On a heym / Senza una casa
p. 382-396
Texte intégral
1In un piccolo shtetl polacco abitato da gente né povera né ricca, dove il sostentamento è dato dal mare e dalla terra, vivono i Rivkin, lavoratori industriosi dediti alla pesca «forti come querce, con le radici ben consolidate nel suolo». Una disgrazia si abbatte sulla famiglia, ed è solo l’inizio di una lunga serie: il figlio maggiore annega in una tempesta. Il padre Avreyml, sopraffatto da un indicibile dolore e dall’insofferenza verso il proprio paese, sceglie di andarsene «ovunque i suoi occhi lo guideranno». Sordo agli ammonimenti del pio padre, alle preghiere della moglie Bas Sheve e alle perplessità del secondo figlio Khonokh, Avreyml decide di sfidare quell’elemento naturale che è sì fonte di guadagno e di vita, ma ora, avendo risucchiato il primogenito, si è preso anche una parte della sua anima. La scelta di emigrare negli Stati Uniti è dettata dall’aspettativa e dalla speranza, ma anche dall’impossibilità di sostenere un dolore così grande.
2Nel villaggio anche qualcun altro guarda oltre l’oceano: Motl, simpatico balegule (carrettiere) e “uomo di terra”, e Fishl, il suo occhialuto e flemmatico amico amante della musica. Il primo ha una ricca zia in America con la quale si tiene in contatto attraverso le missive composte in un goffissimo inglese dall’amico Fishl e complete di dozzinali foto, come quella che ritrae Motl in veste di cowboy…
3Durante uno Shabbat, Avreyml invita i compaesani a proseguire la celebrazione a casa sua: tra un brinidisi e l’altro, annuncia la propria imminente partenza. Se gli amici lo appoggiano e incoraggiano, il vecchio padre lo redarguisce, affermando che «in America non si ha tempo per Dio»; in disparte piange Bas Sheve, commossa dalla litania intonata da Fishl. Avreyml così s’imbarca, e una volta giunto a destinazione gli pare d’essere sotto un altro cielo: la frenesia di voci, luci e movimenti che lo assediamo, lo stimola ancora di più a rimboccarsi le maniche e cercare un impiego. Lunico che trova è quello di lavapiatti in un cafè-chantant: lo accetta di buon grado, visto che lo sforzo fisico certamente non lo spaventa. Proprio in questo locale rimane ammaliato dalla diva Bessy, anche lei ebrea, perfettamente integrata alla civiltà americana. Tale è la commozione suscitata dalla sua voce che Avreyml, al termine dello spettacolo, si reca alla porta del camerino della cantante pregandola di non eseguire più quella canzone, dal momento che agita in lui sentimenti ancora troppo vivi. Bessy si mostra fin da subito cordiale e accogliente: invita il nuovo arrivato ad accomodarsi e a raccontarsi, promettendogli aiuto qualora fosse necessario.
4Si torna nello spoglio e chiaroscurale villaggio: il figlio Khonokh soffre la mancanza del padre; Bas Sheve è apprensiva e malinconica; le parole di conforto del padre di Avreyml sono insufficienti; e il denaro inizia a scarseggiare. Intanto Motl, accarezzando l’amato cavallo, fantastica languidamente sulla possibilità di un futuro diverso… Fishl lo riporta immediatamente con i piedi per terra, esclamando con fierezza «Io non sono un sentimentale!», e così non dev’essere l’amico: se il desiderio è forte, che si parta alla volta del Nuovo Mondo, senza indugi. I due sono decisi, tra l’altro, ad aiutare i Rivkin informando Avreyml delle loro difficoltà. Dunque partono, carichi di entusiasmo e aspettative: arrivati alla porta della casa della zia (basta solo premere il campanello per farsi aprire!), accorre la cameriera nera. «È questa tua zia?» domanda incredulo Fishl. E quale ulteriore stupore, nel vedere che l’anziana signora abbraccia proprio lui, credendolo suo nipote!
5Di sera in sera, di canzone in canzone, i sentimenti di Avreyml nei confronti di Bessy s’accendono sempre di più, al punto da farlo rimanere sempre a bocca aperta di fronte alla foto della star posta di fronte al locale. Ben presto il nascente amore s’intreccia alla gratitudine: quando Fishl incontra (non senza una punta di sorpresa) l’amico nel locale notturno e gli spiega la situazione, Avreylm cerca di acquietare i sensi di colpa, rifugiandosi nel camerino di Bessie. Lei pensa subito a una soluzione pratica (perché non bisogna essere troppo “sentimentali”) e si propone di prestargli il denaro necessario al resto dei Rivkin per raggiungere gli Stati Uniti.
6Bas Sheve e Henac ricevono dunque la lettera contentente il denaro per partire: la gioia è incontenibile, finalmente la famiglia Rivkin può riunirsi in serenità! Ma un’ombra attraversa gli occhi del vecchio padre: la vita in un paese estraneo non sarà certamente facile, «le radici, indebolite, dovranno dolorosamente lasciare il solido terreno». Appena arrivati, i Rivkin invitano Bessy a cena, in segno di riconoscenza. Bas non risparmia sorrisi e accorati ringraziamenti, ma comprende fin dal primo momento che il fascino della diva è segno di una conquistata integrazione che lei, ligia casalinga di un villaggio polacco, in fondo non desidera, quel che conta è stare con la famiglia. E anche in questo senso la gioia lascia ben presto il posto allo smarrimento: la sera del loro arrivo Avreyml preferisce andare a lavorare piuttosto che festeggiare con la moglie. D’ora in poi le giornate di Bas Sheve scorrono nell’amarezza e nella solitudine, il figlio si muove con spavalderia nel nuovo ambiente e la lascia alle sue mansioni casalinghe, vuote e ripetitive, in un deserto domestico entro cui le uniche voci sono i suoi sconsolati soliloqui e le pie parole dell’anziano suocero. «Qui una moglie non è una moglie, la casa non è una casa» osserva sgomenta la donna, costretta ad assistere al viavai dei familiari e al crearsi del vuoto fra di loro. Il senso di distanza si amplifica nella comunicazione: Bas Sheve rifiuta di adottare parole come alright o goodbye, continuamente ripetute dagli altri personaggi come a ribadire il loro progressivo possesso anche della lingua del Nuovo Mondo. Inoltre, poiché in terra americana «gli uomini che lavorano insieme diventano amici», ecco che anche i nomi devono essere adattati: Avreyml diventa Abe, Khonokh è Harry e Fishl e Motl, semplicemente, Foe e Moe. «È questa la vita che stavamo cercando?» si domanda tristemente Bas Sheve.
7 Proprio la buffa coppia, nel frattempo, cerca di prendere confidenza con la nuova casa. Motl lavora per conto della zia, cercando chi non paga l’affitto tra i dirimpettai del condominio. Svolge rigorosamente il proprio compito, tranne quando ad aprire la porta è la bella e maliziosa Lina (che non paga…). A Fishl si presenta un’occasione unica: nella sinagoga del quartiere cercano un nuovo cantore, purché sia sposato. Urge dunque trovare moglie. La donna perfetta è proprio lei, Lina! Certo della buona riuscita del suo piano, inizia a esercitarsi, cantando e ascoltando musica anche mentre mangia. Ma non sa che la “promessa sposa” è stata notata anche dal suo migliore amico, che corre da Motl chiedendogli di scrivere per suo conto una lettera d’amore. «È per Lina» confessa Motl tutto sorridente. «Ah molto bene! Non la conosco, ma la sposerò!» risponde trionfante l’amico. «Presentami a lei! Ama il tuo amico come te stesso!». Motl rimane letteralmente a bocca aperta.
8Intanto il nucleo dei Rivkin si disintegra gradualmente sotto il peso della povertà e dell’afflizione: Avreylm è sempre più incurante nei confronti della famiglia, oltre che visibilmente infatuato di Bessie; Khonokh lavora ogni giorno come portagiornali guadagnando una miseria e sente la mancanza del padre; l’avvilimento di Bas Sheve si fa sempre più profondo. Una sera la donna cerca di aprire il proprio cuore ad Avreylm, dichiarando che sia lei che il figlio patiscono la sua assenza, e aggiungendo: «Che vita è se il giorno diventa notte?». Sebbene consapevole dei propri errori, Avreylm non vuole saperne di ammetterli e preferisce andarsene, deciso ad abbandonare definitivamente la vecchia casa.
9Nel cuore di Bas Sheve la disperazione diventa incubo: inizia a tormentarsi leggendo il mito biblico di Abramo, che aveva due mogli, Sara e Hagar, e l’autosuggestione diventa rapidamente ossessione. Perché costruire una casa con due mogli? Khonokh le sta accanto dolcemente, promettendole che guadagnerà per mantenerla. Si apre finalmente un piccolo sorriso nel volto della donna. «LAmerica non mi butterà giù!», e bacia il figlio.
10Così, il giorno dell’anniversario della morte del primogenito, Bas Sheve cerca il marito, chiedendogli di tornare «non per me, ma per tuo padre». È inutile, Avreyml non vuole saperne. Si materializza di nuovo nella mente lo spettro del triangolo amoroso biblico, ma stavolta ha una reazione immediata e decide di recarsi proprio da lei, l’altra che si è americanizzata proprio come il marito: Bessy, la quale di fronte a tanta demoralizzazione non ha dubbi e ritiene necessario rimettere Avreyml sulla retta via. Così gli parla, certa dell’ascendente che esercita su di lui; gli rimprovera la negligenza, l’egoismo e un comportamento «assolutamente non da gentiluomo» che lo allontanano dai suoi doveri di padre di famiglia. Colpito nel vivo, Avreyml è sul punto di dichiararle i propri sentimenti, quando Bessy è chiamata ad andare in scena.
11Nel locale c’è anche Fishl, e poco lontano Motl: sorpresa delle sorprese, al suo fianco c’è proprio lei, Lina! Motl, visibilmente imbarazzato, acquista velocemente un fiore (che da buon squattrinato non può pagare) e chiede la mano alla donna. Motl ride, ma non si oppone: ama il suo amico quanto ama se stesso. A questo punto, non resta che cantare, e Fishl intona proprio On a heym, suscitando l’entusiasmo del pubblico. In quest’atmosfera si organizza la festa del fidanzamento, che a questo punto va celebrato velocemente. La sera successiva i Rivkin, i due amici e la promessa sposa si riuniscono intorno al tavolo, banchettano e cantano: è commovente vedere quanto poco basti a ricreare il caloroso e familare clima dello shtetl. Ma già il mattino dopo, tuttavia, questa gioia si dimostra effimera e non redime la dura realtà: alla sinagoga scelgono un altro cantore. Fishl va in cerca di conforto da Bas Sheve e Avreyml, senza trovarli. «Ahimè», esclama, ripensando proprio forse alle parole intonate la sera prima, «casa mia, adesso, non è più casa mia».
12Intanto il piccolo Khonokh, deciso a capire il perché dell’assenza del padre, va al locale. Avreyml è ben felice di vederlo, ma gli ammonimenti del figlio lo spiazzano: «Non vieni mai a trovarci, che vita è questa?». Con grave voce d’adulto, Khonokh se ne va dichiarando che se ne andrà «ovunque i miei occhi mi guideranno». In tutta risposta, il padre ride di gusto, ma avrebbe fatto bene a non sottovalutare le sue parole: la sera il ragazzo non rientra a casa. Passano le ore e di lui nessuna traccia. Bas Sheve si tormenta, finché un poliziotto si presenta alla loro porta: tiene la borsa portagiornali di Khonokh, dicendo di averla trovata vicino al fiume. La donna sprofonda nella più nera follia: un altro figlio perso, lontano da casa…
13 Segue fatalmente un ricovero: in ospedale i suoi lamenti suscitano tenerezza e pietà, al punto da essere trattata con un occhio di riguardo rispetto alle altre pazienti. Avreyml non ha neanche il coraggio di guardare in faccia i medici, né tantomeno di ascoltare la moglie quando vaneggia immaginandosi di nuovo in Polonia, intenta a cullare un bambino. Ora realizza il proprio errore: «Quando un pescatore abbandona il mare, questi si vendica e lo insegue».
14Eppure il lieto fine è dietro l’angolo: Khonokh è vivo e molto arrabbiato, la borsa gettata era un segno di ribellione. Soltanto il saggio nonno può farlo rinsavire in sé e convincerlo a fare ritorno, mettendo da parte i rancori, per amore di sua madre. Il piccolo corre dalla sola persona che davvero non ha mai dimenticato la felicità familiare di un tempo. La famiglia si riunisce, le lacrime scorrono ma i sorrisi si aprono più luminosi che mai. Per ristabilire la salute mentale di Bas Sheve e calmare gli animi del figlio e del padre, Avreyml ricrea la semplice e devota atmosfera della loro vecchia abitazione.
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15 On a heym è senz’altro una delle opere di maggior rilievo della cosiddetta “epoca d’oro del cinema yiddish polacco”, tra il 1936 e il 1939. Lo yiddish in Polonia non era soltanto una lingua parlata, ma un «autentico stile di vita, il cui uso non era puramente casalingo: lo si udiva per le strade, nei mercati, sui mezzi pubblici».1 Tuttavia tale eccezionale interesse rifiorisce in anni duri: la pellicola in questione fu prodotta nel corso degli ultimi mesi del 1938, quando la dilagante furia antisemita aveva già distrutto, soprattutto in Germania, sinagoghe, botteghe e vite ebraiche.
16In quell’anno il produttore dell’Alma Film, Adolph Mann2 cercò il regista e attore Aleksander Marten per commissionargli un film in yiddish. Marten si era diplomato nel 1923 alla scuola di teatro di Max Reinhardt presso il Deutsches Theater di Berlino, per poi far parte di varie compagnie di giro; appena due anni prima aveva realizzato il film polacco Al khet (nel quale tra l’altro aveva debuttato sullo schermo il duo cabarettistico composto da Shimen Dzigan e Yisroel Shumacher), primo lungometraggio sonoro polacco realizzato dopo otto anni di silenzio seguiti a In poylishe velder (1928) di Jonas Turkow. L’anno successivo, dopo un breve soggiorno a Vienna, Marten fece rientro a Varsavia a causa dell’Anschluss e si mostrò entusiasta all’idea di dirigere un altro film polacco, nel quale avrebbe interpretato la parte di Avreyml.
17I due scelsero di affrontare il classico di Jacob Gordin del 1907 con cui aveva trionfato Sarah Adler. La sceneggiatura del film venne affidata allo scrittore e fotografo Alter-Sholem Kacyzne, amico e collaboratore di Sholem An-skij: aveva già scritto la sceneggiatura del film Der dibek, tratto proprio dalla celeberrima opera del drammaturgo, la sua fama era legata alla sua notevole competenza in ambito cinematografico, anche in quanto assiduo recensore del «Literarishe Bleter».3
18Scegliere un’opera di Jacob Gordin era una mossa sicura. Drammaturgo, traduttore e adattatore di testi teatrali, lo «Shakespeare ebreo» (come è stato enfaticamente soprannominato) vantava un repertorio di oltre cento pièce ed era riconosciuto come l’eminente capofila della drammaturgia yiddish realista, artefice e promotore di un grande “teatro educativo” socialisteggiante. Egli stesso inoltre aveva vissuto l’esperienza dell’esodo verso il Nuovo Mondo: il 31 luglio del 1891 era giunto a New York con la moglie Anna e otto dei loro figli (in tutto ne ebbero quattordici), aggregandosi subito alla colonia socialista ebraica lì residente. La stragrande maggioranza di questi emigrati abbandonavano la madrelingua russa e iniziarono a comunicare in yiddish; il giornalista e futuro amico Philip Krantz consigliò a Gordin di fare altrettanto.4 Da lì, il passo verso la creazione di un teatro yiddish di alto livello fu molto breve, giacché negli ultimi mesi del 1891 Krantz propose a Gordin di scrivere per il teatro in yiddish e gli presentò le due stelle di quel firmamento: Jacob Adler e Sigmund Mogulesko.
19Il cuore di On a heym è il dramma dello sradicamento e dell’emigrazione dall’Europa dell’Est al Nuovo Mondo. Hoberman osserva come sia «ironico il fatto che l’unico dramma gordiniano trasposto in film che tratta dell’immigrazione sia stato girato in Europa» e che, malgrado il titolo assai significativo, l’opera sia sorprendentemente apolitica, fatto ancor più strano alla luce della personale esperienza di Marten, «come se quella sul destino degli ebrei polacchi fosse una domanda che non poteva essere posta direttamente».5 Con toni ancor più crudi rispetto ad Al Khet, Marten costella la narrazione di sequenze girate in sinagoga, nelle quali si percepisce un’aura di mestizia e si odono voci di cori non visti. Dall’apertura tragica fino al ricovero in ospedale di Bas Sheve, la morte si affaccia silenziosa nel corso della storia, che si rivela essere falsamente ottimista, sebbene il lieto fine apra volontaristicamente uno spiraglio di positività.
20Benché il regista si proponga di toccare rilevanti «questioni e problemi dell’attualità […] nessun regista, men che mai ebreo, avrebbe osato fare un film apertamente antinazista».6 Ecco dunque che Marten e Mann scelgono di riprendere nel 1939, quando una tragedia di ben altre dimensioni si staglia all’orizzonte, un dramma di quarant’anni prima (attenuandone non poco, tra l’altro, gli aspetti più amari): il titolo stesso è ironincamente profetico, dal momento che soltanto sei mesi dopo davvero gli ebrei polacchi sarebbero stati “senza casa”. Ma non ci si trova di fronte a un caso anomalo: a cavallo fra gli anni Venti e Trenta i film yiddish preferiscono trarre spunto dalla storia recente, lasciando ai documentari il compito di affrontare la contemporaneità.7 A ogni modo On a heym venne accolto freddamente, dal momento che era incomprensibile come l’America potesse diventare causa di sofferenze e disagi, «terra di ebrei senza barba e sogni distrutti» ;8 il lungometraggio fu giudicato dalla critica e dal pubblico un prodotto di rango medio-basso, dal tema stucchevole e ormai superato.9
21Non solo: girato interamente nello studio di Jakub Joniłowicz, direttore della fotografia anche di Yidl mitn fidl di Joseph Green, esso è «il più claustrofobico e antiquario dei film sonori ebreo-polacchi» e a conferirgli un qualche «elemento di glamour»,10 attraverso soprattutto i suoi espressivi primi piani, è proprio l’interprete di Bas Sheve, Ida Kaminska, notoriamente più dedita al teatro che al cinema (Marten si chiese come mai i registi yiddish non avessero fatto ricorso al talento dell’attrice prima di allora, promettendo di correre quanto prima ai ripari per «correggere questo errore»). Kaminska accettò la parte a condizione di essere pagata giornalmente, da una parte perché poco sicura dell’effettivo successo della pellicola, dall’altra ansiosa di mantenere la stabilità economica del Teatro Nowości, che proprio da quell’anno aveva preso in affitto insieme alla collega Klara Segalowicz. Stando a quanto riporta Goldman, quando i fondi si esaurirono prima che la produzione fosse conclusa, Kaminska abbandonò, e il film dovette essere completato montando vecchie riprese.
22 Da un punto di vista tecnico, On a heym è una pellicola piuttosto ingenua e artificiosa, più di altro shund americano: il set spoglio costituiva naturalmente il limite maggiore, al quale Marten e Joniłowicz tentarono di sopperire attraverso riprese a specchio, inquadrature rovesciate, forti luci e plastici per la rappresentazione del villaggio. La narrazione è costellata di nostalgie, paure, piccoli e grandi tormenti che le conferiscono un’aura chiaroscurale. Il pessimismo è soverchiante e solo in parte mitigato dall’happy end. Eppure Marten, come giustamente nota ancora Hoberman, aveva già notevolmente edulcorato Gordin, dato che il dramma originale si chiudeva proprio con la pazzia senza rimedio di una Bas Sheve che uscita dall’ospedale psichiatrico scopre che Avreyml si è risposato e il figlio Khonokh si è totalmente dimenticato di lei. Tornata a casa, ha un altro tracollo e i vicini chiamano l’ambulanza: quando questa arriva, la donna fa i salti di gioia perché si crede in procinto di tornare a casa.
23A mitigare l’amarezza è la bizzarria e la verve farsesca di Motl e Fishl, compaesani e amici dei Rivkin, interpretati dalla coppia comica Dzigan e Shumacher. Dare volto e voce a due semplici uomini di paese alle prese con le stranezze dell’universo americano era garanzia di riso, benché spesso amaro: i due sono maldestri, commentano ogni piccolo curioso dettaglio che incontrano (di fronte al nero che pulisce le scale del condominio Motl spiega: «Si laverà nella pece!». Si noti che gli interpreti di neri erano comparse polacche con il volto dipinto) e s’invaghiscono di donne glamour, così diverse dalle casalinghe dello shtetl. I tipi comici, poi, sono quelli che i due attori impersonavano nelle loro performance cabarettistiche: Dzigan era lo squattrinato dal sorriso canzonatore, un po’ lamentoso ma sempre iperattivo; Shumacher era imperturbabile e riservato, il suo punto forte era la gestualità, specialmente delle mani.
24La diva della pellicola è la yidishe mame Ida Kaminska, la quale ben conosceva il dramma poiché vi aveva già recitato da giovane. Lattrice era sparita dagli schermi dal 1924, quando aveva interpretato Rachel Kronenberg al fianco della madre Ester Rokhl in Tkies kaf. La sua vocazione principale non era cinematografica, sul fronte teatrale, di contro, l’impegno dell’attrice era titanico: dalla fondazione del vykt (Varshever Yidisher Kunst-teater), con il primo marito Zygmunt Turkow, alla ricostruzione del Teatro Statale Ebraico (Yidishen Melukhe Teater), dagli adattamenti e traduzioni alle indimenticabili prove d’attrice, la Kaminska ebbe sempre ferma fiducia nel potere del teatro come esercizio di consoldimento e di ravvivamento della memoria e, in particolare, come segno e forma della cultura yiddish. D’altra parte anche dopo lo scioglimento del vykt (e del vincolo sentimentale), Kaminska e Turkow promuovevano un teatro che, in quel momento più che mai, necessitava di serietà e doveva «infondere gioia, ottimismo, elevazione e fiducia nel domani […] dobbiamo dimostrare che siamo un popolo che […] ha celebrato l’amore per l’umanità».11 Considerando la forte interazione tra teatro e cinema nella cultura yiddish, si può considerare l’impianto didascalico e ottimista di On a heym come uno sforzo di offrire un esempio positivo di vita ebraica.
25Le donne incarnate da Kaminska sono addolorate, smarrite, ma al contempo irremovibili e forti. Non abbandonano mai la loro lingua familiare (l’attrice stessa recitò quasi sempre in yiddish e On a heym è l’unica testimonianza audiovisiva estesa della sua recitazione in questa lingua): la mame-loshn per Bas Sheve è veicolo espressivo delle sue preoccupazioni, ma anche mezzo di resistenza alla conformazione a cui la cultura americana vorrebbe sottoporre i nuovi arrivati. La donna non ambisce a fare parte di quel mondo, del quale non comprende la mancanza di “sentimentalismo» ( «Ahimè! Qui la moglie non è una moglie e la casa non è una casa!»). Tutta incurvata sul tavolo della povera stanza (tsimer) americana in cui alloggiano, si chiede se abbia avuto un senso abbandonare il porto sicuro di Kazimierz per raggiungere un sogno rivelatosi del tutto fallace. Non rinuncia al suo yiddish e preferisce mantenere il suo nome invece di americanizzarlo. Non desidera insomma abbracciare il sogno americano, tutto votato alla vuota formalità e alla superficialità di costumi. «Perché te ne stai sempre chiusa in casa?» le chiede Fishl, non riuscendo a comprendere la totale assenza di entusiasmo della donna. La casa è appunto il microcosmo in cui Bas Sheve si rifugia, luogo elettivo del nucleo familiare e, per esteso, della collettività ebraica. Tale spazio comunitario – spirituale e materiale insieme – è plasmato proprio dalla lingua yiddish, che come diceva Kafka è idioma «parlato senza sosta», che «non trova pace» e che «il popolo non cede ai grammatici»,12 insomma in costante metamorfosi, e sempre sulla soglia tra conservazione e innovazione, antico e nuovo, locale e cosmopolita:
Lo yiddish esercita in effetti una malia dagli aspetti stranamente contraddittori: lingua internazionale e trasnazionale per eccellenza, rappresenta anche il veicolo linguistico di una società, quella mitizzata dello shtetl […] dove l’identità, sorta di fattore immanente e immutabile, sembra costituire un dato di fatto e non una ricerca straziante e un’incerta caratteristica della modernità. Quindi, un mito dagli aspetti fortemente regressivi [… ]13
Tale lingua si configura come rappresentazione linguistica di una comunità primigenia e protettiva. Per Bas Sheve l’idioma natìo è casa laddove casa non c’è: lo yiddish qui definisce un dentro pur individuando un fuori e si nutre di questo rapporto con l’alterità. In questa prospettiva la voce e il linguaggio giocano un ruolo fondamentale nel film, la cui narrazione è scandita dal canto, in particolare proprio dal brano On a heym (intonato prima da Bas Sheve, poi da Bessy, infine da Fishl) che si trasforma così «in un intenso Kaddish per la casa disgregata e irrimediabilmente perduta».14 Si dovrà osservare allora che il tema dell’allontanamento da casa è in perfetta linea con i contenuti delle drammaturgie contemporanee, che riflettevano proprio sullo sradicamento, il rapporto padre-figlio, il conflitto tra cultura religiosa e secolare e sull’impatto che tutto ciò poteva avere tanto sull’individuo quanto sulla comunità.
26 Così in On a heym il regista sceglie di guardare più da vicino il complesso di trasformazioni che il nucleo familiare ebraico doveva fronteggiare nel difficile passaggio tra il Vecchio e il Nuovo Mondo: al villaggio rustico, le cui acque e terre bastano a nutrire i suoi abitanti, si sostituiscono le luci della ribalta, gli alti palazzi, la frenesia cittadina e l’opulenza delle cose. L’umile pescatore, il cantore della sinagoga, il carrettiere, la casalinga e il ragazzo di paese si trovano inglobati in uno spazio estraneo, che può ammaliare e spingere all’integrazione (come accade ad Avreyml, Fishl e Motl), così come può atterrire (è indubbiamente il caso di Bas Sheve) o suscitare sdegno, come nel devoto nonno (interpretato da Adam Domb, che già in Tkies kaf aveva interpretato il suocero di Kaminska).
27Marten indaga queste diverse possibilità di reazione attraverso gli sguardi dei suoi personaggi senza assumere una posizione, ma è evidente che la sofferenza di Bas Sheve è centrale. Questo perché, come ora è forse più chiaro alla luce di quanto detto, il cuore pulsante del film è l’importanza della coesione familiare per l’affermazione della propria “ebraicità”. La famiglia (e lo si vede già in tanta drammaturgia yiddish ottocentesca) si configura come incarnazione dell’ «esperienza dell’ebraicità, concepita in termini di continuum storico».15
28Il vincolo indissolubile tra Bas Sheve e l’immaginario ebraico è testimoniato ad esempio dal fatto che quando inizia a sospettare dell’infatuazione di Avreyml per Bessy la prima immagine che le si proietta nella mente è quella di Abramo con le due mogli Sara e Hagar: un’immagine che deriva da quel mondo biblico che non è soltanto oggetto di devozione, ma anche fonte di fantasie. La vicenda del quasitradimento di Avreyml ha un grande interesse: il fascino della cantante (un po’ volgare, secondo Hoberman: è interessante ricordare che inizialmente Bessy doveva essere una intellettuale “moderna”) cattura perché è emanazione di un sogno biunivoco: quello nostalgico della terra lontana (particolarmente toccanti sono le scene in cui intona struggenti canzoni nella propria mame-loshn) e quello dell’integrazione nel Nuovo Mondo. È dunque naturale che il nuovo arrivato Avreyml, carico di speranze e ricordi dolorosi, se ne invaghisca (e che persino Fishl pensi di prenderla in moglie!). Il capofamiglia dei Rivkin è ammaliato dall’incarnazione della conquistata integrazione, della felice assimilazione al mondo vincente, dalla luminosa immagine, in poche parole, di ciò che vorrebbe essere lui. Ciò non può che allontanarlo progressivamente dal “piccolo mondo antico”, anche se la moderna e “arrivata” Bessy non gli indica in alcun modo quella via. Infatti, la cantante viene rappresentata come una donna di buon cuore, pronta a intervenire in aiuto di tutti. Malgrado sia “l’altra”, è proprio da lei che Bas Sheve si recherà per sfogarsi e cercare conforto (facendo leva forse sulla solidarietà fra donne?), come pure non sembra esserci ombra di rancore o malizia nei confronti della cantante (vi è da chiedersi se anche questo aspetto non sia parte dell’idealizzazione di cui è portatore il film).
29Bas Sheve dunque vede fin da subito, con sguardo lucido e critico, il divario tra il Nuovo Mondo e il Vecchio; Avreyml rinsavirà soltanto di fronte all’estremo, ovvero la follia della moglie, e i due amici Fishl e Motl si renderanno conto che non è tutto rose e fiori. In particolare il primo, che tanto si era impegnato a imparare l’inglese e che fin dal principio aveva mostrato vivo entusiasmo per la nuova vita, va incontro a una cocente delusione. La speranza di poter continuare a cantare (ecco che di nuovo torna l’importanza della voce) anche in terra straniera, si rivelerà spietata creatrice di chimere, dal momento che la sinagoga sceglie un altro cantore. Fishl era pronto a fare dell’America la propria nuova casa, ma se non può neanche cantare, che casa potrà mai essere? Troverà curiosamente un sensibile interlocutore nel piccolo Khonokh (Ben Zuker) il quale lucidamente vede come quel mondo stia gradualmente erodendo il vincolo familiare. È proprio nel suo giovane cuore che scatta il desiderio di ribellione: dopo aver visto il club in cui lavora il padre s’indigna e fugge, gettando con rabbia la borsa con i giornali che dovrebbe distribuire nel quartiere. Il ragazzo non rifiuta del tutto il nuovo stile di vita (promette alla madre che si occuperà di lei durante l’assenza del padre) ma l’influenza che questo ha sui vincoli familiari. Vede il vuoto intorno alla madre e non approva il nuovo mestiere del padre. Marten vuole qui rappresentare una giovanissima generazione che, sebbene per natura più incline al cambiamento, non accetta quella realtà, non a quel prezzo. Eppure il ragazzo torna in sé proprio grazie al nonno, il solo a sapere del suo nascondiglio. Il divario tra due generazioni lontane porta a un dialogo positivo che permette il ripristino della serenità e dell’ordine, il ritorno a casa di Khonokh è apertura al futuro e alla sua luce. È qui che Marten, alla fine, deposita un messaggio ottimistico ed “educativo”.
30 On a heym uscì nelle sale nel marzo del 1939, sei mesi prima dell’ingresso delle truppe naziste a Varsavia. Marten sarà vittima della Shoah; Ida Kaminska fuggirà in Ucraina insieme al secondo marito Meir Melman e alla figlia Ruth, dove verrà chiamata dalle autorità sovietiche a dirigere il Teatro Statale Yiddish dell’Ucraina Occidentale; Dzigan e Shumacher ripiegheranno a Białystok e continueranno a esibirsi insieme ancora per molto tempo. Malgrado gli sforzi postbellici (di alcuni) per conferire nuova vita all’arte ebraico-polacca, la Polonia cesserà di essere uno dei più grandi poli della vita intellettuale e culturale ebraica.
Notes de bas de page
1 Cfr. E. A. Goldman, Visions, Images and Dreams cit., p. 49.
2 Precisa Natan Gross: «Nei titoli di testa della copia americana il film è presentato dalla Foreign Cinema Arts e Adolph Mann figura come produttore. Secondo Shaul Goskind, tuttavia, Mann era rappresentante della Amco Pictures Co. di New York, che distribuiva il film negli Stati Uniti e avrebbe modificato le diciture in modo tale da fare credere di essere il produttore e il proprietario» (N. Gross, Film żydowski w Polsce, Rabid, Kraków 2002, p. 73).
3 Si tratta del settimanale di cultura e letteratura yiddish, pubblicato tra il 1924 e il 1939. Fu uno strumento intellettuale di fondamentale importanza nella Polonia tra le due guerre. Cfr. Nathan Cohen, The Yivo Encyclopedia of Jews of Eastern Europe, ad vocem “Literarishe Bleter”.
4 Solo un mese dopo Gordin pubblica sul giornale socialista «Di arbayter tsaytung» (Il giornale dei lavoratori) il suo primo articolo in yiddish, un estratto da una sua lettera che racconta del pogrom di Elizavetgrad dell’aprile del 1881. La lettera era firmata “Yankev ben Mikhl”. Gordin coltiverà sempre con passione la scrittura giornalistica. Per ulteriori dettagli sulla sua vita e opera, cfr. Y. Kharlash, Yiddish Leksikon, ad vocem “Jacob Gordin” e gli altri volumi di questa serie.
5 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 294.
6 E. A. Goldman, Visions, Images and Dreams cit., p. 94.
7 «Nel dopoguerra il documentario sarebbe diventato uno strumento privilegiato per testimoniare l’annichilimento della società e della cultura ebraica e gli sforzi finalizzati alla sua ricostruzione» (G. Randone, Di case, lingue e finestre cit., p. 166). Si pensi a come dopo la guerra la yafo, (Yiddish Film Organization), nata nel 1946 grazie ai finanziamenti dell’American Joint Distribution Commitee, fece doppiare in yiddish e in ebraico Death Factories (in yiddish Toytmiln, il cui testo era stato redatto dal poeta David Wolfe e recitato dall’attrice Rita Karpinowitz), un documentario realizzato dall’esercito americano sui campi di concentramento nazisti, e finanziò Israel Becker per realizzare Lang iz der veg, che racconta le sue dolorose esperienze durante e dopo la guerra.
8 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 294.
9 D’altro canto il giornalista M. Kitai sul «Literarishe bleter» fece un tetro ritratto dello spettatore ebreo polacco che non si curava di quanto accadeva intorno a lui ed era tutto intento a farsi «imboccare» di film «di ripiego» yiddish americani, assaporati come fossero cholent (il tradizionale stufato della cucina ebraica, grasso e dolciastro al contempo). M. Kitai, «Literarishe bleter», 19 (626), 8 maggio 1936, citato da E. A. Goldman, p. 305.
10 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 293.
11 Jacó Guinsburg, Aventuras de uma lìngua errante: esaios de literatura e teatro ídiche, Perspectiva, São Paulo 1996, pp. 399-400.
12 E aggiunge: «Una volta che esso vi abbia afferrati – tutto è yiddish: la parola, la melodia chassidica e l’indole stessa dell’attore ebreo orientale – allora non conoscerete mai più la vostra pace di un tempo. Allora sentirete la vera unità dello yiddish, e così forte, che avrete paura, ma non più dello yiddish: di voi stessi». Si vd. Franz Kafka, Discorso sulla lingua yiddish, in Confessioni e Diari, a cura di Ervino Pocar, trad. it. di I. A. Chiusano, Mondadori, Milano 1981, pp. 1001-1005. I guardiani della cripta, a cura di Barbara Di Noi, Biblion, Milano 2011. Il Discorso è il testo di una conferenza tenuta dall’autore nel 1912 a sostegno di una compagnia yiddish di Leopoli che recitava a Praga.
13 L. Quercioli Mincer, La letteratura yiddish ed ebraico-polacca, in Aa.Vv., Storia della letteratura polacca, a cura di Luigi Marinelli, Einaudi, Torino 2014, pp.493- 526.
14 G. Randone, Di case, lingue e finestre cit., p. 167.
15 Ivi, p. 166.
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