisamente esclamò con rabbia: «Ancora!». Mi madre guardò il giornale da sopra la sua spalla e fece un cenno di piena comprensione. Diedi una sbirciatina anche io e lessi la frase: «Siamo ancora una volta entusiasti del talento del giovane Zuskin, con la sua tipica leggerezza…». La recensione si riferiva a uno spettacolo in cui aveva recitato il giorno prima.
187Mia madre comprendeva bene lo sforzo necessario a mio padre per ottenere «la sua tipica leggerezza». I dubbi, le esitazioni, i pensieri, il training fisico, l’insonnia, tutto ciò gli permetteva di avere la «leggerezza» che faceva tremare il pubblico anche quando era oramai un uomo di mezza età. In seguito mia madre mi disse diverse volte che i cliché di quel genere gli davano molto fastidio. «Perché nessuno analizza seriamente il mio lavoro?» si domandava mio padre, «Per quanto tempo continueranno a definirmi un giovane talentuoso?».
188Manteneva le distanze dal partito e dalle missioni politiche contravvenendo a ciò che le autorità si aspettavano dalle persone famose. Non amava neanche essere intervistato: «Oggi, a posteriori, capisco quanto fosse importante per Zuskin ogni singola manifestazione di attenzione nei suoi confronti. Scrivevano di lui, non molto, un pezzettino qui e uno là, e in modo molto superficiale. Era molto modesto. Sottovalutava il proprio status di artista», ricorda Inna Višnevskaja.49
189Nonostante la difficoltà di quel periodo, mio padre amava la vita, che in lui spumeggiava come le bollicine dello champagne. Mentre gli anni passavano, le proporzioni tra gioia e tristezza gradualmente cambiarono, non per colpa dell’età ma delle circostanze. Nell’ultimo periodo della sua vita la gioia sarebbe scomparsa del tutto ma fino a quel momento non perse mai occasione di scherzare. Nella mia memoria sono archiviati molti momenti di tristezza di mio padre, ciò che però accade più spesso è di rivedere un uomo innamorato della vita che mi corre incontro per salutarmi, ha un sorriso gioioso sul volto, il cappotto aperto, sul capo il berretto messo di sbieco, corre danzando come non sapesse di non essere in scena.
190Lo scrittore Vladimir Lidin, che viveva poco lontano da noi, passeggiava spesso con mio padre e con me lungo via Tversakaja. Mio padre e Lidin avevano molto in comune, per esempio entrambi erano collezionisti di libri: «Zuskin amava i libri, leggeva molto, viveva tra il teatro e i libri; la vita da bohémien tipica degli attori non faceva per lui».50 Lidin descrive molti incidenti comici nelle sue memorie, per esempio questo: «Una mattina, mentre passavo da via Tversakaja, vidi Michoels e Zuskin seduti su una panchina vicino a casa loro. Il volto di Zuskin era quello dell’alunno colpevole mentre Michoels come un maestro severo lo redarguiva per essere uscito di casa troppo presto dopo avere avuto l’influenza. Questo quadretto era rivolto a me anche se fingevano di ignorarmi».51 È evidente che quei due prendessero sul serio i propri scherzi.
191Secondo Lidin, Zuskin era in grado di trovare senza alcuna difficoltà la via per arrivare al cuore dei bambini. Una volta aveva visto Zuskin raccontare a una bambina di una principessa persiana portata da un gatto persiano su una luna persiana. Alla domanda della bimba che chiedeva se si trattasse di una storia vera o inventata, Zuskin aveva risposto che non lo sapeva esattamente, ma che non era importante se la storia era interessante. «È lo stesso in scena; ciò che conta è interessare lo spettatore – li chiamano supercompiti dell’attore – e farlo rovistare nella sua anima come un gatto randagio»,52 aveva detto Zuskin a Lidin.
192Contagiata da mio padre, anche io avevo l’abitudine di imitare le persone intorno a me, insegnanti e amici. Mio padre li conosceva quasi tutti e mi aiutava a impersonarli oppure lo faceva lui stesso. In casa o con gli amici, mio padre poteva raccontare di qualcuno senza farne il nome, solo per cenni o utilizzando soprannomi noti solo agli iniziati. Farò un esempio: una volta stavamo passeggiando, quando un mio amico e il padre vennero verso di noi. Il padre del mio amico era un tipo che non amava farsi notare e indossava sempre abiti scuri. Quella volta aveva una giacca grigio chiaro. Mio padre comprese immediatamente che con quel nuovo abbigliamento l’uomo doveva sentirsi un po’ a disagio ma anche esserne compiaciuto e lo soprannominò “Giacca grigia”.
193Nei tragici giorni in cui la bara di Michoels fu esposta all’interno del teatro perché la gente potesse portargli un ultimo saluto, sotto shock e disorientato, ormai consapevole che il suo mondo gli stava crollando sotto gli occhi, mio padre mi disse non senza una certa ironia e per abitudine: «Dì al tuo amico “Giacca grigia” che può venire e come ha chiesto può anche stare tra le guardie d’onore di fianco alla bara».
194Al servizio funebre per Michoels, tra le altre cose mio padre disse: «È notte inoltrata. Siamo entrambi in casa di Michoels. C’è silenzio, l’orologio suona le due e poi le due e mezza del mattino. Non vogliamo separarci».53
195Quando Michoels e Zuskin sedevano in mezzo ad altri erano sempre una coppia divertente. Uno dei due iniziava a canticchiare una melodia ebraica, l’altro lo seguiva. Nella maggior parte dei casi si trattava di melodie senza parole, a volte aggiungevano un testo che improvvisavano, spesso utilizzavano parole estrapolate dalle conversazioni che avevano avuto luogo nella stanza. E quando mio padre passava dal canto al discorso era per offrire qualcosa da bere, da mangiare o un caffè, con la voce però di una delle sue zie di Ponevež. Michoels, che conosceva tutti i parenti di Ponevež, si univa al gioco.
196Ricordo come loro due scherzassero in compagnia dei bambini della mia età in occasione di un mio compleanno, dovevo avere sette o otto anni: la porta si era improvvisamente spalancata e con agilità da acrobati erano entrati Michoels e Zuskin. Indossavano abiti invernali, il mio compleanno è in febbraio, ma erano senza scarpe.
197I membri più giovani del teatro temevano le canzonature di mio padre, soprattutto le donne. Ma tra le attrici quella che soffriva maggiormente per gli scherzi di mio padre era mia madre. Quando entrava in scena in spettacoli in cui mio padre non aveva un ruolo assegnato, lui si nascondeva dietro le quinte, dove lei poteva vederlo, e imitava le persone che lei conosceva. Questo genere di numero creava problemi soprattutto quando la persona che mio padre stava imitando era in scena con mia madre. Lei si arrabbiava, ma quando mio padre non era ormai più con noi raccontava questi episodi con molta nostalgia.
198A volte le frecciate di mio padre erano rivolte a me. Se per esempio qualcuno che faceva parte della sua folta “galleria di maschere” cenava con noi, seduto tra me l’ospite, avrebbe fatto l’imitazione dell’ospite sempre rivolto verso di me.
199Non gli mancavano le occasioni per mettere in scena i propri scherzi sulle persone che lavoravano al Goset: in tournée o in teatro a Mosca, nelle sale prove durante le pause o nei camerini. «Ah, quelle serate nei camerini del Goset! Arrivava Michoels, i due si mettevano a scherzare. Zuskin avvisava Michoels di qualcosa… Michoels interrompeva la conversazione sui loro problemi con leggerezza».54 In quanto figlia di Zuskin posso immaginare quali fossero i loro problemi all’epoca: Zuskin si riferiva probabilmente all’incontro che attendeva Michoels al Comitato Antifascista Ebraico oppure al Comitato per il Repertorio. E nonostante tutto, scherzavano!
200Rivedo nei camerini Yakov Kukles, un trombettista dell’orchestra del Goset. Kukles era molto magro ma per qualche strana ragione parlava molto di cibo. Quando entrava in camerino, mio padre si metteva in allerta, entrava nel ruolo dell’ospite cordiale, indossava un grembiule immaginario e iniziava a fingere di tagliare, affettare, condire con delle salse e servire a tavola, sul tavolo per il trucco, ovviamente. Quando arrivavano al tavolo, la questione del cibo era già stata rimossa, iniziavano a giocare a scacchi e con la massima serietà. Mio padre vinceva quasi sempre, era il numero uno tra tutti i membri del Goset. Anche se amavo molto i giochi e gli scherzi di mio padre in camerino, temevo sempre che potessero distrarlo dal ruolo che doveva interpretare e ostacolare la sua concentrazione. Lui la pensava diversamente: «Sulla strada per il teatro, quando devo andare in scena, cerco di pensare soltanto al ruolo che mi attende. Nell’intervallo posso parlare di questioni che non sono legate al mio ruolo in scena senza che la cosa mi disturbi in alcun modo».55
201All’inizio di novembre del 1947, al Goset si tenevano le prove per una festa in occasione del trentesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. La prova stava per terminare, libero nell’ultimo sketch, Zuskin imitò ancora due o tre amici per alcune trovate, poi Michoels annunciò a tutti che potevano andare a casa. A Zuskin fu chiesto di restare nonostante fossero le tre del mattino.
202Non aveva ancora capito se dovesse adottare un atteggiamento serio o se Michoels volesse scherzare. Gli si avvicinò con fare scherzoso, ma Michoels fece sparire l’allegria dal suo volto. Al processo avrebbe riferito: «Mi fece cenno di sedermi al suo posto: “Presto questo posto sarà tuo”. Gli dissi che era l’ultima cosa che desideravo. Poi Michoels estrasse dalla tasca una lettera anonima e me la lesse. “Feccia di un ebreo, hai volato troppo alto… ora a volare a potrebbe essere la tua testa”».56 Michoels gli disse di avere già ricevuto altre lettere di quel genere. Non era la prima volta che Michoels annunciava che il ruolo di direttore del teatro sarebbe passato a Zuskin, si pensi al regalo che gli aveva fatto per il venticinquesimo anniversario della sua carriera, e non sarebbe stata l’ultima.
203La mattina dell’undici gennaio 1948, il direttore amministrativo del teatro informò Zuskin di una richiesta ricevuta da parte di Michoels che si trovava a Minsk: in quanto membro del comitato per il Premio Stalin, era dovuto partire per dare una parere su uno spettacolo in scena nel teatro della città candidato per il premio. Zuskin non era neanche al corrente del fatto che Michoels fosse partito, pensava non fosse in teatro a causa delle sue attività politiche a Mosca. Michoels chiedeva a Zuskin di assicurarsi che la rappresentazione prevista al Goset per quella sera, l’11 gennaio 1948, andasse in scena perché erano state invitate alcune persone molto importanti. Chiedeva inoltre a Zuskin di guardare tra i suoi appunti relativi a questo spettacolo, che si trovavano in un faldone grigio in casa sua, nel primo cassetto della sua scrivania. In quel cassetto Zuskin trovò una busta sigillata con il suo nome. La aprì, conteneva un foglio con le ultime note di Michoels per lui. Due giorni più tardi, il sorriso allegro fu cancellato dal suo volto per sempre.
Notes de bas de page
1 Leonid Finkel, Videnia o žizni i sud’be Etheli Kovenskoi [Sulla vita e il destino di Ethel Kovenskaja], «Mishpokha», 19 (aprile 2005), p. 22.
2 Israel Rubinčik, Mayn rebe Binyomin Zuskin [Il mio maestro Veniamin Zuskin], «Yerushalmer almanakh», 20 (1990), p. 52.
3 I. Rubinčik, Mayn rebe cit., p. 53.
4 Ibid.
5 Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, G. Milanesi, Firenze 1881, p. 301.
6 J. Liubomirsky, Af di lebensvegn cit., p. 214.
7 Ivi, p. 216.
8 J. Rubenstein, V. Naumov, eds, Stalin’s Secret Pogrom cit., p. 386.
9 Victor Levašov, Ubiystvo Michoelsa [L’assassinio di Michoels], Olymp, Mosca 1990, p. 336.
10 P. Markov, Teatral’nyie portrety cit., pp. 458-459.
11 J. Liubomirsky, Af di lebensvegn cit., p. 217.
12 Leyb Kvitko, Solomon Maimon, «Komsomolskaya Pravda», 26 dicembre1940.
13 Inna Višnievskaya, Den’gi dla kul’tury? [Denaro per la cultura?], «Teatr», 2 (febbraio 1993), p. 13.
14 V. Zuskin, Curriculum vitae cit.
15 I. Višnievskaya, Den’gi dla kul’tury? cit., p. 14.
16 Sholem Aleichem, Bluždayuščie zvezdy [Stelle vagabonde], Text, Mosca 1999, p. 56.
17 I. Višnievskaya, Den’gi dla kul’tury? cit., p. 14.
18 V. Zuskin, Curriculum vitae cit.
19 I. Višnievskaya, Den’gi dla kul’tury? cit., p. 14.
20 Ibid.
21 Sholem Aleichem, Bluždayuščie zvezdy cit., p. 301.
22 A. Borščagovsky, Obvinjaetsa krov cit., p. 165.
23 Cfr. Shimon Redlikh, Yevreysky antifašistsky komitet v SSSR [Comitato Ebraico Antifascista], Meždunarodnyie otnoshenia, Mosca 1996, p. 47.
24 I. Višnievskaya, Zvezdy nie padayut cit., p. 12.
25 J. Rubenstein, V. Naumov, eds, Stalin’s Secret Pogrom cit., p. 394.
26 Gennadi Kostyrčenko, Out of the Red Shadow: Anti-Semitism in Stalin’s Russia, Prometheus Books, Amherst 1995, p. 33.
27 Il copione di David Bergelson Il principe Reuveni era basato sui testi di Max Brod, Josef Opatoshu e Dovid Pinski riguardanti il personaggio storico.
28 J. Veidlinger, The Moscow Yiddish Theater cit., p. 244.
29 Anastasia Pototskaya-Michoels, O Michoelse bogatom i starshem [Su Michoels il Ricco e l’Anziano] in Michoels cit., p. 525.
30 A. Azarkh-Granovskaja, Vospominania cit., p. 133.
31 J. Veidlinger, The Moscow Yiddish Theater cit., p. 243.
32 L. Finkel, Videnia cit., p. 23.
33 V. Zuskin, Curriculum vitae cit.
34 M. Goldblatt, A vort vegn Zuskinen cit., p. 122.
35 V. Zuskin, Curriculum vitae cit.
36 Makhzor l’am Israel: Tefilot Yom Kippur [Libro di preghiere per il popolo ebraico: preghiere dello Yom Kippur], Sinai, Tel Aviv 1971, p. 55.
37 (Ber) Yekl è un nome comune tra gli ebrei ashkenaziti e ricorre in canzoni e storielle. È utilizzato anche per indicare i klezmerim, ad esempio come Yekl-fidl (fidl in yiddish significa violino) o Berl-Bass (Berl è un diminutivo di Ber e bass sta per contrabbasso).
38 Frange o trecce degli indumenti ebraici tradizionali che solitamente si trovano ai bordi degli abiti o del talled, lo scialle da preghiera. Il kapote è un lungo cappoto maschile indossato dagli ebrei chassid dell’Europa Orientale.
39 I.Višnievskaya, “Zvezdy nie padayut”, p. 13.
40 Vladimir Pimenov, “Dve sud’by”, «Teatr», 6 (giugno 1990), p. 128.
41 I. Višnievskaya, “Zvezdy nie padayut”, p. 13.
42 Tamara Avetisian, Nezabyvayemoye, Slovo, Kiev 1998, p. 125.
43 A. Deutsch, Maski yeveyskogo teatra, p. 15.
44 Mark Danskoi, “Nepokorennyie” [Imbattibili], «Pravda Ukrainy», 1 gennaio 1944.
45 N. Vovsi-Mikhoels, Moi otets Solomon Michoels cit., p. 101.
46 J. Veidlinger, The Moscow Yiddish Theater cit., p. 264.
47 S. Yutkevič, “Istorija zagublennogo filma” cit., p. 193.
48 Joseph Kerler, “12 agosto 1952”, ora in Eygns, Jerusalem 1978, p. 115.
49 I. Višnevskaja, Zvezdy nie padayut cit., p. 12.
50 Vladimir Lidin, Zuskin, «Teatr», 1 (gennaio 1960), p. 87.
51 Ivi, p. 88.
52 Ibid.
53 Veniamin Zuskin, discorso tenuto alla cerimonia di addio a Michoels il 16 gennaio 1948. Registrazione e trascrizione di 12 pagine, Israel Goor Theater Archives and Museum, Gerusalemme.
54 I. Višnievskaya, Zvezdy nie padayut cit., p. 13.
55 V. Zuskin, Curriculum vitae cit.
56 J. Rubenstein, V. Naumov, eds, Stalin’s Secret Pogrom cit., p. 396.
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