5. Declinazioni della memoria dopo la fine del mondo
p. 232-262
Texte intégral
1Dalla fine della Seconda guerra mondiale, quella della cultura yiddish è una sopravvivenza post-traumatica che si manifesta anche nei film nati per celebrare il tempo nuovo, con la sua ritrovata pace e le promesse di esteso benessere. Ci vorranno circa quindici anni per rendersi conto che non soltanto la gran parte dei parlanti yiddish sono stati assassinati, ma anche che i sopravvissuti e i nuovi nati parlano ormai le lingue dei paesi in cui sono radicati ed è l’attenzione all’ebraico (la lingua adottata, modernizzandola, dal nuovo stato di Israele) a significare l’orizzonte dell’appartenenza e delle tradizioni.1 Per quanto riguarda il teatro, tale vicenda è delineata nei capitoli finali del primo e del quarto volume di questa serie; per quanto riguarda il cinema cerchiamo di dare testimonianza qui delle ultime opere, sempre meno definibili come yiddish secondo i canoni validi per i decenni precedenti e sempre più riferibili a esercizi della memoria e all’impegno della sua trasmissione alle generazioni seguenti (anche se, come vedremo, non mancano i film, sia di fiction che documentari, pregni di una pura e semplice nostalgia a uso degli spettatori più anziani). Dunque il presente è un capitolo che traccia una prima “storia della memoria” della performance teatrale e cinematografica yiddish.
2A film particolarmente significativi per il loro valore documentario e poetico come Lang iz der veg (Lunga è la strada) o Unzere kinder (I nostri bambini) sono dedicati, nella seconda parte di questo volume, esaurienti interventi che rendono conto, oltre che del merito delle opere, anche delle non meno significative vicissitudini produttive che ne accompagnarono la realizzazione, tanto nel “mondo libero” che nella Polonia comunista.
3Lang iz der veg nacque da un’idea dell’attore, scrittore, poeta e pittore Israel Becker, una delle più singolari personalità artistiche di questa fase e il film, dedicato alla drammatica e del tutto inedita vicenda delle displaced persons, ossia dei sopravvissuti allo sterminio che non avevano un luogo a cui ritornare, è la trasposizione di ciò che Becker aveva effettivamente vissuto, dalla fuga dal treno della deportazione alla dura lotta per la sopravvivenza negli ultimi tempi di guerra, fino alla ricerca della propria madre dispersa e all’incontro amoroso con una donna dalla storia simile.
4Israel Becker, oltre che essere un artista, era in effetti un intellettuale di valore, che in quanto tale si poneva la questione nuova della memoria e delle tradizioni ebraiche dopo la “fine del mondo” segnata dalla Seconda guerra mondiale. In questa prospettiva dev’essere considerata tutta la sua attività: non è un caso che sia stato anche tra i fondatori del primo teatro yiddish professionistico nella Germania postbellica. Esiste per fortuna anche un bel documentario su di lui (del quale pure si parla più avanti) che lo vede, ormai anziano, malato e prossimo alla morte, raccontare, nel suo appartamento di Tel Aviv affollato di tracce e ricordi, la propria vicenda. Un’occasione straordinaria per cogliere l’intreccio tra biografia e arte in un contesto storico simile a quello in cui viviamo, un contesto nel quale le opere del male e immani sofferenze subiscono una trasfigurazione artistica diventando così fonte di insegnamento per le generazioni successive.
5La medesima cosa, in un contesto del tutto diverso, accade con Unzere kinder (I nostri bambini), altro film tra i sommi nel mostrare come nel fondo dell’abisso gli esseri umani possano trovare una possibilità di riscatto non soltanto attraverso la riorganizzazione di una dignitosa vita materiale ma anche con una meditazione e un’azione artistica su passato e presente. Il portato documentario di Unzere kinder è riferibile a due temi principali: il primo è quello rappresentato dalle bambine e dai bambini sopravvissuti a orrori dei quali sono stati testimoni e alla relativa “ricostruzione” che ne fanno in quanto giovani cittadini ospiti dell’orfanotrofio polacco di Helenówek; il secondo è nella coppia comica composta da Shimon Dzigan e Israel Shumacher, tra i protagonisti della fiammeggiante scena kleynkunst (il cabaret ebraico dell’Europa orientale), che qui si interrogano sulla rappresentabilità della storia e sulla funzione del teatro. È un film pudico, a momenti straziato e straziante, sulla guerra e il ritorno alla vita dei sopravvissuti, dunque una Iliade e un’Odissea al tempo stesso, che di nuovo consentono di sperare nell’arte e nell’educazione come attività sinergiche. Anche in questo caso l’attenta lettura di Matteo Tamborrino, nella seconda parte, aiuta a comprendere non soltanto il paradosso di un film che fu prodotto superando mille ostacoli e sotto la supervisione del Partito Comunista Polacco, eppure mai mostrato in Polonia, ritrovato nel 1979 in una pellicola che ne ha consentito il restauro e di conseguenza la straordinaria possibilità (e il dovere, direi) per noi posteri di confrontarci con una questione chiave del nostro tempo, che non è lo sterminio di un popolo, ma soprattutto in che modo sia possibile, oltre che curare i sopravvissuti, esorcizzare i moventi da cui origina una tale follia.
6Nous continuons (We Live Again; Continuiamo a vivere),2 invece, è un modesto, nell’accezione migliore, film di montaggio e documentario realizzato in Francia tra l’estate e l’autunno del 1946 e in circolazione negli anni seguenti. Il montaggio riprende materiali d’archivio (tra l’altro vi sono diverse brevi sequenze che mostrano Veniamin Zuskin nei panni di un anziano ebreo che tenta di salvare se stesso e un bambino da una retata nazista, tratto da Gli indomiti, film sovietico del 1945) e scene di irruzioni nelle abitazioni di ebrei parigini, mentre l’aspetto documentario consiste nelle riprese realizzate nella Francia del tempo, soprattutto in una serie di residenze per bambini, orfani e no. A uno sguardo superficiale i cinquanta minuti di Nous continuons possono apparire come una parata concettuale propagandistica, con enfasi emotiva nondimeno molto contingente. In realtà il film ha una intensità che gli deriva se non dalla perizia dei realizzatori, dal movente più essenziale e in buona misura inconscio: Nous continuons è un esorcismo, un tentativo, uno dei tanti, di eradicare il ricordo del male subito e di prefigurare una degna esistenza futura in un mondo arricchito e non incattivito dalle differenze. In questo senso somiglia a Unzere kinder: la salus da garantire ai protagonisti del futuro consiste in entrambi i casi in tre elementi: uno standard dignitoso di vita materiale (salute, alimentazione, condizioni abitative ecc.), un orientamento ideologico secolare e umanistico, con accento posto sulla fratellanza e definito nell’ambito di un processo educativo realizzato nel contatto con la natura e con la tecnica (in ciò prefigurando l’orientamento socialista e l’opzione “kibbutzista” del futuro stato d’Israele), e infine un intreccio dei motivi precedenti con la creatività, coltivata dapprima nella dimensione del gioco e poi anche in quella dell’arte vera e propria (musica, canto, danza ecc.). Un progetto meraviglioso, che nei regimi autoritari di ogni colore si compiva invece, come purtroppo accade ancora oggi, con il cupo inquadramento paramilitare dei cittadini più piccoli.
7Anche Mir leben geblibene (Noi sopravvissuti)3 è del 1947. Concepito come un album fotografico, il film si apre con le immagini della distruzione della comunità ebraica polacca, mentre nei successivi capitoli documenta i primi sforzi per la sua ricostruzione: dal rimpatrio dall’Unione Sovietica alla istituzione degli organismi di assistenza sociale e sanitaria, dagli orfanotrofi di Otwock e Helenówek (quello di Unzere kinder) ai preparativi della gioventù in procinto di emigrare in Palestina, dalla frequentazione delle scuole ebraiche alla militanza nel Partito Operaio Polacco, dal lavoro presso le cooperative, in genere sartoriali, a quello nella piccola industria. La parte del film dedicata alle attività culturali presenta l’Associazione degli Artisti, Giornalisti e Letterati Ebraici, giornali con differenti orientamenti politici, il concorso per il manifesto dedicato all’insurrezione del ghetto di Varsavia, lo scultore Natan Rapoport al lavoro sul modello di quello che sarà il Monumento agli eroi del ghetto, poi eretto nel 1948. Un breve capitolo a parte è dedicato al teatro: oltre a Ida Kaminska, vi appaiono, tra gli altri, Moishe Lipman come interprete di Tevye il lattivendolo e Shmuel Goldstein in Motl, il figlio del cantore.
8Dray tekhter (Tre figlie) è l’ultimo film realizzato da Joseph Seiden su sceneggiatura tratta dal testo teatrale di Abraham Blum, un successo del 1939 riproposto con il medesimo protagonista, Michael Rosenberg. Seiden avrebbe poi continuato a operare nel cinema fino al 1972 come distributore dei propri film, essenzialmente nel circuito dei sedici millimetri (case di riposo, club privati, associazioni ecc.). Il solo Rosenberg fu molto ben pagato, per il resto il film fu realizzato come al solito in grande economia, assumendo, in questo caso, un carattere claustrofobico, forse dovuto al fatto che sarebbe stato girato soltanto nell’appartamento del regista.
9Le tre sorelle del titolo sono figlie di Mr. Gottlieb (Leon Schacher, anche coproduttore), un modesto e pavido contabile che sta rischiando di perdere il proprio impiego: una è sposata con un luftmentsch infedele e buono a nulla, un’altra, Lucy, è nubile e incinta, e Bertha, la più grande e responsabile, è in paziente attesa del proprio fidanzato, un musicista, non sappiamo se inetto o di valore, che sta cercando fortuna nel mondo. Gottlieb, nella speranza di conservare il posto, presenta la figlia Bertha al datore di lavoro sperando che questi la sposi. A tale scopo la porta con sé a casa di Abe Zablinsky (un Rosenberg che incarna una variante dello Zio Mosè di Schwartz) e attraverso una grottesca trattativa mascherata (una delle scene più efficaci) riesce nel proprio intento. La mite Bertha accetta di sposare senz’amore il rude olraitnik, sacrificandosi per il bene comune.
10Passa il tempo, quella di Bertha è una vita infelice, che la porta all’alcolismo. Il marito è un ebreo che vorrebbe dimenticare di essere tale, un uomo piuttosto volgare e dall’ego smisurato, che rinfaccia continuamente alla moglie di non possedere niente di ciò che la circonda. La recitazione di Rosenberg è molto efficace e aiuta a distrarsi dalle carenze della regia, il personaggio è rude ma anche ironico, talvolta ridicolo nella pretesa di apparire americano. Anche lo yiddish è soltanto un’eco. I due hanno una figlia.
11Dopo dieci anni riappare l’ex fidanzato di Bertha, è elegante e afferma di essere un compositore di successo, la corteggia e lei non può che cedergli. Il film, non si capisce se intenzionalmente o meno, dà un grande rilievo al conflitto tra le opposte negatività rappresentate dai due uomini e, di nuovo, ci presenta una protagonista vittima (una Charlotte Goldstein che fa rimpiangere di non vederla più spesso), una donna senza cultura ma dotata di un forte istinto naturale per la giustizia e d’animo gentile, combattuta tra due parodie dell’amore e che alla fine ribadirà il proprio sacrificio sublimandolo in un ideale compromesso domestico.
12Ciò avviene perché il marito la scopre con l’amante e la rivendica furioso come se si trattasse di una sua proprietà, non di una persona amata. Lei, per tutta risposta, gli rivela con rabbia che la figlia non è sua (ma non è nemmeno il frutto di un adulterio, è la figlia illegittima di Lucy). L’agnizione, dopo questo confronto, si fa ancora più profonda con la consapevolezza definitiva che lo pseudo-artista è in realtà un cialtrone e nemmeno l’ama, la cerca soltanto perché non ha trovato nulla di meglio. È così intensa e convincente in questa esplosione di sincerità da indurre il marito a crollare a sua volta e gettarsi in lacrime tra le sue braccia, accettando infine la proposta di un serio compromesso etico, che potrebbe avere persino un risvolto affettuoso, per la continuazione della vita insieme. Una nuova classe media, senza una solida cultura e significative speranze, si stava consolidando e delegava ai propri figli le decisioni circa i costumi di provenienza e quelli da adottare nella medine non più goldene, irreversibilmente diversa dal mondo di prima.
13Dray tekhter è dunque un ultimo sussulto dell’arte scenica shund profondamente radicato nella svolta degli anni Quaranta, una svolta che si completerà simbolicamente con il 1960, anno della morte di Maurice Schwartz e dell’ultimo progetto di teatro yiddish, svolta caratterizzata dall’abbandono della lingua e dall’assimilazione, certamente differenziata nelle forme e nei modi, comunque sempre segnata dal congelamento delle tradizioni (che sarebbero riapparse man mano, come ancora oggi accade, sotto forma di recupero culturale e con le valenze più diverse, da quelle ultraconsevatrici a quelle più spregiudicatamente tardomoderne).
14È significativo il fatto che Seiden, dopo Catskill Honeymoon e Dray tekhter abbia continuato a lavorare come distributore dei propri film nei “circuiti della memoria”, fino al 1972, e che questo film fosse il più richiesto del suo catalogo. Anche Joseph Green nel dopoguerra era passato alla distribuzione, ma si occupava soprattutto di film importati. La sua unica operazione yiddish-non-yiddish consistette nel rimontare in inglese Yidl mitn fidl nel 1956 intitolandolo Castles in the Sky, con uno scarso riscontro di critica e pubblico che conferma la fine di un’epoca.
15Got, mentsh un tayvl (Dio, l’uomo e il diavolo), uscito nel 1950, è davvero uno strano film, per tanti motivi. È l’ultimo dramma yiddish cinematografico ed è basato sul copione di Jacob Gordin, un riferimento drammaturgico e ideologico decisamente superato negli Stati Uniti del tempo. Il testo è una vigorosa polemica contro il materialismo e la civiltà del denaro nella quale gli immigrati ebrei erano già perfettamente integrati; ed è un film ottusamente teatrale (per questo assai interessante come documento), realizzato in un momento in cui il cinema si era decisamente emancipato dalla scena. A uno sguardo disincantato, dunque, può apparire semplicemente come un relitto alla deriva, ma uno spettatore appassionato o uno studente può considerarlo come un’antologia di temi e un catalogo di sentimenti che erano importanti al tempo e, sebbene in modo diverso, lo sono anche oggi.
16Got, mentsh un tayvl è noto anche come il Faust ebraico in quanto si ispira esplicitamente al capolavoro di Goethe, oltre che al Libro di Giobbe biblico. Il testo gordiniano in tre atti e quattro scene aveva conosciuto nel tempo diversi adattamenti e allestimenti (nei volumi della nostra serie ci siamo soffermati soprattutto su quello realizzato da Maurice Schwartz, del 1919, per il proprio Teatro d’Arte Yiddish; passim il film è oggetto della lettura di Beatrice Fortuna). Dunque possiamo considerare, come s’è detto, la traduzione cinematografica da parte di Joseph Seiden come una tarda testimonianza della scena yiddish più popolare, beninteso nella versione “seria” e anti-shund di Gordin. Il drammaturgo prediligeva il rifacimento dei classici e in questo caso al posto del Faust-dottore di Goethe abbiamo un Hershele Dubrovner che in quanto scriba della Torah dovrebbe essere la quintessenza della purezza, eppure cede alle lusinghe del Satana materialista. Il testo contiene il radicale messaggio di Gordin contro la “civiltà del denaro”, giudicata corruttrice senza appello, e contro l’America che la incarna corrompendo il mondo e le sue più antiche e nobili tradizioni.
17L’origine teatrale della commedia drammatica è evidente soprattutto nella successione delle scene, tutte in interni, che il regista rispetta, utilizzando la macchina da presa per filmare una selezione di scene teatrali, senza invenzioni linguistiche. Già il dialogo iniziale tra il Diavolo, in scena, e Dio nascosto tra le nubi, nella sua impostazione e nei suoi costumi al limite del ridicolo e forse già oltre, indicano un gusto teatrale abbondantemente superato nel secondo dopoguerra, e i trucchi teatrali come il fumo proveniente dal basso e l’apparizione di Santana per mezzo di un ascensore proveniente dagli inferi, potrebbero indurre lo spettatore disincantato di oggi ad astenersi dal guardare il resto del film. Ma farebbe male, perché nonostante la regia sgraziata di Joseph Seiden, Got, mentsh un tayvl è una pagina inaggirabile nella storia dello spettacolo moderno, una pagina che racconta molti aspetti, positivi e negativi, del teatro yiddish “impegnato”. Persino la regia cinematografica poco sensibile comporta una intensificazione della natura teatrale della performance. Le inquadrature cercano talvolta di trarre dall’ombra del passato scenico le singole figure e i loro gesti, ma i primi piani sono limitati, non di rado arbitrari, e in sostanza ci fanno comprendere quanto ciò che conta nella recitazione teatrale siano le sfumature, le piccole cose non vistose ma percepite, i toni più che i concetti. Quando un regista crede di scoprirli e si sente in dovere di metterli in rilievo lo spettatore perde la nozione di quell’insieme percettivo di cui lui stesso dovrebbe essere il regista. La teatralità, se non interpretata con sensibilità e intelligenza, diventa enfasi e didascalia: in questo caso resta il fatto che a partire da un testo comunque tra i più significativi della drammaturgia yiddish e prescindendo dalla sua oscillazione tra asseverazione ideologica e cadute moralistico-melodrammatiche, si assiste ad alcune alte prove d’attore incastonate nella performance di una vera e propria compagnia. Il film riprende interpreti che hanno interpretato quei ruoli per chissà quante repliche, affinandoli e arricchendoli di sfumature, ognuno sviluppando il proprio “tipo” ebraico moderno.
18In questa compagnia, oltre al protagonista Michał Michalesko,4 solido per quanto espressivamente prevedibile veterano della scena, il resto del cast vede impegnate in ruoli solo apparentemente secondari quali la prima moglie dello scriba e Dobe, la vicina di casa, due attrici come Bertha Gersten5 e Lucy Gehrman,6 caratteriste di vaglio, vere e proprie colonne del teatro yiddish per decenni. Linterpretazione di Gersten e Gehrman è il principale elemento che tiene in piedi la storia, trasformandola da teorema ideologico in vicenda umana e opera d’arte. Oltre a loro, e senza dimenticare le due sorelle Freida e Tsipe, interpretate da Shifra Lerer7 e Esta Salzman,8 anch’esse attrici teatrali di lungo corso (della terza generazione di artisti yiddish americani), l’altra presenza notevole da segnalare è quella di Max Bozyk.
Max Bozyk, grande attore non protagonista
Max Bozyk9 era nato nel 1901 a Łódź, città nella quale frequentò prima una scuola religiosa e poi una scuola pubblica. La sua era una vivace famiglia chassidica. Il suo primo contatto con il teatro avvenne quando vide recitare Julius Adler. In particolare fu colpito dal fatto che l’attore alla fine dello spettacolo si togliesse la barba. Divenuto un farkhshuft, un fanatico del teatro, cominciò a recitare con altri ragazzini nelle abitazioni della città, naturalmente in ruoli con la barba, e comici.
Diventò un professionista della scena all’età di diciassette anni, cominciando con l’interpretare un piccolo ruolo sotto la direzione di Hymie Jacobowitz,10 continuando poi in scenette di varietà e commedie nel quartiere più povero della città, dove divenne presto un beniamino amato da tutti. Nel 1920 fu scritturato dalla compagnia Ebell di Rzeszów (Galizia) e un anno dopo era a capo di una propria formazione itinerante che durò circa otto anni. Nel 1930 eccolo a Vienna, sulla scena del prestigioso Reklam Theater, poi passò a Varsavia, nel teatro diretto da Meir Winder. L’anno seguente fu quello del passaggio alla scena internazionale, dapprima recitando con guest-star americane come Samuel Goldenburg, Ben-Zvi Baratoff, Ludwig Satz e Julius Nathanson, poi al Pavilion Theatre di Londra con Julius e Anna Nathanson, Ben-Zvi Baratoff, Rudolf Zaslavsky, Ludwig Satz, Nellie Cashman, Molly Picon e Samuel Goldenburg. A sua volta ormai apprezzato caratterista, Bozyk prese parte come guest-star in teatri di diversi paesi come il Belgio, l’Austria, la Cecoslovacchia, la Romania e la Lituania, e nel 1933 fu di ritorno a Varsavia con Nellie Cashman negli spettacoli Di komediantke e Di skhkurte. Nel biennio 1934-1935 fu tra i protagonisti di Keytn (Catene) di H. Leivick assieme ad Alexander Granach, nel Sergente Grisha con Kurt Katch e Ofene oygen (Occhi aperti) con Rachel Holtzer. La stagione 1936-1937 lo vide assieme a Lucy e Misha Gehrman, poi con Zygmunt Turkow in Mkhusnim di Chone Gottesfeld, Blondzhende shtern (Stelle vagabonde) di Sholem Aleichem, Noah Pandre di Zalman Shneur, Shop (Il negozio) di Leivick, Dos gevisn fun der velt (La vincita della vita) di Alter-Sholem Kacyzne, e in Sarah sheyndl (La bella Sara) di Joseph Lateiner con Ida Kaminska. A fine stagione 1938 eccolo al Nowości in Mshpt, Jacob un Esau e Kamf far erd.
Il 1939, alla vigilia del nuovo conflitto mondiale, è il momento dell’emigrazione dalla Polonia, con la moglie Reizel, anch’essa attrice, e altri cinque colleghi, dapprima in Argentina, dove recitarono per ben due anni per l’impresario Adolf Mide, poi, dal 1941, a New York, chiamato al Public Theatre da Herman Yablokoff per l’operetta Meyn veyse blum (Il mio fiore bianco) di Blum. Nel 1942 prese parte, indicato in locandina come «Lazar badkhen» a una lunga tournée del cosiddetto Gordin Ensemble (Frances Adler, Celia Adler, Jacob Ben Ami, Lucy e Misha Gehrman, Bertha Gersten, Jacob Mestel, Menachem Rubin e Yitzhak Roytblum) negli Stati Uniti e in Canada. Al ritorno, Bozyk prese parte con la moglie a vari spettacoli di vaudeville e operette a New York e dintorni. Nel 1956, dopo la fine del teatro yiddish, entrò in una cooperativa teatrale che proponeva pièce come Dembes (Padre e figlio) di Fishl Bimko sotto la direzione di Jacob Mestel. Sempre resistendo al declino del teatro yiddish, nel 1958 l’attore girò l’America con la compagnia Farband e nella stagione 1958-1959 diresse assieme a Sheftl Zak lo Unzer Theatre, recitando anche in una nuova pièce israeliana e dirigendo Parnose di Chone Gottesfeld.
Diversi sono i film in cui lo possiamo vedere in vari momenti della sua carriera e al fianco di diversi protagonisti, da Yidl mitn fidl con Molly Picon a Tkies kaf con Jonas Turkow, da Dibek con Avrom Morevsky a Purimshpiler con Miriam Kressyn e Hymie Jacobson, da A brivele der mamen con Lucy Gehrman a Mamele di nuovo con Molly Picon, per finire poi con questo Got, mentsh un tayvl e Catskill Honeymoon di cui si dice più avanti.
Dopo questo schematico catalogo della sua brillante carriera, sempre in seconda fila come conviene a un caratterista, vediamolo nel ricordo che gli dedicò il «New York Times» (8 aprile 1970) alla sua morte. La scena yiddish è evocata come un fenomeno ormai lontano, sconosciuto ai più e senza possibilità di rinascita, però riconosciuto tra le matrici del teatro e del cinema successivi, essendo dunque familiare, sia pure inconsapevolmente, al grande pubblico.
Questo il necrologio:
«Max Bozyk, il noto attore del teatro yiddish della nostra città, è deceduto tra le quinte alla fine di uno spettacolo al Town Hall domenica pomeriggio, pare per un attacco di cuore. Aveva settantuno anni. Il servizio funebre si è tenuto ieri a Park West, sulla 79th Street vicino a Columbus Avenue, e la sepoltura al Mount Hebron Cemetery di Flushing, Queens. Il signor Bozyk, che abitava al455 della Franklin Delano Roosevelt Drive, non si sentiva bene, dicono i suoi amici, ma insisteva nel voler recitare. Lui e sua moglie Reizel Bozyk avevano appena terminato di recitare in una pomeridiana yiddish intitolata An Annual Spring Concert. Il signor Bozyk aveva appena finito di recitare un monologo di Sholem Aleichem e, rientrato tra le quinte, è crollato tra le braccia della moglie. Al Roosevelt Hospital è stato dichiarato morto.
“Era il Fernandel ebreo”, dice Ben Bonus, altra figura importante del teatro yiddish che ieri seguiva il funerale. “Era un gigante” insiste il signor Bonus, produttore e attore. “È una perdita immensa per il teatro yiddish mondiale”. Il signor Bozyk era un attore comico della grande tradizione popolare del teatro yiddish. Alcuni dicono che “sapeva farti ridere e piangere allo stesso tempo”. Bozyk era una presenza costante negli spettacoli di New York, spesso effettuava tournée e lo si vede in molti film yiddish. La scorsa stagione lo abbiamo visto nei Viaggi di Beniamino iii accanto al signor Bonus.
Della sua performance come Melech Rachlin in Don’t Worry, Brother! al Roosevelt Yiddish Theater nel 1963, Richard F. Shepard ha scritto sul «The New York Times»: “Non ci mette che pochi secondi per ottenere una risata, con il suo meraviglioso talento nell’esprimere una sorta di rassegnazione fatale, con le spalle e ogni parte del suo corpo che ‘recitano’ ciascuna con la propria arte”. Il signor Bozyk era nato a Łódź, in Polonia, dove salì sul palcoscenico per la prima volta, ma ha preso parte anche a numerosi film. Lui, sua moglie e sua figlia si trovavano a Buenos Aires nel 1939, quando i tedeschi invasero la Polonia. Un loro figlio, che non aveva lasciato il paese, fu ucciso.
La famiglia Bozyk era arrivata nel nostro paese nel 1941. In breve tempo i Bozyk diventarono uno degli ensemble familiari più conosciuti e apprezzati per le commedie che interpretavano girando per gli Stati Uniti e il Canada. Il signor Bozyk era il presidente dell’Hebrew Actors Club e membro del comitato esecutivo del sindacato degli attori ebraici, oltre che membro della Yiddish Theatrical Alliance e dell’associazione Yiddish Artists and Friends. Gli sopravvivono, oltre alla vedova, la figlia, signora Susan Armetta e quattro nipoti».
Lo spettatore di Got, mentsh un tayvl noterà come ad esempio Michalesko, Gersten, Gehrman e Bozyk utilizzino le mani e gli oggetti, non banalmente per sottolineare quanto dicono ma per significare (fare segno di) “altro” rispetto a ciò che dicono, mettendo in crisi l’assertività delle parole predisposte dal drammaturgo. Basti pensare, una per tutte, all’espressività delle mani dello scriba quando è intento alla scrittura del libro sacro e al tempo stesso conta il denaro proveniente dallo sfruttamento degli operai: il medesimo gesto è pervertito, o meglio, in entrambi i casi è amorevole, ma segnato da destini opposti. Anche le espressioni del volto dei personaggi, su cui il film talvolta si sofferma, molto devono al passato teatrale; con gli sguardi e le emozioni trasmesse tramite gli occhi, l’interezza dei volti assume un grande rilievo e contribuisce a una percezione non superficiale del racconto.
19Se lo spettatore riesce a distinguere e concentrarsi sulle espressioni non didascaliche scopre un linguaggio d’attore – sia teatrale che cinematografico – davvero potente, che “mette in segno” la vita come ricerca della verità e della felicità e il dolore come inevitabile contrappunto che ognuno offre e riceve dagli altri. In questo che è forse da considerare l’ultimo film yiddish è dunque possibile scorgere qualcosa che stava nell’istanza etica originaria di quel teatro e che ha accompagnato la parte più povera della comunità ebraica nei suoi primi passi del Novecento ( «Un povero felice è meglio di due milioni di milionari», dice il vecchio Lazar Dubrovner). Ma si scorgono anche le tracce della teatralità yiddish e della cultura chassidica che le fa da sfondo primario: un modo di parlare, anche il più quotidiano, che ha sempre un che di cantato, secondo modulazioni comuni eppure diverse per ognuno (basti pensare al modo in cui ognuno di loro dice «Lchaim!»). Questa sorta di neorealismo yiddish era passato dalla vita al teatro, un teatro sincretico e al tempo stesso del tutto nuovo per il suo tempo, un teatro – e poi un cinema – nel quale la musica e il canto hanno a loro volta, per lo stesso motivo, un ruolo fondamentale. Qui il tessuto musicale di Sholom Secunda è accortissimo e raffinato, siamo lontani dalla solita marea di suoni che esprime ciò di cui gli attori non sono capaci e abbiamo a che fare con molti interventi, anche brevi e discreti, che annunciano temi, indicano approfondimenti possibili, insomma costituiscono un ulteriore livello di interpretazione, per non parlare delle belle canzoni che ogni tanto cristallizzano il senso della vicenda. Quella di Secunda è una musica orecchiabile, facile in apparenza, ma non è esente da echi schönberghiani, a significare, ovviamente, non una imitazione ma una analoga sensibilità.
20Questo Gordin alle prese con tipi sociali e psicologie alla Ibsen può essere visto come il classico bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, ma occorre ricordare che la maggior parte della drammaturgia tra metà Ottocento e metà Novecento non supera questo livello e soprattutto che questa mancanza di grazia e di compimento artistico è alla base del mistero gaudioso della cultura attoriale che connota il medesimo lasso di tempo. Forse non ne è stata la causa, ma certo non l’ha frenata.
21Catskill Honeymoon (Luna di miele a Catskill) è un monumento alla nostalgia basato sulla trovata di radunare la gran parte dei sopravvissuti del teatro yiddish nell’estate del 1949. Ed è anche un film degli anni Cinquanta, un documentario antropologico sulla classe media (in questo caso ebraica, ma potrebbe essere di qualunque paese occidentale del tempo) e i suoi costumi in trasformazione. Ideato dal musicista-impresario-attore Hy Jacobson e diretto da Joseph Berne, il film può risultare datato e persino un po’ triste allo sguardo di oggi, ma è significativo il fatto che sia stato programmato con un buon successo fino agli anni Settanta, un vero e proprio hit nelle case di riposo.
22La location turistica e teatrale è un grande albergo vecchio stile dei Catskill, località di villeggiatura prossima a New York, da sempre molto frequentata da ebrei di tutte le categorie sociali. Questo il pretesto narrativo: lo Young’s Gap Hotel di Parksville, «il più bello che si sia mai visto», ha deciso di festeggiare i cinquant’anni di matrimonio di una coppia di clienti, artisti della scena e protagonisti della vita estiva nel Borscht Belt, com’era chiamata scherzosamente la località. Tutto ciò su uno sfondo di verità storica, perché le strutture turistiche dei Catskill in effetti, dopo la Seconda guerra mondiale, programmavano diversi tipi di intrattenimenti per attirare i turisti. Per la festa, intesa come un inno ai vecchi tempi e nel corso della quale non si vedrà mai un giovane, soprattutto in sala, è prevista una lunga sequenza di numeri di vaudeville (o, al tempo, Musical Revue).
23Dopo avere visto una serie di cartelli stradali che portano a Parksville, un coro femminile si esibisce in un’allegra canzone sull’autostop, una delle nuove mode del tempo. Mescolando inglese e yiddish, ovvero utilizzando lo yinglish, marchio linguistico di tutto il film, le donne cantano per celebrare «una luna di miele sulla luna», mentre si inquadrano gli svaghi offerti dal centro vacanze: il grande complesso alberghiero offre ai propri clienti della middle-class varie attività come il golf, la piscina, sfilate di moda, gare di ballo ecc., oltre naturalmente a ricche tavolate. Il film propone in effetti una serie di annunci pubblicitari più o meno espliciti, intesi a fare comprendere che anche gli ebrei americani non proprio ricchi potevano trovare ospitalità nei Catskill (e ciò era particolarmente significativo, dato che in quel momento molte strutture turistiche e country club non accettavano ebrei).
24Quindi la macchina da presa si sposta nella sala nella quale si tiene il banchetto in onore dei due anziani festeggiati, che parlano in yiddish e tutti li comprendono. Come si diceva, il pretesto narrativo è costituito dal festeggiamento con uno spettacolo leggero in inglese e yiddish presentato dal divo della radio Al Murray. Ci aspetta un programma di numeri, canzoni e musiche di tutti i tipi, sacre e profane, classiche e sfacciatamente kitch. Catskill Honeymoon era insomma un film ideale per il regista Josef Berne, che dirigeva sia spettacoli teatrali e film yiddish che corti musicali per Hollywood. Uno dei suoi più recenti corti, Heavenly Music, del 1943, aveva vinto il Premio Oscar della categoria. Hymie Jacobson, supervisore del programma e specializzato in vaudeville, fece del film un affare di famiglia, visto che sua sorella Henrietta occupa lo schermo per la maggior parte del tempo, per lo più in compagnia del marito Julius Adler.
Una coppia della scena leggera
Julius (Yoel) Adler era nato nel 1906 in Polonia, da una famiglia ortodossa. Il padre morì quando aveva sei anni e la madre emigrò in America lasciando i figli con i nonni. Si riunirono nel 1920 e subito Julius cominciò a lavorare in teatro. Il padre adottivo, che lo vedeva piuttosto come operaio in una cappelleria, lo cacciò di casa. Lui si rifugiò sulla scala antincendio esterna, dove la madre gli portava il cibo di nascosto, finché il patrigno lo richiamò quando scoprì che con il teatro ci si poteva guadagnare da vivere. Nel 1935 incontrò e si unì a Henrietta Jacobson mentre lavoravano nella compagnia di Herman Yablokoff al McKinley Square Theater. Lei era divorziata e aveva un figlio, i suoi genitori Joseph e Bessie Jacobson erano stati tra i divi del teatro yiddish all’inizio secolo e i suoi fratelli Hymie e Irving, erano attori e dinamici impresari di New York. Era stata la madre Bessie ad allevare come attori i quattro figli, dopo che il marito era morto quando Henrietta era in fasce.
Julius e Henrietta formarono compagnia insieme per tre anni e si sposarono «per risparmiare sulle spese» alla vigilia di una tournée in Europa, nel 1938. In quella e in altre occasioni recitarono in Francia, Lituania e Belgio. Poi recitarono a Chicago, cominciando con il prendere parte a un primo film, e tornarono al Second Avenue Theater per recitare con Molly Picon e Jacob Kalich. Nel tempo, i due si affermarono come produttori, autori e interpreti di vaudeville. E con loro recitò dagli anni Cinquanta anche il giovanissimo figlio Bruce Adler (Borekh Yosl, nato 1944), ad esempio al Palladium di Londra con SophieTucker.
Julius lo vediamo, oltre che in Catskill Honeymoon, sua ultima apparizione sullo schermo, in Gebrokhene hertser e nei panni del pope Aleksei in Tevye. Dagli anni Sessanta i due si trasferirono sulla scena di lingua inglese, dove recitarono con successo, anche a Broadway e con il figlio Bruce.
Di Henrietta occorre aggiungere che era diventata subito “la bambina” per eccellenza del teatro yiddish, apparendo soprattutto ma non soltanto nei vaudeville e nel teatro leggero (ad esempio al National con Boris Thomashevsky e al People’s per Gabel, dove tra l’altro cominciò a cantare). Fu anche partner di Bessie Thomashevsky in Di tsvey mames (Le due madri) di Solomon Libin.11
I due festeggiati scherzano sui cinquant’anni passati insieme e mentre cantano vediamo come si ricordano da giovani, ancora immersi nello yiddish-non-ancora-yinglish. Quindi si passa allo spettacolo vero e proprio, sul piccolo palcoscenico di una sala che contiene un centinaio di persone. Il noto presentatore radiofonico, introduce la prima artista, la cantante Mary La Roche, che canta, in inglese, Il mio errore, celebrazione mondana e malinconica di un amore finito male. Per risollevare gli umori ecco arrivare Julius Adler, nei panni di un sempliciotto balbuziente in cerca di una donna (al tempo, e dunque anche in tutte le scene seguenti, una donna voleva dire una moglie, un uomo un marito). Eccola, la donna, è la comica Henrietta Jacobson (sua moglie nella vita), il cui personaggio parla un buffo e pretenzioso inglese, è spiazzata dalle profferte del giovinotto, del quale cerca invano di correggere i difetti di pronuncia, tra cui spicca un simpatico «Ca-ca», e alla fine si rassegna a sposarlo in un duetto danzato nel quale il «Ca-ca» diventa il simbolo della loro unione.
25Segue il tenore jewish-american Jan Bart, che canta una romanza accompagnandosi al pianoforte. Come avverrà per le proposte di altri brani d’opera, abbiamo a che fare qui con cantanti leggeri, da operetta al più, che infiorettano le melodie originali secondo il gusto del varietà. Nella logica dell’alternanza, dopo di lui è la volta del comico imitatore Cookie Bowers, il quale presenta una gustosa galleria di personaggi ai quali si sarebbe rivolto per chiedere come arrivare fino lì: sono figure del melting pot americano, ognuno con il proprio inglese strampalato eppure disinvolto, tutti fieri di mostrarsi indigeni (anche se si capisce assai poco di ciò che dicono). Dopo Bowers entrano in scena Irving Grossman e Dina Goldberg, altra coppia comica di single disperati in cerca di coniugi, altri giocolieri dello yinglish che si uniscono infine in una canzone durante la quale lui dimostra di essere anche un abile ventriloquo. Ora tocca a Mike Hammer, attore-cantante minuto e con un grande naso, in kapote, che canta in inglese la famosa Ciribim, ciribom.
26La platea di nonni inquadrata tra un’esibizione e l’altra applaude sempre con calore, sembra che anche loro vogliano mostrare qualcosa, forse che sono stati giovani, che si sono divertiti e comunque sono riusciti a invecchiare. La diversità delle proposte spettacolari, tutte approvate incondizionatamente dagli spettatori, riflette forse la disparità dei vissuti che ha caratterizzato i loro cinquant’anni precedenti, con due guerre mondiali e tutto il resto. Fatto sta che anche la romanza seguente, la famosa «Sempre libera sarò» dalla Traviata, eseguita con tremoli e sovracuti da un virtuosa del varietà, del tutto priva di sfumature drammatiche, è accolta con calore.
27Quella che segue ora è una vera e propria scena di varietà. Un cartello annuncia le due caratteriste Dina Goldberg e Henrietta Jacobson in La galiziana e la lituana, un divertente battibecco in cucina tra due personaggi che parlano uno yiddish molto diverso l’una dall’altra, ognuna rivendicando la superiorità del proprio, arricchendo la disputa con riferimenti ai differenti piatti e modi di cucinare. Una scena davvero interessante sia per i contenuti che per il tipo di teatro che documenta, ma appunto godibile appieno soltanto per gli anziani di allora. A loro subentra un’altra coppia femminile, le Feder Sisters, più giovani, romantiche ed eleganti, figlie del tempo, che infatti cantano in yinglish con le pose artificiose su cui il teatro yiddish aveva sempre ironizzato. La medesima atmosfera è riproposta da Bobby Colt, cantante romantico, in inglese, che invoca le gioie della famiglia anche per sé, concludendo con una invocazione: «Cristina, mi vuoi sposare, per favore?». Lincongrua (per noi) modernizzazione continua con la cantante Bas Sheva, che inizia con un canto religioso in ebraico e finisce con il Ridi, pagliaccio! di Leoncavallo.
28Dopo di lei ecco l’autentico gioiello teatrale che Catskill Honeymoon ha il merito di aver conservato. È una scena di sette minuti intitolata Dieci centesimi per un bagel che ricorda a ognuno di noi, e specie ai più anziani, quanto di meglio abbiamo visto nella nostra vita. Tre i protagonisti: Max Bozyk è uno scontroso barista alle prese con una coppia di clienti rompiscatole, interpretati da Julius Adler e Henrietta Jacobson. La disputa è innescata dal cliente che dapprima chiede un po’ di zucchero per l’insalata (e gli risponde un Bozyk piccato che lo zucchero è riservato al caffè) e poi si lamenta del prezzo richiesto per un bagel, perché lui è abituato ad averne due per dieci centesimi. A fronte delle fantasiose spiegazioni del barista, il cliente dà inizio a un tormentone affermando che «È una questione di principio!». Per la questione di principio il barista butta dalla finestra i bagel piuttosto che darglieli, il cliente butta via i soldi ( «You don’t care for money?»), la cliente le proprie scarpe e così via in un crescendo (alla Totò, diremmo noi italiani) che porta alla distruzione di tutto. La scenetta si conclude con un breve monologo “filosofico” di Bozyk, sempre divertente e commovente insieme.
29Ci stiamo avviando verso la fine. Dopo una canzone romantica con inserto di lamento religioso, in yiddish, e finale ironico, eseguita da un cantante enorme, il presentatore annuncia il «nostro tributo alla Palestina», il canto Mazel tov a yidn in yinglish, concluso con un «I’m going home!». La casa è il nuovo stato d’Israele appena fondato, al quale ci si riferisce anche chiamandolo Palestina. Sul fondale è cucita una Stella di Davide e campeggiano le bandiere incrociate di Stati Uniti e Israele, la sala è inquadrata in un campo lungo e l’insieme degli interpreti cantano una Song of freedom che ribadisce nelle due lingue: «Mai più rifugiati, ora abbiamo una casa!».
30Nel complesso Catskill Honeymoon è un vaudeville da supermercato, o «in scatola», come lo definisce J. Hoberman. Con tali caratteristiche, che oggi lo rendono irrimediabilmente desueto, il film ebbe un notevole successo per un trentennio, ossia per un tempo in cui diminuivano drasticamente i parlanti yiddish, oltre a essere sempre più incanutiti. Come s’è detto, negli anni Settanta il film era ancora un must nelle case di riposo. Lo stesso Young’s Gap Hotel era stato chiuso nel 1967. Comunque sia, coloro che oggi vedono questo film comprendono da dove provengano comedians come Danny Kaye, Mel Brooks, Sid Caesar e Jerry Lewis, per limitarsi ad alcuni dei nomi più noti della generazione successiva.
31Monticello, Here We Come (Monticello, stiamo arrivando; distribuito in seguito anche con il titolo Borsht Belt Follies) è un altro, e simile, tributo nostalgico realizzato nello stesso torno di tempo da Joseph Seiden, molto attivo in questa missione di recupero e conservazione.12 Monticello è un’altra località turistica nello stato di New York nella quale si riuniscono un certo numero di anziani e meno anziani attori yiddish (chissà perché Molly Picon non è con loro) per proporre una copiosa antologia di sketch e canzoni tratti da spettacoli teatrali, televisivi e cinematografici degli anni Trenta e Quaranta, della Second Avenue, di Broadway e di Hollywood.
32Tra i film (ormai in inglese) che nel dopoguerra riprendono il “sentimento del mondo” yiddish ripensandolo nella nuova epoca storica, uno dei più significativi è senz’altro Singing in the Dark (Cantando nel buio) di Max Nosseck.13 Il protagonista Leo è interpretato dal cantore-cantante Moishe Oysher. Leo è un sopravvissuto (ma allora si diceva “rifugiato”). Dopo gli anni trascorsi in un campo di concentramento tedesco soffre di amnesia traumatica, ha trovato lavoro negli Stati Uniti come portiere di un albergo accanto al quale vi è un night club in cui si esibisce il comico Joey Napoleon (l’attore Joey Adams, anche coproduttore del film), con il quale ha stretto amicizia. Una sera, nel Luli’s Gypsy Paradise, Leo prende improvvisamente a cantare e in un breve volgere di tempo diventa un beniamino del locale. Riesce però a cantare soltanto se ha bevuto o è sotto l’effetto di sostanze, da cui la decisione di ricorrere all’aiuto di uno psichiatra. Il film mostra l’emergere di frammenti di memoria nella mente di colui che è diventato in poco tempo “Leo the Fabulous” (vediamo Oysher, ad esempio, nei panni del proprio padre, cantore di sinagoga), ma un nuovo trauma decisivo si verifica quando si trova a confronto con alcuni criminali che ce l’hanno con Napoleon. Gli torna la memoria e lo vediamo cantare tra le rovine della sinagoga Levetzow di Berlino.14
33Film indipendente, importante e poco conosciuto, definito da alcuni critici americani un esempio di «high Holocaust kitsch», Singing in the Dark ha comunque molti meriti, dovuti anche all’accurata regia e alla fotografia di Kaufman (premio Oscar per Fronte del porto). Molto efficace è il ricorso agli stilemi narrativi in voga nel cinema americano degli anni Cinquanta, con l’occhio rivolto al musical, al genere gangster e ai mystery movie, senza dimenticare di evocare il potere della recente e sempre più popolare psichiatria (in questo senso vi è un evidente debito drammaturgico nei confronti di Spellbound, del 1945, sceneggiato da Ben Hecht, diretto da Alfred Hitchcock e interpretato da Michael Čechov, Ingrid Berman e Gregory Peck). Tutti i momenti topici della narrazione si concretizzano nelle canzoni yiddish ed ebraiche (liturgiche), eseguite in inglese.
34Passiamo ora in rassegna alcuni documentari che hanno anche il merito di proporre frammenti filmici rari altrimenti inaccessibili al pubblico normale. Il primo di essi, realizzato nel lontano 1968, è The Golden Age of 2nd Avenue,15 autore Morton Silverstein, con l’attore Herschel Bernardi in funzione di narratore.
35Tema è il cinema yiddish americano, ovviamente considerato sullo sfondo del teatro coevo, di cui ci occupiamo soprattutto nei volumi primo, terzo e quarto di questa serie. È molto interessante confrontare con esso le impressioni ricevute dalla lettura e viceversa. Bisogna anche tenere conto del carattere pionieristico del documentario, realizzato quando i film in questione erano di difficile reperibilità, disseminati in vari archivi e si era ancora lontani dalle operazioni di restauro.
36Dopo l’inquadratura di un vecchio piroscafo che approda a New York passando accanto alla Statua della Libertà, vediamo Herschel Bernardi camminare nella Second Avenue. Lattore ci mostra e racconta cosa è diventata l’arteria del Lower East Side, mentre la regia contrappunta le sue parole con filmati d’epoca. Poi Bernardi entra nello Anderson Theatre, tra le poche sale sopravvissute a quell’altezza di tempo, e comincia con il raccontare cos’era il mondo yiddish newyorchese, a cominciare da Ellis Island, la dogana per la quale passarono milioni di immigrati di diversi paesi. Sempre sorridendo, Bernardi spiega che la vita nella tanto agognata Golden America era in realtà molto dura e che questo determinò il successo popolare del teatro yiddish, un teatro che permetteva di sognare e di discutere sulla dura realtà, di divertirsi e di immaginare una vita diversa. Sono evocati tutti i grandi nomi della scena yiddish, con un accento benevolo sulle punte qualitative più alte (Jacob Gordin fra tutti per la drammaturgia) e soprattutto sui divi più amati (anche in questo caso privilegiando i più autorevoli e lasciando in secondo piano i campioni dello shund e del teatro leggero come Boris Thomashefsky e Molly Picon).
37Nel 1968 erano assai pochi i materiali filmici accessibili e per rimediare l’autore compie una diversione che costituisce il principale motivo d’interesse di quest’opera. Ci mostra infatti una deliziosa Molly Picon anziana, che si esibisce con grazia e una buona dose di autoironia nella propria casa per alcuni amici, e intervista l’altrettanto anziana Celia Adler che rievoca trepidante la vita di quegli attori in scena e tra le quinte, i dialoghi con gli spettatori, la costante paura dell’insuccesso (che avrebbe messo in discussione la sopravvivenza delle famiglie) e le esplosioni emotive di felicità di fronte alle platee piene, rumorose, appassionate. Nel salotto di Celia appaiono anche Jacob Ben-Ami, l’attore-intellettuale, e per un attimo nientemeno che Israel Joshua Singer. Ciò perché il documentario privilegia, appunto, gli aspetti più culturalmente rilevanti del fenomeno, soffermandosi in particolare sulla seconda Età dell’oro e attori come Paul Muni e Maurice Schwartz, senza dimenticare l’esperienza di Bernardi attore ragazzino diretto da Ulmer in Der zingendiker shmid.
38Non potevano esimersi, gli autori, di affrontare il tema del declino coevo del teatro yiddish, declino inevitabile per la scomparsa dei parlanti e al quale è opposta la speranza poetica formulata – occorre dirlo – con un certo impaccio da Singer, il quale afferma che «il teatro yiddish è sempre stato malato, per novant’anni, e spero che continui a esserlo per altri duecento». Venendo al presente, Bernardi accenna alla Folksbine, coraggioso teatro yiddish stabile e semiprofessionale che ha fatto il possibile, dapprima dinanzi a platee di un pubblico sempre più anziano e poi passando a recitare in inglese. Questo passaggio era ed è la piaga ancora aperta, causa delle reazioni più disparate. Lo stesso Singer avrebbe commentato con disgusto il Fiddler on the Roof di Broadway, destinato a un successo globale per decenni, giudicandolo una pallida e malriuscita imitazione della Second Avenue. Almonds & Raisins,16 ovvero “mandorle e uva”, cibi della festa, sono evocati in questo vecchio documentario che, come il precedente, è stato realizzato quando i film yiddish erano di difficile reperibilità e non ancora restaurati, ma merita di essere visto, non fosse che per l’emozionante presenza in voce di Orson Welles come narratore. L’attore, probabilmente qui alla sua ultima prova professionale, affrontata per interesse e non certo per denaro, ripercorre alcune tappe del teatro e del cinema yiddish, intrecciando le due storie. Nel documentario possiamo vedere Herschel Bernardi, Leo Fuchs, Joseph Green, Miriam Kressyn, David Opatoshu, Seymour Rechzeit, Zvee Scooler e brevi sequenze da Dem khazns zundl (Il figlio del cantore) e Der vilner shot khazn (Il cantore di Vilnius), Yidl mitn fidl (Yidl con il violino) e Tevye der milkhiker (Tevye il lattivendolo). Tutto ciò quando si era ancora lontani dal revival che avrebbe preso avvio nel 1991 con Bridge of Light.
39Nel 1988 l’autore e regista Yossi Yurisky ha raccolto alcuni frammenti di un documentario sovietico sul Re Lear del Goset e ha girato alcune sequenze a Mosca, quindi ha portato il tutto a Tel Aviv e li ha mostrati su una tv a colori del tempo, a Natalia e Nina Vovsi Michoels e ad Ala Zuskin Perelman, che li vedevano per la prima volta. Il documentario, intitolato The King and the Fool17 in quanto incentrato sulla coppia artistica Michoels-Zuskin, è narrato e sottotitolato in inglese.
40Il lettore può immaginare l’intensità dell’attenzione di queste tre donne, che hanno condiviso con i genitori le tragiche vicende degli anni Trenta e Quaranta, seguite dall’emigrazione e da una nuova vita in Israele. Le prime immagini che scorrono sullo schermo televisivo del modesto salotto di Natalia sono quello del Museo Nazionale del Teatro A. A. Bachrušin di Mosca, dove erano depositati i documenti sequestrati ad alcuni grandi artisti “epurati” dal regime (tra essi Aleksander Tairov, Vsevolod Mejerchol’d e il Teatro Habima). Ala e Natalia ricordano come, nel gennaio del 1953, fossero avvisate che al Bachrušin c’era stato un incendio ordinato dall’alto e diretto a distruggere quegli archivi. Soltanto tra il 1959 e il 1960 poterono accedere al luogo e riuscirono a recuperare tra i resti alcuni documenti del Goset e fotografie dei due attori, che mostrano.18 Dopo di ciò, le donne guardano i pochi minuti esistenti di riprese del Re Lear aggiungendo informazioni e commenti preziosi (tra l’altro riguardanti Eda Berkovskaja, moglie di Zuskin e interprete di Cordelia).
41Più avanti vediamo Ethel Kovenskaja e Israel Rubinčik. Erano arrivati come allievi attori nel 1940 e da allora sino alla fine rimasero al Goset, sempre guidati da Veniamin Zuskin (un loro compagno di corso era Israel Becker). Poi erano emigrati ed erano diventati attori israeliani; recitando in ebraico, avevano contribuito a innestare nel nuovo teatro nazionale lo spirito yiddish. Rievocano alcuni episodi molto gustosi. In particolare Kovenskaja ricorda come si ritrovasse a essere quasi subito protagonista di uno spettacolo, La sposa capricciosa, e, in preda al nervosismo, non riuscisse a eseguire un movimento quasi di danza. Zuskin risolse la situazione sussurrandole: «Nem arum de guntze welt» (Abbraccia il mondo intero), e l’attrice riuscì a prodursi in una seducente e quasi acrobatica piroetta.
42Avviandosi alla fine, il documentario mostra una breve sequenza carica di silenzio e di poesia. Natalia apre il cassetto di un armadio nel corridoio e ne estrae tutto quanto le resta del padre: un accendino, il nastro di un diadema teatrale, una striscia di seta con alcune parole in ebraico (altri oggetti come l’orologio e gli occhiali che Michoels indossava quando lo hanno assassinato sono conservati all’Archivio Teatrale Goor). Ma il finale con il quale si congedano gli spettatori è quello di una festa che si tiene nel piccolo soggiorno, stipato di anziani amici che, insieme alle tre orfane dei grandi attori, sommessamente brindano: l’chaim!, alla vita, nonostante tutto.
43People’s Gala Concert, del 1991,19 è un film del regista russo Semyon Aranovič,20 autore anche di altre opere molto interessanti, sempre molto discusse, realizzate con i materiali inediti o inaccessibili che man mano si rendevano disponibili nell’ex impero comunista alla vigilia della dissoluzione. People’s Gala Concert è il suo ultimo lavoro e racconta in circa due ore e mezza come la paranoia e l’antisemitismo del dittatore sovietico si siano concretizzati alla fine degli anni Quaranta nel caso del «complotto dei camici bianchi» e nell’assassinio di Solomon Michoels. Le figure storiche sulle quali si concentra maggiormente sono quelle degli attori Dimitri Sukhanov, Solomon Michoels e Veniamin Zuskin, oltre a quella dell’attore-cantante afroamericano Paul Robeson. Quest’ultimo, assegnatario di un Premio Stalin che non fu in grado di ritirare perché le autorità americane gli ritirarono il passaporto, era in predicato per essere il protagonista di un Napoleone nero, film che sarebbe stato scritto e diretto da Sergej Ejzenštein.
44Ciò che caratterizza lo stile di Aranovič, in effetti la sua poetica, è un’indagine sul male che cerca di comprenderne gli autori non meno delle vittime. La sua capacità di scovare materiali d’archivio che con il crollo sovietico si tendeva a fare scomparire e di intervistare gli ex persecutori, inducendoli a dispiegare tutta la propria soggettività, non di rado il loro candore, lo portava ad allestire veri e propri monumenti al male (ovviamente tutt’altro che celebrativi, ma nondimeno equivocati). Nel nostro caso tale effetto è raggiunto mostrando l’aspetto più spettacolare e festoso del regime giustapponendovi le tracce dell’orrore, come la prigione della Lubianka, con le sue celle e il cortile delle esecuzioni. Passando dai vecchi filmati in bianco e nero alle riprese a colori più solenni e moderne, Aranovič riesce a fare comprendere allo spettatore che sta parlando di un passato-presente ancora inquietante e minaccioso. Sul caso Michoels, le modalità del cui assassinio non sono mai state perfettamente chiarite, il regista fa parlare diverse fonti e, anche se non arriva a risolvere il caso criminale, ci fa comprendere l’essenziale, ovvero l’intreccio diabolico tra fede ideologica, volontà di potenza, istinto di sopraffazione di coloro che si sospettano nemici; a fronte di ciò, può soltanto accennare all’impotenza dei perseguitati, oltretutto resi ipersensibili dal proprio essere poeti e artisti.
45The Yiddish Cinema è un documentario di Moshe Waldocks realizzato in occasione della grande mostra americana del 1991 e del relativo catalogo Bridge of Light di J. Hoberman.21 In questa occasione il narratore è il noto drammaturgo e sceneggiatore David Mamet e la sua presenza, assieme a quella di Orson Welles (in Almonds & Raisins) e di Tony Kushner (per Wandering Stars e Dibbuk), testimonia di una linea di attenzione nei confronti del teatro e del cinema yiddish che va ben al di là della pura e semplice informazione storica. Il loro interessamento, come quello di altri che si potrebbero citare, è rivolto a una radice culturale non secondaria del Novecento la cui conoscenza può essere di grande aiuto, come già è stato per loro, esponenti di diverse generazioni e poetiche, nell’elaborare una drammaturgia teatrale e cinematografica del presente. Molto significativo è il fatto che questa drammaturgia guardi prima agli attori e alle tecniche di rappresentazione che ai testi, confermando che è soprattutto l’efficace montaggio delle emozioni e il gioco di specchi tra biografia e sintesi artistica a costituire la ricchezza di questa breve civiltà teatrale e cinematografica. Tutti quanti, come si è visto e si vedrà, non si esimono certo dall’evidenziare quali siano i motivi del declino di questa civiltà rappresentativa, perché comprenderli è essenziale per riprenderne oggi i motivi ancora validi, assai poco presenti nei copioni e nelle sceneggiature. Ciò si ricollega al senso generale di quanto si propone con i volumi di questa serie, che comunque non ignorano l’aspetto testuale.
46La sigla di tutti i dvd proposti dal National Center For Jewish Film, molto bella, si apre con Molly Picon nei panni del “piccolo ebreo con il violino” su un carro di fieno che percorre la campagna polacca. Molly e il proprio anziano padre (l’attore Simche Fostel) cantano la gioia di un mondo scomparso (quello del film) e che sta per scomparire (quello del film). Dopo di ciò, David Mamet inizia con il ricordare che lo yiddish, la lingua di dieci milioni di persone all’inizio del Novecento, era espressione di una cultura ricca anche di espressioni teatrali e musicali. Con l’emigrazione divenne una lingua globale, forse la prima, adattandosi ai vari contesti nazionali. Una costante di questo adattamento è lo stretto intreccio, avvertibile in molti modi di dire, di sofferenza e desiderio di serenità, se non di felicità, di serietà e ironia. Per mostrare tutto ciò, niente di meglio che alcune sequenze di film che mostrano famiglie riunite nel canto attorno alla tavola di Shabbat.
47Sempre alternando l’informazione storico-culturale sugli eventi e gli autori più importanti con frammenti di film, la narrazione procede privilegiando gli esempi più alti di quella cultura, anche con riferimento alle sue diverse “capitali” come Vilnius, Varsavia, Odessa, Mosca ecc., e naturalmente ai suoi attori. Natalia, la figlia di Solomon Michoels, ricorda, parlando in russo, come il film Yidishe glikn sia un documento dei risultati più alti raggiunti dal teatro yiddish sovietico e cosa significava «ridere attraverso le lacrime», ad esempio con il luftmentsch interpretato dal padre oppure nella sequenza delle spose caricate sulla nave che le porterà in America (una sorta di contrappasso rispetto all’equipaggio della Potëmkin di Ejzenštejn). Quindi Mamet ripercorre la vicenda di quel teatro fino all’epilogo tragico voluto da Stalin dopo l’istituzione del nuovo stato di Israele, con l’assassinio di Michoels e l’arresto di Molotov per avere presenziato al funerale di Michoels (il più partecipato in Urss dopo quello di Lenin) e la liquidazione del Goset.
48Altro paese chiave è la Polonia, con il suo teatro yiddish filmato dalla platea all’inizio del secolo e fino a Dibbuk e gli altri grandi film, tutti interrogativi del progetto divino, come ogni tanto emerge anche nelle parole ( «Chi ha creato Satana? Dio», afferma Khonen nel Dibbuk, e il venditore ambulante di libri in Di klyatshe chiede all’Onnipotente perché assista tacendo agli orrori umani).
49Tra i registi, Joseph Green, qui intervistato, ha un ruolo di rilievo: parla del proprio sogno di un «cinema yiddish per il mondo» e racconta di avere girato nella Polonia degli anni Trenta perché lì c’era ancora tutto, «tradizione, musica, canto e humour», bastava puntare la macchina da presa nelle piazze dei villaggi. Il montaggio molto sapiente del documentario mostra diversi eccellenti esempi di tutto ciò, anche se poi deve cedere il passo all’evento finale della guerra e della Shoah. Green racconta del clima di paura alla fine degli anni Trenta, riflesso sul volto di Lucy Gehrman in A brivele der mamen (1939), e della propria rassegnazione a non fare più film – dice – quando «sei milioni dei miei migliori clienti» erano morti.
50Forse un limite di The Yiddish Cinema è quello di non puntualizzare la vicenda dello shund e di trascurare criticamente figure minori di realizzatori come Goldin e Seiden (mentre Ulmer ha una menzione particolare). Le conclusioni sono affidate a due anziani sopravvissuti come Leo Fuchs e David Opatoshu. Il primo racconta come il cinema gli abbia dato la gioia di mettersi alla prova in un ruolo apparentemente brillante ma in realtà drammatico (il sensale eccentrico di Americaner shadchen), mentre il secondo lancia l’appello che il teatro americano di questi anni sembra raccogliere, ovvero quello di tradurre e mettere in scena in inglese i testi migliori. Ciò è avvenuto finora, a dire il vero, senza risultati persuasivi, forse perché non si è realizzata un’altra delle condizioni proposte da Opatoshu, ovvero che questi nuovi allestimenti fossero realizzati da grandi registi con grandi attori. A noi resta la straordinaria opportunità offerta dal National Center for Jewish Film: l’imponente opera di restauro che ha realizzato con un impegno pluridecennale consente agli appassionati e agli studiosi di oggi e di domani di conoscere nel merito il fenomeno unico del teatro e del cinema yiddish.
51The Thomashefkkys22 è un grande progetto multimediale ideato e realizzato tra il 1998 e il 2012 da Michael Tilson Thomas, direttore della New World Symphony, America’s Orchestral Academy di Miami Beach, nonché nipote di Boris e Bessie Thomashefsky.23 Per rendere omaggio ai propri nonni, Tilson Thomas non poteva prescindere dalla propria estetica teatrale e dunque tutto l’attento lavoro sulle partiture e i copioni dei due divi dello shund è tradotto in uno stile da operetta o teatro lirico moderno, di cui i quattro cantanti Judy Blazer, Shuler Hensley, Eugene Brancoveanu e Ronit Wildman-Levy sono eccellenti rappresentanti. Lo spettacolo è però lontanissimo dal restituire il senso di quel teatro perennemente «moribondo» – come diceva I. J. Singer – eppure così vitale e imprevedibile e si propone come un racconto-recital per destinatari borghesi di oggi che nulla sanno degli originali. Ma è riscattato in parte dallo stesso Tilson Thomas, che intreccia, qui, il ruolo di direttore d’orchestra con quello di narratore. Eccolo dunque divertirsi a ricordare le biografie dei famosi e controversi nonni, creativi proletari ebrei diventati divinità della scena. Agli aneddoti seguono molte canzoni e monologhi, ad esempio Khantshe in Amerike di Rumshinsky, la canzone Babklelekh dalla Strega di Goldfaden o un monologo della protagonista di Minke di distmoyd, sempre eseguiti con il supporto dell’orchestra sinfonica. L’impressione generale è quella di rievocare nel salone di una enorme nave da crociera di oggi la traversata della vita che i nonni avevano fatto su un bastimento con quattro classi, pieno di odori, di suoni, di colori, di bambini e di anziani: moltitudini di speranze. Lo spettacolo, in definitiva, è rivolto a celebrare l’avvenuta assimilazione, ma consente comunque, a chi sappia guardare, di comprendere qualcosa di più circa le radici del teatro (musicale) moderno, americano e non solo.
52Nei vari cataloghi qui citati e in rete, nei siti più o meno dedicati, si possono trovare vari altri film o documenti riferibili direttamente o indirettamente al teatro yiddish. Sono ricerche e scoperte che hanno senso in percorsi di conoscenza e di studio particolari. Qui ci limiteremo, per concludere, con il consiglio di consultare per ogni curiosità innanzitutto il catalogo del National Center for Jewish Film, nel quale si trovano, ad esempio, alcuni brevi filmati che qui non si sono esplicitamente citati, come Cohen on the Telephone, un corto del 1929 di Robert Ross nel quale George Sidney si produce in un numero da vaudeville consistente nella telefonata al padrone di casa per chiedergli di riparare una finestra, ma in un assai maldestro inglese causa di una serie di equivoci comici; oppure l’altro gustoso corto, del 1968, The Cowboy, che volge in yiddish un Western del 1932 (Son of Oklahoma).
Notes de bas de page
1 Salvo che per le componenti più tradizionalistiche (designate complessivamente come haredim), per lo più di matrice chassidica e comunque non interessate al teatro e al cinema.
2 Nous continuons (Noi continuiamo, oppure We Live Again / Noi siamo ancora vivi). Autori: M. Nahelfer, O. Fessler, Na. Hamza, I. Holodenko, J. Weinfeld. Fotografia: Agai Defassiaux. Produzione: Central Committee for Child Welfare of the Union of Jews for Resistance and Mutual Aid, Francia 1946. Durata: 53’. Copia restaurata del National Center for Jewish Film.
3 Mir leben geblibene (Noi sopravvissuti). Regia: Natan Gross. Sceneggiatura: Ephraim Kaganowski. Fotografia: Adolf Forbert, Władysław Forbert. Musica: Saul Berezowski. Scene e costumi: Nathan Rapoport. Narratore: Jacob Rotboym. Produzione: Spółdzielnia Kinor, Polonia 1947. Durata 50’.
4 Cfr. Museum of Family History, ad vocem. Michał Michalesko era nato nel 1888 in un villaggio dell’Ucraina. All’età di dodici anni era già Giuseppe nella drammatizzazione della vicenda biblica. Poi recitò in Romeo e Giulietta con un successo la cui eco giunse alle orecchie di un produttore che gestiva diverse compagnie sparse per l’Europa e lo mise subito sotto contratto, inviandolo in tournée in alcune grandi città russe dove il giovane attore si guadagnò una fama indiscussa. Nel 1912 recitava da coprotagonista nel teatro dei Kaminski a Varsavia e subito dopo fu nell’Anima del mio popolo di Boris Thomashefsky. In seguito, eccolo scritturato al Grossen Theater di Zandberg in numerose operette non solo yiddish. Nel 1916 fu nuovo a Varsavia e nel teatro dei Kaminski diresse La bella Bertha di Waxman e Adler, primo di una serie di grandi spettacoli di livello europeo. Si specializzò nel tradurre e allestire in yiddish alcune grandi opere del repertorio europeo, ottenendo un grande successo che gli procurò l’invito da parte di alcuni importanti teatri polacchi, inviti declinati per continuare nella propria specialità. Nel 1920 arrivò in America per lavorare con Boris Thomashefsky, con il quale debuttò al National. Negli anni seguenti recitò nei più importanti teatri americani ed effettuò tournée anche in Francia, Gran Bretagna e Sudamerica. Tra le sue interpretazioni memorabili le cronache e le storie segnalano proprio quella di Hershele Dubrovner. Tra le sue messinscene americane, invece, la più importante fu la famosa Shma Yisro’el di Joseph Rumshinsky (cfr. Milken Archive of Jewish Music, ad vocem). Nel 1952 Michalesko guidò per breve tempo una propria compagnia che recitava allo Willshire-Evell Theatre di Los Angeles. E morì nel 1957 mentre era in tournée con Molly Picon con Farblondjete Honeymoon (Matrimonio misto). I film yiddish a cui prese parte sono, oltre a Got, mentsch un tayvl, Di kraft fun leben (La potenza della vita), nel 1938, e, sempre nel 1950, Catskill Honeymoon e Monticello, Here We Come (dei quali si dice più avanti).
5 Bertha Gersten era una donna alta, dall’apparenza elegante e dalla voce suadente. Era nata a Cracovia nel 1896 da Avrom e Meshe (Kopps) Gerstenman. La sua era una famiglia di ebrei ortodossi e il padre insegnava in una yeshiva. Nel 1899 la famiglia emigrò a New York, dove la madre divenne costumista e il padre traduttore per il tribunale. Prima di debuttare in teatro come Shloimele in Mirele Efros, nel 1908, Gersten aveva lavorato, dalla fine delle scuole elementari, come operaia ed era andata in scena perché qualcuno si era rivolto alla madre per trovare un bambino da inserire in uno spettacolo. Nel 1911 sposò Isaac Hershel Finkel, figlio di Morris e Annetta Finkel, da cui ebbe nel 1912 un figlio, Albert. Come professionista della scena dapprima lavorò in diversi music hall e nel 1915 le toccò il ruolo da protagonista con Thomashefsky nella Speranza di Israele di Leon Kobrin. Schwartz riuscì a scritturarla nel 1918, agli inizi del Teatro d’Arte Yiddish, dove conobbe Jacob Ben-Ami, che fu poi per tutta la vita la sua guida e il suo migliore amico e con il quale convisse negli ultimi anni. Con Schwartz fece anche diverse tournée in America ed Europa fino allo scioglimento della compagnia nel 1950. Dopo quella data recitò anche in inglese, dapprima con Ben-Ami nel Mondo di Sholem Aleichem e poi a Broadway nel Pesco in fiore di Clifford Odets con Menasha Skulnik. La si vede in quattro film yiddish: dopo Yizkor del 1924-1933 è stata superba protagonista di Una letterina alla mamma nel 1938, Mirele Efros nel 1939 e Got, mentsch un tayvl del 1950. Poi ha interpretato la madre di Benny Goodman nel film The Benny Goodman Story del 1956. Apparve per l’ultima volta in scena con Ben-Ami in My Father’s Court nel 1971. Come si vede, per oltre cinquant’anni, è stata una presenza qualificata e costante nel teatro yiddish, interpretando ruoli molto diversi e incontrando sempre il favore del pubblico e della critica. Cfr. l’accurato profilo tracciato da Nina Warnke nel sito Jewish Women Archive, ad vocem.
6 Per le notizie su Lucy Gehrman e suo marito Misha Gehrman occorre sfogliare le varie opere sul cinema yiddish qui citate in quanto esse sono assai frammentarie e non vi è una sola fonte a cui fare riferimento.
7 Shifra Lerer era nata nel 1915 in Argentina, ma come attrice si stabilì a New York. Durante la sua lunghissima carriera recitò con diverse compagnie e in diversi film. Il padre, direttore di una fabbrica, era immigrato in Argentina dalla Russia, con l’aiuto del filantropo Maurice de Hirsch, per sfuggire alla miseria e all’antisemitismo. Quando Shifra fu scoperta come attrice da Boris Thomashefsky a Buenos Aires era ancora una bambina. A dieci anni di età cominciò a recitare nella compagnia amatoriale di Yakov Botashanski. Da adolescente frequentò una scuola di teatro di lingua spagnola e completò la formazione recitando per tre anni nei teatri argentini. Quindi fu accettata dal sindacato degli attori e fu scritturata per sostenere ruoli di primo piano con la nota attrice Miryam Karalova-Kambarov, poi con Moishe Oysher e Florence Weiss. Dopo di ciò fu chiamata da Zygmunt Turkow per Urteyl, Hirsh Lekert, Ivan Kruger e Di glokn-tsier fun Notr-dam (Il gobbo di Notre- Dame). Eccola in seguito con Jacob Ben-Ami e Bertha Kalich nel Professor Mamlock di Friedrich Wolf, Il padre di August Strindberg e Der poet is blind gevorn (Il poeta diventa cieco), con Samuel (Hymie) Goldenberg in Hayntige kinder (Bambini di oggi) di Harry Kalmanovitz e con Maurice Schwartz in Yoshe Kalb di Singer. Nel 1943, invitata da Samuel Goldberg, recitò al Parkway Theater di Brooklyn, il teatro di Hymie Jacobson e suo fratello Irving. Qui fu tra i protagonisti di Fun Niu York keyn Berlin (Da New York a Berlino), per poi passare a una serie di recital in luoghi come l’Arbeter Ring, il National Yiddish Workers Union e Camp Boyberik. Nel 1946 era di nuovo in Argentina per recitare con Ben-Zion Witler al Mitre Theater e poi in tournée. Sposò Witler nel 1957 (lui morì nel 1961). Nel 1949 girò il film nel quale la stiamo incontrando e nel 1952 fu con Herman Yablokoff in Onkl Sem in Yisroel (Lo Zio Sam in Israele) al Public Theater di New York, città nella quale continuò a lavorare fino alla morte, all’età di novant’anni.
8 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
9 Cfr., oltre a tutto ciò che se ne dice nei vari volumi della nostra serie, Museum of Family History, ad vocem.
10 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
11 Per entrambi cfr. il sito del Museum of Family History alle relative voci.
12 Cfr. anche il suo Singers of Israel (Cantanti di Israele) prodotto dalla Cinema Service Corporation, Usa 1950. Corto (10’) in cui si assiste all’esibizione del cantore Samuel Malavsky assieme alla propria famiglia-coro.
13 Singing in the Dark (Cantando nel buio). Regia: Max Nosseck. Sceneggiatura: Aben Kandel, Ann Hood, Stephen Kandel. Fotografia: Boris Kaufman. Direzione musicale: Abraham Ellstein. Liriche e musiche: Moishe Oysher. Attori: Moishe Oysher (Leo), Joey Adams (Joey Napoleon), Phyllis Hill (Ruth), Lawrence Tierney (Biff), Kay Medford (Luli), Mickey Knox (Harry), Dave Starr (Larry), Cindy Heller (Fran), Al Kelly (La Fontaine), Henry Sharpe (Dr. Neumann), Stan Hoffman (Stan), Paul Andor (rifugiato), Abe Simon (criminale). Usa, 1956. Durata: 86’. Versione restaurata del National Center for Jewish Film.
14 La sequenza fu girata da Kaufman tra le rovine della sinagoga Levetzow, semidistrutta durante la guerra. Costruita nel 1914, poteva accogliere duemila persone. Il giorno di Yom Kippur del 1941, la Gestapo la trasformò in punto di raccolta degli ebrei rastrellati. Da lì passarono, negli anni seguenti, quasi quarantamila deportati nei campi di sterminio.
15 The Golden Age of 2nd Avenue. Scritto e diretto da Morton Silverstein. Narratore: Herschel Bernardi. Commentatore della nuova edizione: Theodore Bikel. Fotografia Edmund Bert Gerard. Montaggio: Jonathan Bernstein. Ricerche: Esther Enzer. Musiche: Arthur Abrams. Documentario televisivo trasmesso nel 1969 e riedito nel 2009 in forma di dvd. Produzione: Arthur Cantor, The Indipendent Production Fund in associazione, per la nuova edizione, con lo Yivo e il Center for Jewish History. Durata: 60’. Visibile sul sito Vimeo, ad vocem.
16 Almonds & Raisins. Regia: Russ Karel. Scritto da Russ Karel e David Elstein da uno spunto di Wolf Mankowitz. Narratore: Orson Welles. Produzione: Brook Prod., Willowgold Prod. 1983. Durata: 90’. Reperibile sul sito Ergo Media.
17 The King and the Fool. Scritto e diretto da Yossi Turisky. Ricerche: Gila Cohen. Suono: Shimon Freiman. Mixage Eazi Gad’el. Fotografia: Ron Roten. Montaggio: Ido Baha. Produzione: Beit Hatfutsot. Narrazione e sottotitoli in inglese. Produzione: Beit Hatfutsot, Israele 1988. Durata :40’. Acquistabile sul sito di Beit Hatfutsot, Museo della Diaspora Nahum Goldman, Tel Aviv, e su quello di Ergo Media, Usa.
18 I reperti da loro recuperati sono oggi depositati presso il Museo e Archivio Teatrale Goor di Gerusalemme, mentre a Mosca ciò che l’incendio ha risparmiato si trova presso l’Archivio di Stato Russo di Letteratura e Arte (rgali) e la Casa dell’Attore di Mosca. Sulla vicenda dei documenti, considerata nel contesto della storia del Goset, cfr. il sesto volume di questa serie: Claudia D’Angelo, Re Lear. Storia di uno spettacolo yiddish sovietico.
19 Scritto da lui, anche regista, e Pavel Finn. Fotografia: Lev Kolganov, L. Krasnova, Sergej Sidorov. Musica: Aleksander Knaifel. Suono: Galina Gorbonosova. Durata: 143’.
20 Tra i notevoli documentari realizzati da Semyon Davidovič Aranovič (1934- 1995) si ricordano i seguenti, rintracciabili (ad esempio su Amazon) anche con sottotitoli in inglese: The Anna Akhmatova File (1989), I Worked for Stalin (1990) e I was Stalin’s Bodyguard (1990). Il suo ultimo film di fiction fu premiato al Festival di Berlino 1994 con l’Orso d’argento. Per la sua produzione complessiva si vd. Imdb, ad vocem.
21 The Yiddish Cinema è scritto da Moshe Waldocks, la regia è di Rich Pontius, il montaggio di Donnamarie Schmitt, narratore David Mamet. Produzione: German tv zdf Productions, Usa 1991. Durata: 60’. Il dvd è allegato alla seconda edizione (2010) del citato Bridge of Light. Pontius è anche autore di un altro film di montaggio, Great Cantors of the Golden Age, Great Cantors in Cinema (2006) che raccoglie oltre due ore di testimonianze audiovisive sulla tradizione cantoriale e la sua “applicazione” alla scena e allo schermo (si vd. il catalogo del National Center for Jewish Film).
22 The Thomashefkkys – Music and Memories of a Life in the Yiddish Theater. Scritto e diretto da Michael Tilson Thomas, con Patricia Birch (regia teatrale). Regia televisiva: Gary Halvorson. Interpreti: la New World Symphony, America’s Orchestral Academy, Michael Tilson Thomas, Judy Blazer, Shuler Hensley, Eugene Brancoveanu, Ronit Wildman-Levy. Montaggio: Gary Bradley. Audio: Tom Lazarus. Produttori: Joshua Robinson, Michael Bronson, Michael Kantor, Usa 2012. Durata: 77’ + 61’. In inglese e yiddish con sottotitoli in inglese. Reperibile sul sito: <www.thomashefsky.org>. Il progetto ha preso avvio nel 1998 e una lunga fase preliminare ha riguardato le ricerche d’archivio, che hanno portato ad accumulare, studiare e tradurre una messe di documenti (copioni, partiture, memorie, fotografie ecc.) oggi facilmente consultabili.
23 La prima della spettacolo teatrale diretto dalla veterana di Broadway Patricia Birch, nel 2005, è stata seguita nel tempo da una lunga tournée americana e infine dalla ripresa televisiva dello spettacolo.
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