Tkies kaf (1924) / Il voto / Dem rebens koyekh (1933) / La forza del rabbino
p. 282-307
Texte intégral
1Nella taverna di un paese imprecisato dell’Europa orientale entra un bizzarro passante dallo sguardo sonnacchioso e canzonatorio. Fuma la pipa e chiede che gli venga servito cibo e vino. I presenti, incuriositi, si avvicinano e dopo aver intonato con lui un canto in onore del profeta Elia gli domandano dove sia diretto. «Dal Rabbino di Vilnius, naturalmente»! La loro curiosità è grande. Il viandante, compiaciuto dell’attenzione suscitata, spiega che il potere straordinario del Rabbino di Vilnius rende possibile la venuta del profeta Elia in aiuto dei sofferenti e degli sfortunati. Uno dei presenti, trangugiando l’ennesimo bicchiere di vino, dichiara di non credere a queste favole. Il nuovo arrivato lo invita a non esagerare con lo scetticismo, poiché il profeta spesso si muove tra gli uomini sotto mentite spoglie (può essere ora un mendicante, ora uno studente del Talmud, ora un carrettiere…) e porta la salvezza divina laddove sia necessario. Per fare sì che i presenti gli credano, l’uomo s’improvvisa cantastorie e inizia un racconto in cui s’intrecciano leggenda e realtà, quello del sacro voto (o patto, o promessa, il tkies kaf) narratogli proprio dal Rabbino di Vilnius.
2La vicenda si apre con un evento sovrannaturale: Elia, irsuto e con gli occhi spalancati, appare sulla strada verso Vilnius, dove dovrà incontrare lo tsaddik (il santo) della città. Giunto a destinazione, vede che due amici di vecchia data, Chaim e Borekh, ritrovatisi dopo molto tempo, intendono manifestare al Rabbino il desiderio di avere un figlio (che sofferenza assistere alla circoncisione dei figli dei vicini di casa…!). Infatti entrambi, dopo essersi persi di vista, si sono sposati; benché i loro matrimoni siano felici, nessuna delle due mogli riesce a dare loro un figlio. Dopo la benedizione del Rabbino, Chaim propone all’amico di stringere un sacro patto: nel caso dovessero avere uno un figlio maschio e l’altro una femmina, i due si sarebbero sposati. Nella taverna del prologo tutti brindano al giuramento. Ma il narratore avverte: la storia non è conclusa, non è facile mantenere un voto.
3Vent’anni dopo, le strade di Chaim e Borekh si sono separate. Uno si è spostato verso ovest per occuparsi del bosco di proprietà della famiglia; l’altro ha un figlio arruolato nell’esercito e una figlia, la giovane Rokhl, che aiuta la pia madre nella conduzione della casa. Grazie al buon servizio prestato in guerra, Chaim si è guadagnato la fiducia di un generale, dal quale ha ricevuto in custodia un portagioie contenente preziosi gioielli. Onorato da tanta fiducia, l’uomo nasconde accuratamente il tesoro. Ma una sventura ben presto si abbatte sulla famiglia: Chaim muore di dolore quando un telegramma dal fronte gli comunica che il primogenito è deceduto sul campo di battaglia. Rimaste sole, per Rokhl e la madre ha inizio un tempo di miseria e fatica; oltretutto non hanno idea di dove possano essere nascosti i gioielli e sono costrette, per ripagare il generale, a vendere la loro casa al ricco Shmuel Levine.
4Intanto, durante una conversazione tra amici, Elia appare e ordina a Borekh di mandare il figlio in una yeshiva di Vilnius, la Gerusalemme lituana. Una volta giunto a destinazione, Jacob fa la conoscenza proprio del mondano figlio di Levine, l’amico del padre presso cui alloggerà. Subito questi lo invita a banchettare (con le scorte di cibo che Jacob s’è portato da casa…), ma Jacob declina dicendo che preferisce pregare. A questo punto l’altro, uno dei primo esemplari di ebrei assimilati, se ne va sogghignando, e Jacob, adornato per la preghiera, si rivolge verso est e guardando il cielo incrocia per la prima volta la luce degli occhi di Rokhl.
5 Poco più tardi, Elia, nei panni di un mendicante, è nel cortile interno alle case dei due giovani e intona un dolcissimo canto d’amore per chiedere l’elemosina. Entrambi non hanno esitazioni: ciascuno dalla propria finestra lancia una monetina al pover’uomo. Il profeta è sicuro della purezza dei loro cuori.
6Jacob incontra di nuovo la ragazza nella buia besmedresh (casa dello studio) dove lei e la madre vendono frutta agli studenti. Lui è intento nella lettura dei testi sacri quando d’improvviso i loro occhi s’incontrano: l’amore divampa all’istante, lui le compra l’intera cesta di mele, che poi offre felice a tutti ai compagni. Lei prima di uscire lo guarda intensamente e lo saluta con dolcezza: naturalmente tutti i presenti si sono accorti di quanto è accaduto! Dopo di ciò il giovane non riesce più a concentrarsi nello studio e sogna la sua Rokhl (Rachele) nelle vesti dell’omonimo personaggio biblico. Ma il timore di essersi abbandonato a pensieri troppo impuri lo angoscia, e inizia a patire le tentazioni della carne: sogna di essere spinto da un depravato studente della yeshiva (una sorta di angelo cattivo che ovviamente si è accorto dell’intesa fra i due) ad assistere a uno spettacolo di showgirl succintamente vestite. Qui sopraggiunge un altro compagno di classe il quale, mosso dalla compassione verso il giovane traviato, gli suggerisce con calore di recarsi nel cimitero della città e abbracciare le lapidi dei vecchi maestri, così da purificare la coscienza. Jacob vive un vero tormento fra bene e male, che non si placa nemmeno quando riapre gli occhi e si accorge che non è successo niente.
7Presto il ragazzo si ammala; il figlio di Shmuel lo sprona ad alzarsi: «T’insegno io un altro Talmud!» esclama malizioso. Nel frattempo l’ipocrita Levine trova – proprio mentre recita le preghiere della mattina! – i gioielli nascosti. Qualche minuto dopo arriva Rokhl per vendergli le mele e con un’occhiata maliziosa l’uomo le sussurra che è lei «la piccola mela più buona di tutte». Il tentativo di seduzione non va in porto e la fanciulla fugge via sconvolta. Sul momento Levine non capisce il motivo di tale rifiuto (in fondo lui è ricco e di mentalità moderna!), ma il giorno dopo nota il languore negli occhi di Jacob quando raccoglie un gomitolo che Rokhl distrattamente s’è lasciata cadere dalla mani. È un piccolo gesto che spiega tutto: il suo rivale è proprio il ragazzo che sta ospitando! Levine intende impedire che il sogno d’amore dei due si realizzi. Decide subito di seguire il consiglio di un abietto shadkhen (sensale) e si propone di eliminare il rivale informando Borekh della presunta deriva mondana che il figlio sta intraprendendo. Levine s’è accorto che il figlio sta cercando di attrarre il goffo Jacob verso i costumi secolari e sfrutta questo cambiamento a proprio vantaggio, certo che Borekh mai avrebbe approvato simili comportamenti. Jacob è attirato sempre più dal giovane Levine nei riti seduttivi della mondanità: partecipa a una festa dove gli invitati giocano a mosca cieca; gli tagliano i payes ( «Senza questi a coprirti le orecchie potrai ascoltare meglio Ochi Chornia», gli dicono sghignazzando dinanzi a uno specchio) e gli impartiscono una lezione di ballo. Levine se la ride sotto i baffi: la vittoria è solo questione di ore.
8Infatti Borekh riceve la lettera e va su tutte le furie (mentre la moglie piange disperata per la perdizione in cui è precipitato il figlio!), parte immediatamente per Vilnius e arriva proprio nel bel mezzo di una festa allestita dal giovane Levine. Furibondo ordina al figlio atterrito di impacchettare le proprie cose.
9Appena tornati a casa, Jacob scopre di essere stato destinato a un’altra donna. La cerimonia di fidanzamento è già allestita e il banchetto approntato. Eppure una forza misteriosa impedisce a Borekh di firmare il patto nuziale. Si ricorda infine del voto e si sente mancare, accasciandosi su una sedia. Ormai, non più imprevisto, arriva Elia, travestito da vagabondo, e tenta di convincere Borekh a desistere dalla celebrazione del fidanzamento. Ma l’uomo non cambia idea. Il profeta allora assume le sembianze di un taglialegna e si mette a lavorare nel bosco di Borekh, il quale riconosce nei suoi occhi la vampa misteriosa del vagabondo apparso la sera precedente. Di giorno in giorno i profitti iniziano a languire e Borekh si trova costretto a vendere la terra. Un’immagine premonitrice gli si presenta: un tronco crolla uccidendo un uccellino che poi le sante mani di Elia faranno resuscitare. È sempre più angosciato. Quella notte gli compare in sogno il defunto amico, il quale con sguardo addolorato lo aspetta nel bosco, mentre alle sue spalle le parole «tkies kaf» si materializzano sopra gli alberi in fiamme.
10Rokhl si è ammalata dopo la partenza di Jacob ed è promessa in sposa a Shmuel Levine. Accompagnata dalla madre, vestita a lutto, si reca sulla tomba del padre per invitarlo al matrimonio: con gli occhi bagnati di lacrime si addormenta e in sogno vede la salma del genitore coperta da un taleysim levarsi dalla tomba, pronto per ballare al matrimonio della figlia. Lei e l’amato Jacob sono due fantasmi in mezzo ai fantasmi e quando il volto del compagno si tramuta in quello del malvagio Levine, si risveglia in preda al panico. Non sa che la volontà divina è dalla sua parte. L’umiliato Borekh infatti si rende conto che deve onorare il giuramento se non vuole precipitare nella disgrazia più nera, perciò si rivolge a Jacob: «Dobbiamo impedire che si celebrino quelle nefaste nozze!». Jacob finalmente segue pieno di fiducia il padre. I due giungono nel bel mezzo della cerimonia: poiché niente può impedire che il volere dell’Onnipotente sia compiuto, il rabbino non può fare altro che unire i due nel sacro vincolo al quale erano destinati da prima della nascita. Il profeta Elia si presenta alla festa come un rispettabile cittadino (sheyner balebos) e rivela la propria identità rovesciando il vino sulla propria giacca «per onorare i vestiti»; dopodiché intima al vecchio Levine di restituire i gioielli alla vedova di Chaim. Levine, che ormai ha compreso quale sia il potere di Elia, corre dal rabbino e confessa la propria colpa. Felice per il ritorno del maltolto, la famiglia di Chaim può finalmente aspirare a un futuro gioioso dopo tanta miseria e sfortuna. «Bisogna ringraziare lo straniero!» esclama il rabbino, ma il profeta si è già allontanato, pronto a portare ancora giustizia e serenità laddove non ve ne sia.
11Soddisfatto del racconto, il viandante della taverna rivolge un leggero sorriso beffardo ai compagni di bevuta. «La morale è semplice: quel che Dio decide non si può cambiare». Tutti i presenti non possono allora che brindare e intonare di nuovo un canto per Elia.
Versione del 1937
12Il film inizia con un’ampia panoramica della città: lo sguardo si avvicina pian piano alla yeshiva ed entra in una classe di devoti studenti che leggono salmodiando i libri sacri. Il maestro spiega agli studenti che il vincolo matrimoniale è stabilito per volontà divina quaranta giorni prima della nascita. Uno studente chiede incuriosito come possa l’uomo sapere con certezza che tale unione sarà sancita dal cielo. L’insegnante lo redarguisce: come si può dubitare della provvidenza? Le vie dell’Onnipotente sono svariate e spesso affidate a profeti come Elia, che talvolta si confonde fra gli uomini per portare a compimento ciò che il cielo ha deciso. Lo studente che ha posto la domanda guarda stupito il vicino: fra un mese dovrà partire per sposarsi con una donna scelta da suo padre. Linsegnante si avvicina: «Chaim, come farai quando il tuo amico Mendel se ne andrà?». I due si scambiano un’occhiata triste, sanno che queste sono le regole dello shtetl e non si possono cambiare. Ed ecco il colpo di scena: un ricco mercante entra nella yeshiva in cerca di un partito per la propria figlia, ormai in età da marito. Non c’è dubbio: il prescelto è Chaim.
13Passano alcuni anni. Prima apparizione di Elia, vestito di bianco. Gli abitanti del quartiere ebraico di Vilnius propongono allo straniero alloggio e servizi vari. Anche Mendel è in città per incontrare il Rabbino e chiedergli di intercedere per sua moglie che non riesce ad avere bambini. Elia è lì, invisibile a tutti. Il Rabbino rassicura Mendel, con poche misurate parole: ben presto il cielo esaudirà il suo desiderio. Mendel, attonito, si chiede come sia possibile. Il Rabbino non risponde: così è. Ancora stordito, l’uomo si allontana e incontra l’amato compagno d’infanzia, Chaim, che gli annuncia entusiasta la gravidanza della moglie. Chissà quante cose sono successe in quegli anni! A questo punto gli amici stipulano un patto: se uno avrà un maschio e l’altro una femmina, i due si uniranno nel sacro vincolo del matrimonio. Soddisfatti e fiduciosi, gli amici si stringono la mano: non sanno (ma è come se lo sentissero nell’aria) che a fare da testimone al loro giuramento è proprio Elia. Mendel saluta affettuosamente Chaim e fa ritorno nella città in cui vive, Varsavia.
14Sono passati altri vent’anni, Chaim ha una figlia e Mendel un figlio. Rokhl e Jacob sono cresciuti belli e in salute; la ragazza ha anche un fratello minore. Ma la disgrazia è in agguato: il secondogenito di Chaim, nonostante fosse stato più volte avvertito dal padre di non giocare vicino al mulino ad acqua, non lo ascolta e finisce per caderci dentro, cerca disperatamente di nuotare, chiede aiuto. Chaim si getta in acqua per salvarlo ed entrambi perdono la vita sotto la grande ruota che fa girare la macina.
15Ha inizio la desolante shiva, la settimana di compianto dopo la morte di un famigliare. Rokhl e la madre seguono rispettosamente tutte le norme imposte dal rito: camminano scalze perché nessun rumore deve distrarre chi piange; per essere umili di fronte alla calamità, si raccolgono in accorata preghiera; per non vedere i propri volti disfatti dal dolore, coprono gli specchi. Oltre che dalla sofferenza, le due donne sono afflitte dalla miseria: per sopravvivere devono disfarsi di molte cose. La figlia rassicura dolcemente la madre: in fondo sono tante le cose materiali di cui si può fare a meno. Comunque si sono ridotte in un piccolo alloggio, vendono i mobili e poi, per guadagnare qualcosa, decidono di vendere mele nei luoghi pubblici.
16Ci troviamo ora in casa di Mendel a Varsavia: Jacob studia con la massima concentrazione il Talmud, il padre è impegnato a controllare l’andamento degli affari con il legname del suo bosco. La moglie, che è naturalmente anche una madre apprensiva, entra nello studio del marito: è possibile che non si renda conto di quanto studia il figlio, con il rischio di ammalarsi? Una soluzione potrebbe essere di mandarlo in una buona yeshiva. A questo punto entra un individuo dall’aspetto curioso che dice di avere «ottimi affari per Vilnius». Che miracolosa tempestività! Allo spettatore è chiaro che si tratta di Elia, che infatti dice: «A Vilnius ogni yeshiva è fonte di sapere». E se ne va. «Così sia, allora: Jacob studierà a Vilnius!».
17La situazione di Rokhl e la madre sta peggiorando rapidamente. Weber, il padrone della loro povera abitazione (e anche di molte altre, che avido com’è non cura neanche un po’: una ha addirittura un buco sul tetto!), arriva a riscuotere l’affitto e sta alzando la voce quand’ecco entrare Rokhl, dolce e sommessa: è subito infatuazione. A quel punto, per Weber, l’affitto può aspettare.
18Intanto Jacob giunge a Vilnius, dove sarà ospite di Weber, amico del padre. La prima persona che incontra è David, il mondano figlio del padrone di casa. David lo accompagna nella sua stanza, si mette a curiosare tra le sue cose e scopre con piacere che il nuovo arrivato, oltre ai molti libri, ha portato da casa alcuni ottimi cibi. Poco importa se è una cosa da “mammone”, bisogna banchettare e festeggiare l’inizio di una nuova vita. Jacob frena l’entusiamo: prima deve pregare. Spazientito, David lascia l’ospite da solo. Fuori dalla porta incontra il padre, che lo ammonisce subito: Jacob è lì per studiare, non per essere trascinato nella dissolutezza. Il figlio fa spallucce e si allontana fischiettando.
19Jacob continua devotamente a pregare, quand’ecco che dalla finestra ode un canto dolcissimo: è un mendicante nel cortile di casa. Ancora Elia, ovviamente. Tutti i vicini ascoltano incantati, Rokhl compresa, e proprio mentre viene intonato il verso «anche se sconosciuti, il destino vi unirà», gli sguardi dei due s’incontrano e scocca immediatamente la scintilla dell’amore.
20Qualche tempo dopo Jacob è nella yeshiva a studiare. Di lì a poco arrivano Rokhl e la madre per vendere mele agli studenti. La ragazza si avvicina al primo che incontra, il quale neanche alza gli occhi dal libro. La madre le sussurra nell’orecchio che è un penitente, ma Rokhl gli dona comunque un frutto. Destata l’attenzione dalla generosità del gesto, lo studente guarda rapito la fanciulla e la vede avvicinarsi a Jacob! Rokhl e Jacob si riconoscono subito, non possono fare a meno di sorridersi teneramente e di guardarsi dritti negli occhi. Naturalmente la giovane, prima di andarsene, gli offre una mela (come una Eva innocente); proprio in quel momento il penitente legge ad alta voce le pagine bibliche dedicate a Rokhl, la figlia di Labano, alza poi lentamente lo sguardo dalle pagine e studiando la reazione di Jacob, il quale ascolta sognante e si immagina accanto all’amata, circondato dal proprio gregge. A un certo punto l’altro legge: «E Jacob pianse abbracciandola». «Perché piange?» chiede stupito Jacob. «Perché il mondo è pieno di amore e di gioia», risponde semplicemente l’altro.
21La sera stessa, tornando a casa, Jacob incontra nel cortile Rokhl con due amiche, che ridacchiano per lo strano abbigliamento del ragazzo: «Sì, ha una giacca buffa, ma gli si addice… Se lo incontrassi per strada farei finta di non conoscerlo!». «Pensa se lo sposassi: morirei di vergogna!». Rokhl è in preda all’imbarazzo e non proferisce alcuna parola: Jacob è troppo intento a guardarla per dare ascolto alle malignità delle pettegole.
22Ora lo scenario cambia. Siamo in un fastoso salotto frequentato dal figlio di Weber, una musica allegra riempie l’aria assieme alle risate sguaiate e al fumo delle sigarette, i bicchieri sono colmi di vino. Una vivace fanciulla, ansiosa di conoscere persone nuove, chiede a David dove sia il suo ospite. Con grande stupore di tutti i presenti, ecco che entra proprio Jacob! Subito chiede scusa a tutti per aver interrotto la festa. «Al contrario! Sei sempre così impegnato a studiare che perdi i piaceri della vita!». David lo invita a presentarsi, ma Jacob è così intimidito che dev’essere letteralmente trascinato di fronte a ciascun invitato. Lamica di David si siede accanto a lui e, senza troppi giri di parole, gli chiede se abbia mai dato un bacio. Jacob, senza neanche alzare lo sguardo, emette un debolissimo «no». La ragazza lo trascina a ballare e lui ovviamente non azzecca un passo. Lei: «Se ti sistemassi un po’ potrei anche innamorarmi di te!». Jacob coglie al volo il suggerimento, ma non certo per assecondare lei.
23La sera dopo Rokhl canta alla luna mentre tesse una maglia. Il gomitolo le cade, a raccoglierlo è proprio Jacob, che ora si è sistemato i capelli e non indossa più quella buffa giacca. Senza alcuna esitazione, la invita a passeggiare: così i due si raccontano delle rispettive passioni, dei loro interessi e delle loro piccole nostalgie. Una volta tornati a casa, naturalmente, si accordano per vedersi di nuovo: in lontananza Weber padre assiste geloso alla scena e pensa a come dividerli: dapprima si scaglia contro il figlio, perché è colpa sua se Jacob ha distolto l’attenzione dagli studi per pensare alla ragazza, quindi decide, su consiglio di un amico, di ricorrere a un sensale per convincere la madre di Rokhl a dargliela in moglie. Il sensale e l’amico si recano dalla madre, la quale non dà molto peso alle loro parole: Weber sarà anche ricco e in grado di trattare Rokhl come una principessa, ma lei è giovane e deve ancora capire quali siano i propri desideri. In quel momento arriva l’interessata, che ascolta atterrita la proposta di matrimonio, scoppiando in lacrime e poi fuggendo dai due, i quali, incapaci di reagire, si ritirano e tornano da Weber. «Allora, come ha reagito?». «Ah, è svenuta!». «Davvero?». «Sì, la madre». Weber, su tutte le furie, decide di fare da sé. Va a parlare con la signora Kronberg, che nutre ancora molti dubbi, ma lui le ricorda che il padre di Jacob non acconsentirebbe mai al loro matrimonio.
24Nel frattempo i due innamorati passeggiano romanticamente, ignari di quanto si trama alle loro spalle; si scambiano un tenero bacio sotto le stelle, accanto al laghetto che Rokhl da bambina tanto amava. Anche la natura, tuttavia, sembra emettere oscuri presagi: l’acqua s’increspa e si agita, proprio come lo spaventato cuore di Rokhl, ma Jacob non ha paura, è convinto che il loro amore sarà superiore a qualsiasi avversità. Su queste parole, il giovane versa lacrime di gioia, esattamente come nell’episodio biblico. Quando la ragazza rientra a casa, la madre le esprime le proprie preccupazioni e le racconta dell’intervento del proprietario. Rokhl è più spaventata che mai.
25Nel frattempo i due inviati di Weber, per rimediare al primo fallimento, preparano una lettera da mandare al padre di Jacob, che viene così informato della “cattiva strada” intrapresa dal figlio. Weber approva il piano, che ottiene il risultato sperato. Il giorno dopo infatti Mendel è a Vilnius. David tenta di convincere Jacob a comportarsi da uomo, a reagire e a opporsi: ma quando il padre arriva resoluto, schiaffeggiandolo e accusandolo di averlo disonorato, il giovane non riesce a rispondere in alcun modo, si arrende alla volontà paterna e lo segue. David si allontana, chiedendosi come Jacob possa essere stato così debole e non si accorge del biglietto che lo stesso gli ha lasciato sullo scrittoio: «Spiega tutto a Rokhl». Weber invece lo trova e lo distrugge, furibondo.
26Linnamorata, che per l’occasione ha comperato un vestito nuovo, è in ansiosa attesa dietro la finestra. Non appena vede l’amato, carico di valigie e diretto verso la stazione, scoppia in un pianto disperato: cosa farà adesso, sola e con il cuore spezzato? La ragazza ignora che Jacob è promesso a un’altra donna. I due sensali, che naturalmente lo sanno, tornano all’attacco, dicendole che il ragazzo se n’è andato per sistemarsi con un’altra. Sconsolata, la fanciulla non può che cedere e accettare di sposare Weber.
27Le nozze di Jacob sono già pronte per essere celebrate. Nella stanza dei festeggiamenti, tetra nonostante tutto, i piatti traboccano di cibo, grottesche donne agghindate ridono alle spalle degli altri invitati, tutti parlano ad alta voce con i calici in mano. Arriva il momento della firma del contratto, Mendel ricorda d’improvviso lo tkies kaf sancito tanti anni prima con il suo migliore amico, ma dopo un attimo di esitazione firma. Non sa che così ha apposto il sigillo alla sua futura sciagura. La sera stessa viene infatti a sapere che un suo carico di legname è affondato. Ma la festa deve continuare, non bisogna lasciarsi atterrire, piuttosto si venda l’intero bosco per recuperare ciò che si è perduto. Le disgrazie tuttavia non sono finite, durante la notte il bosco prende fuoco. Ad avvertirlo, un taglialegna con il volto di Elia. A quel punto Mendel non può più fingere: l’Onnipotente è adirato per il tradimento del voto. Terrorizzato, si reca dal rabbino della città, dal quale è ammonito severamente: è un grave peccato venire meno alla parola data, anche se l’altro contraente è morto. Per rimediare all’errore, è necessario che il figlio sposi la donna giusta. A questo punto Mendel si arrende. Rokhl, che nel frattempo si è recata presso la tomba del padre per invitarlo alle proprie infelici nozze, è la sola che possa portare la salvezza unendosi al legittimo sposo.
28Mendel si precipita con il figlio alla festa nuziale di Rokhl e Weber per impedire che l’ira divina si scagli ancora su di loro. Arriva anche Elia, dapprima vestito da mendicante (e dunque cacciato), poi da rispettabile cittadino e quindi accettato. Il profeta ammonisce simbolicamente i frivoli convenuti, attenti soltanto all’esteriorità, versando il vino sui propri ricchi indumenti.
29La tensione cresce sempre di più. Weber copre con il velo il volto della sposa e, dopo le preghiere del rabbino, sta per metterle l’anello nuziale al dito. A questo punto arriva finalmente il trafelato Mendel: «Il matrimonio non deve essere celebrato!» grida a gran voce. Il rabbino lo invita al silenzio, ma Elia mette a tacere tutti, invita a rispettare il patto e si dissolve. «Siamo privilegiati! Elia era in mezzo a noi!» esclama trionfante il rabbino. Jacob e Rokhl convolano a nozze nel giubilo generale: che riprendano le danze, che si assaporino i cibi e le vivande, che si goda dell’amore nel segno della benevolenza divina!
***
Il 16 agosto 1920 l’esercito polacco guidato dal maresciallo Józef Piłsudski sferrava la decisiva controffensiva ai danni dei sovietici, spingendoli lontano dal cuore dell’Est Europa: il provvidenziale intervento sarebbe stato ricordato come «Miracolo della Vistola», proprio perché lungo le sponde di quel fiume ebbe luogo il cruciale scontro. Lanno successivo, con la Pace di Riga, vennero stabiliti i confini orientali della Polonia (due anni dopo, vennero incluse anche le terre dell’Alta Slesia, che a Versailles erano state assegnate alla Germania) e redatta la nuova Costituzione parlamentare.
30Malgrado la ridefinizione geografica e politica, la Polonia non conosceva ancora la pace, e non solo a causa degli scontri di frontiera con i sovietici. Il desiderio di rafforzare lo stato polacco indipendente (fortemente voluto dallo stesso Piłsudski) si scontrava con la eterogeneità interna del paese: i polacchi “puri” costituivano soltanto i due terzi dell’intera popolazione, mentre le zone limitrofe accoglievano bielorussi, ucraini, tedeschi ed ebrei. Il discorso politico ben presto si tinse di acceso nazionalismo: dopo soli cinque giorni di ufficio Gabriel Narutowicz fu assassinato in quanto «strumento delle minoranze» e nel 1926 con un colpo di stato Piłsudski prese il potere, instaurando un governo dittatoriale sostenuto dall’esercito.
31All’instabilità politica si accompagnava una economia zoppicante per la crescente inflazione, non vigeva in alcun modo la concordia auspicata. Dopo la Prima guerra mondiale il territorio polacco ospitava oltre tre milioni di ebrei, i quali ben presto si dovettero abituare a essere visti e trattati come stranieri. La dimostrazione di questa malcelata insofferenza fu un complesso di misure (ricordato come «pogrom freddo») che mirava, attraverso una serie di decreti e normative, a una graduale eliminazione degli ebrei dalla vita economica e sociale. Per quanto concerne il cinema, poi, il numero di sale diminuì sensibilmente, così come il numero delle produzioni. Viste le crescenti tensioni, un regista si sarebbe ben guardato dall’affrontare esplicitamente temi e questioni ebraiche, l’unica possibilità di fare cinema consisteva nel realizzare film dal carattere fortemente nazionalista che potessero acquietare un poco, almeno sugli schermi, le spinose relazioni con la Russia e la Germania.
32Eppure gli ostacoli e le restrizioni portarono l’arte in direzione ostinatamente contraria, e il merito va attribuito soprattutto al teatro. Il vykt (Varshever Yidisher Kunst-teater),1 fondato nel 1924 da Ida Kaminska e Zygmunt Turkow, prosperava e si guadagnava un’attenzione crescente grazie all’apertura avanguardistica della loro ispirazione e dei loro intenti, oltre che per il vivo interesse per i temi politici e sociali del momento. Già nel 1911 i Kaminski, capeggiati da Avrom ed Ester Rokhl, genitori di Ida, avevano tentato insieme a Mordka Towbin di ricalcare il film d’art francese, portando le macchine da presa della compagnia cinematografica Siła2 a teatro e filmando gli spettacoli della compagnia, come s’è detto nella prima parte. Avrom Kaminski ben presto prese confidenza con il mezzo cinematografico e diresse autonomamente diverse produzioni successive.
33Questo capitolo del “teatro filmato” yiddish si chiuse tuttavia con l’avvento della Prima guerra mondiale. A oggi, è molto difficile valutare il frutto di questi esperimenti, dal momento che ci restano ben poche pellicole. Secondo E.A. Goldman il film d’art yiddish rendeva evidente l’incompatibilità tra recitazione teatrale e recitazione cinematografica: gli attori si muovevano come se fossero sul palcoscenico e parlavano in modo affettato. La macchina da presa si limitava a registrare in campo lungo quanto avveniva in scena. In Tkies kaf (1924) si vede chiaramente come gli attori più anziani sembrino rivolgersi a una platea.
34Se dunque fin dal principio teatro e cinema si compenetravano, i registi più abili riuscirono a sviluppare con il tempo una originale cinematografia yiddish, sebbene, per certi aspetti, ancora saldamente legata agli usi e ai modi della yiddishkayt. Questo è esattamente ciò che fecero, nel cuore degli anni Venti, Henryk Bojm e Leo Forbert. Laddove altri produttori evitavano di affrontare temi invisi alla crescente retorica antisemita, i due scelsero, dopo il silenzio imposto dalla Grande Guerra e nonostante lo stato di crisi in cui versava l’industria del cinema, di realizzare un film in lingua yiddish in Polonia con i membri del vykt. In questo senso Tkies kaf è una delle opere cinematografiche ebraiche più rilevanti mai realizzate.
35Lo scrittore Henryk Bojm, figlio di un ricco mercante di grani, si era formato in un ambiente chassidico a Sochaczew, un sobborgo ebraico di Varsavia. Qui fu educato in una celebre yeshiva, ma iniziò a interessarsi alla letteratura secolare (quella di Yitskhok Leybush Peretz in particolare) ad appena sedici anni. Il padre non approvava in alcun modo quell’orientamento e, incapace di riconciliarsi con lui, il giovane Bojm lasciò Varsavia, conducendo una vita vagabonda e passando di shtetl in shtetl per guadagnarsi da vivere facendo ritratti. Alla fine apprese l’arte della fotografia e aprì un proprio studio ad Ashminov (oggi Mszczonow) insieme al cognato Oyzer Warszawsky.3
36Presto anche Bojm, sulla scorta dell’esempio del cognato, si cimentò nella scrittura, coniugandola con l’interesse per la fotografia, il che lo condusse alla cinematografia. Tuttavia le sue prime sceneggiature non attirarono l’attenzione sperata, finché Leo Forbert, ebreo “assimilato” e proprietario della Meteor (il più grande teatro di posa di Varsavia) accettò d’incontrarlo. Fino a quel momento Forbert aveva realizzato due lungometraggi (di sei bobine) dal titolo scabroso e influenzati dal crime tedesco, Ludzie mroku (Gente nel buio) e Syn Satana (Figlio di Satana). Lidea di contrastare la politica del “pogrom freddo” producendo un film ebraico lo eccitò molto, soprattutto perché a proporglielo era «un habitué dei circoli intellettuali di Varsavia nel cui vissuto personale si condensava la lotta per un moderna identità ebraica».4 L’affinità tra i due portò alla fondazione della Leo-Film,5 l’unica compagnia cinematografica che insieme alla Sfinks di Aleksander Hertz resistette in quegli anni così difficili.
37La sceneggiatura di Tkies kaf è tratta da un’opera d’impronta simbolista del 1907 di Perets Hirshbeyn6 che per molti aspetti precorre Der dibek (Natan Gross infatti riferisce che Bojm intendeva adattare il celebre dramma di Sholem An-skij allo schermo, ma pare che non fosse riuscito a ottenerne i diritti).7 In effetti, la commistione tra reale e sovrannaturale costituisce uno degli aspetti più affascinanti tanto del Dibek, quanto di Tkies kaf.
38Mentre scriveva il copione, Bojm pensava a Ester Rokhl Kaminska nei panni della madre della ragazza, così come al suo fianco non poteva che figurarsi la figlia Ida e suo marito Zygmunt Turkow. Bojm era consapevole di essere chiamato a rianimare l’anemico mercato del cinema polacco e per questo fece ricorso ai migliori talenti teatrali della scena yiddish; per lo stesso motivo ritenne necessario ingaggiare un regista ebreo. Il primo nome che venne in mente a Bojm e Forbert fu quello dell’americano Sydney Goldin, celebre a Varsavia per Ost und West; ma il regista era impegnato con il lungometraggio Yiskor. Si pensò anche a Bruno Bredschneider, già regista dei primi due film di Forbert, ma la sua scarsa conoscenza dei costumi e del linguaggio ebraici fece sorgere nei produttori il dubbio sulla sua idoneità.
39Si giunse così al primo giorno di riprese e il regista ancora non c’era. Gli attori erano decisamente irritati, dal momento che, come ricorda Turkow, avevano accettato l’incarico alla sola condizione di essere guidati da un regista competente, in grado di garantire la qualità del film e dirigere una recitazione «che doveva essere diversa da quella teatrale. La condizione era stata accettata e abbiamo cominciato la preproduzione […] Mi resi conto fin dal primo giorno che tecnicamente tutto andava bene, ma artisticamente parlando non potevamo andare avanti senza un regista».8
40Il fotografo Seweryn Steinwurcel, cugino di Forbert, era assai abile con la macchina da presa e aveva molto carisma, ma non aveva le competenze necessarie per guidare una compagnia di attori. A prendere in mano la situazione fu allora proprio Turkow, ben conscio di accollarsi un compito importante, dato che Tkies kaf sarebbe stato il primo film yiddish non tratto da uno spettacolo teatrale. Turkow aveva la possibilità di realizzare un lungometraggio di grande importanza storica e culturale, che poteva davvero ambire a diventare pietra miliare della cinematografia yiddish. Sebbene poco pratico di cinema (come del resto gran parte del cast), Turkow investì molte energie nel progetto mantenendo il gruppo coeso e collaborativo, però, come osserva Goldman, fallì nello sforzo di ottenere una recitazione cinematografica. Chi davvero primeggia in termini di espressività sono le interpreti femminili, Kaminska madre e figlia (nella pellicola, tra l’altro, fa la sua comparsa anche la piccola Ruth, di appena cinque anni). Infatti «le frequenti inquadrature in primo piano restituiscono la maestria di due attrici che, a dispetto di un testo ricco di spunti melodrammatici e della naturale tentazione di sopperire alla mancanza del suono con una mimica accentuata, dimostrano di sapersi tenere a distanza da facili soluzioni a effetto e di privilegiare una recitazione misurata e naturale».9 La recitazione di Ester in particolare è intima ed elegante al contempo e muove lo spettatore a una sincera commozione. D’altra parte l’attrice aveva conosciuto da vicino l’indigenza e la fatica, nella povera casa dello shtetl di Porozowo in cui era cresciuta, cosicché soffrire sulla scena significava per lei rivivere quelle esperienze senza pianti isterici o gemiti svenevoli (come avveniva in tanta recitazione shund), soltanto attraverso l’introspezione e quei «movimenti di madonna» che in effetti ne suggerivano la somiglianza con Eleonora Duse.10 Per Ester, come ricorda la figlia nelle proprie memorie, essere una madre non era soltanto una questione di sentimento, ma anche un modo di essere e di comportarsi. Ecco perché seppe magistralmente dare voce e anima a Mirele Efros, la yidishe mame per eccellenza, e perché l’attrice era paragonata a Eleonora Duse, o meglio alla «compassione sacrale e laica» che essa incarnava. Per l’attrice italiana, (la cui unica testimonianza audiovisiva che possediamo è il lungometraggio Cenere)11 il teatro è «altare di amore e rivolta»,12 non una mera rappresentazione di storie ma una «trasposizione di vita» attraverso il trascendimento poetico proprio della recitazione: se dunque l’arte si crea mentre la si vive, si può affermare tanto per la Kaminska quanto per la Duse che «il segreto dei grandi attori non consiste nei “trucchi del mestiere”, che bisogna pur conoscere, ma nel loro “entusiasmo” e nella costruzione culturale con la quale l’attore creativo al tempo stesso si manifesta come malato e si cura, in pubblico, autorizzato in ciò non dall’esibire un caso privato ma un atto riconoscibile del genus humanum» .13
41Originariamente Tkies kaf era lungo dodici bobine, non poco per quei tempi. Dai pochi frammenti pervenutici si può notare come fosse realizzato secondo una logica teatrale (per cui, ad esempio, si privilegiano i campi medi); ma gli aspetti interessanti della pellicola sono altri, ad esempio il trattamento delle scene di esterni e quelle d’interni. Il divario è piuttosto lampante: i primi sono molto evocativi (si pensi al brulichio di via Nalewki) e “vissuti” intensamente dagli attori. Durante le riprese a Vilnius, infatti, Turkow indusse molti abitanti del luogo a prendere parte alla vivace scena del matrimonio; la pellicola immortala inoltre alcuni luoghi storici, come il mercato centrale, l’ingresso nel quartiere ebraico e il cimitero antico con la tomba del Gaon di Vilnius (un sommo rabbino e guida spirituale). Proprio per questo motivo il rabbino allora in carica in città accusò i produttori di profanazione e chiese il sostegno del governo affinché la pellicola venisse distrutta. Il lavoro di Steinwurcel negli spazi aperti era competente, preciso e denotava una grande sensibilità per la composizione delle immagini, che per la loro sapiente giustapposizione e immediatezza ricordavano il miglior cinema russo.
42Le scene d’interni risultano invece più innaturali, anche perché il piccolo studio di Forbert era inadeguato ( «era piccolo per un fotografo, immaginiamoci per un film» affermò Neuman), e al suo interno le luci erano talmente forti da accecare gli interpreti. Le macchine da presa erano costrette a una snervante staticità e gli attori si muovevano come fossero sul palcoscenico. Eppure, molto curiosamente, proprio queste imperfezioni conferiscono un’aura espressionistica ai personaggi e ai luoghi in cui si muovono: si pensi alla tetra yeshiva di Jacob, che pare quasi una grotta, o alla spoglia casa di Rokhl, di cui vengono illuminati i pochi e poveri oggetti.
43Tkies kaf debuttò nel 1924 al Rococo, un elegante cinema di Varsavia su Nowy Swiat, dove tra l’altro Forbert aveva il proprio studio. Stando ai ricordi di Turkow, il film fu accolto da fragorosi applausi e ovazioni, al punto che dopo la prima si fecero avanti altri produttori entusiasti e pronti a proporre nuove idee.
44Certo di aver realizzato uno dei film più importanti del tempo, il regista e interprete definì Tkies kaf come «un naïve emese mayse» (un ingenuo racconto popolare) al quale era stata infusa la profondità della morale ebraica. Festività, leggende e supersitizioni arricchiscono il vivace affresco, al punto da costituire un modello anche per le opere della cinematografia ebraico-polacca a venire. Anche la modernità trova nella pellicola uno spazio: il fatto che Jacob si allontani dalla retta via nella città dei rabbini e degli studenti non è così strano come sembra, perché Vilnius, sebbene conosciuta come la “Gerusalemme della Lituania”, era un centro vivacemente cosmopolita, popolato da polacchi ed ebrei, ma anche da russi e tedeschi, e crocevia delle moderne ideologie che sarebbero penetrate nei recessi più remoti della yidishland. Si pensi ad esempio che il figlio di Levine, che indirizza il goffo Jacob verso gli usi secolari, viene definito civilizer.
45Il tema del matrimonio combinato era d’altra parte di grande interesse: nel testo di Hirshbeyn la critica a tale istituzione (e, più in generale, alla superstizione religiosa) è decisamente serrata, mentre Bojm aveva un atteggiamento più ambivalente. Nello shtetl del Diciannovesimo secolo (epoca in cui è ambientata la vicenda) il matrimonio combinato era la norma, in particolare fra i più abbienti sheyne yidn. La credenza popolare imponeva che tali vincoli fossero prestabiliti in quanto applicazione della legge divina. In una didascalia del film infatti si legge che «quaranta giorni prima della venuta al mondo di un bambino, prende forma un segno che lega quel bambino a un altro». In altri casi, la promessa di matrimonio veniva pianificata sulla base di un accordo tra le due parti quando i due futuri sposi erano ancora infanti; in altri casi ancora, a stabilire il vincolo erano i due futuri padri. Benché si trattasse di un gesto di amicizia, questo tkies kaf aveva il valore di un giuramento sacro: nel caso in cui uno dei contraenti lo avesse violato, avrebbe subito una sanzione divina. In un unico e incancellabile gesto, sacro e umano, s’intrecciano inscindibilmente, così come s’incarnano nella figura di Elia, profeta che si muove tra cielo e terra e che sovente ricompare sotto mentite spoglie in mezzo agli uomini per aiutare coloro che si trovano in difficoltà. Il folklore legato alla figura di Elia è spesso veicolo di protesta sociale perché nella tradizione popolare il profeta interviene per ricompensare il povero virtuoso e punire l’avido ricco. Senza la sua provvidenziale mano, infatti, il matrimonio non avrebbe mai avuto luogo e il giuramento non sarebbe giunto a compimento.
46Se dunque al di là delle imperfezioni il film ebbe successo ciò fu dovuto al fatto che l’opera offriva, attraverso una leggenda nota a tutto il suo pubblico, un’immagine scrupolosa e affascinante, seppure manichea, del mondo chassidico, dell’educazione che comportava e degli effetti positivi che l’osservanza del culto poteva portare (si consideri, ad esempio, che nelle proprie allucinazioni Jacob s’immagina un cabaret con ballerine vestite succintamente, come a dire che lo spettacolo teatrale, forma artistica sovversiva, era una figurazione del peccato). Tuttavia non tutta la critica profuse parole di lode per la pellicola e i suoi realizzatori. Hoberman cita la recensione di Andrzej Włast, uno dei più esimi critici cinematografici dell’epoca, il quale scrisse sul mensile «Ekran i Scena» (Schermo e Scena) che «senza pubblicità, senza fuochi d’artificio, la società Leo-Forbert ha dato vita a un film che posso definire senza alcuna esitazione il più bel film che abbiamo visto finora in questo paese». Włast elogiò la superba regia di Turkow e il competente ricorso al folklore da parte di Bojm. Włast non era ebreo. Ci fu anche chi manifestò minore entusiasmo per l’ostentazione di “ebraicità” che emergeva dall’opera, perché il rischio era quello di idealizzare la superstizione mentre si cercava di mostrare un processo di emancipazione. Particolarmente abrasiva fu la recensione del «Literarishe bleter», che declassava il film a opera shund, «miscuglio di questioni reali e cose impossibili», e accusava i produttori di totale incapacità di utilizzare le illimitate possibilità del cinema. Il recensore (anonimo) inoltre sembrava avere poco apprezzato alcune rappresentazioni caricaturali degli usi ebraici come la festa nuziale allestita dal padre di Jacob, durante la quale gli invitati si buttano con voracità sul cibo, ridono sguaiatamente e bevono con avidità, o il tropo chassidico del tesoro nascosto, o ancora il modo grottesco con cui viene rappresentata la scuola di Jacob: tutti riflessi, a parere del critico, dell’immaginario antisemita. Per quanto né il festino farsesco né la parodia del tradizionale cheder fossero estranei alla scena teatrale yiddish (e dunque al pubblico), una parte molto consistente della critica riteneva che fosse inopportuno, in un momento così delicato, offrire al mondo dei gentili queste immagini e chiedeva a gran voce film diversi, artisticamente più seri e autentici. I produttori di Tkies kaf si erano dimostrati secondo loro irresponsabili proprio perché non avevano prestato sufficiente attenzione all’impressione che tali vilde bilder (sguardi selvaggi) avrebbero potuto suscitare.
47In effetti la ricezione di Tkies kaf sarebbe stata essenzialmente ebraica. Per la confidenza con cui tratta il folklore, il film sembra presupporre la presenza di uno spettatore ebreo sofisticato o relativamente familiare con quel mondo, ma anche sufficientemente distante da poterlo guardare con un certo disincanto. Si può ricordare la sequenza in cui Jacob sogna Rokhl nelle vesti della sua omonima biblica, volutamente comica e memore delle prime operette di Goldfaden. È pur vero che le didascalie per Tkies kaf erano state inizialmente scritte in polacco e quelle in yiddish sarebbero arrivate in un secondo momento, cosa che autorizza a supporre che i produttori volessero arrivare anche al pubblico non ebraico. Non solo: come scrisse Turkow sulle pagine del «Literarishe bleter» in risposta alle critiche, l’ironia serviva proprio a stemperare il rigore narrativo della parabola talmudica, suggerendo inoltre un modo diverso di guardare a certi luoghi della tradizione. Alla luce di queste considerazioni, il film risultava essere davvero accessibile al ceto popolare che avrebbe apprezzato specialmente la storia dell’amore contrastato, all’ambiente ebraico più progressista che avrebbe gradito lo sguardo più “moderno” su quei costumi, e anche a una certa parte del pubblico polacco, che avrebbe imparato qualcosa di più sul mondo ebraico. Tkies kaf dimostrò inoltre ai suoi realizzatori che era possibile trarre ingenti profitti da un film yiddish: soltanto un anno dopo Bojm, Steinwurcel e Forbert intrapresero una nuova avventura con Der lamedvovnik, diretto da Henryk Szaro (regista che, come vedremo più avanti, riprenderà in mano proprio Tkies kaf) e interpretato da Jonas Turkow14 e Moyshe Lipman, film che tuttavia non ottenne il successo auspicato.
Nel decennio successivo l’avvento del sonoro rivitalizzò il panorama cinematografico e New York divenne il cuore pulsante della cinematografia internazionale, accogliendo nelle sue sale pellicole delle lingue e provenienze più diverse. Anche il cinema yiddish era considerato straniero, sebbene i suoi film fossero spesso prodotti in terra americana, ma questo è l’aspetto di un fenomeno molto più ampio concernente la realizzazione di numerosi film “etnici” da parte degli studi americani (ad esempio presso la Paramount furono girati il cortometraggio francese con Maurice Chevalier Bonjour New York e il primo film sonoro giapponese The Golden Kimono).
48Queste pellicole erano di qualità decisamente artigianale e prodotte con budget limitati. La produzione dunque seguiva criteri molto pragmatici ed è esattamente questo il principio che sta alla base della trasformazione del cinema muto yiddish. Il pioniere di tale cambiamento fu George Roland. Regista, montatore e produttore che conferì nuova vita a un’ampia raccolta di vecchie pellicole yiddish attraverso un attento lavoro di restauro e di aggiunte.15
49Nel 1933 fu appunto la volta di Tkies kaf. Per dare nuova leggibilità al capolavoro, Roland aggiunse ai frammenti del muto originale del 1924 un prologo e un epilogo e intitolò la pellicola Dem rebens koyekh (Il potere del rabbino) oppure, in inglese, A Vilnius Legend. Questa è la versione che possiamo vedere oggi. I testi furono curati dal poeta Jacob Mestel, ma vero elemento di novità fu l’aggiunta di alcune scene in taverna con Joseph Buloff,16 attore già noto nel panorama yiddish soprattutto per il suo rapporto assai travagliato con Maurice Schwhartz.17 Nel film Buloff è il narratore, un po’ clown e un po’ menestrello, che intrattiene i propri amici raccontando la leggenda di Vilnius. Il vivace commento di Buloff serve a fornire spiegazioni e caratterizzare i personaggi con inflessioni comiche. Il tono di Buloff, malizioso e sardonico, colora la narrazione di battute, esclamazioni e imitazion. Si potrebbe ragionevolmente affermare che lo sguardo del narratore sia qui assimilabile a quello di un ipotetico spettatore che guarda con un certo distacco a costumi, luoghi, personaggi del mondo ebraico. Il suo commento sapido propone un approccio più leggero e faceto nei confronti del soggetto narrato, segno che era ormai passata l’epoca in cui il teatro yiddish doveva affermare la propria ragion d’essere. Nella versione del 1924 l’intento pedagogico e l’aura nostalgica erano assai più forti.
50Il ruolo del narratore è dunque qui preponderante. Hoberman suggerisce un parallelo con il benshi del cinema muto giapponese, il cui compito era quello di rendere ancora più “giapponese” il film attraverso commenti, intonazioni espressive della voce e anticipazioni degli avvenimenti. Allo stesso modo il narratore yiddish è qui una sorta di menestrello che inventa dialoghi, intervalla la narrazione con battute o cantilene, crea variopinte iperboli e, soprattutto, propone riferimenti culturali e sociali allusivi ma chiari, svolgendo così un’importante mediazione tra opera cinematografica e pubblico, guidando quest’ultimo nelle pieghe della storia. In Tkies kaf le indicazioni del narratore vanno in una direzione precisa: le peculiarità yiddish sono evidenziate, amplificate e rese ancora più caratteristiche grazie all’espressività vocale di Buloff. Insomma l’opera yiddish viene “intensificata”, resa – come si diceva allora – faryidisht. In Tkies kaf questa intenzione è ravvisabile fino dal titolo, che si focalizza sul ruolo – in realtà marginale – del rabbino della città. È sorprendente osservare come, con una veemenza che talora sfiora l’isteria, lo spirito di questa tormentata comunità cerchi di vibrare attraverso le più diverse modalità espressive.
51Come s’è detto, Roland si prese il merito della regia, senza neppure nominare la metà del cast originario (non vi è un solo accenno a Ester Rokhl Kaminska o a Moyshe Lipman, ad esempio). Turkow, che allora si trovava in Brasile, rimase esterrefatto quando apprese dai giornali che la sua pellicola era stata letteralmente rubata e rielaborata in forma diversa. Pare inoltre che sia Mestel che Buloff fossero perfettamente al corrente del fatto che Turkow si era stabilito in Sudamerica. E pare anche che lo sceneggiatore e il regista del primo Tkies kaf fossero in corrispondenza e che Mestel non gli avesse mai fatto cenno al lavoro in corso. Il comprensibile disappunto di Turkow sarebbe stato seguito qualche anno dopo da una rivincita dell’attore-regista.
L'11 novembre del 1936 Edward Rydz-Śmigły, eroe militare della guerra polacco-sovietica, venne nominato Maresciallo di Polonia e instaurò il proprio governo, l’ultimo prima della Seconda guerra mondiale. In questi anni che precedono la caduta nell’abisso, l’esercito e la chiesa cattolica erano celebrati come pilastri portanti della nazione polacca, orientata, con il loro appoggio e una politica estera oculata, a farsi accettare nel novero delle grandi potenze europee. Rydz-Śmigły definì i principi fondativi per la formazione di un “Campo di Unione Nazionale”, ovvero una concentrazione di tutte le forze nazionaliste in un unico corpo politico. Il punto di riferimento fondamentale per i polacchi doveva essere la costituzione del 1935, in cui appunto si dichiarava fedeltà alla religione cattolica e alle forze armate, si rifiutava la dottrina comunista e si invocava il rafforzamento della nazione. In questo contesto l’ebreo, già ospite sgradito, diventò un’ossessione: la “questione ebraica” era all’ordine del giorno per quasi tutta la stampa e la popolazione era spinta a ritenere che tutti i problemi sarebbero scomparsi con l’emigrazione in massa del “popolo eletto”. Da qui le restrinzioni, le pressioni e le manifestazioni di violenza, a fronte delle quali la comunità ebraica non poté che chiudersi in se stessa. L’integrazione nella cultura polacca era difficile tanto per gli assimilati quanto per gli ebrei arrivati negli anni Trenta, considerati «una gioventù senza futuro». Eppure proprio nel cuore di quel mondo afflitto nacque una Kulturdrang che sfidava la demoralizzazione attraverso la lotta per un ritorno all’autentica e libera vita ebraica e la ricerca dei suoi valori costitutivi. Limprovviso flusso di produzioni cinematografiche yiddish è dunque da considerare come un aspetto di questo risveglio culturale.
52Linstabilità economica stava progressivamente infiacchendo il cinema polacco e Hollywood dominava nel mondo. All’altezza del 1929 quasi il novanta per cento dei film proiettati in Polonia erano realizzati negli Stati Uniti. Tuttavia nel fatidico 1936 entrò in vigore una nuova norma: il prezzo del biglietto per i film stranieri aumentò, mentre per quelli nazionali diminuì. Questa misura comportò un ritorno alla produzione di opere cinematografiche yiddish, non molto dissimili da un punto di vista tecnico a quanto si faceva prima (d’altra parte erano realizzate dalle stesse persone). Infatti quando nel 1937 Henryk Szaro propose un remake di Tkies kaf alla Leo-Film (mentre la Sfinks faceva uscire Der dibek di Michał Waszyński) a prendervi parte, tra gli altri, furono Jecheskiel Mosze Neuman con l’aiuto proprio di Henryk Bojm per la sceneggiatura, Zygmunt Turkow che interpretava nuovamente il profeta Elia e Shmuel Landau nei panni del noged senza scrupoli. I due padri, Mendl e Chaim, erano impersonati da Kurt Katch e Moyshe Lipman, che nell’originale recitava il ruolo di Katch, mentre Max Bozyk, come in Di freylekhe kabtsonim, fa la parte di un comico shadkhen.
53Itskhok Grudberg (il più giovane dei fratelli Turkow: Grudberg è cognome d’arte) e Dina Halpern sono i due amanti predestinati. Itskhok sarebbe stato, l’anno successivo, Meir Berdyczewski in A brivele der mamen; Dina Halpern era già nota sulla scena yiddish e nel 1936 aveva recitato in Al khet diretto da Aleksandr Marten. Nel Dibek interpreta la zia di Leah, Freyde (malgrado potesse essere anche lei adatta al ruolo della protagonista).
54Henryk Szaro aveva studiato a Mosca con Boris Arvatov e Mejerchol’d e già negli anni Venti era ritenuto uno dei maggiori registi polacchi, ma quando Turkow fece esplicita richiesta di potersi occupare della coproduzione e di coordinare il lavoro degli attori, Szaro acconsentì senza esitazioni e si limitò a curare gli aspetti tecnici della produzione.
55Questo rifacimento di Tkies kaf venne affrontato con la consapevolezza di lavorare su una delle opere più significative dell’arte yiddish dell’ultimo ventennio. Nel complesso la nuova pellicola è fedele all’originale: basti notare che i travestimenti di Elia sono identici a quelli della versione del 1924.18 La componente sovrannaturale è ridimensionata in virtù, si direbbe, di una più attenta introspezione psicologica. Ad esempio il profeta Elia appare meno, così come è assente l’elemento del sogno, inoltre non vi è traccia delle visioni peccaminose di Jacob, né dello spettrale matrimonio al cimitero di Rokhl. Tra i segmenti narrativi che più colpiscono della pellicola si possono ricordare l’arrivo di Jacob nella vivace Vilnius, la morte del primogenito di Chaim (che non è caduto in guerra come nella versione originale), carica di tensione grazie anche alla sapiente alternanza di campo e controcampo, o la scena del matrimonio di Jacob. Qui, sebbene ci si trovi in un clima di effervescente festosità, la cupezza della sventura incombente per il mancato adempimento al voto incupisce l’ambiente, caricandolo di oscuri presagi. Naturalmente è riconfermato il lieto fine, suggellato dalla maliziosa immagine di un invitato che sbircia dal buco della serratura il tenero bacio tra i due novelli sposi.
56Il secondo Tkies kaf è certamente prodotto di ottima fattura ma, come spesso accade ai remake, gli manca la freschezza dell’originale e in questo caso anche il suo humour. Il tono è più solenne e retorico, benché gli sceneggiatori abbiano scelto di ambientare la storia nel presente, mettendo da parte la tragedia dell’incombente conflitto mondiale. Il film possiede comunque un’aura fatale e nostalgica, ed è interessante notare come ponga l’accento su elementi ai quali nelle versioni precedenti si era dato poco peso, come la tradizione della shive, ossia la settimana di lamento che segue la morte di un congiunto; in più vengono approfonditi alcuni aspetti della vicenda che nel film originario erano intuibili ma sottintesi, come la smodata passione che il ricco Levine (qui è chiamato Weber) nutre per Rokhl, o l’iniziale inadeguatezza alla mondanità del timido e studioso Jacob. Come scriveva il «Boston Globe», «ciò che risuona più durevolmente è la naturale autenticità con cui il film restituisce la yeshiva e il sapore casalingo della vita ebraica nell’Europa orientale, colpita dal vento del modernismo».19 Echeggiano canzoni d’amore yiddish mentre la macchina da presa cattura attimi di semplice quotidianità dello shtetl, attraverso i quali si percepisce la sempre viva dissonanza tra un folklore dai colori fortemente mistici e una modernità che bussa alla porta ma fatica a entrare. In questo senso la contrapposizione tra bene e male è qui ancora decisamente affermata e approfondita attraverso le psicologie dei personaggi.
57La vicenda di Tkies kaf racconta anche un’altra storia importante: quella di un cinema in preda alle proprie idiosincrasie, che inclinano ora verso lo shund, ora verso il faryidisht. Per quanto possano accogliere al loro interno narrazioni diverse, ciò che accomuna le due tendenze è il dialogo serrato con il medesimo orizzonte di ricezione. In questa prospettiva si può dire che forse il fine artistico passa in secondo piano: la cinematografia yiddish parla di una nazionalità senza nazione che vorrebbe definire i propri confini ma ha difficoltà ad ammettere la propria stessa esistenza. Limpulso conservatore alla narrazione e al rafforzamento dei propri costumi e delle proprie mitologie fanno sì che nell’età della riproducibilità tecnica questa civiltà documenti se stessa, rappresentando (si) la propria ragion d’essere.
Notes de bas de page
1 Per la storia del vykt, cfr. G. Randone, Indomita yidishe mame. Ida Kaminska e la sua famiglia teatrale, Torino, Accademia University Press, 2018, pp. 39-56, e Mirosława M. Bułat, The Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 3 novembre 2010, ad vocem.
2 Per maggiori dettagli si vd., oltre a quanto se ne dice in questo volume, Sheila Skaff, The Law of the Looking Glass: Cinema in Poland 1896-1939, Ohio University Press, Athens 2008.
3 Durante l’occupazione tedesca i due si diedero al contrabbando e le loro avventure procurarono a Warszawsky materiale sufficiente per il proprio sbalorditivo esordio letterario, il racconto del 1920 Shmuglares (I contrabbandieri), che rappresenta lo shtetl degli anni bellici come un regno di ladri, prostitute, contrabbandieri di alcol, studenti del Talmud che diventano spie e di pii padri di famiglia che offrono le figlie come merce di scambio alle autorità tedesche. Pubblicato nel 1920 e tradotto in russo ed ebraico, questo vivido resoconto del collasso morale deflagrato in un villaggio ebraico attirò l’attenzione dei circoli letterari yiddish. Il racconto fu unanimemente riconosciuto come modello del nuovo naturalismo e il suo ventiduenne autore salutato come un grande talento. Warszawsky lasciò la Polonia nel 1924 per recarsi a Berlino, poi a Parigi, dove frequentò Peretz Markiš e Ilya Ehrenburg. Cfr. Jewish Virtual Library, ad vocem, e l’interessante articolo di Carol Ksiazenicer-Matheron, Roman familial et territoir: Les Contrabandiers d’Oser Warszawsky: <https://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/ yod/647>. I suoi tre romanzi sono riuniti sotto il titolo La grande Fauchaison, Denoël, Paris 2007.
4 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 74.
5 Secondo il cameraman Seweryn Steinwurzel, Forbert probabilmente accettò visto lo scarso successo delle sue prime due produzioni.
6 Perets Hirshbeyn si occupò di vari generi letterari ma soprattutto coltivò un grande amore per la drammaturgia, contribuendo soprattutto al teatro yiddish in Russia. Oltre a quanto se ne dice nel primo volume di questa serie, cfr. J. Berkowitz, The Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, ad vocem.
7 Anche Antonin Artaud sognava di realizzare un film sulla base del dramma poetico di An-skij. In una lettera dell’aprile del 1929 il drammaturgo informa Yvonne Allendy del proprio progetto di sceneggiatura dell’opera «nella quale le scene di possessione dagli spiriti e di esorcismo si sincronizzeranno a urla e voci…».
8 Cit. in J. Hoberman, Bridge of Light, pp. 18-19.
9 G. Randone, Indomita yidishe mame cit., pp. 50-51.
10 Questa era una delle caratteristiche fondamentali che secondo Mejerchol’d un’attrice doveva possedere, ed elaborò tali concetti partendo dalle impressioni che aveva avuto proprio sulla Duse. Cfr. A. Attisani, Larte e il sapere dell’attore. Idee e figure, Torino, Accademia University Press, 2015, pp. 308-309.
11 Cenere (1916) è un film diretto e interpretato da Febo Mari tratto dall’omonimo romanzo di Grazia Deledda. Ambientata in Sardegna (ma le scene d’interni furono girate tra Ala di Stura e Balme nelle Valli di Lanzo), la vicenda narra di una madre, Rosalia (Eleonora Duse) che abbandona il figlio illegittimo Anania (Febo Mari) per assicurargli un futuro prospero; questi, deciso a rintracciare il proprio passato, cerca la madre proprio quando decide di sposarsi. Per non intralciare il suo inserimento sociale, Rosalia preferisce morire in solitudine. Cfr. A. Attisani, Eleonora Duse. Un secolo di cenere, in Id., Larte e il sapere del’attore. Idee e figure, Accademia University Press, Torino 2015, pp. 307-325.
12 Ivi, p. 309.
13 Ivi, p. 49.
14 Jonas era il secondogenito dei Turkow e fece parte della troupe dei Kaminski dal 1917 al 1920. Nel 1926 fondò il Krokever Yidish Teater (Teatro yiddish di Cracovia) e fu legato alla celebre attrice Diana Blumenfeld.
15 Ad esempio in Avrom Ovinu (Nostro Padre Abramo, noto anche come The Wandering Jew) del 1931 aggiunse sequenze sonore sincrone ambientate in una shul (sinagoga); Joseph in the Land of Egypt, dello stesso anno, comprendeva frammenti di un film italiano del 1914; per Yidishe tokher si servì di sequenze mute tratte da Judith Trachtenberg, prodotto in Germania del 1921. Sono episodi di cui si parla nella prima parte di questo volume.
16 Goldman tentò d’intervistarlo, senza riuscirci. Lattore infatti dichiarò di non avere niente a che fare con il cinema yiddish. Cfr. E. A. Goldman, Visions, Images and Dreams cit., p. 214.
17 A Maurice Schwartz è dedicato il iv volume di questa collana.
18 Altra curiosa notazione: quando nel film si vede la crescita di Jacob e Rokhl attraverso alcune fotografie, l’ultima che ritrae il giovane è un fotogramma di Itskhokh Turkow nei panni dello studente buono del film originario.
19 Si cita dalla presentazione del film restaurato che appare nel sito del National Center for Jewish Film.
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Da Odessa a New York
Una Grande Aquila, un re dello shund e altre stelle vagabonde
Antonio Attisani
2016
Cercatori di felicità
Luci, ombre e voci dello schermo yiddish
Antonio Attisani et Alessandro Cappabianca (dir.)
2018