Mir kumen on / Stiamo arrivando
p. 332-345
Texte intégral
1È il 1935, e Aleksander Ford, uno dei registi più eclettici e controversi del cinema polacco (maestro, fra gli altri, di Roman Polanski), accetta di mettersi all’opera con quello che diventerà il suo secondo “progetto ebraico”, Mir kumen on, distribuito negli Stati Uniti con il più edificante titolo di Children Must Laugh (I bambini devono ridere).1 Appartenente al gruppo di pellicole yiddish pre-belliche sopravvissute alla Seconda guerra mondiale, Mir kumen on delinea un interessante contrasto fra la condizioni di vita nel Vladimir Medem Sanatorium (noto in tutta Europa per il suo moderno approccio pedagodico e per le sue strutture a misura di bambino) e la claustrofobica realtà del ghetto di Varsavia. Un film costellato (nella sua seconda parte) di ampi sorrisi, di utopie democratiche e di buoni propositi, che – se osservati à rebours – non possono che toccare nel profondo l’animo dello spettatore: la stragrande maggioranza dei giovani inquilini del Medem Sanatorium, infatti, venne deportata a Treblinka il 22 agosto 1942, accompagnata dai pochi membri superstiti dello staff (Anna Broide-Heler, Manie Zigelboym, Sonie Nowogrodska e Roze Aykhner). Alcuni invece, qualche anno dopo le riprese di questo semi-documentario, riuscirono a unirsi alla resistenza bundista,2 partecipando alla rivolta del ghetto di Varsavia della primavera del 1943 e morendo successivamente come martiri nelle camere a gas.
2Aleksander Ford, nato Moyshe Lipshutz a Łódź alla fine del 1908 da una famiglia della borghesia ebraica, si espose – nel corso della sua lunga carriera – a influenze eterogenee, precorrendo di alcuni anni (già nella sua fortunata pellicola del 1932, Legion ulicy / La legione di strada, che documenta le giornate dei giovani strilloni e dei venditori ambulanti dei bassifondi di Varsavia) le forme del Neorealismo italiano, per via del precoce sfruttamento del metodo del docu-drama e degli attori “della strada”: «i bambini recitano con naturalezza», dichiara infatti Charney Vladeck nel suo discorso introduttivo. Non si può dunque accogliere l’affermazione di Riccardo Martelli, secondo il quale «i film [di Ford] non si [sono] mai distinti per grande originalità di linguaggio» ;3 ciononostante, ammette lo stesso biografo, «la sua azione di stimolo culturale […] esercitò una notevole influenza sul cinema polacco»,4 dagli anni Trenta fino al 1974, anno dell’addio (coatto) alle “scene”, con la pellicola Sie sind frei, Doktor Korczak (Siete libero, dottor Korczak), coproduzione isreaelito-tedesca girata nella Germania dell’Ovest. Messo al bando dal regime comunista polacco e condannato all’isolamento, il regista – incapace di trovare nuovi ingaggi – si tolse tragicamente la vita in un hotel di Naples, in Florida, nell’aprile 1980.5
3Tornando al periodo più roseo e fervido della sua attività, Ford, ad appena ventisette anni, era già considerato uno dei decani della cinematografia polacca politicamente impegnata: trasferitosi a Varsavia a fine anni Venti per studiare storia dell’arte, egli si unì al ciné-club d’avanguardia start (acronimo di Stowarzyszenie Miłośników Filmu Artystycznego, letteralmente “Società dei Devoti al Cinema d’Arte”), formato per lo più da giornalisti e cineasti come Wanda Jakubowska, Jerzy Bossak e Jerzy Zarzycki, animati dall’intento di rinnovare il cinema polacco, allora in profonda crisi. La loro “linea di produzione” si specializzò presto nella realizzazione di corti d’alta coscienza estetica e politica, attenti a fissare i frammenti di vita dei sobborghi polacchi più vessati dall’indigenza. Tra le prime prove di Ford nell’alveo dello start si annoverano: Nad ranem (All’alba) del 1929 e, per l’anno successivo, Narodziny gazety (Nascita di un giornale) e Tetno polskiego Manchesteru (Limpulso della Manchester polacca).
4Sebbene Ford avesse dichiarato di avere appreso lo yiddish soltanto nel sanatorio di Medem (nel quale trascorse un mese, durante la fase di documentazione per Mir kumen on), il primo incontro della sua cinepresa con il mondo ebraico si ebbe nel 1933, anno in cui il regista fu invitato in Palestina per la realizzazione di un film. Non potendo contare su alcuna sceneggiatura preconfezionata, Ford optò per un reportage “drammatizzato” (sulla falsa riga di Legion ulicy, dell’anno precedente). Giunto in Medio Oriente insieme alla moglie Olga e a un cineasta tedesco, Ford «trascorse sei mesi raccogliendo filmati, talvolta usando una cinepresa nascosta per documentare eventi che spaziavano da competizioni sportive ebraiche internazionali a celebrazioni religiose musulmane».6 Gran parte del girato venne poi spedito in Polonia, «dove fu montato all’interno di notiziari e cortometraggi».7 Contemporaneamente, Ford si dedicò anche alla produzione di un film narrativo riguardante il conflitto arabo-ebraico: ambientato in Palestina al tempo della Dichiarazione Balfour (1917), Chalutzim (Pionieri, precedentemente distribuito come Sabra)8 poté contare sulla presenza di artisti del calibro di Hanna Rovina e degli altri membri dell’Habima,9 stabilitasi a Tel Aviv nei primi anni Trenta.
5Rientrato in Polonia, Ford trovò ad attenderlo Shaul Goskind, mecenate dello start, che, nel 1934, produsse il quarto lungometraggio del regista, Przebudzenie (Il risveglio). Basato sul ciclo poetico dello scrittore ebreo-polacco Julian Tuwim, il film – dal tocco chiaramente simbolista e protofemminista – può intendersi come una sorta di maestosa allegoria: tre studentesse sfidano le avversità sociali e familiari per rivendicare la propria indipendenza. Lopera fu tuttavia un completo fiasco, respinta dal pubblico e dalla critica, e non fu naturalmente risparmiata dall’azione della censura, che in quegli anni, in Polonia, si faceva sempre più opprimente. Goskind tentò di rientrare delle perdite facendo aggiungere alla pellicola alcune sequenze filmate dal regista Jan Nowina-Przybylski e dal direttore della fotografia Seweryn Steinwurzel; da parte sua, Ford co-diresse nello stesso periodo Nie miała baba kłopotu (La nonna non ha preoccupazioni), commedia con Michał Waszyński, su soggetto di Konrad Tom. Entro un paio d’anni tutti questi nomi si troveranno coinvolti nella grande impresa dei film sonori yiddish, ma «Ford fu il primo».10
6Il rapido preambolo che abbiamo fin qui tracciato, riguardante le precedenti esperienze di Ford, ci permette di inquadrare meglio e in maniera criticamente più consapevole Mir kumen on, definito da Eric Goldman come «il primo, e di certo il più significativo lungometraggio in stile documentaristico a essere prodotto in yiddish».11 Kitai parla perfino, entusiasticamente, di «arte della vita, della sincerità, dell’umana relazione» :12
Le immagini ci distruggono, evocano il più profondo dolore. […] Un film del genere parla direttamente al cuore, alle emozioni. Dice più di cento discorsi, articoli e libri. È un agitka, ma d’arte, un ordine superiore che spalanca i nostri occhi e raggiunge i nostri sensi […]. Pulsante, clamoroso, genuino: ecco come si può vivere per anni negli scantinati e come invece si riprende fiato al Medem Sanatorium.13
Come si è detto, infatti, il film (il cui titolo, letteralmente, significa “Stiamo arrivando”, We Are on Our Way, in inglese, dal titolo della canzoncina intonata ripetutamente dai fanciulli) documenta la vita dei giovani ospiti del Medem Sanatorium di Miedzeszyn, a pochi chilometri dal centro di Varsavia. La struttura, nata per assistere, curare ed educare i molti bambini altrimenti esposti al rischio di contrarre malattie respiratorie come la tubercolosi, era stata fondata pochi anni prima – nel 1926 precisamente – dal cysho, l’Organizzazione Centrale Bundista delle Scuole Yiddish (una rete che riuniva più d’un migliaio tra asili, scuole elementari e serali e istituzioni di istruzione secondaria), e dal Bund stesso. Con l’aiuto di Gertrud Pickhan ripercorriamo brevemente la storia del sanatorio, spazio che non può ovviamente considerarsi all’interno del film una generica cornice:
Il sanatorio, attivo a Miedzeszyn – nei pressi di Varsavia – tra il 1926 e il 1942, prese il nome dal leader bundista Vladimir Medem (1879-1923) e fu la più nota istituzione polacca fondata dal Bund (l’Unione Generale dei Lavoratori Ebrei) e dal cysho. […] Fino alla Seconda guerra mondiale, esso fu riconosciuto a livello internazionale per il suo approccio pedagodico di stampo riformista e il suo orientamento laico e di sinistra. Le radici del Medem Sanatorium sono da ricercare nelle prime colonie estive del cysho, durante le quali gli istruttori spesso notavano la precarietà dello stato di salute dei bambini provenienti dalle famiglie del proletariato urbano. Per ovviare a tale problema, il Medem sollecitò donazioni dagli Stati Uniti. Il cysho acquistò così una villa in un’area ricreativa appena fuori Varsavia, aggiungendovi una nuova ala e adattando l’edificio in accordo con i più moderni standard medici ed educativi. Il comitato esecutivo, formato interamente da membri del Bund e guidato da Yekusiel (Noyekh) Portnoy, nominò l’esperto insegnante Shloyme Gilinski (1888-1961) come direttore. Sotto la direzione di Gilinski, circa diecimila furono i bambini sottoposti a cure presso il Medem Sanatorium tra il 1926 e il 1939.14
Ma quali erano le condizioni di vita, qui? I bambini trascorrevano le proprie giornate dedicandosi al giardinaggio, prendendosi cura degli animali, provvedendo alla propria igiene personale, partecipando alle lezioni di scienze e di letteratura, praticando sport, giocando, esibendosi in canti e rappresentazioni.15 In Mir kumen on, perciò, alle insalubri condizioni dei bassifondi della capitale fa da contraltare la vita sana e morigerata di Miedzeszyn. L’obiettivo del film è quello di mostrare il sanatorio come utopia realizzata (sia pure in miniatura) del movimento bundista, come un microcosmo pacifico di partecipazione sociale e di democrazia, incarnazione di quegli ideali pedagogici promulgati da Janusz Korczak all’incirca negli stessi anni. Il tutto, come detto, contrapposto alla truce penuria dei ghetti urbani. Infatti:
I bambini, generalmente, rimanevano qui dai due ai sei mesi e la lista d’attesa per le ammissioni era molto lunga. Alcuni bambini rimasero per più di un anno e diversi tornarono per ulteriori trattamenti. Il sanatorio poteva ospitare una media di centoquaranta bambini nei mesi invernali e circa trecentocinquanta durante quelli estivi. Lorientamento pedagogico del Medem Sanatorium consisteva nell’applicare le riforme educative del tempo. Obiettivo centrale era quello di migliorare la salute fisica e mentale dei bambini, creando un’atmosfera di mutua assistenza. La responsabilità personale, [la costruzione di] uno spirito comunitario, l’etica del lavoro e l’autocontrollo erano insegnati in forme a misura di bambino. La natura e l’aria aperta giocavano poi un ruolo fondamentale. Il giardinaggio, la cura degli animali e le lezione di storia naturale facevano parte della prassi quotidiana; i pazienti erano sia osservatori che partecipanti attivi. I giochi, la creatività e il talento artistico erano incoraggiati in vari modi. Lo yiddish era la lingua prevalente nella comunicazione e trovava forme di espressione sempre nuova all’interno delle recite dei bambini, come Di lalkes (Le bambole) e Der shpaykhler (Il magazzino), nonché in canzoni e neologismi. Al tempo stesso, le istituzioni di autogoverno come il Consiglio dei Bambini […] insegnavano i principi dell’autonomia e della responsabilità collettiva. Il Medem Sanatorium era decisamente una istituzione secolare: si insisteva sui princìpi etici di umanità, fratellanza e solidarietà piuttosto che sulle pratiche religiose. Tutto ciò richiedeva insegnanti assai motivati e seri, esperti di moderna psicologia infantile e di teorie educative.16
La pellicola è dunque, al tempo stesso, ritratto di una realtà chimerica e veicolo di un’accorta propaganda. Mir kumen on nacque infatti da una brillante intuizione del co-fondatore e direttore del Medem Sanatorium Shlomo Gilinski,17 il quale sperava attraverso il film di poter raccogliere fondi a sufficienza per il mantenimento della struttura. Gran parte dei costi venne abbattuta anche grazie al ricorso in qualità di interpreti degli stessi bambini del Medem. Ricordiamo peraltro che, nel film, una giovane donna pronuncia a un certo punto un discorso alla radio, ricordando che le malattie polmonari affliggevano a quel tempo quasi settantacinquemila bambini ebrei; alla fine della pellicola, poi, sono gli stessi internati a rivolgersi direttamente agli spettatori, invitandoli a inviare loro un sostegno economico.
7Una volta approvato il progetto cinematografico da parte dei vertici del cysho e del Bund, venne assunto come regista Aleksander Ford, che trascorse – lo abbiamo già ricordato – alcune settimane presso la struttura clinica ed educativa così da entrare più direttamente in contatto con ciò che accadeva al suo interno. Proprio nel medesimo periodo, peraltro, il collettivo start di cui era stato membro chiudeva i battenti, dopo pochi (ma intensi) anni di onorata carriera. È interessante notare – segnala J. Hoberman – come gran parte del cast tecnico e organizzativo di questo film tornerà poi in Al khet: il cameraman Stanisław Lipinski, il cabarettista e musicista Henikh Kahn e soprattutto i fratelli Goskind.
8La sceneggiatura fu composta da un team guidato dall’autrice polacca Wanda Wasilewska e dal bundista Jakob Pat, insieme ad altri insegnanti del cysho (S. Mendelson e H.S. Jazdan). Figlia di un ministro e militante tra le fila socialiste, la Wasilewska aveva già avuto modo di riflettere sulle precarie condizioni di vita degli ebrei polacchi nelle proprie Verità sull’antisemitismo: «Qui quindici o sedici persone vivono in una stessa stanza. Là altre cinque in un solo letto […]. È verso persone di questo tipo che muovono i furfanti in veste di studenti […]. Perché mai cercare dei responsabili (per la disgrazia economica della Polonia) quando è così facile trovarne nei paraggi, lungo le vie degli appartamenti ebraici?».18
9Testimonianze non troppo dissimili offrivano in quegli stessi anni anche Isreael Cohen (funzionario dell’American Jewish Joint Distribution Committee) e Lucy Dawidowicz. «È impossibile – scriveva il primo – camminare per più di una dozzina di metri lungo una qualsiasi strada senza essere avvicinati da questuanti. […] Non ho mai visto altrove tanta sporcizia e miseria, né un tale scenario di abietta rassegnazione». Ancora più vivido il racconto della storica americana riguardo la situazione degli ebrei polacchi a Vilnius: «Mentre camminavamo lungo la serpentina di strade dell’antica area del ghetto, fummo circondati da sciami di mendicanti. Ci assediavano da ogni parte. Alcuni bambini vestiti di stracci ci seguivano, implorando un grosz (l’equivalente polacco di un penny) […]. I mendicanti adulti – sporchi, sudici […] – all’inizio si misero a supplicare, poi a piagnucolare, infine presero ad adularci. Se non rispondevamo prontamente, diventavano offensivi e iniziavano a inveirci contro in yiddish in maniera pungente».19
10A giudicare dal modo in cui Mir kumen on si apre, reportage come quelli appena citati dovettero di certo influenzare l’immaginazione di Aleksander Ford, il quale scelse di documentare innanzitutto, con efficace ed estrema sintesi, «le terribili condizioni di vita e di lavoro nel ghetto ebreo-polacco».20 Le sequenze iniziali tratteggiano infatti un breve ma acuto ritratto delle miserabili condizioni degli ebrei di Varsavia. «Nessuna speranza per i giovani, nessun riposo per gli anziani», segnala la voce narrante di A.L. Alexander. Si profila di fronte a noi una galleria di primi piani cupi e sofferenti, una sequela di situazioni dolenti (dagli affollati dormiveglia interrotti dal freddo e dalla fame alla drammatica immagine del bambino che, a causa della propria astenia muscolare, è costretto a camminare aiutandosi con una sedia). I pianti e le lacrime dei venditori creano una grande cacofonia yiddish. «Le mura stesse di questi edifici appaiono permeate dalla miseria», aggiunge il narratore: «niente lavoro, niente denaro; niente da fare se non aspettare». Pochissimi, quasi impercettibili, i segnali di speranza in questo Averno urbano: qualche scampolo di divertimento si intravede soltanto nella scena in cui i bambini, ancora ignari del triste futuro che li attende, giocano a mosca cieca.
11La prima parte del film si conclude mostrando – tramite i soliti primi piani tanto cari al regista – tre giovanissimi ebrei di Varsavia, tutti di età compresa tra gli otto e i dodici anni, minati dalla tosse e dalla tubercolosi: nell’ordine, il ribelle Lazar, il gracile Zalmen e la saggia Hannah. Il fatto che quest’ultima frequenti una scuola della rete cysho permette di inserire una breve pausa diegetica, che suona come «un tenue bagliore nei bassifondi» :21 gli allievi della classe ebraica sono intenti a leggere un pamphlet di Mendele Moykher Sforim, Di takse (La tassa sulla carne kosher), e poi – guidati proprio da Hannah – intonano un canto in yiddish. Come nelle sue precedenti prove cinematografiche, Ford è qui molto attento al tessuto fonico e musicale, e ne affida la cura – oltre che al già menzionato Kahn – a Yankl Trowpianski, insegnante e compositore. A tal proposito, ricordiamo che Mir kumen on (intonata a intervalli regolari dai bambini del Medem Sanatorium) è il refrain eponimo che accompagnerà lo spettatore lungo tutta la seconda metà dell’opera.
12A questo punto, i filmmaker ci conducono nell’ “isola felice” della residenza infantile di Miedzeszyn: essa ci si presenta dinanzi in una veste edenica, avvolta dalla vegetazione e illuminata da un caldo sole estivo. È l’immagine della prosperità e del benessere, della fertilità e della speranza, contrapposta – fin troppo esplicitamente – a quanto osservato in precedenza. Il Medem Sanatorium si distingue anche per la sua razionalità produttiva (a tratti fin inquietante): ognuno ha il proprio spazzolino; ogni uovo viene numerato; c’è un rigoroso e armonico ordine nella scansione dei momenti della giornata. Qualsiasi violazione viene punita, anche se mai severamente: Lazar ad esempio (dopo aver infastidito le galline) ingaggia una rissa nei bagni contro Zalmen; i due finiranno al cospetto del Consiglio dei Bambini, il cui compito è proprio quello di far ravvedere i ribelli comminando la giusta pena (nello specifico, toccherà loro ripulire il pavimento che hanno imbrattato).
13Proprio il Consiglio dei Bambini è la rappresentazione più evidente del duplice intento (propagandistico e utopico insieme) della pellicola: a esso, in quanto collettivo dei bambini residenti (diretto dai più maturi e meritevoli di loro), spettano le decisioni e la gestione della vita comunitaria, organizzata secondo criteri spiccatamente democratici (in un’epoca nella quale, invece, il cancro dei totalitarismi stava dilangando in tutta Europa). Ciascuno ha diritto di voto e può esprimerlo con una semplice alzata di mano o perorando pubblicamente la propria e l’altrui causa.
14Ma facciamo un passo indietro. La seconda parte di Mir kumen on si sviluppa lungo due binari paralleli (talvolta sovrapposti): da una parte, esso mostra singole tranche de vie dei tre nuovi arrivati, dall’altra descrive l’esperienza associativa che si vive alll’interno del sanatorio Medem. Come sappiamo, oltre a ricevere cure mediche, i bambini potevano divertirsi all’aria aperta, fare ginnastica, cantare allegramente. Non è un caso che Ford proponga qui un turbinio di primi piani gioiosi, immortalando i fanciulli che ridono sull’altalena o che – finalmente – possiedono dei veri e propri giocattoli. Il regista inoltre non enfatizza soltanto il regime di igiene personale ivi osservato, ma anche i continui stimoli culturali che i giovani residenti ricevono all’interno della struttura. Ogni pasto è infatti occasione per informarsi sulle notizie del giorno. Zalmen, Lazar e Hannah vivono così un vero e proprio percorso di maturazione, una sorta di Bildungsroman (sicuramente più evidente per i maschietti, sebbene anche per Hannah non manchino i momenti di crescita: le viene infatti proposto, a un certo punto, di entrare nella redazione del giornalino della comunità).
15Ora, la vita sociale si può organizzare pacificamente soltanto rispettando alcune norme comuni. Fra i Dieci comandamenti approvati dal Consiglio dei Bambini ve n’è uno che regola i momenti di svago. Gran parte del tempo libero viene trascorsa in attività artistiche: il disegno (una breve galleria di scarabocchi viene infatti passata in sequenza), ma soprattutto il teatro. I bambini del Medem Sanatorium si rivelano infatti promettenti attori: di fronte al pubblico della cittadina essi si esibiscono in costume, in una versione “in carne e ossa” del Puppenspiel. A dirigere il coro delle marionette (che all’occasione salgono e scendono dal teatrino di cartapesta) è posto un abile Direktor, un fanciullo in cilindro e frac. Le performance però non sono finite! Dopo aver svolto le proprie mansioni, ai bambini è infatti concesso un tempo per i cosiddetti “intrattenimenti settimanali”, che spaziano da virtuosistiche esibizioni canore a sonatine di archi, passando per declamazioni poetiche (tratte da Walt Whitman) e filastrocche fantasiose. Lazar, ad esempio, diletta i propri compagni recitando alcune strofe dedicate a un mitico Paese di Cuccagna in cui l’abbondanza regna sovrana. È significativo, visto che proprio lui, appena giunto al Medem – affamato – aveva cercato di rubare un tozzo di pane, dopo avere divorato con avidità la propria razione.
16Il più fragile dei protagonisti è Zalmen, «un timido e denutrito bimbo della cheder. […] La “normalizzazione” di Zalmen – continua Hoberman – diviene il motivo principale della pellicola. Presto si metterà a sfamare i coniglietti, pur indossando ancora il proprio kapote».22 Più tardi, invece, lo vediamo giocare a pallavolo, con crescente entusiasmo: si faccia anche caso alle scelte cromatiche (sebbene il film, naturalmente, sia in b/n). Zalmen, in questa fase, veste ancora di scuro, mentre è circondato da camicie candide e luminose. Forse un’astuzia registica per evidenziare il parziale distacco dalla comunità degli altri bambini, ma – d’altra parte – anche la sua necessaria e graduale integrazione. Quando finalmente Zalmen si unisce ai compagni, egli assurge a simbolo universale della trasformazione dell’ebreo: il bambino emaciato e malaticcio dei bassifondi di Varsavia è ora propositivo e in salute. «Lo yarmulke gli scivola dal capo e cade, senza che nessuno se ne accorga, a terra».23
17L’opera si chiude, neanche a dirlo, con un primo piano dei volti di Lazar, Zalmen e Hannah, costretti a lasciare – sia pur con riluttanza – quella dimora transitoria che li ha saputi accogliere con amore. Dovendo cedere il proprio posto ad altri bimbi bisognosi, i tre si avviano mesti lungo la strada che li riporterà a Varsavia. Torna qui, per l’ultima volta, il Leitmotiv musicale di Mir kumen on, che – con la sua modulazione ritmata – scandisce la giustapposizione rapida dei ricordi. Il canto ha potere terapeutico, giacché riesce a ribaltare gli umori, riportando il sereno: sul volto dei protagonisti, consapevoli di portare sempre con sé l’esperienza vissuta, si disegna perciò, progressivamente, un lieve sorriso. Anch’essi si uniscono al canto finale, che, in un crescendo, assume presto le sembianze di una ridda di voci bianche. Nell’ultima, sabbatica, inquadratura i fanciulli, in controluce, danzano in fila sotto il cielo, stringendosi per mano.
18Ora, se nel complesso il film sembra voler offrire un’edenica alternativa alle iniquità presenti (alternativa, peraltro, tristemente ironica se considerata alla luce di ciò che storicamente avvenne negli anni successivi), non altrettanto pacifica fu la storia della sua ricezione critica: «Mir kumen on mostra di essere la più amara cause célèbre del cinema polacco tra le due guerre».24 I realizzatori erano convinti che l’opera avrebbe riscosso un enorme successo e ciò li spinse a prenotare diverse sale di proiezione in due sobborghi di Varsavia. Ma il film veniva alla luce in un’epoca di grandi tensioni politiche (disoccupazione alle stelle, crescita esponenziale dell’intolleranza antisemita, sequele di pogrom da Cracovia a Lwòw), sicché l’azione censoria non tardò a palesarsi: fra le ragioni addotte, si citavano la lotta di classe, i disordini rivoluzionari e la rappresentazione della miseria insiti nella pellicola, nonché il suo retroterra vagamente “russofilo”. Al di là di tali motivazioni, è probabile che il divieto a diffondere Mir kumen on derivasse innanzitutto dalla presenza in esso di una lunga scena “socialista”, quella in cui l’assemblea plenaria del Consiglio dei Bambini, riunita nel giardino antistante il sanatorio, esprime, su sollecitazione della piccola Hannah, la propria solidarietà nei confronti di alcuni bambini polacchi i cui padri sono in sciopero, offrendo loro un riparo temporaneo: «Voi parlate di kasha, mentre i figli dei minatori muoiono di fame! Accogliamoli qui da noi!».
19I cinque piccoli gentili compaiono nella sequenza successiva, al centro dell’inquadratura, impauriti e avvinghiati l’uno all’altro. Verranno presto circondati dai bambini del Medem Sanatorium, che li accolgono fra applausi ed espressioni di giubilo. Poco prima, la colonna sonora di Kahn aveva sovrapposto al tema principale quello dell’Internazionale Socialista; sullo schermo, nel frattempo, si erano succedute rapidamente le immagini dei minatori polacchi pronti ad addentrarsi nelle profondità delle gallerie rocciose. Il tempo-ritmo del loro agire veniva scandito dal comignolo fumante di un qualche non meglio identificato marchingegno.
20La censura polacca ritenne l’inserzione di tali scene una ragione sufficiente per interdire il film, tacciandolo di propaganda antiregime; anche se – va ricordato – il solo fatto che Mir kumen on e il Medem Sanatorium fossero sostenuti dal Bund poteva rappresentare, di per sé, giustificare la condanna della pellicola da parte delle autorità. Non si dimentichi infatti che
il Medem Sanatorium era inestricabilmente legato al Bund. In quanto repubblica socialista di fanciulli, esso mirava a fornire un piccolo assaggio delle idee progressiste della sinistra e, come tale, fornì un’importante fonte di speranza. Al tempo stesso, i bambini riportavano alle proprie famiglie e agli altri gruppi al di fuori del sanatorio una specifica idea di ebraicità (yidishkayt), in linea con il Bund, contribuendo a creare una concezione di identità ebraica laica e di sinistra.25
Nonostante i divieti, copie clandestine del film circolarono comunque in tutta la Polonia. La prima ufficiale si ebbe però soltanto nel 1938, a Vilnius. Mir kumen on aveva raggiunto nel frattempo diverse importanti piazze dell’Europa occidentale, come Parigi e Bruxelles, prima di essere esportato, nella primavera dello stesso 1938, in America da Gilinski. Ribattezzata Children Must Laugh e corredata dei discorsi introduttivi di David Dubinsky, presidente dell’International Ladies’ Garment Workers’ Union, e del councilman Baruch Charney Vladek,26 la pellicola fu proiettata a New York, nel corso di uno speciale gala organizzato al Continental Theatre, in abbinamento con il corto del Work Pays America. Ford, che stava ora pianificando un documentario sui barcaioli della Vistola, non produsse dopo Mir kumen on alcun altro film sonoro in yiddish.
Notes de bas de page
1 Mir kumen on (Stiamo arrivando, oppure Children Must Laugh / I bambini devono ridere). Regia: Aleksander Ford. Scritto da Jacob Pat e Wanda Wasilewska. Narrazione in inglese: A.L. Alexander. Introduzione: David Dubinsky, B. Charney Vladeck. Produzione: Jewish Labor Bond, Polonia 1935. Durata: 53’. Restaurato e sottotitolato dal National Center of Jewish Film. La data del 1935 (realizzazione) è indicata da E. A. Goldman, Visions, Images, and Dreams cit., p. 232. Nei titoli di apertura della pellicola, invece, si segnala il 1938 (data di uscita).
2 Per maggiori informazioni sulla storia del movimento bundista cfr. Daniel Blatman, Bund, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 30 luglio 2010.
3 Riccardo Martelli, Ford, Aleksander, Enciclopedia del Cinema Treccani, ad vocem.
4 Ibid.
5 Su Aleksander Ford si vedano almeno (in ordine cronologico): Stanisław Janicki, Aleksander Ford, Wyd. Artystyczne i Filmowe, Warszawa 1967, e Bolesław Michałek, Frank Turaj, The Modern Cinema of Poland, Indiana University Press, Bloomington 1988.
6 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 226.
7 Ibid.
8 Termine tradizionale, derivante da tzabar, il fico d’India, con cui si è soliti indicare gli ebrei nati in Isreale.
9 Per ulteriori informazioni sulla compagnia teatrale cfr. Vladislav Ivanov, Habimah, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 10 agosto 2010, e più in generale Raffaele Esposito, La nascita del teatro ebraico cit.
10 Per l’analisi dettagliata di Sabra e Przebudzenie vd., oltre quanto se ne dice in questo volume, J. Hoberman, Bridge of Light cit., pp. 226-228.
11 E. A. Goldman, Visions, Images, and Dreams cit., p. 75.
12 Kitai, cit. in J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 226.
13 Ibid.
14 Gertrud Pickhan, Medem Sanatorium, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 30 agosto 2010.
15 Chana Szlang Gonshor, nata nel 1919 a Varsavia, descrive una giornata tipo al Medem Sanatorium; il video è visibile su Youtube: <https://www.youtube.com/watch?v=S03GrRj7mOk>.
16 Ibid.
17 Anche se la moglie, in un memoriale pubblicato anni più tardi, parlò piuttosto di una lenta gestazione del progetto, durata diversi anni.
18 W. Wasilewska in J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 229.
19 Le due testimonianze sono riportate in J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 233n.
20 E. A. Goldman, Visions, Images, and Dreams cit., p. 76. In realtà lo Jüdischer Wohnbezirk di Varsavia fu istituito ufficialmente soltanto a seguito dell’invasione nazista della Polonia, e precisamente il 16 ottobre 1940, nel cuore della città antica. Sicché parlare di “ghetto” per Mir kumen on risulta storicamente prematuro ed è forse più opportuno riferirsi, più genericamente, ai quartieri, alle aree e ai bassifondi abitati dalla popolazione ebraica indigente di Varsavia, non essendosi ancora diffuso l’imperativo della segregazione.
21 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 229.
22 Ibid.
23 Ivi, p. 230.
24 Ivi, p. 226.
25 G. Pickhan, Medem Sanatorium cit.
26 I due compaiono nei primi minuti della versione restaurata del film, accanto allo sponsoring committee.
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