4. 1936-1945: maturità estetica e aporie ideologiche
p. 150-231
Texte intégral
1Iskateli sčastja, ovvero Cercatori di felicità, nato come film russo, non yiddish, è da prendere in considerazione in quanto supremo messaggio sovietico sull’ebraismo affidato a un complesso di notevoli interpreti tra i quali spicca Veniamin Zuskin. L’attore del Goset, fratello artistico di Solomon Michoels, girò il film mentre recitava la parte del Fool nel Re Lear, facendo continuamente avanti e indietro in treno da Mosca a Leningrado e viceversa. Da qualche anno e specie dopo la proclamazione del «realismo socialista» come dogma estetico di regime, la vita del Goset si era fatta più difficoltosa, come d’altronde capitava a tutta la cultura e l’arte del paese. Come si è ripetutamente osservato, però, l’imperativo di presentare personaggi positivi di militanti comunisti che trionfavano contro i rappresentanti del vecchio mondo, un mondo di valori e tradizioni che il regime rappresentava in toto come un’oppressione che i diversi popoli dell’Unione Sovietica si erano lasciati alle spalle e che tuttavia in “Occidente” continuava a esistere, il cui fascino e la cui pericolosità dovevano essere esorcizzati per mezzo di un’adeguata educazione ideologica.
2L’Ottobre aveva concesso al popolo ebraico russo una libertà che questi non aveva mai conosciuto con gli zar, una libertà basata comunque sull’odio di classe, che implicava l’annientamento delle credenze e delle pratiche religiose assieme a quello delle classi sociali più alte. Le donne e gli uomini del teatro yiddish aderivano in maggioranza alle istanze dell’Ottobre, nel senso che cercavano di contribuire alla loro realizzazione, ma sin dall’inizio avevano avuto a che fare con le prevaricazioni di un regime che diventava di giorno in giorno sempre più autoritario, fino alla fuga del regista Alexei Granovskij, nel 1928, seguita da una sempre maggiore pressione economica e politica affinché il Goset realizzasse un repertorio strutturato secondo i canoni dell’ideologia ufficiale, e infine all’arresto e alla sparizione di alcuni dei suoi membri indocili. Di tutto ciò si dice nel quinto volume di questa serie, precisando come l’allestimento dei testi ideologicamente corretti comportasse un totale insuccesso di pubblico, salvo quando l’interpretazione del regista e degli attori umanizzava il racconto. Restituire ai personaggi una consistenza umana significava tuttavia vanificare la contrapposizione buoni-cattivi, funzionava con il pubblico ma irritava gli apparati, suscitandone pericolose reazioni. Nel volume di Claudia D’Angelo dedicato al Re Lear (uno dei testi shakespeariani da poco approvati dal regime) si descrivono i problemi che poteva sollevare negli anni Trenta persino la messinscena di un classico.
3La liquidazione delle avanguardie e l’imposizione del conformismo stalinista comportavano una messe di contraddizioni che ogni istituzione culturale e ogni autore dovevano metabolizzare, pena l’afasia, contraddizioni che l’osservatore di oggi ha difficoltà a comprendere. Ad esempio, come scrive Ala Zuskin nel libro di ricordi che è parte di questa serie (I viaggi di Veniamin Zuskin), il padre in quel momento sognava di interpretare la figura di Lenin. Invece fu chiamato a interpretare il protagonista di Iskateli sčastja, quel Pinia eroe negativo cui avrebbe conferito una sofferta umanità, come stiamo per vedere. A questo punto la sua somiglianza fisica con Lenin si manifestava nel personaggio sbagliato e ciò indusse addirittura la produzione a tagliare alcune scene in sede di montaggio.1
4Iskateli sčastja è un’opera di alta ingegneria politico-culturale staliniana. Nel 1932 il Politburo sovietico aveva deliberato circa la soluzione definitiva del problema ebraico designando la regione del Birobidžan, all’estremo est del paese, come luogo di residenza della “minoranza nazionale”. Qui gli ebrei avrebbero potuto sublimare il desiderio sionista di una patria nella quale vivere secondo le proprie tradizioni, beninteso sintonizzandole con il socialismo. Il titolo del film, inoltre, coniuga la questione centrale della rivoluzione (rovesciare l’ordine sociale oppressivo per ottenere subito la felicità e niente di meno, non votarsi al proprio sacrificio per assicurarla ai posteri) con la prevalente istanza yiddish e chassidica. Il Birobidžan doveva essere l’utopia realizzata o comunque un esperimento che si svolgeva in tale isolamento rispetto al resto del mondo, così da non prestarsi a una conoscenza reale che potesse suscitare obiezioni. Questo surrogato del sionismo costituito da una regione ai confini del mondo anziché dalla Terra d’Israele, fu la trovata perfida (pare suggerita dal medesimo funzionario ebreo-sovietico, tale Yuri Larin, inventore della “settimana di lavoro continuo”) che consentiva a Stalin di liberarsi di un problema senza nulla concedere. Il film Iskateli sčastja doveva dunque presentare questa soluzione in chiave epica, alimentando il mito del paradiso socialista che allora attirava in Unione Sovietica un certo numero di ebrei e di sinceri rivoluzionari provenienti da diversi paesi.
5Le figure che popolano questo film furono scelte con grande cura per comporre un catalogo esemplare di eroi proletari comunisti di diverse generazioni e provenienze, così da evidenziare come fosse la lotta di classe il vero terreno dell’azione politica, mentre le aspirazioni sioniste (vale a dire «nazionaliste» nel gergo sovietico) e le ambizioni individuali venivano incarnate nei personaggi negativi. Tra gli eroi di questo pantheon vi erano innanzitutto i giovani militanti, donne e uomini di grande bellezza proletaria, robusti lavoratori e teneri amanti, collocati su uno sfondo di figure che potessero rappresentare tutte le categorie sociali, come popolani sempliciotti e manipolabili ma fondamentalmente buoni, e russi appartenenti a diverse nazionalità, tutti rispettosi del melting pot proletario e tra cui i quali spiccava, come simbolo di tenerezza, l’anziana madre ebrea della famiglia migrante, interpretata da Mariya Blyumental-Tamarina, attrice dal fisico minuto e dall’anima sconfinata. Laccorta scelta degli interpreti è confermata dalla loro bravura nei rispettivi ruoli, in cui risultano tutti convincenti e commoventi.
6L’unico eroe negativo è Pinia-Zuskin ed è qui che l’arte (teatrale) produce il proprio inevitabile incidente: Pinia Kopman,2 il personaggio che avrebbe dovuto dimostrare la propria inferiorità culturale e deviazione ideologica per fungere da piedistallo su cui collocare le figure degli eroi positivi, emerge invece come un essere umano a tutto tondo. Anche la sua è un’utopia sciocca e nefasta, poiché fa coincidere la felicità con l’arricchimento – nel suo caso: la spasmodica ricerca dell’oro con il sogno di aprire una fabbrica di bretelle –, ma la sua umanità contraddittoria è molto più credibile degli improbabili schematismi ideologici che guidano gli altri personaggi, anch’essi comunque vittime della dittatura.3
7Il fatto che Michoels figuri come consulente artistico non è certo estraneo all’impostazione del personaggio di Pinia e al suo modo di recitare. Tutta la carriera dei due attori è contrassegnata dalla loro straordinaria capacità di trasferire nella mimica e nel canto l’apparato concettuale del copione, con ciò sottoponendo allo spettatore una testimonianza esistenziale che trascende il giudizio ideologico.
8Il film intendeva ribadire il messaggio univoco che la felicità poteva essere raggiunta soltanto attraverso il lavoro per la madrepatria sovietica, come fanno tutti i membri del kolkhoz Campi Rossi, con la benedizione dell’anziana Dvoira e l’esempio dei suoi figli, esempio di cui Pinia costituisce il controcanto. Quelle che Zuskin rivolse al tribunale che dopo averlo torturato stava per condannarlo alla fucilazione sono le parole di un attore con l’ingenua pretesa di difendersi affermando la verità dell’arte, intollerabile per qualsiasi stato tirannico:
L’immagine di Pinia nel film, così come mi era stata proposta all’inizio, non era completamente soddisfacente. Ho riflettuto su tutti gli aspetti del personaggio fino al più infimo dettaglio e all’ultima battuta, mi sono consultato con gli sceneggiatori e il regista, e sono arrivato alle riprese della prima scena avendo accuratamente definito il personaggio. Avevo pensato molto a come presentarmi e ho inventato il dialogo che inizia con la battuta «Mi dica, una nave come questa quanto potrebbe costare?». Secondo me questa domanda caratterizza Pinia come un uomo totalmente estraneo ai valori dello stato sovietico, nel quale essere un lavoratore fedele e produttivo è il primo requisito di un cittadino sincero. Il regista e gli sceneggiatori hanno accettato tutti i miei suggerimenti.
Ciò che Zuskin non precisa in quella sede, forse intuendone l’inutilità, è che il modo migliore per rappresentare la condizione umana consiste nel pronunciare le parole incastonandole nelle azioni del personaggio, del suo completo manifestarsi, dall’aspetto ai movimenti, dalle parole alla voce. Come tutti gli attori, Zuskin faceva molto più di ciò che diceva a parole, per questo il significato del suo fare si rivelava in tutta la propria intensità ai testimoni. Ala Zuskin: «Il comune denominatore tra il Fool [del Re Lear] e Pinia consiste nel fatto che entrambi dovrebbero fare ridere gli spettatori, ma sono dotati di un’altra dimensione e sollevano profonde riflessioni sulla crudeltà del mondo».
9Sulla crudeltà del mondo, ben al di là della schematica contrapposizione tra buoni e cattivi.
10E aggiunge: «Quando immagino il momento in cui mio padre ascolta la sentenza che lo condanna a morte, vedo in primo piano Pinia accanto all’ufficiale della polizia politica. Vedo Pinia, le sue spalle ricurve, il suo aspetto disperato. Sento il tono inimitabile con cui pronuncia l’ultima battuta nel film: “Non ci capisco niente!”».
Al khet (Il peccato), del 1936, è il primo film di fiction sonoro polacco. Non tratto da un copione teatrale, arrivò dopo otto anni senza opere cinematografiche yiddish. Si può dire che nacque come reazione solidale alla legislazione antiebraica nazista del 1935 che tra l’altro aveva costretto diversi artisti e intellettuali a lasciare la Germania. Accadde che il produttore Shaul Goskind incontrasse un gruppo di conoscenti ebrei che discutevano sul da farsi e fosse sollecitato a fare qualcosa, vincendo la paralizzante paura di suscitare con ciò reazioni antisemite. Del gruppo facevano parte il cineasta Aleksander Marten e l’attore Kurt Katch, ormai impossibilitati a lavorare nel paese del Terzo Reich. Shaul Goskind, forse il più giovane dei presenti, si consultò telefonicamente con il fratello Itzhik e tornò al tavolo offrendo la cena al gruppo, ma soprattutto annunciò, sollevando l’entusiasmo generale, che avrebbe prodotto un film con loro. Partendo dal presupposto di non fare il solito film tratto da un’opera teatrale, il lavoro cominciò subito: la sceneggiatura fu affidata a Jecheskiel Mosze Neuman, critico teatrale del quotidiano yiddish «Haynt», la regia ad Aleksander Marten,4 formatosi con Max Reinhardt, già attore di teatro a Vienna e attivo nell’industria cinematografica tedesca, le musiche a Henikh Kahn, compositore per il teatro proveniente da Berlino, scene e costumi sarebbero stati realizzati dal noto pittore Yankl Adler, cacciato dai nazisti dalla Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, mentre tra gli interpreti, oltre a Katch e agli altri, vi sarebbero stati Shimen Dzigan e Yisroel Schumacher, duo comico noto nei cabaret (kleynkunst theater) e al debutto sullo schermo. Shaul Goskind, oltre a possedere uno studio cinematografico, disponeva del solo registratore portatile esistente in Polonia ed era l’editore della rivista «Film Velt», con la quale conduceva una vivace campagna in favore di un cinema popolare d’arte. Significativo è anche il fatto che quasi tutti i polacchi coinvolti nel film provenissero da Łódź, negli anni Venti capitale dell’avanguardia artistica polacca.
11Il risultato fu un film girato comunque in un clima di emergenza e con scarsi mezzi, con evidenti difetti, come la bassa qualità del suono, ma diretto da un regista assai esperto nelle tecniche di ripresa e con una propria poetica. Tutti erano d’accordo di fare i conti con l’angoscia che opprimeva l’Europa in quel momento attraverso una storia ambientata nel presente, come si faceva in America, evitando il lacrimoso fatalismo dei film considerati tipicamente “polacchi”.
12Lantefatto, cioè l’inizio di Al khet si svolge durante Prima guerra mondiale, evento di fondazione dell’Europa moderna. Ester (Rokhl Holzer, attrice con Ida Kaminska) è una ragazza di campagna che resta incinta di un un funzionario ebreo tedesco. I due vorrebbero sposarsi, ma lui viene inviato al fronte e muore in battaglia. Il peccato del titolo è dunque quello commesso da Ester, che, ripudiata dal proprio padre (interpretato dal monumentale Avrom Morevsky), abbandona la bambina che ha appena partorito e lascia in fretta la città a causa dell’avanzata dei russi, poi fugge in America. I due personaggi interpretati da Dzigan e Shumacher salvano la piccola e la portano a Varsavia, lasciandola in un orfanotrofio. Vent’anni dopo, nel presente del film, quasi tutti vivono nello stesso quartiere della capitale. Lorfana Rachel (impersonata da Ruth Turkow, figlia di Ida Kaminska e Zygmunt Turkow) è stata adottata dal professore di musica Levin (Kurt Katch). Rachel fa amicizia con un anziano dello stesso palazzo, senza sapere che si tratta di suo nonno materno, e con un giovane violinista che si lamenta perché tutti seguono la moda del jazz. Un giorno arriva a Varsavia la madre Ester, una signora elegante e triste che cerca la propria figlia. Pur non essendo riconosciuta, Ester crea nel quartiere ebraico un certo scompiglio. I due comici, Dzigan e Shumacher, la aiutano a cercare in tutta la città la figlia perduta. Nel prosieguo della storia madre e figlia s’incontrano, senza sapere l’una dell’altra, e per un po’ ingaggiano persino una disputa erotica a causa del violinista di cui Ester si invaghisce e che vorrebbe portare con sé in America. Nel lungo finale di Al khet si assiste ai confronti decisivi tra padre adottivo e madre biologica, tra Ester e il proprio padre e infine alla riconciliazione tra madre e figlia. Sono scene di grande carica emotiva, recitate e girate con maestria, nelle quali i personaggi riescono, come in uno psicodramma, a perdonare e perdonarsi e, nella ritrovata unità, immaginare un futuro dignitoso insieme (dove, non è dato saperlo).
13Una volta approntate le copie da distribuire, non si trovavano sale disposte a programmarlo perché i gestori avevano paura dei teppisti antisemiti, sempre alla ricerca di pretesti per scatenarsi. E quando finalmente Goskind trovò una sala disponibile, le proiezioni furono possibili perché un plotone di cavalleria circondò il cinema a protezione di una moltitudine di spettatori che si precipitavano ad acquistare i biglietti. A New York, qualche mese dopo, invece, fu tutt’altro che un trionfo. Al khet, ora intitolato I Have Sinned, fu percepito come qualcosa che veniva da un mondo lontano, qull’Est plebeo, tutt’altro che intonato rispetto agli eventi storici, o almeno da come li si vedeva Oltreoceano. Soltanto la canzone Shpil mir a yidishe tango divenne un duraturo successo. D’altronde la Polonia di Al khet è la stessa di cui si parla in romanzi come Ricerca e perdizione o Keyla la rossa di Isaac B. Singer, destinati a essere compresi e apprezzati da un pubblico internazionale soltanto molti anni dopo. Nello stesso periodo uscì a New York il film documentario Mir kumen on, che suscitò un grande interesse a causa della sua evidente attualità e in quanto appello alla solidarietà ebraica.
14Come si è visto nel secondo capitolo e come conferma l’attenta lettura che ne fa Silvia Ferrannini più avanti in questo volume, Tkies kaf (Il voto o Il patto) è un documento cinematografico di straordinario valore per diversi motivi, anche per la doppia realizzazione del 1924 e del 1933 in versione accresciuta e sonora. Nella prima versione Zygmunt Turkow era il regista, Henryk Bojm lo sceneggiatore e Meyer Balaban il consulente storico. Il film sicuramente prende spunto dagli stessi racconti del folklore chassidico che sono anche alla base di Der dibek di Sholem An-skij, ma sviluppa il tema in modo autonomo a pochi anni di distanza dal debutto del testo teatrale, andato in scena nelle versioni yiddish della Vilner Trupe, 1920, e in quella ebraica diretta da Vachtangov per l’Habima nel 1922, e naturalmente prima del film che sarebbe stato realizzato, sempre in Polonia, nel 1937. In questo caso si partiva da un copione che Peretz Hirshbeyn, uno dei più raffinati drammaturghi yiddish, aveva composto nel 1908, appartenente alla sua fase simbolista, ossia in uno stile che ai cineasti degli anni Venti sembrava richiedere un deciso adattamento in senso realistico.
15Altro motivo per cui questo film è prezioso è che ci consegna una rara raffigurazione di alcuni luoghi cruciali per l’ebraismo orientale, come l’affollata via Nalewki, arteria principale del quartiere ebraico di Varsavia, e la città di Vilnius, chiamata la “Gerusalemme della Lituania” per l’effervescente vita culturale di ambito yiddish ed ebraico.5 Di Vilnius sono qui visibili alcuni scorci come il mercato e l’antico cimitero ebraico con la tomba del Gaon di Vilnius, carismatico capo spirituale. Sono luoghi che il medico-scrittore tedesco di origine ebraica Alfred Döblin visitò nello stesso 1924 e di cui ha tracciato un toccante ritratto nei propri appunti di viaggio.6
16Tkies kaf fu rifatto nel 1933 in versione sonora con il titolo Dem rebens koyekh (La forza del rabbino), aggiungendovi alcune sequenze, sostanzialmente un prologo e un epilogo in una taverna, creando una nuova cornice narrativa rinforzata dai sottotitoli in inglese. Ideatore e regista-montatore era George Roland, esperto in questo tipo di operazioni. La seconda sceneggiatura fu assicurata da Jacob Mestel, mentre i dialoghi degli avventori erano scritti e diretti da Joseph Buloff. Agli interpreti del primo film e a Buloff si aggiungevano Benjamin Fishbein (il proprietario della taverna), Ben Besenko, Leon Kadison e Jacob Mestel. La versione americana, più breve di circa venti minuti rispetto a quella polacca, è anche nota come A Vilna Legend ed era annunciata enfatizzando l’interpretazione della «celebre star ebraica Joseph Buloff (il narratore) e il sostegno degli attori ebrei russi Ida Kaminska e Siegmund Turkoff».
Libe un laydnshaft (Amore e sacrificio) è un bell’esempio di shund basato sul romanzetto omonimo del popolare Isidore Solotarefsky e come tale fu sommamente apprezzato, a partire dall’aprile del 1936, dai frequentatori del Clinton Theater, il cinema-teatro più popolare del Lower East Side. Con gli esperti interpreti teatrali di cui disponeva (tra essi vi erano Lazar Freed, il cantore Leibele Waldman, Anna Thomashefsky, Louis Kramer e Morris Silberkas), il regista Joseph Seiden riuscì a girarlo in soli due giorni in un loft di New York, contenendo i costi al massimo e ottenendo in proporzione un successo senza pari. La vicenda riguarda una donna della classe media, una madre dal passato travagliato che finisce in prigione per avere sparato a un finto corteggiatore che in realtà voleva approfittare di lei e dal quale si era sentita disonorata. Solotarefsky manipola con una certa abilità molti stereotipi in voga sulla scena yiddish, dalla dissoluzione della famiglia alle prese con le tentazioni della nuova condizione (gli impulsi sessuali soprattutto), al ritrovarsi di madre e figlio in occasione del matrimonio riparatore. È significativo che lo stesso regista George Roland invitasse a vedere il proprio film con queste parole: «You’ll see a tender yet mighty picture drama. Hot with a living breath of a story of old as the ages, new as tomorrow!». Libe un laydnshaft è uno dei migliori esempi di ciò che al tempo s’intendeva per «risate attraverso le lacrime», o piuttosto il contrario.
17Yidl mitn fidl (Yidl [il piccolo ebreo] con il violino), del 1936, non è soltanto il titolo del film musicale yiddish di maggior successo, è anche il ricco documento di un mondo sospeso tra diverse possibilità. Ciò dipende dalla singolare personalità di Joseph Green,7 il suo ideatore e realizzatore, la cui biografia fino a quella data merita un poco di attenzione (per il film nel suo complesso si veda l’analisi puntuale che nella parte seguente di questo volume gli dedica Marida Rizzuti).
18Nato a Łódź nel 1900, Yoysef Grinberg prese a frequentare da ragazzino il teatro tedesco della città, importante luogo di ritrovo per i numerosi operai tessili immigrati dalla Germania. Quando il teatro chiuse, una donna che faceva parte della direzione aprì una scuola di teatro a Berlino, alla quale il giovane fu ammesso. Per il passaggio al professionismo non ci volle molto tempo: Grinberg si associò con alcuni membri della Vilner Trupe che, arrivata nella capitale tedesca, si era scissa. Con loro recitò in ruoli di ragazzo, come lo sposo destinato a Leah nel Dibek e in Grine felder. Insieme ai Vilner arrivò nel 1925 in America, dove continuò nella carriera di attore teatrale recitando sempre in ruoli secondari, benché in compagnie di alto livello come quella di Maurice Schwartz (che allora attraversava un momento di titanica creatività, come raccontiamo nel quarto volume della serie), con gli Schildkraut padre e figlio, Rudolf e Joseph, e per un paio di stagioni nella Unzer Teater, una compagnia cooperativa che lo vedeva affiancare personalità come H. Leivick, David Pinski e Peretz Hirshbeyn nella gestione di una sala di duecento posti non lontana dalla Second Avenue. Fu attore teatrale fino al 1933, compresi cioè i due anni che trascorse a Hollywood al seguito degli Schildkraut, alternando la scena a piccoli ruoli nei film e soprattutto osservando come funzionava la macchina del cinema. Nel 1932 tornò a New York, dove tra l’altro recitò in un Golem con scenografie di Boris Aronson allo Eva La Gallienne Theater, accanto al protagonista Alexander Granach.
19Erano gli anni in cui impazzava il cinema sonoro e qualcuno gli suggerì l’idea di realizzare il primo film yiddish di questo tipo sonorizzando una vecchia pellicola. A questo scopo acquistò i diritti di Giuseppe in Terra d’Egitto, un film italiano dei primi anni del Novecento, e si lanciò nell’esperimento, dando la propria voce al protagonista e ricorrendo ad altri improvvisati doppiatori. In effetti Giuseppe in Terra d’Egitto fu il primo talkie yiddish ed ebbe un successo travolgente. Il nostro, ora chiamato Joseph Greenberg, lo portava in giro per mostrarlo e si ritrovò a guadagnare cifre astronomiche per quel tempo. Lo portò con sé anche in occasione di una tournée teatrale in Canada e infine decise, con il capitale accumulato, di passare alla produzione diretta, rispettando però l’intima convinzione che il cinema yiddish, per essere «universale» dovesse essere realizzato in Polonia, dove era ancora vivo un patrimonio di musica, ballate e umorismo ebraici. Mentre si trovava in Polonia per un’ultima tournée (tra l’altro nel teatro all’aperto dei genitori di un Leo Fuchs ai primi passi in scena e da lui convinto a trasferirsi in America), i produttori ebrei gli dicevano di lasciar perdere perché un cinema yiddish avrebbe alimentato l’antisemitismo montante. Ma Giuseppe in Terra d’Egitto sollevava un’emozione incredibile in migliaia e migliaia di spettatori. Green era sempre più convinto al grande passo, anche perché non c’erano più vecchi film da comprare. La sua prima idea fu quella di realizzare un film con Maurice Schwartz, in quel momento a Varsavia, tirando fuori dalla Strega di Goldfaden il personaggio di Hotzmach, che ha sette figlie: sarebbe stato un Goldfaden con un tocco di Tevye il lattivendolo, il leggendario personaggio di Sholem Aleichem. Per farlo, mise al lavoro diversi autori, alcuni dei quali scrivevano in polacco e poi venivano tradotti, tra essi soprattutto Konrad Tom.8 Schwartz però, come spesso accadeva, cambiò idea e decise di concentrarsi su Tevye, oltretutto portando in primo piano il conflitto tra ebrei e cristiani, cosa sommamente inopportuna nel momento in cui si doveva pensare semmai a un fronte unico antinazista. Quindi Green cambiò strada, sollecitando Konrad Tom a elaborare altre idee. Questi, che al momento recitava in un cabaret politico, finì per proporre la storia di un gruppo di musicisti, che Green accettò a patto di una radicale immersione «in atmosfere ebraiche». Portò poi il soggetto a Molly Picon, allora a Parigi, spiegando a lei e al marito Jacob Kalich che avrebbero fatto grandi cose con grandi mezzi, non in America ma in Polonia. Per illustrare le proprie idee, Green improvvisava e inventava possibili scene, con la collaborazione e l’entusiasmo crescente dei due. E la proposta economica era irresistibile: mentre in America si faceva un film con cinquemila dollari, qui ce n’erano soltanto per Molly diecimila, oltre a una partecipazione agli utili. Tornato in Polonia, Green si rimise al lavoro con Tom e altri due scrittori. Gli venne in mente il titolo Yidl mitn fidl, che fu accettato da tutti con entusiasmo, e fece arrivare in Polonia Abe Ellstein, al quale chiese di comporre una partitura musicale popolare, non troppo raffinata e commissionò a Itzik Manger le liriche delle canzoni, ma il poeta, grande bevitore dalla creatività esplosiva e incontrollata, intervenne anche su diverse scene. Quando arrivò Molly, si misero a provare tutti insieme scene e canzoni, improvvisando, montando e fissando ciò che li convinceva; al tempo stesso si componevano le canzoni che sarebbero diventate molto popolari (e redditizie, per la vendita delle partiture e dei diritti di registrazione).
20Per girare il film era necessario un aiuto locale, che fu trovato in Jan Nowina-Przybylski. Green lo avrebbe definito proprio “assistente”, ma Nowina-Przybylski era un affermato regista cinematografico, a differenza del debuttante Green, che aveva imparato il mestiere a Hollywood osservando gli altri. Non ebreo, aristocratico, molto gentile ed elegante, il Conte – così era chiamato – avrebbe assicurato la supervisione tecnica, mentre Green si sarebbe occupato dei dialoghi e di guidare gli attori.
21Come s’è detto, l’intenzione era quella di realizzare «un film yiddish per la gente di tutto il mondo» e fare di Molly Picon (come protagonista e come personaggio) un simbolo di emancipazione ebraica. Ogni scelta era operata in questa prospettiva, a partire dalla decisione di girare tutti gli esterni a Kazimierz,9 sobborgo ebraico a ridosso di Cracovia, luogo amato dai pittori. Lì la troupe, che occupava un albergo di venti stanze, si fermò per tre settimane. Tra gli attori scritturati in Polonia ve ne erano alcuni al primo film, come il caratterista Max Bozyk e il giovane Leon Liebgold. Loro, come Simche Fostel, Maks Brin, Shmuel Landau e tutti gli altri, erano pronti alle sette del mattino per cominciare a girare e la sera andavano alla ricerca delle location successive. Per realizzare il proprio obiettivo, invece che affidarsi a un testo teatrale, Green aveva preso spunto dalla semplice ma suggestiva idea di due coppie di musicisti ambulanti che prima entrano in competizione e poi si associano, arricchita della trovata di Yidl-Molly che si esibisce con il vecchio padre travestita da ragazzo per aggirare l’interdetto popolare. Il film suscitava l’interesse e la partecipazione di tutti, abitanti di Kazimierz compresi.
22Un episodio esprime molto bene l’atmosfera in cui si lavorava. Servivano una cinquantina di comparse per una scena e per trovarle un addetto alla produzione diffuse un annuncio che prometteva un compenso di cinque zloty per “ogni anima” che si fosse presentata. Il giorno fatidico, piazzata la macchina da presa alla sommità del borgo, la troupe vide cortei di folla che arrivavano da ogni parte: uomini, donne e bambini vestiti a festa, con accompagnamento di mucche, capre e anatre, anche loro “anime”. Una moltitudine festosa e pacifica, che il sagace regista riuscì a liquidare accampando un problema tecnico e convocando soltanto un centinaio di persone dopo una settimana. In occasione degli interni, girati in un nuovo studio di Varsavia, accaddero altre cose significative, come l’arrivo di due tecnici tedeschi, molto gentili e collaborativi che più tardi, al momento dell’invasione nazista della Polonia, si sarebbero ripresentati in divisa a prendere possesso dello studio.
23Il molto accorto regista coordinava dunque un formidabile lavoro di squadra, lasciando briglia sciolta alla creatività di ogni singolo collaboratore, compreso se stesso, e intervenendo a più riprese sul copione predisposto da Konrad Tom. In questo modo il film acquistò immediatamente il senso di una visione letteralmente meravigliosa catturata nei suoi ultimi istanti di esistenza storica. Alla pregnanza antropologica e carica d’emozione dello sfondo fa da riscontro poetico il piano musicale. La scena del matrimonio, l’ultima girata, era secondo Green tutta da improvvisare. Fece dunque allestire il set nello studio di Varsavia e ordinò cibo in abbondanza, così da creare un vero clima di festa e fare in modo che i numerosi attori e figuranti si dimenticassero della macchina da presa. Si doveva girare in una giornata, ma arrivati a sera restava ancora molto da fare, cosicché Green lasciò libero di andare chi lo desiderava e fece portare altro cibo e bevande. Alle tre e mezza del mattino non si trovava il violinista richiesto dal copione, per cui dovettero andare a cercarne uno e tirarlo giù dal letto, così poterono girare il momento della cerimonia detto della kale bazetsn (della sposa seduta) Alle nove del mattino, terminate le riprese, tutti quanti crollarono a dormire sul set.
24Questa sorta di “antropo-poesia”, nella quale si sostanzia il sentimento di fondo di tutti gli autori e i protagonisti del film, non aveva frenato il dinamismo e l’inventiva di una regia a quattro mani che non solo seppe mostrare la vita pulsante di una comunità ebraica, ma raccontava con finezza anche gli sviluppi “borghesi” della vicenda, fino a una scena che il sottoscritto ritiene un vero e proprio capolavoro, quella in cui il piccolo Yidl diventa nel volgere di pochi minuti un’attrice comica da grande palcoscenico, una comedian americana, una diva. La cosa avviene in questo modo: Yidl, ancora in abiti maschili, entra nel camerino della soubrette e, ritrovandosi sola, ne indossa uno degli abiti di scena, che le dà un aspetto ambiguo e buffo; dopo di ciò, Yidl scopre la soubrette è fuggita in preda al panico e quindi si precipita ad avvertire chi di dovere; per farlo, sbuca dal sipario e cerca di spiegare la situazione al direttore d’orchestra, il quale, colto di sorpresa da quell’apparizione, fatica a capire. Mentre l’impresario in quinta si dispera per l’accaduto, il pubblico che affolla la sala comincia a ridere in modo irrefrenabile alla meta-performance surreale di Yidl. A quel punto l’impresario la incita a proseguire, ordine che lei esegue, sempre però recitando il proprio imbarazzo, cercando di svignarsela e dimenandosi in improbabili melodie, parole e movimenti di fronte a una platea sempre più divertita, ottenendo infine un trionfo senza pari, un trionfo che ironizza su ciò che quel genere di spettacolo si proponeva e che il pubblico cercava. Siamo qui ai vertici del teatro più puro, che trascende, moltiplicandoli, i significati del “testo”, e assistiamo a una scena che da sola basterebbe a suggellare una splendida carriera. Tutto ciò in base a un’invenzione degli autori e dell’attrice che certo non poteva essere programmata a tavolino.
25Yidl fu proiettato in prima a Varsavia con sottotitoli in polacco, suscitando reazioni entusiastiche del pubblico e della critica, oltre che di varie autorità come il ministro dell’educazione. Le manifestazioni di simpatia e l’assenza di qualsiasi ombra di antisemitismo erano dovute anche fatto che Yidl mitn fidl era molto diverso dai film yiddish polacchi visti fino a quel momento, melodrammatici e troppo “teatrali”. Un grande successo si ottenne anche in tutti i paesi nei quali fu immediatamente esportato: non la Germania hitleriana, l’Italia fascista e la Spagna martoriata dalla guerra civile, ma soprattutto Stati Uniti e Canada. La maggioranza ma non tutti gli spettatori erano ebrei. Nel 1937 in Germania erano già stati creati i ghetti e agli ebrei era vietato andare a cinema. Mentre era impegnato nella capitale polacca a preparare il seguente Der purishspiler, Green ricevette un emissario del regime nazista con la richiesta della pellicola di Yidl da mostrare a Berlino. Goebbels in persona aveva autorizzato l’operazione e promesso di pagare, ma il film doveva essere preventivamente visionato dalle autorità. Nonostante le comprensibili perplessità, a Green era impossibile dire di no e grande fu la sorpresa quando dopo una settimana la copia gli fu restituita con la richiesta di inviare in Germania un negativo. Anche in questo caso era impossibile rifiutare e non mancò l’ulteriore sorpresa del negativo restituito dopo appena due settimane con un assegno da duemila dollari. Gli spettatori del ghetto di Berlino furono pazzi di gioia e a loro si unirono moltissimi non ebrei che per recarsi a vedere il film nel ghetto dovevano chiedere un permesso speciale.
26Grine felder è oggi titolo conosciuto per il bel film che ne ha tratto Edgar Ulmer, forse il più amato tra i talkies yiddish americani. In tal senso se ne occupa Alessandro Cappabianca nella seconda parte. In questa sede ci soffermeremo sulla sua matrice teatrale e sul suo percorso fino allo schermo.
27Il suo autore Perets Hirshbeyn10 sta alla drammaturgia yiddish, potremmo dire per una comoda approssimazione, come Carlo Goldoni rispetto al teatro del Settecento. Nato nel 1880 in un piccolo shtetl vicino a Grodno (ora in Bielorussia, al confine con la Polonia), Hirshbeyn si formò a Vilnius, dove cominciò a scrivere in yiddish racconti, poesie e drammi. Come molti altri autori del tempo fu convinto a passare dalla scrittura in ebraico allo yiddish da Yitskhok Leybush Peretz, il grande scrittore e maestro della generazione precedente. Dopo questo incontro decisivo, avvenuto nella Varsavia del 1904, Hirshbeyn tradusse in yiddish il proprio primo dramma cambiandone il titolo da Miryam a In discesa. Lopera aveva per oggetto l’incontro di un giovane con una prostituta, forse eco della propria esperienza di povero studente a Vilnius, e in esso sono già riconoscibili le caratterizzazioni, i dialoghi e quindi lo stile che avrebbe distinto un autore sempre attento alle diverse componenti del mondo popolare, dunque a ritrarre le relazioni di figure molto diverse tra loro di contadini, proletari, studenti e uomini di religione, senza mai cedere alla volgarità e a facili effetti emotivi o schematismi ideologici, con una particolare, anzi straordinaria se pensiamo ai suoi contemporanei, sensibilità per i personaggi femminili.11 Peretz lo aveva presentato al poeta Chaim Nahman Bialik, il traduttore in yiddish del Dibek di Sholem An-skij. Il rapporto di amicizia e di stima che unì i due non impedì a Hirshbeyn di restare fedele alla propria vocazione naturalistica, in sintonia con le compagnie e gli attori del tempo.12
28Interessante è il suo rapporto con il palcoscenico. Nel 1908 si trasferì a Odessa, dove creò una compagnia che dirigeva soprattutto ma non solo nell’allestimento dei propri copioni. Qui scrisse, tra l’altro, il dramma Gioele, ma i suoi testi erano allestiti anche altrove, ad esempio a Łódź da Dovid Herman (Il patto), mentre Sull’altra sponda del fiume fu rappresentato in russo nella stessa Odessa. La sua compagnia accoglieva anche alcuni studenti del conservatorio teatrale della città e fu la prima formazione yiddish votata esclusivamente a un teatro d’arte, sull’esempio di quello moscovita diretto da Kostantin Stanislavskij. Nell’arco di due stagioni mise in scena anche testi di Sholem Asch, David Pinski, Sholem Aleichem e Jacob Gordin, oltre ad alcune traduzioni. Il successo pieno per lui arrivò negli anni Dieci con quattro copioni considerati dalla critica come tra i migliori dell’intero repertorio yiddish: A farvorfn vinkl (Un luogo sperduto, 1912), Di puste kretshme (La locanda vuota, 1913, scritto già in America), Dem shmids tekhter (Le figlie del fabbro, 1918) e soprattutto Grine felder (Campi verdi, 1918), tutti testi di ambiente rurale. Le vite e gli amori dei suoi protagonisti sono raccontati con uno stile leggero eppure denso di sottigliezze psicologiche, tale da suscitare l’interesse di altri artisti votati al teatro d’arte come Maurice Schwartz e Jacob Ben-Ami e con il passare del tempo la sua presenza nei cartelloni finì per superare quella di Jacob Gordin, dimostrandosi meno datata.
29Purtroppo, però, la sua statura di drammaturgo, si rivela soltanto nei quattro testi citati, poiché a partire dal 1912, data del suo trasferimento a New York, e nei decenni successivi Hirshbeyn si dedicò prioritariamente alla stesura di racconti e testi che si ispiravano ai lunghi viaggi intrapresi con la moglie. Nel suo primo volume di memorie (I miei anni giovanili, del 1932), l’autore descrive la vita rurale come una possibilità e una “forma” di conservazione e al tempo stesso di delicato rinnovamento dei costumi tradizionali ebraici nel nuovo mondo e questo è il sentimento espresso dai testi citati. Per questo essi furono molto tradotti e rappresentati in varie lingue,13 senza tuttavia inaugurare un filone drammaturgico.
30Se queste premesse interpretano correttamente l’autore, si può affermare che la sua celebrazione lirica, quasi bucolica, e la visione “compassionevole” delle diverse figure di ebrei che fa incontrare nei propri copioni non hanno il carattere della nostalgia regressiva ma al contrario costituiscono una proposta politica, una possibile declinazione del sionismo. Il giovane ascetico studente che all’inizio di Grine felder abbandona la yeshiva e si separa dai propri compagni per avventurarsi nella campagna lituana alla ricerca del luogo in cui vivono i «veri ebrei», trova inaspettatamente in una sperduta fattoria ciò che cerca, persino una donna dalle aspirazioni moderne con la quale creare una famiglia. La sua profonda preparazione religiosa lo predispone ad accettare un incanto della sorpresa che diventa un ingrediente del tutto imprevisto e progressivo di una nuova vita ebraica.
31Il matrimonio perfetto tra teatro e cinema realizzato con Grine felder del 1937, quasi un miracolo nella storia, è dovuto alla sincronia con la quale furono messe all’opera alcune decisive differenze: il testo originario che venne sapientemente snellito da George Moskov e dallo stesso autore, non soltanto per questioni di durata ma soprattutto per trasferire gran parte della significazione al catalogo di interni/esterni proprio del linguaggio cinematografico; il premontaggio recitativo realizzato dall’attore-regista Jacob Ben-Ami con interpreti che in maggioranza avevano familiarità con la versione teatrale, ognuno caratterizzato dal proprio singolare corpo voce e ben preparati prima di girare le singole scene; una regia cinematografica sapiente e dinamica, capace di condurre in uno spazio-tempo differente una moltitudine di sequenze teatrali rispettandone le specificità; e infine un montaggio che sembra inesistente perché è capace di riflettere l’organicità nella quale sono fuse le diverse istanze espressive.
32Questo stato di grazia, ottenuto da molteplici perizie tecniche e probabilmente con una buona dose di non programmabile fortuna, fa sì che Grine felder ci racconti un’affascinante avventura che comincia nel ventre oscuro della yeshiva, quando i compagni di Leyvi-Yitshok (un pensieroso ma espressivo Michael Goldstein) obiettano al suo desiderio di andarsene che «La luce della verità è dappertutto» e lui risponde che è vero, ma ognuno deve cercare la propria. Ciò a cui assistiamo dopo è proprio questa incarnazione della ricerca in tipi umani tanto diversi tra loro che, beninteso nell’autorevole cornice della tradizione, si producono in una serie di “numeri” attraverso i quali ognuno di essi diventa ciò che è. Questi “numeri”, in effetti esercizi di vita, sono organizzati per lo più in forma musicale. Pochi sono i passaggi puramente dialogici, tutti gli altri sono assoli, duetti, trii, quartetti e scene corali nei quali la recitazione dei corpi-personaggi è canto e coreografia, come appunto nelle Baruffe chiozzotte o nel Campiello di Goldoni o in un’opera di Mozart (anche se, da un punto di vista strettamente cinematografico, come nota J. Hoberman, il film fa pensare a Renoir e Vigo).
33Le dispute contadinesche sul mio e il tuo, l’intreccio prima respinto e poi accettato tra agitazione sessuale e desiderio di trascendimento, tra amore panico della natura e fascino dei libri e della scrittura, porta infine anche il giovane aspirante rabbino alla consapevolezza che «un uomo senza terra non è un uomo», essenza spirituale del sionismo, dando luogo a diverse scene memorabili. Tra queste bisogna segnalare almeno il momento in cui le due coppie di anziani genitori, parlando dei rispettivi figli, si studiano, esplodono in una polemica che sembra senza ritorno per poi lasciarsi invece con l’impegno non dichiarato a confrontarsi nuovamente per capirsi, o quello che vede la giovane Tsine (Helen Beverly, di una bellezza forse troppo borghese)14 confessare a Rokhl (Anna Appel), la propria archetipica Madre Contadina, di essere perdutamente innamorata di Leyvi-Yitshok, suscitandone le lacrime di gioia e gli opportuni scongiuri magici, o quando il giovane religioso si arrende alla felicità terrena e chiede la mano di Tsine al padre (un Isidore Cashier superlativo, anche in questa occasione), provocandone un’esplosione di gioia, per non parlare del meraviglioso finale sull’aia che vede riunite le quattro coppie, anziani e giovani, al culmine di una disputa fatta di urla, pianti e silenzi stupiti e infine di riconciliazione e di felicità. Vita e morte sono intrecciate in questa commedia leggera come nel ciclo agricolo, affrontate con le dovute palpitazioni e infine deposte in una docile serenità. Anche l’immagine su cui appare la parola “Fine” è al tempo stesso significativa ed enigmatica: Tsine e Leyvi-Yitshok s’incamminano mano per la mano nei campi mentre l’obiettivo, dopo averli seguiti per un po’, si ferma a inquadrare un aratro, così che ognuno possa meditare su questo o quell’aspetto della vicenda umana, senza però dimenticarne gli altri, i doppi cui sempre si accompagnano.
34Abbiamo più volte accennato alla contiguità tra la bima (il pulpito) e la bine (la scena), vale a dire tra l’arte cantoriale e l’arte scenica. Si tratta di un fenomeno sincrono alla modernità e alla relativa occidentalizzazione dei costumi ebraici, un fenomeno già irresistibile dalla metà dell’Ottocento, che aveva portato Sholem Aleichem ad affermare controcorrente nel proprio Josele Solovej (Yosele l’usignolo) del 1889 che «un cantore non è un attore» e una sinagoga non è un teatro. Il romanzo raccontava dell’ascesa di un cantore nel mondo dello spettacolo e della sua successiva rovina, prendendo ispirazione da numerosi casi del genere e probabilmente dalla leggenda in cui si era riversata la breve e disgraziata vita del khazn Yoel-David Levinshteyn-Strashunsky. Questi, già celebre all’età di nove anni, a tredici si era sposato con la figlia di un ricco mercante di Vilnius (da cui il soprannome di Vilner balebesl, ossia piccolo capofamiglia, o piccoloborghese, di Vilnius). Secondo la leggenda, durante una tournée il balebesl si era follemente innamorato di una cantante polacca ed era fuggito con lei a Vienna, dove la vita mondana gli aveva fatto perdere la voce e la sanità mentale. Ridottosi a vagabondare per i più poveri shtetl dell’Europa orientale, finì in un manicomio e morì miseramente a trentaquattro anni.15 Mark Arnshteyn (della cui intensa attività s’è detto nei primi capitoli) aveva scritto su di lui nel 1902 un dramma dalla controversa fortuna scenica portato nel 1924 dalla Vilner Trupe in Europa e in America con il titolo Der vilner balebesl, dramma nel quale, riprendendo l’idea di Sholem Aleichem, si attestava il fallimento di quell’ambizione, contraddicendo in tal modo l’ottimismo finale di The Jazz Singer sulla possibile integrazione delle due professioni. L’idea era che l’abbandono della dimensione religiosa da parte dei cantori fosse una disgrazia contagiosa per la comunità, un segno della disgregazione di fronte alla modernità. Anche Moishe Oysher, come si vedrà tra poco, sarebbe stato il protagonista di un film sul cantore di Vilnius.
35Resta il fatto che già un’esponente della prima generazione di professionisti della scena yiddish come Ester Rokhl Kaminska fosse figlia di un cantore, come lo erano Boris Thomashefsky, Sigmund Mogulesko, Seymour Rechzeit e altri, ad esempio il compositore Sholom Secunda o il poeta Perets Markiš: figli di cantori e spesso destinati fin da bambini alla medesima professione. Per non parlare dei molti cantori che restavano tali, ma aggiungendo la pratica secolare a quella sinagogale e, nel tempo, esibendosi nei vaudeville, nei film, in concerti e persino in campagne pubblicitarie, sino a trionfare alla radio, a partire dagli anni Venti. In tale quadro era del tutto naturale che il tema trovasse riscontro anche sulla scena e sullo schermo: oltre al dramma di Arnshteyn e alla versione scenica del romanzo di Sholem Aleichem, si ricordano un Tsvej khazonim di Boris Thomashefsky (1919)16 e i diversi altri film di cui qui si parla.
36Le apparizioni cinematografiche di Moishe Oysher furono dunque precedute e accompagnate da quelle di altri cantori. Tra essi, Yosele Rosenblatt e Gershon Sirota in particolare si facevano esplicito vanto di eccellere nel canto operistico, anzi di superarlo, tanto che Rosenblatt, conosciuto come “il Caruso ebreo”, avrebbe declinato l’invito di inserirsi nell’opera di Chicago, Sirota aveva inserito nel proprio repertorio un’aria dell’Aida verdiana e la carriera lirica di Oysher fu fermata soltanto dai problemi cardiaci che lo avrebbero portato a una morte precoce. D’altra parte è vero che spesso il passaggio dalla bima alla bine era dovuto a motivazioni economiche: il pio Rosenblatt, ad esempio, si era dato al vaudeville in seguito all’andamento disastroso dei propri investimenti e, come Sirota, era aspramente criticato dagli ambienti ortodossi, che stigmatizzavano non soltanto il loro cedimento alle tentazioni materialistiche, ma anche i banali effetti di coloritura e gli acrobatismi vocali adottati per compiacere il pubblico. Con queste premesse, cinema sonoro e performance cantoriali non potevano che andare di pari passo, definendo così un’altra peculiarità del cinema yiddish.
37Il secondo sonoro del genere, Ad mosay, del 1929 aveva proposto la doppia novità del cantore bambino Shmulikek. Dopo Kol Nidre (1930) la Judea Film fece del cantore Leibele Waldman il protagonista di quattro corti basati su altrettante performance cantoriali, prima dell’impegnativo documentario Shtime fun Israel (La voce d’Israele) che proponeva in un’ora e mezza un’antologia di noti cantori quali Yossele Rosenblatt, Shaile Engelhardt, Mordecai Hershman, Adolf Katchko, David Roitman, Seidel Rovner, Joseph Shapiro, Joseph Shlisky, Leibele Waldman e il coro del cantore Meyer Machtenberg. La reazione del pubblico era ambivalente poiché da una parte esso premiava i film e gli spettacoli nei quali la tradizione cantoriale era proposta in versione semplificata e mondana e dall’altra accordava la maggiore attenzione ai documentari, preferendoli ai film di fiction, tanto è vero che la pellicola di maggior successo in questo senso fu Der kholem fun mayn folk (Il sogno del mio popolo),17 un documentario che mostrava Yossele Rosenblatt (nella sua ultima apparizione pubblica) in viaggio in Terra d’Israele. Se Rosenblatt è stato senza dubbio il più amato dei khazonim americani, colui che appariva più spesso sugli schermi – come abbiamo visto in dettaglio nel terzo capitolo – era il cantore Louis “Leibele” Waldman, nato in America e amante del baseball, che aveva cominciato a esibirsi a nove anni nel coro che accompagnava Rosenblatt, decisamente più attore degli altri. Legemonia di Waldman fu messa in discussione, se non superata, senz’altro sul piano qualitativo, da Moishe Oysher, suo coetaneo e protagonista dei film d’arte di cui stiamo per parlare.
38Due sono i principali motivi di interesse di Dem khazns zundl (Il figlio del cantore), film del 1937 che nasce dall’idea di Sidney Goldin di portare per la prima volta sullo schermo Moishe Oysher. Il film è interessante anche perché la modesta levatura artistica di Goldin non determinò la cifra stilistica del film in quanto il regista fu costretto a ritirarsi dal lavoro a causa di un infarto e la responsabilità della direzione passò al russo Ilya Motyleff. La combinazione tra la storia originale e autentica di un povero immigrato che a New York diventa un cantante di successo e la regia di Motyleff, uno dei molti talenti artistici sprecati di quegli anni, merita una riflessione.
Tra scena e pulpito
Moishe Oysher18 era nato nel 1906 a Lipkon, in Bessarabia, da una famiglia chassidica che contava almeno sei generazioni di cantori. Uno dei suoi nonni, insegnante, si esibiva per i propri studenti in un repertorio di canzoni popolari e del lavoro, mentre dall’altro nonno, soprannominato Yosl der poylisher, e dal padre, noto come Zelik der poylisher, fu iniziato alla professione cantoriale. Quando il padre emigrò in America, lasciandolo con il nonno, lui cominciò a recitare con i compagni di scuola sotto la guida di Eliezer Steinbarg,19 suo insegnante nonché carismatico poeta e narratore.
Nel 1921, per raggiungere il padre in Canada, si aggregò a una piccola compagnia teatrale, ma durante il viaggio perse la voce e all’arrivo si guadagnò da vivere lavorando prima come lavapiatti e poi in una tintoria. Riacquistata la voce, cominciò a cantare ovunque fosse possibile, finché incontrò l’attore Wolf Shumsky ed entrò nella sua compagnia teatrale, impegnata a Winnipeg per tre stagioni. Nel 1924 fu ammesso nel sindacato degli attori canadesi e recitò a Montreal sotto la direzione di Isidore Holender. Nel 1928, a Philadelphia, dove si erano trasferiti i suoi genitori, lavorò presso la locale emittente radiofonica yiddish, ma per poco, perché fu scritturato dallo Hopkinson Theater di Brownsville. Qui intrecciò una relazione con Florence Weiss, moglie del produttore, che lo seguì in una tournée un Sudamerica e, dopo il matrimonio, a Newark. Ammesso nel sindacato attori newyorchese nel 1931, entrò in compagnia con Anshel Shorr, poi con Boris Thomashefsky, e nel 1932, mise insieme una propria compagnia guidandola in tournée a Buenos Aires e in altre città dell’Argentina, Uruguay e Brasile. Il suo debutto sulla Second Avenue avvenne soltanto nel 1935 e suscitò critiche soprattutto per l’impacciata recitazione. La sua voce, decisamente più apprezzata, era paragonata al ruggito di un leone, ma Oysher era un amante del jazz e ciò si percepiva chiaramente persino nei canti religiosi.
Senza mai abbandonare il canto liturgico, anzi ottenendo con questo significativi riconoscimenti specialmente nella Prima sinagoga rumena del Lower East Side, cominciò a esibirsi in concerti e spettacoli, spesso assieme alla moglie. In questo scorcio di tempo la coppia Oysher-Weiss ottenne un notevole successo nell’operetta di Kalmanovitz e Rumshinski Dos heyst gelibt (Cosa significa essere amati). Ora era un apprezzato quanto controverso, almeno sul piano del giudizio etico, artista dei due generi. Nel 1937 si fece certificare come cantore e rinunciò ad apparire in scena, ma ottenne una riabilitazione come attore prendendo parte, nei due anni seguenti, a tre dei maggiori film yiddish: Dem khazns zundl (Il figlio del cantore), Der zingendiker shmid (Il fabbro cantante) e Der vilner shtot khazn, ossia “il cantore della città di Vilnius”, nel 1940. Prese parte anche a Song of Russia, film di guerra del 1944, con lo pseudonimo di Walter Lawrence, dove canta Rusland iz ir nomen (In nome della Russia), composta da Jerome Kern, ed è il protagonista di Singing in the Dark, del 1956. Tutti film sui quali avremo occasione di ritornare.
Il suo riconosciuto eclettismo lo portò a essere scritturato nel 1943 come cantante lirico dalla Chicago Opera Company e questa sarebbe stata la fase finale della sua carriera se un attacco cardiaco non lo avesse fermato. Con la seconda moglie Theodora, una pianista che spesso lo accompagnava nei concerti, continuò a lavorare fino al 1956, come s’è detto, quando fu costretto a fermarsi. La morte lo colse due anni dopo.
Ancora una volta evitando di adattare copioni teatrali e chiedendo a Mark Schweid di ricavare una sceneggiatura da un racconto di Louis Freiman, nonché commissionando le musiche al compositore Alexander Olshanetsky,20 Goldin aveva creato le premesse per un’opera originale e di sicuro successo, la cui pregnanza drammatica era garantita dal protagonista e dai migliori comprimari disponibili (tra essi: Judith Abarbanel, Isidore Cashier e Michael Rosenberg).
39Oysher fino a quel momento era stato amato e apprezzato da un larghissimo pubblico come cantore di sinagoga e come performer della Second Avenue. E questo film racconta non a caso una storia simile alla sua, quella di un povero immigrato che si arrangia facendo le pulizie in un night club e il cui talento non può che essere scoperto e valorizzato nella goldene medine, anche se in questo caso dopo un lungo periodo di umile e duro lavoro. Tutto ciò ponendolo di fronte a scelte assai difficili. Le figure incarnate da Oysher e dalla moglie, la cantante-attrice Florence Weiss, sua partner nel film, ponevano con sfumature diverse la questione delle radici ebraiche e dell’assimilazione. Lei è già un’affermata cantante bilingue nel night club, mentre lui, nei panni di Sol Reichman continuerà a interrogarsi sul proprio destino sino alla fine del film (e probabilmente oltre, come si vedrà). L’ottimismo assimilazionista un poco cinico e superficiale che avrebbe caratterizzato il film diretto da Goldin, qui diventa molto più sfumato per merito di Motyleff, il regista che gli subentra.
40Ilya Motyleff era nato nel 1894 in un piccolo shtetl della Poltava, in Russia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si trovava in Germania e dopo un breve periodo di prigionia come nemico aveva avuto il privilegio di essere ammesso come allievo attore alla scuola del grande regista Max Reinhardt, il che gli aveva permesso, pochi anni dopo, rientrando in Russia, di entrare a fare parte del Teatro d’Arte di Mosca e di guadagnarsi l’immediata stima di Stanislavskij. La sua carriera come attore, regista e direttore di teatro era quella di un giovane che tutti quanti si contendevano, ritenendolo un prodigio. Nel 1919, a venticinque anni, si ritrovò alla direzione di un teatro di Kiev e ruppe definitivamente i rapporti con la famiglia, che lo avrebbe voluto come successore del padre alla guida di un’industria tessile. Nell’ambiente teatrale era considerato uno dei massimi innovatori del tempo, ma la confusa situazione politico-culturale nel paese dei soviet e l’insofferenza per la burocrazia culturale lo portarono a emigrare e riprendere gli studi. Eccolo dunque a Berlino, dove conseguì un dottorato in letteratura e teatro, e di nuovo studente, questa volta all’università di Kiel. Molto apprezzato come regista, si guadagnava da vivere dirigendo spettacoli in Germania e Olanda, a Parigi e in Italia, dove tra il 1930 e i 1931 fu “direttore” della compagnia pirandelliana che aveva Marta Abba come primattrice.
41Motyleff era arrivato negli Stati Uniti nel 1934 e immediatamente gli fu affidata la direzione del Pasadena Playhouse, che lasciò nel 1937 per New York. Nella capitale teatrale d’America fu subito coinvolto in Dem khazns zundl, accettando volentieri di lavorare in emergenza e su un materiale drammaturgico che non conosceva.21
42La sua mano nel film è riconoscibile, soprattutto per chi abbia presente lo stile di Goldin, anzitutto nella guida degli attori, che qui recitano secondo un realismo intenso e ricco di sfumature (salvo che in alcune scene, chissà se girate da lui), senza cedimenti agli stilemi generici di un cinema fatto in fretta e per un pubblico di bocca buona. Ciò permette di apprezzare il protagonista e soprattutto i comprimari in caratterizzazioni diverse da quelle di altri film, e al tempo stesso fa risaltare la relativa inadeguatezza di Florence Weiss, modesta come cantante e soprattutto come attrice. Ma l’abilità di Motyleff non si limita a questo aspetto: grazie anche all’alto livello dei suoi collaboratori, il film contiene alcune vivaci e interessanti sequenze in esterno – ad esempio nelle strade del Lower East Side e tra i teatri della Second Avenue – mentre gli interni, specie le scene finali, beneficiano di numerosi cambi di inquadratura e movimenti di macchina.
43La storia inizia nel piccolo shtetl di Belz (allora polacco, ora in Ucraina), dove il protagonista allora tredicenne si unisce a una compagnia che recita in un teatrino all’aperto simile a quello di Ias.i in cui Goldfaden aveva dato inizio al teatro yiddish professionistico. Il padre lo maledice. Con gli attori giunge nel Lower East Side, dove scopre immediatamente che «l’America non è l’America». Dopo un salto temporale di una quindicina d’anni, vediamo Sol Reichman-Oysher lavare i pavimenti di un grande night-club e prorompere in un canto assai seducente, che si sviluppa in un duetto con la soubrette Helen. La loro malinconica canzone, Mayn shtetle Belz di Alexander Olshanetsky, sarebbe diventata assai popolare in quegli anni. La carriera del nuovo cantante è fulminea e si accompagna all’amore di Helen, quasi un timore reverenziale, ma Sol si sente triste e vuoto e quando è al culmine della fama e della ricchezza parte per il paese natale, dove viene accolto come un sovrano e incontra la ragazza che era stata il suo primo amore infantile, Rivke (Judith Abarbanel). Immerso nella nuova felicità, ripensa criticamente l’America e scrive a Helen per lasciarla. La donna, disperata, si precipita a Belz per riconquistarlo e arriva il giorno del suo matrimonio con Rivke. Vedendolo felice e realizzato nel cantare per i propri compaesani, Helen si limita a congratularsi con gli sposi, prima di sparire definitivamente. Dem khazns zundl era una grande produzione e nonostante la concorrenza in quel momento fosse molto vivace, ottenne un successo simile a quello di Grine felder in città e ancora maggiore nei dintorni di New York.
44Torniamo ora a Joseph Green. Yidl mitn fidl fu seguìto nel 1937 da Der purimshpiler (Lattore di Purim) e nel 1939 da A brivele der mamen (Una letterina alla mamma), entrambi girati in Polonia, in coerenza con l’dea che che soltanto lì si potessero realizzare film yiddish destinati a un pubblico mondiale. Oltre a essere profondamente convinto della propria singolare “geopoiesis”, Green era anche molto polemico nei confronti dei propri colleghi, come ribadisce nella citata intervista degli anni Settanta. A suo parere quelli di Joseph Seiden erano film di basso livello girati nel cortile di casa, giudicava Mirele Efros di Joseph Berne, con gli attori seduti a discutere attorno a un tavolo, ridicolo, un esempio di «cattivo teatro!» e Got, mentsh un tayvl una caricatura realizzata da non eccelsi attori, anche se recuperati dalla versione teatrale di Schwartz, il quale a sua volta portando sullo schermo Tevye der milkhiker era ricascato nel «troppo teatro», dimostrando di non capire il linguaggio cinematografico. E così via. Ricordava inoltre di essere stato interpellato da Mark Arnshteyn, che ne aveva ottenuto i diritti, per tradurre in film il Der dibek di Sholem An-skij, e di avere risposto negativamente perché non si sentiva in consonanza con il testo; poi di considerare il film sceneggiato da Arnshteyn e diretto da Michał Waszyński un prodotto di non eccelsa qualità e comunque «non artistico». Ne aveva anche per i produttori-realizzatori Shaul e Yitzhak Goskind, accusati di non sapere né di cinema né di teatro e di non essersela cavata nemmeno avendo a disposizione il formidabile duo costituito da Shimon Dzigan e Yisroel Shumacher.22 Il sospetto è che Green concepisse soltanto un cinema yiddish musicale e considerasse sbagliato praticare altri generi. Limpressione sembra confermata da ciò che sostiene alla fine della lunga intervista, quando, dopo aver affermato che a seguito della Shoah era ormai impossibile fare film yiddish, afferma che Grine felder di Ulmer sarebbe meglio riuscito come musical e che il proprio A brivele der mamen ne avrebbe guadagnato se si fosse concluso con la scena del concerto anziché con l’incidente e l’agnizione finale.23 Quanto ai propri progetti irrealizzati, confessa candidamente che avrebbe voluto trasporre in un divertente musical il dramma Farvorfn vinkl facendo leva sul contrasto tra i genitori che si odiano e i rispettivi figli che si amano. Questione di gusti e anche di carattere, visto che Molly Picon lo dipinge come qualcuno da assolvere per i buoni film che ha fatto, ma spesso arrogante, autoritario e tirchio (con gli altri, non con lei e il marito Jacob Kalich), insomma, tiene a precisare, come un vero «carattere polacco» !24
45Di freylekhe kabtsonim (I poveri felici; in polacco Wesely biedacy; in inglese Jolly Paupers; Allegri buffoni), oltre a essere un discreto film satirico nello stile di Mendele Moykher Sforim, è una testimonianza preziosa sulla famosa compagnia di Varsavia guidata da Zygmunt Turkow,25 cui si associano per l’occasione Shimen Dzigan e Yisroel Shumacher, qui nei panni di due scombinati luftmentsch di una piccola città, il primo sarto il secondo orologiaio, che sognano un futuro da imprenditori di successo soprattutto quando credono di avere trovato un giacimento di petrolio (si tratta in realtà di una pozzanghera creata da un ubriaco che barcollando aveva perso un po’ di liquido nero da una tanica). In questa commedia di Mosze Broderson (la sola sceneggiatura di questo poeta)26 con ricco corredo musicale di Henikh Kahn, come in tante “fiabe” yiddish, tutto lo shtetl27 è coinvolto nella follia, allorché i due malaccorti si lasciano sfuggire il segreto dando inizio così a una spassosa commedia degli errori che coinvolge persino un ebreo arricchitosi in America che torna come investitore-compratutto.
46Scoperti anni prima proprio da Broderson, Dzigan e Shumacher, che abbiamo già incontrato in Al khet (1936) e che incontreremo ancora, si erano trasferiti da Łódź a Varsavia ed erano allora al colmo della popolarità per le sapide scenette e i corrosivi monologhi che dispensavano sulle scene del cabaret. A onor del vero bisogna precisare che la loro poetica di scena è meglio documentata nel tardo Unzere kinder (1948), mentre negli altri film le loro apparizioni sono soffocate da sceneggiature e registi che mai riescono a valorizzarli appieno.
47I due, qui, sono esponenti di una impossibile classe media, schiacciati tra il noged (riccone e potentato) locale e il nuovo “milionario” proveniente dell’America. Notevole come sempre è il cameo di Max Bozyk come shadkhn che propone un marito per Gitl (Genie Lowicz), la figlia di Naftali (ma la ragazza preferirebbe conquistare l’ “americano”). Dopo una serie di conflitti, Gitl risolve la situazione fuggendo con un attore al quale farà da partner, prima di diventare un’apprezzata cantante. Andandosene, avvolge le scarpe nella preziosa “mappa del petrolio”, perciò è inseguita dai due maldestri, i quali di incidente in incidente finiscono persino, per un po’, in manicomio. Poi tornano allo shtetl per scoprire che i ricconi si sono alleati e li hanno derubati del terreno, sul quale, però, non c’è petrolio ma soltanto pietre. Pertanto ne rientrano in possesso e da veri luftmentsch hanno la brillante idea successiva, con la quale si chiude il film: «Apriremo una fabbrica di pietre tombali».
48Lironia di Broderson non riesce, secondo J. Hoberman,28 nell’intento di illuminare l’impasse culturale di quelle piccole comunità e la visione diretta del film non consente di discordare da questo giudizio. Di freylekhe kabtsonim, realizzato sull’onda di Yidl mitn fidl, non arriva a esprimere una equivalente festosità e tantomeno somiglia ai film sovietici degli anni Venti che pure ricorda (ad esempio Yidishe glikn). Comunque diverse sequenze sono degne di nota, almeno nella nostra prospettiva. Notevole, ad esempio, è l’inizio che presenta una compagnia itinerante arrivata nello shtetl di Pichev che tenta, su una scena minuscola fino all’inverosimile, di rappresentare il dramma storico di Goldfaden Bar Kokhba.
49Di freylekhe kabtsonim precede di sei mesi Purimshpiler e sarà seguito, nei cartelloni polacchi, dalla versione sonorizzata di Tkies kaf e da Dibek. Laccoglienza assai debole da parte del pubblico e dei gestori, anche perché durava soltanto un’ora, fu tale da costringere il produttore della Kinor Shaul Goskind a interrompere la produzione di film yiddish.
50Alla stessa altezza di tempo, per replicare e magari accrescere il successo davvero universale ottenuto dal proprio Yidl mitn fidl e da Dem khazns zundl di Motyleff e Goldin, Green si rivolse a Chaver Pahver, giornalista della sinistra radicale newyorchese, per la sceneggiatura di Der purimshpiler (Lattore di Purim), ma chiese anche l’intervento del poeta Itzik Manger,29 ingaggiato per scrivere le liriche delle canzoni e probabilmente intervenuto anche sulla sceneggiatura.30 Il risultato fu un testo filmico che però un critico di oggi come J. Hoberman trova nel complesso deludente e «timido», decisamente nell’ombra rispetto a Yidl mitn fidl. Come regista, Green fu affiancato nuovamente dal sensibile Jan Nowina-Przybylski, che purtroppo sarebbe morto alla fine delle riprese all’età di trentasei anni, mentre come direttore della fotografia fu confermato Seweryn Steinwurcel. Il protagonista Getsl è qui interpretato da Zygmunt Turkow, reclutato in Polonia all’ultimo momento dopo la rinuncia di Joseph Buloff, che preferì impegnarsi in uno spettacolo teatrale. Altri protagonisti sono Miriam Kressyn e Hymie Jacobson, che si erano appena sposati, cui si aggiungono, tra gli altri, Isaac Samberg, Max Bozyk e Shmuel Landau, tre caratteristi che in seguito avrebbero avuto una intensa carriera Oltreoceano. La vicenda si suppone ambientata in uno shtetl della Galizia, ma il film fu girato nel dintorni di Varsavia e anche questa volta a Kazimierz.
51Per quanto riguarda il regista e i suoi film si veda quanto ne scrive Alessandro Cappabianca nella seconda parte. In via preliminare può essere utile suggerire al lettore (e, si spera, futuro spettatore di Der purimshpiler) due aspetti che lo rendono particolarmente interessante come opera cinematografica d’argomento latamente teatrale. Il primo riguarda appunto la festa di Purim, che per secoli e fino all’avvento della scena yiddish, con i badkhonim (recitatori) e i klezmorim (musicisti) ambulanti, che si esibivano ai matrimoni e in altre occasioni festive, fu il solo vero (nel senso di vivo, eseguito da attori) teatro ebraico.31
52I riferimenti al mondo dello spettacolo sono costituiti da Getsl-Turkow, il malinconico vagabondo che una volta accettato nel villaggio rivela di essere un attore-cantante di Purim, dalla compagnia circense di cui fa parte il clown Dick (Hymie Jacobson) e soprattutto dalla recita domestica durante il Purim, documento inestimabile di quella forma teatrale. Questi tre elementi sono incastonati nel racconto, dunque arricchiti dalla rappresentazione del contesto: si pensi ad esempio alla parata del circo, che sfila per le strade con i cavalli, gli acrobati e i giocolieri tra la folla allegra ed estasiata (di cui fa parte Ester, che s’innamora di Dick al primo sguardo), o al luna park di Varsavia con le sue “montagne russe”. Quando il povero ciabattino Nukhem (Isaac Samberg), padre di Ester, riceve una grossa eredità, questi vorrebbe maritarla con un giovane di condizione agiata, invitato con i genitori alla festa di Purim. In questa occasione il purimshpiler Gestl, innamorato di Ester, approfitta della recita per insultare i ricconi invitati. Gestl ha organizzato lo spettacolo con la troupe circense per creare un diversivo, dunque mentre gli invitati assistono alla storia dello scampato massacro di massa, Ester fugge, accompagnata da Getsl che si accontenta di essere suo complice, per sottrarsi al matrimonio combinato e cercare il proprio amato, ritrovato infine come attore in un varietà.
53Dopo questi passaggi, vediamo il nuovo terzetto in un cabaret della capitale. Ester balla e canta assieme al marito, mentre Gestl osserva triste e poi, preso dalla nostalgia, ritorna allo shtetl, dove poco tempo dopo arriva anche la nuova coppia, che riesce a ottenere una riconciliazione generale. Mentre il ciabattino arricchito accetta di avere per genero un clown, Getsl si rimette in cammino, accettando il proprio destino di luftmentsch, la creatura fiabesca capace di rendere felici gli altri più che se stesso.
54In questo film – s’è detto – si assiste a una tipica rappresentazione domestica del Libro di Ester. Al di là del significato proto-sionista della vicenda di Ester e Mardocheo (un’eroina e un comico), in quanto i due riescono a evitare il massacro degli ebrei ordinato da Assuero, re di Persia, su consiglio del ministro Aman, ciò che qui si dimostra è il carattere propriamente teatrale, ovvero gnosico-patico, di una performance che prevedeva la pantomima, la parodia dei testi liturgici, l’intervento di un finto rabbino (Purim rov) e il ricorso al gergo vernacolare proprio di ogni contesto sociale e linguistico. Spettacolo di e per tutte le classi sociali della comunità, il Purim-shpil fa emergere nel rovesciamento carnevalesco il dubbio e persino la derisione della Rivelazione, contraggenio ribadito nei confronti di tutti i brani biblici che entrano nel suo repertorio. Il film lascia intendere come questi spettacoli fossero preparati annualmente sempre dagli stessi gruppi di persone, con “copioni”, ruoli e costumi che si trasmettevano di padre in figlio, da “compagnie” che normalmente giravano di casa in casa. E si comprende inoltre come per “tradizione” non si debba intendere qualcosa di immobile, ma un nucleo di senso che si traduce continuamente nelle circostanze date, anche con l’aggiunta di arricchimenti drammaturgici come le allusioni irriverenti a personaggi locali (qui gli attori guidati da Getsl prendono in giro piuttosto rudemente i ricconi invitati per accasare la graziosa Ester).
55Un altro aspetto importante di questo Purimshpiler consiste nell’essere recitato da un complesso di attori, e dei migliori, abituati a stare in scena insieme, a fare squadra. Potere assistere al concertato recitativo di interpreti della scena come Zygmunt Turkow, Miriam Kressyn, Max Bozyk, Hymie Jacobson e Shmuel Landau è un’occasione assai rara. E il tutto è innestato in una trama di quelle care a Green, il regista che aveva lasciato la Polonia per l’America nel 1924 ma ritornava sempre a quell’ambiente unico e in via di sparizione per girare i propri film, mettendo assieme attori dei due paesi.
56Der purimshpiler fu girato in una fattoria non lontana da Varsavia e (di nuovo) nello shtetl di Kazimierz. Tra gli attori polacchi vi è il codirettore del Teatro Yiddish di Varsavia, Zygmunt Turkow. Gli stessi costumi e oggetti di scena furono recuperati da alcuni cabaret della capitale polacca che sarebero stati distrutti dagli imminenti eventi bellici, esito letale che purtroppo toccò a diversi attori e tecnici, il che aggiunge al film una nota triste e toccante. Altra beffa è quella operata dai nazisti nel 1941 utilizzando un frammento di Der purimshpiler per il loro film di propaganda Der Ewige Jude (Leterno ebreo).32
57Questo affresco di un mondo al tempo stesso pieno di vita e appena scomparso fu bene accolto all’uscita, sia a Varsavia che a New York, registrando comunque un riscontro minore rispetto a Yidl mitn fidl; soprattutto il film non fu considerato – come Green avrebbe voluto – un’opera «universale», ma un appello sentimentale rivolto agli ebrei d’America, o meglio, a quelli tra loro che provavano nostalgia per i luoghi di provenienza. Ciò probabilmente avvenne perché le personalità degli autori, in quest’occasione, risultano oscurate dall’ambizione di riproporre gli elementi che avevano determinato il successo di Yidl. Retrospettivamente Green avrebbe avanzato anche altre spiegazioni, ad esempio dicendo che Turkow non era l’attore giusto per il protagonista, che era troppo alto e poco divertente, e si dichiarò pentito anche di aver commissionato le musiche a Nicholas Brodskij, aggiungendo infine che una compagnia di attori girovaghi sarebbe stata più funzionale al racconto della compagine circense.33
58Joseph Seiden, il produttore di Ikh vil zayn a mame (Voglio essere una madre) non conosceva lo yiddish, non disponeva di capitali e realizzava i propri film risparmiando forsennatamente su tutto. Questo film fu girato praticamente in clandestinità, data l’inagibilità dello studio a causa dell’utilizzo di materiali altamente infiammabili. Inoltre in quella estate del 1936, tra clima esterno torrido e i riflettori faceva un caldo terribile, lo studio era un vero e proprio sweatshop in cui tutti si proteggevano con asciugamani bagnati e cercando di stare il più possibile vicini a provvidenziali blocchi di ghiaccio.
59In questo caso Seiden ingaggiò ancora George Roland come regista (poi ne avrebbe fatto a meno, credendo di avere imparato il mestiere di regista) e i brillanti Leo Fuchs e Yetta Zwerling come attori. Fuchs era da poco arrivato in America e accettò volentieri un compenso misero. Doveva girare la sera tardi, dopo lo spettacolo, ma è significativo che una volta, dimenticatosi dell’impegno, se ne andasse a casa. Seiden lo tirò personalmente giù dal letto, lo trascinò sul set e guidò l’attore assonnato a fare ciò che doveva come fosse una marionetta. Il procedimento non pregiudicava l’abilità dell’attore, che in realtà è decisivo nel film (e nel corto che ne seguì, come vedremo), pur essendo questo un melodramma nel quale Fuchs e Zwerling figuravano soltanto nella trama comica secondaria.
60La vicenda lacrimosa è quella della ragazza madre Amelia (Hanna Hollander), costretta a dare via la propria neonata. Questa, Celia (Esta Salzman), viene adottata dallo zio, un severo rabbino. Passano gli anni e giunge il momento del matrimonio di Celia, al quale la madre partecipa nonostante la proibizione del rabbino. Il contrasto tra madre naturale e padre adottivo porta Amelia a manifestarsi, dando vita così alla sequenza definitiva. Per l’occasione arriva dalla California il padre dello sposo, che si rivela essere l’uomo che aveva sedotto e abbandonato la giovane vent’anni prima, al che Amelia esclama: «Tuo figlio ha sposato tua figlia!». Al climax drammatico e scandaloso segue l’inevitabile happy end perché si rivela che il promesso sposo è stato adottato.
61Altri interpreti, costanti nelle produzioni di Seiden, sono Rose Greenfield e il cantore Leibele Waldman, mentre i sopraggiunti Leo Fuchs e Yetta Zwerling dovrebbero essere i comici di contorno (si ricordi sempre: «Risate attraverso le lacrime»): lui è un amico di famiglia che si produce in una serie di gag con la meydl fun ganz Vilna (grosso modo “la bella ragazza di Vilnius”). I due furono così simpaticamente straripanti da creare un film nel film.
62Ikh vil zayn a pansyoner (Voglio essere un pensionante) è nient’altro che un numero di varietà filmato da una macchina da presa fissa dietro la quale c’è Joseph Seiden. Per quindici minuti, Yetta Zwerling, una delle più tipiche e brillanti caratteriste della scena e del cinema yiddish, gioca con Leo Fuchs: lui è Chaim, il primattore leggero, lei è la sua spalla, ovvero lui è una sorta di sintesi yiddish tra Fred Astaire e Marty Feldman, mentre lei è una Ginger Rogers divenuta una moglie petulante, insopportabile, eppure furba e simpatica. È un esempio di teatro leggero che equivale per contenuti e abilità degli interpreti a quanto negli anni Trenta-Quaranta si poteva vedere nei migliori teatri delle varietà europei e americani.
63Il corto ha una genesi interessante, che merita di essere raccontata. I due attori avevano improvvisato come personaggi di Ikh vil zayn a mame, film nel quale la loro presenza era diventata debordante a scapito della trama melodrammatica principale. Seiden, anziché frenarli, li aveva incoraggiati e infine aveva estratto quei quindici minuti di provenienza teatrale e sviluppati sul set cinematografico per realizzare un altro titolo che in effetti, nonostante il formato, ebbe un buon successo commerciale.
64La scena tra due simpatici e nevrotici coniugi che non si sopportano più comincia con Chaim che minaccia la moglie: «Dammi il divorzio o me ne vado». Lei, di fronte a tale incongruenza, rilancia e si propone a lui in una nuova veste, ossia come colei che lo ospita. Chaim, non più da marito ma come pensionante vede la donna in una luce nuova e ne diventa uno spasimante. La finzione funziona al punto da chiederla in sposa, sentendosi rispondere «Non posso, sono sposata». A questo punto ridiventa un marito geloso e offeso che per questo esige il divorzio, dichiarando che convocherà davanti al giudice il pensionante come proprio testimone. Gli equivoci e il va e vieni di ognuno tra i due ruoli procedono con ritmo incalzante fino al momento in cui lui è folgorato dalla fantasia che lei per amore del pensionante stia pensando di ucciderlo, da cui la decisione: «Questo è ciò che progetti! Vattene da me!».
65Linvenzione teatrale, oltre che divertente in sé, funzionava con riferimento al nuovo culto del matrimonio che caratterizzava quegli anni. Quando i due si immergono nella finzione, il rapporto tra loro si ravviva, specie quando Chaim, ubriaco, sogna di cantare, ballare e farla divertire. L’eccitante atmosfera del tradimento con se stessi e sotto mentite spoglie è distrutta allorché lei confessa al “pensionante” di voler eliminare il marito e questi, costernato, è costretto a ritornare alla realtà. Entrambi gli interpreti si equivalgono nei frequenti duetti canori, mentre lei è la comica per eccellenza, ovviamente bruttina, e lui il brillante ed elegante che si distingue per la propria bellezza sinuosa e mondana, specie nella danza. Il quadro è quello di un mondo non-più-yiddish, di ebrei assimilati (anche la loro lingua si sta trasformando, ora è un divertente yinglish) la cui relativa routine piccoloborghese diventa sopportabile soltanto (rappresentandola) con una buona dose di ironia e autoironia. J. Hoberman definisce giustamente questo avanzo che diventa un film autonomo «un piccolo classico del surrealismo yiddish, sorta di anello mancante tra i Fratelli Marx e il teatro yiddish».34
66Vu iz mayn kind? (Dov’è il mio bambino?) è innanzitutto l’occasione di vedere all’opera un’attrice capitale, tanto per la storia che rappresenta, essendo figlia di Dinah Feinman e Jacob Adler, quanto per la sua bravura, purtroppo documentata (assieme alla sua inesperienza nel recitare dinanzi alla macchina da presa) soltanto da questo film35 che, tratto dal regista da un racconto di Louis Freiman, racconta la storia di una donna arrivata dall’Europa orientale a New York nel 1911, al culmine del movimento migratorio.
67La protagonista Esther Liebman è sola, povera, vedova da poco e con un figlio piccolo. Disperata nel rendersi conto che non riesce a prendersi cura del figlio, lo cede in adozione, ma poco dopo, pentita della decisione presa, irrevocabile per norma di legge, e ossessionata dall’idea di riunirsi a lui, che comunque costituisce una insopprimibile ragione di vita, passa i venticinque anni seguenti a cercarlo. Le tappe della vicenda sono raccontate secondo un ricco catalogo di situazioni topiche del melodramma yiddish, che naturalmente comprende una trama secondaria comica e canzoni, personaggi stereotipati, coincidenze fortuite e happy end. Il nucleo drammatico è quello dei rapporti tra madre e figlio, una corrente che unisce per sempre anche due persone separate dalle circostanze della vita, una relazione idealizzata secondo la cultura e la drammaturgia yiddish, una rappresentazione che tanto dalla scena quanto dallo schermo stabiliva con gli spettatori un dialogo ininterrotto, fatto non solo di intense reazioni emotive ma anche di espressioni verbali che facevano diventare il pubblico un secondo spettacolo.
68Lideologia, o meglio la visione del rapporto tra genitori e figli dispiegata in Vu iz mayn kind? va riferita naturalmente al momento in cui il film fu realizzato, nei secondi anni Trenta, ossia quando appariva chiaro alle prime generazioni di nuovi arrivati nella goldene medine che i vantaggi offerti da quel mondo comportavano anche un problematico ripensamento dei legami famigliari e della religione, ma anche – come è testimoniato da altri film, ad esempio On a heym – dell’assetto e della salute psichica. La crisi dei legami famigliari era il principale luogo di proiezione della potente vulgata psicanalitica di grande presa sulla società americana del tempo e con l’occasione si mostrava anche il rude trattamento riservato alla protagonista Esther Liebman dalle istituzioni psichiatriche.
69Dei film yiddish di Edgar G. Ulmer si occupa con ineguagliabile competenza cinematografica Alessandro Cappabianca. Come in altri casi non resta, in sede preliminare, che proporre alcune glosse utili a evidenziare l’interazione con la drammaturgia e la scena teatrale. In questo senso di Der zingendiker shmid (Il fabbro cantante) non c’è molto da dire. Concepito come un seguito e una sintesi di Dem khazns zundl e Grine felder dalla Collective Film Prod. (nome che già dice molto), il film è basato sulla sceneggiatura tratta dall’omonimo testo teatrale del 1906 di David Pinski e ripensata in funzione del protagonista Moyshe Oysher. Il primo dei nuovi autori è il drammaturgo Osip Dymov, coadiuvato da Ben-Zvi Baratoff e dallo stesso Pinski.36 Oysher è affiancato da attori della compagnia di Maurice Schwartz e autore delle partiture musicali.
70D’impostazione naturalistica, Der zingendiker shmid propone l’analisi psicologica di una passione fisica travolgente, una patologia, quella di Yankl il fabbro che ama la propria gracile Tamara (Miriam Riselle), ma soccombe alla seduzione di Rivke (Florence Weiss, moglie nella vita di Oysher e utilizzata come attrice in ruoli poco convincenti di ammaliatrice d’uomini). Tutto ciò con un curioso capovolgimento dei dati biografici, poiché Oysher beveva, fumava, non era religioso e aveva fama di grande seduttore, mentre la moglie, dalla quale avrebbe presto divorziato, era una donna moderata. Gli autori della sceneggiatura, comunque, alleggerirono la trama dell’originale creando un lungo prologo e aggiungendo alcuni personaggi, per lo più comici.
71Il film inizia con il fidanzamento tra Yankl e Tamara, ma poi torna all’infanzia del fabbro, quando, da ragazzo (interpretato dal figlio d’arte Herschel Bernardi) viene tolto dal cheder e affidato dal padre al fabbro Bendl, grande bevitore (interpretato dal bravo Ben-Zvi Baratoff). Il ragazzo passa i primi anni nel povero shtetl russo senza ricevere un soldo, impara il mestiere e infine, da adulto, eredita l’attività. Lo vediamo lavorare all’incudine e cantare, cosa che farà spesso durante il film, anche nell’osteria del paese. Qui gli amici lo prendono in giro affettuosamente e gli consigliano di sposarsi, ma lui resiste, in effetti è uno scapolone assai diverso dagli ebrei in kapote e con le payes che si vedono in altri film, è robusto, vitale, piacente e vorrebbe integrarsi nel paese in cui si trova. Insomma appartiene a un’altra generazione (anche cinematografica) di giovani ebrei.
72Dopo la frustrazione di un accoppiamento mancato con una ragazza da cui si sente attratto, e dalla quale è ricambiato, che viene portata via dal fidanzato, lo vediamo cantare per strada, e vediamo Tamara che lo ascolta dal proprio letto e si strugge. Yankl poi va dalla mezzana Chaye-Peshe (Anna Appel) per farle chiedere la mano di Tamara (il loro dialogo esprime in breve quale sia la funzione sociale di questa tradizione), che accetta contro il parere degli zii che l’hanno cresciuta. Quindi la sposa, non senza aver fatto comprendere allo spettatore che lo fa perché “si deve”. Anche Tamara ha qualche dubbio su di lui, ma lo preferisce comunque ai ragazzi vecchio stile, gli yeshive-bokher. I due conducono una vita tranquilla, ovvero monotona, e solitaria, perché lui è di condizione sociale inferiore e percepito come un estraneo.
73Rivke (Florence Weiss), una cantante, donna irrequieta che vive nello shtetl, lascia il proprio marito a arriva a casa della coppia per chiedere una camera in affitto, che ottiene nonostante i mugugni dei vecchi e le obiezioni di Tamara. Quando questa esce a fare la spesa, ecco arrivare la tentazione: Rivke chiama Yankl nella propria camera con una scusa… Poco tempo dopo, Tamara dà alla luce un bambino e, sentendosi tremendamente sola, soffre per il tradimento ormai evidente, seppure non dichiarato. Un giorno siamo con il fabbro cantante in fucina. Rivke lo guarda estasiata quando sopraggiunge il marito per un tentativo di riconciliazione, lei lo caccia e poco dopo finisce tra le braccia di Yankl il quale, inebriato di vino ed eccitato, caccia un cliente. Arriva Tamara e dopo uno scambio di asprezze, lui se ne va. Lo vediamo vagare per le strade di notte, incontrare il suo ex padrone che lo invita a tornare a casa. Intanto le due rivali si parlano, senza intendersi, ma l’uomo ritorna, infine pentito, ha deciso e chiede perdono alla moglie. Abbraccio finale.
74Più scuro e inquietante di Grine felder, con l’immissione di qualche effetto espressionista (come gli oggetti fuori misura nell’inquadratura), con esterni girati in uno shtel approssimativamente ricostruito nei dintorni di New York, il film all’inizio durava due ore e mezza, poi portate a circa cento minuti con il taglio di diverse scene, rendendo così l’azione decisamente più tesa. Der zingendiker shmid fu girato in economia, sul terreno di un monastero confinante con un campo nudista da una parte e uno di nazisti americani dall’altra, un set che sarebbe stato utilizzato da Ulmer anche per un altro film, girato quasi simultaneamente, Cossacks in Exile.
75È forse opportuno sottolineare, a questo punto, una modalità teatrale di cui ha beneficiato il film. I protagonisti Oysher e Weiss erano due divi, conosciuti e accettati dal pubblico come cantati; come attori sarebbero stati nella categoria dei “generici”, erano insomma tutt’altro che carismatici ma furono trasformati in divi in quanto oggetto di un apprezzamento precostituito. Queste caratteristiche li rendevano l’ingrediente principale del film (e della storia costruita a loro misura), ma non bastavano. Per dare al film tutti i sapori di cui effettivamente vive servivano altri attori, i cosiddetti caratteristi, interpreti quasi sempre secondari capaci di dispiegare una gamma di sapori (caratteri) intensi e differenziati, e di lavorare insieme, di concerto. In questo caso l’accorta scelta degli autori e la sapienza di Ulmer portò all’utilizzo di alcuni dei caratteristi, naturalmente di provenienza teatrale, sempre uguali e sempre diversi, che sono l’essenza del cinema yiddish (e che infatti ritroviamo in diversi film), come Anna Appel, Ben-Zvi Baratoff, Michael Goldstein, Leah Noemi, Judel Dubinsky e il giovane Hershel Bernardi, figlio d’arte destinato a una lunga fortunata carriera. Sono nomi che di solito il pubblico nemmeno impara, però abituandosi alla loro aura di senso che, sempre riconosciuta, benché magari inconsciamente, assicura al discorso-film la propria peculiare struttura.
76Nel novembre del 1937 si tenne l’affollatissima prima. In sala si mescolavano i monaci padroni di casa con i fan di Oysher e Weiss che esplodevano in applausi a ogni scena, approvando anche alcune cadute di gusto come gli “abbellimenti” nei canti. Un pubblico da varietà, di allegria incontenibile. Alla proiezione seguì, tra l’altro, un discorso del priore che spiegava, bontà sua, l’antisemitismo tedesco come una manifestazione tutto sommato comprensibile di anticomunismo. Le critiche a quello che era percepito come un film progressista furono quasi tutte favorevoli, anche facendo leva sulla presenza nel cast di due interpreti provenienti dalla compagnia comunista Artef come Michael Goldstein e Luba Rymer, fantasticando sulle questioni di classe sollevate del film, sui personaggi popolari e le belle canzoni (in particolare l’inno al lavoro intonato dal fabbro). Soltanto un settimanale sionista avanzò l’accusa di avere ceduto alla banalità della cronaca anziché accordare attenzione agli eventi della storia (ciò mentre in Germania si celebrava su istigazione di Goebbels la Kristallnacht, con omicidi, distruzioni e deportazioni di ebrei). Insomma Der zingendiker shmid fu percepito, chissà se voleva esserlo, come un messaggio “sovietico” (che precedeva di poco l’apparizione del sindacalista marxista di Onkel Moses).
77C’è da chiedersi perché un film così diverso da tutti gli altri come Der dibek (Il dibbuk) sia considerato pressoché da tutti il più significativo e importante tra quelli yiddish. Una risposta si trova nel denso e al tempo stesso limpido testo di Ugo Volli che appare nella seconda parte di questo volume, testo del quale ci limiteremo a riprendere qui alcuni spunti.
78Come possiamo ripetutamente constatare nella nostra rassegna, il tema dominante del cinema yiddish, soprattutto di quello americano, è il “che fare” rispetto ai valori della tradizione e alle nuove condizioni di vita, ossia tra conservazione e assimilazione, con tutta la gamma di possibili opzioni tra i due estremi. Nel caso di Der dibek – e nel 1937, nel momento più alto di una cultura yiddish che stava per essere annientata dagli eventi storici – l’attenzione è rivolta al mondo chassidico già scomparso, dunque a un fantasma, in molti casi un oggetto che suscitava nostalgia o inquietudine, e qui appare come il paesaggio di una riflessione su contenuti e modi di funzionamento della tradizione, una tradizione che per questo era presentata in un isolamento non corrispondente alla realtà storica, poiché dalla nascita del fenomeno a quel momento, e ancora oggi per ciò che resta, il chassidismo è al tempo stesso un mondo a parte e un fenomeno che interagisce con i vari ambienti nei quali è stanziato.37 Come spiega Volli, la visione di quel mondo trasforma un documento etnologico in materiale leggendario38 e ciò avviene per opera di una serie di autori che, a partire da An-skij per arrivare agli autori del film, sono donne e uomini moderni, laici, socialisteggianti, comunque molto distanti da esso. E affrontano il tema della possessione amorosa e del suo intreccio con la morte non per un cinico progetto commerciale, anche perché nessuno avrebbe potuto prevedere un tale successo del film, ma per ragioni più profonde, non per spiegare qualcosa a masse di pubblico ma per riflettere su qualcosa che si vorrebbe comprendere.
79Il film, come ogni opera d’arte teatrale e cinematografica, è una creazione di molti autori, perciò contiene più strati di senso, una meditazione che dà vita a un “capolavoro” la cui densità interpella anche il pubblico di oggi. Der dibek non racconta la Storia e nemmeno espone una qualche visione del dover essere nel mondo: riferendosi a un mondo scomparso compone una fiaba, vale a dire un racconto di metamorfosi umane costellate necessariamente di eventi mortali, di passaggio o definitivi, fiaba nella quale si riflettono le vite di tutti i suoi autori. La “durata della verità” delle opere di questo genere dipende appunto dal loro superare le contingenze storiche e dal relativo “sfondamento” dei paradigmi ideologici. In questo caso gli autori si sono ritrovati insieme spinti dalla casualità e dalla necessità della storia per raccontare di un legame amoroso che fa saltare tutti gli schemi sociali e i tentativi di inquadrarlo, siano essi tradizionali (magici, in effetti) o razionali. Leah e Khonen sono giovani in conflitto con i rispettivi genitori, ma in questo caso, a differenza di molte altre narrazioni yiddish, sono loro ad agire in base a leggi ancestrali, o meglio a impulsi psicofisiologici non scelti, non decisi ma che hanno preso possesso di loro, indisponibili ad agire in base a criteri di opportunità sociale e convenienza economica. Per questo, conclude Volli, «il senso vero della storia non è la critica razionalista di una comunità superstiziosa, che pure probabilmente Sholem An-skij sentiva, ma il dramma della sua inevitabile dissoluzione», una dissoluzione cui non fa seguito una nuova “tradizione”, vale a dire un paradigma più efficace nella regolazione delle psicofisiologie. Gli autori del film condividevano un sentimento primario, elaborando il quale in forma di materiale audiovisivo hanno creato un’opera vibrante anche per gli spettatori di ieri e di oggi.
80La questione di un amore impossibile sia nella comunità retta da modelli tradizionali, ovvero da equilibri e compromessi, sia in un mondo che ha superato quei modelli, in teoria più libero di scegliere, si pone perché i due giovani sono investiti, in un momento di transito, da forze ancestrali, cui si può rispondere soltanto assecondandole fino alla coincidenza di amore e morte. In questo senso il paragone tra il Dibek e il Romeo e Giulietta shakespeariano è quanto mai appropriato, anche se differenti sono i contesti storico-sociali in cui si svolgono le due vicende.39 Insomma, quello dei nostri autori è, potremmo dire, un materialismo integrale, che comprende nel proprio orizzonte anche la potente azione di quelle forze invisibili normalmente governate dalle religioni. Ancora riprendendo Volli:
La cultura cui si riferisce Shakespeare è quella della lotta tra famiglie e clan, della spavalderia individuale degli aristocratici, dell’onore, dell’impotenza dell’autorità civile, dell’assenza dello stato. An-skij guarda a una società in cui progressivamente il valore economico prevale su quello religioso, ma in cui ancora agiscono forme di culto, di saggezza e di autogoverno regolate da un lato dal legalismo talmudico e dall’altro dal carisma degli tsaddik, spesso organizzati per dinastie.
È questa idea di Zivilisation che crea problemi inediti e insuperabili, destinati a procurare allora come oggi un certo turbamento negli spettatori. Ciò detto, però, è bene ricordare che siamo di fronte a un’opera performativa, non a un saggio o a un trattato, una composizione la cui identità effettiva non dipende dalle intenzioni degli autori, né dalla loro psicologia e tantomeno dalla sociologia: ogni opera di senso e di valore racconta le vite dei propri autori, nelle quali la storia è una “immagine”.
81A questo punto, per dimostrare questa ipotesi, bisognerebbe raccontare esattamente cosa cercava Sholem An-skij, com’erano le vite di Alter-Sholem Kacyzne, Mark Arnshteyn, Anatol Stern, dei produttori della Feniks Film, tutte figure che appaiono spesso nei nostri volumi, anche se nessuna con la monumentalità che meriterebbe. Loccasione presente suggerisce di insistere su una figura prima mai citata, estemporanea rispetto al teatro e al cinema yiddish, tanto poco conosciuta quanto degna di attenzione per il ruolo svolto: è Michał Waszyński, il regista, ovvero il coordinatore generale del Dibek.
82Waszyński, genio incostante oggi oggetto di una riscoperta internazionale, uno dei molti talenti sprecati del Novecento, era nato nel 1904 a Kovel, Volhynia (una delle regioni fondamentali per la ricerca etnografica di Sholem An-skij), allora appartenente all’Impero Russo della Polonia e oggi in Ucraina. Il suo nome era Moshe Waks, la sua era una famiglia benestante (il padre fabbro, la madre commerciante di pollame) ma non certo aristocratica, come lui mostrava e dichiarava di essere (nella Roma del secondo dopoguerra si faceva chiamare addirittura “Principe”). Precoce e irrequieto, all’età di quattordici anni fu schiaffeggiato da un insegnante ed espulso dalla scuola per le sue domande impertinenti sui demoni, l’anno dopo era a Kiev, nella cui scuola di teatro ricevette una formazione da attore. Stando ai suoi racconti, non ancora verificati e sospettati di mendacità dal suo biografo Samuel Blumenfeld,40 riconosciuto come un genio precoce, avrebbe avuto varie esperienze artistiche di formazione, tra l’altro con Evgeni Vachtangov. Di lui diremo qualcosa fino alla realizzazione del Dibek.41
83A parere del sottoscritto, una influenza decisiva su di lui fu quella esercitata da Friedrich Murnau, al quale fu accanto in occasione della realizzazione del capolavoro del cinema espressionista Nosferatu (o meglio: Nosferatu, eine Symphonie des Grauens / Nosferatu, una sinfonia degli orrori). Chiunque abbia in mente i due film non avrà difficoltà a riconoscere che vi è alla base un sentimento del mondo assai simile.42 Dopo quella fatidica esperienza accanto a regista tedesco – il quale oltretutto era un omosessuale simile a lui, amante di bei giovinetti che gli piaceva mostrare in pubblico, il nostro ritornò a Varsavia, dove cambiò il proprio nome in Waszyński dietro suggerimento di Victor Biegański, regista affermato e suo nuovo mentore, di cui divenne assistente personale e per il quale recitò nel film Zazdrość (Gelosia). Attraverso Biegański, Waszyński incontrò Aleksander Hertz, proprietario del più importante studio cinematografico polacco tra le due guerre, e cominciò la propria intensa carriera di realizzatore. Nel corso degli anni Venti affinò la propria formazione come assistente di vari registi, tra cui Henrik Szaro e collaborò con case di produzione come la Sfinks, Leo Film e Feniks, tutti nomi che abbiamo già incontrato. Si fece una solida fama professionale per la sua capacità di lavorare a ritmi serratissimi, contenendo al massimo i costi e in vari ruoli: ciò fino al 1929, quando firmò per la prima volta come regista con Pod banderą miłości. Lo stile dei suoi film e l’esibita vitalità mondana – soprattutto dopo il benessere che gli permise dal 1931 di vivere in una villa, condurre una vita raffinata e dispendiosa e viaggiare per il mondo – gli attiravano giudizi contrastanti, anche ferocemente negativi da parte della critica ma assai positivi da parte del pubblico. Waszyński non ha lasciato alcuna testimonianza delle proprie opinioni, tanto che il documentario citato si affida ad alcuni suoi conoscenti e ai suoi suoi diari rimasti inediti fino a oggi. Tutti i ricordanti sono concordi nel dire che “viveva in un mondo di sogno”, le bugie e le fantasie erano la sua realtà. In particolare i conoscenti ebrei lo definiscono un vero apikoyres (un ebreo laico, così definito in riferimento a Epicuro), il cui comportamento era spesso in contrasto con l’asprezza delle circostanze, un uomo che si faceva forza della sua scelta transgender, frequentava lussuosi locali per omosessuali e gli piaceva ostentare le relazioni con diversi giovani partner. Tutto ciò nella Polonia degli anni Venti e Trenta, nella Varsavia così efficacemente descritta da Isaac B. Singer in Ricerca e perdizione. Uno dei suoi più vistosi travestimenti fu quello di dichiararsi cattolico (non si sa esattamente a partire da quando).
84Negli anni Trenta firmò come realizzatore principale ben trentasette dei centoquarantasette film prodotti in Polonia, ma soltanto con Der Dibek, il suo unico in yiddish e di carattere ebraico, ottenne il primo di successo unanime di pubblico e di critica. Sono dati molto significativi. Qui ci limitiamo a porre soltanto alcune questioni relative alla cultura yiddish. C’è da chiedersi, innanzitutto, perché e come Waszyński si sia posto il problema delle proprie radici ebraiche. Con Dibek, girato in un villaggio vicino al suo nativo, anche il regista, come già An-skij, dimostra di sentirsi sospeso tra due mondi: stesso sentimento di struggimento indecifrabile di fronte a un mondo che scompare, assai diverso il trattamento poetico. Il film di Waszyński – che era molto assecondato dai co-realizzatori – accentua l’aspetto gotico della vicenda, intreccia al nastro visivo espressionista sghembo e fitto di chiaroscuri della figurazione una partitura musicale estremamente accurata (composta da Henikh Kahn, mentre le canzoni rituali sono di Gershon Sirota)43 e vocale (per questa bisogna pensare agli attori e in particolare a Morevsky, che sembra “dare il La” a tutti i protagonisti) e, last but not least, valorizza la componente erotica ben oltre l’originale, com’è evidente quando vediamo dietro la finestra Khonen immerso nell’acqua e nei vapori del proprio estremo bagno rituale e di evocazione magica o quando Leah, posseduta dal dibbuk e felice di esserlo, parla di sé a sé con voce maschile. Ecco l’amore totale, che, come in Shakespeare, in questo mondo può soltanto sbocciare ma non trovare compimento.
85Tra i coautori di questo film Gesamtkunstwerk (qui da intendere soprattutto come lavoro d’arte comune, nella duplice accezione di collettivo e popolare) dobbiamo considerare gli attori, alcuni dei quali provenivano dalla Vilner Trupe, la compagnia che per prima aveva messo in scena Dibek nel 1920 e che, dopo varie scissioni e peripezie, si era dissolta nel 1935.44 Il più importante tra loro è Avrom Morevsky, interprete nel primo Dibbuk del medesimo ruolo, quello del rabbino che pratica l’esorcismo. È assai probabile, benché non documentato, che Morevsky – di cui si parla diffusamente nel primo volume di questa serie – abbia dato un contributo non secondario alla realizzazione del film, almeno per quanto riguarda la chiave recitativa. Oltre a Isaac Samberg, interprete del Messaggero, un altro attore che era stato nella Vilner tra il 1928 e il 1933 è Leon Liebgold,45 che successivamente con la moglie Lili Liliana, Leah nel Dibek, si sarebbe salvato andando negli Stati Uniti nel 1939 con la Yidishe bande, una formazione che esercitò una certa influenza soprattutto per la sua cifra di teatro politico divertente e raffinato (di chiara derivazione dalla magistrale esperienza del cabaret yiddish mitteleuropeo del tempo, il kleynkunst theater). Liebgold e Liliana ebbero una brillante carriera nel teatro yiddish americano fino alla sua fine e appaiono in alcuni film. Delle loro vicende artistico-biografiche, come quelle di artisti di vaglio come Dina Halpern, Samuel Landau e soprattutto Max Bozyk, ci occupiamo negli altri volumi della serie. Degno di nota è anche il fatto che il film recupera alcune scene introdotte dalla versione della Vilner: quella in cui viene eseguito il Cantico dei cantici, simbolo del patto stipulato dai due futuri padri, e la prolungata danza della morte al matrimonio di Leah.
86Abbiamo affermato che Der dibek è un capolavoro, ora dobbiamo fare un passo avanti e aggiungere che lo è nonostante alcune vistose imperfezioni. La sceneggiatura è a tratti claudicante, la recitazione a volte manierata, eccessivamente teatrale. La deformazione espressionistico-grottesca è lungi dall’essere cesellata come nel Nosferatu, l’altro capolavoro cui largamente Waszyński si ispira. Forse anche a causa della fretta e della scarsità di mezzi, nel suo complesso la pellicola dà l’idea di un abbozzo da correggere, di una prima versione, nel quadro della quale attori teatrali più esperti del regista rispetto al testo rappresentato hanno il sopravvento sul linguaggio cinematografico. Ci resta comunque un film inquietante, oggi come ieri, inquietante al punto che Joseph Goebbels, il ministro della propaganda nazista, chissà per quali profonde e probabilmente anche inconsce motivazioni, scatenò i suoi uomini a caccia di tutte le copie della pellicola per distruggerle. Ma sono in molti, e appartenenti a fronti diversi, coloro che nel tempo non hanno apprezzato Der dibek con gli argomenti più disparati, argomenti che, proprio come quelli a favore, di solito si soffermano su uno strato di significato del film, vale a dire sulla celebrazione di un mondo scomparso che, benché portatore di una cultura anacronistica, ricorreva a un’idea di tradizione come mediazione tra razionale e irrazionale, sociale e individuale, spirituale e materiale, una mediazione che per un paio di secoli aveva garantito un certo equilibrio alle comunità chassidiche e che ora si rivelava impraticabile, ora cioè in un clima di relativa libertà dei costumi che inclinava al disastro, fosse esso rappresentato dalla minaccia e poi dalla guerra di sterminio nazista o dalla decadenza etica e morale contestuale a un maggior benessere materiale. Ma ciò che di questo film davvero inquieta e interroga è la sua istanza transgender su tutti i fronti, di messa in discussione radicale dell’identità sessuale e sociale, e al tempo stesso del modo di espressione artistica, che in questo caso va persino oltre il grottesco yiddish che tante volte si è qui evocato.
87Di kraft fun leben (La potenza della vita) è un altro dei film di Henry Lynn che fecero infuriare i critici. L’accusa rivolta all’autore-regista era in sostanza quella di prescindere dal cinema al punto di non segnalare i propri collaboratori, di accontentarsi per la scenografia di un poco di carta da parati, un tavolo e una sedia, e fare a meno di qualsasi idea di regia. Erano film, i suoi, che guadagnavano anche quando incassavano pochissimo. Però sempre, come in questo caso, Lynn riusciva a coinvolgere attori di valore chiedendo loro di recitare in ruoli che avevano interpretato in teatro. Tutto ciò rappresentava un adattamento, la chiusura di un orizzonte ben più impegnativo nel quale Lynn avrebbe forse desiderato operare.
88Il regista factotum, già fabbricante di sapone, nel 1934 aveva realizzato Di yungt fun Rusland (Gioventù della Russia) con la propria promettente casa di produzione Sov-Am Films. Di yungt fun Russland era un lungometraggio musicale e tragicomico sul conflitto tra l’anziano attore yiddish Wolf Goldfaden, interprete di un industriale della scarpa ridotto dalla rivoluzione a fare il ciabattino, e la bella Gertrude Bullman nei panni della figlia Kaile, innamorata del nuovo regime. Di questo film abbiamo parlato nel terzo capitolo; era opportuno ricordarlo qui per segnalare l’involuzione, sia pure in un orizzonte esclusivamente commerciale, che caratterizza questa fase della produzione di Lynn, che noi avevamo incontrato da Di umgliklekhe kale (1932), Yidishe foter (1934), Shir hashirim e Bar mitsve (1935), Vu iz mayn kind? (1937). Di kraft fun leben che sarà seguito, nel 1939, data dopo la quale Lynn lascerà il cinema per passare alla produzione di oggetti di plastica, da Hayntige mames, A People That Shall Not Die e A People Eternal (The Wandering Jew). Di kraft fun leben è tratto da un copione di Isidore Solotarevsky che tratta del sacrificio di un padre (qui Michał Michalesko, affiancato da esperti colleghi come Morris Strassberg e Charlotte Goldstein) che un ingrato figlio americanizzato non apprezza.
89A brivele der mamen, l’ultimo film di Green, fu preceduto da Mamele (Mammina, pol. Mateczka). Non ne abbiamo parlato prima perché Joseph Green lo realizzò contravvenendo al proprio convincimento che non si dovesse fare cinema prendendo spunto da opere teatrali. In questo caso fu convinto da Jacob Kalich e Molly Picon, i quali da anni proponevano negli Usa una commedia musicale di successo dallo stesso titolo. Kalich era convinto che il pubblico cinematografico di diversi avrebbe apprezzato la pellicola, ma non era riuscito a trovare i produttori per realizzarla in lingua inglese. Dunque, sempre in Polonia e con una squadra artistica e tecnica praticamente coincidente, Green diresse questo Mamele appena prima di A brivele der mamen, apportando tuttavia qualche cambiamento all’originale: l’ambientazione della vicenda fu spostata dal Lower East Side a Łódź, la propria città natale, e Ciechocinek, una località di villeggiatura. Konrad Tom si occupò di trarre una sceneggiatura dal copione di Meyer Schwartz, la direzione degli attori fu affidata nuovamente a Jacob Kalich e le musiche di Abe Ellstein si avvalevano delle liriche composte dalla stessa Molly Picon. La protagonista era circondata da grandi caratteristi quali Max Bozyk, Simche Fostel, Gertrude Bulman, Edmund Zayenda e altri; ma poiché l’esito artistico non è mai garantito da una pur sofisticata ingegneria, questa volta le cose non andarono bene come per Yidl mit fidl.
90Del film si occupa più in dettaglio Marida Rizzuti e a quest’altezza della nostra panoramica non resta da dire che qui la giovane “mammina” (il cui nome è Khavtshi Samet) interpretata da una Picon ormai quarantenne46 si agita e si sacrifica in un melodrammino famigliare piuttosto debole. È tenera e divertente nel prendersi cura dei suoi quattro fratelli e del vecchio padre ai quali la madre morente l’ha supplicata di badare e occorre precisare che il film ottenne un discreto effetto con gli spettatori degli Stati Uniti, della Francia e della Polonia ai quali fu mostrato alla fine del 1938. Oggi i cento minuti di questa commedia musicale, con cui forse si intendeva esorcizzare il clima sempre più minaccioso per gli ebrei polacchi, sono interessanti laddove mostrano gli altri ambienti della città (la vicenda si svolge a Łódź), quelli che la sfortunata, benché sorridente, protagonista non può frequentare, i luoghi d’incontro dei disoccupati e degli sfaccendati (mostrati mentre intonano canti religiosi giocando a domino) come degli ebrei religiosi e dei piccoli delinquenti locali, aspetti sui quali purtroppo il film non si sofferma. La giovane Mamele è freneticamente occupata a tenere insieme la famiglia anche dal punto di vista morale mentre rimbalza tra mille occupazioni. L’incongruo andamento fiabesco ci regala qualche frammento di sintesi lirico-poetica divertente, quello proprio della migliore Molly Picon, in alcuni passaggi musicali, ad esempio con l’esecuzione di Abi gezunt (che significa grosso modo “Finché c’è la salute” [puoi essere felice]), canzone destinata a un successo planetario, divenuta simbolo del buonumore e della vitalità con cui i popolani yiddish affrontavano la vita, almeno nelle fiction.47
91Khavtshi-Mamele è un personaggio epico, non si occupa soltanto della propria famiglia ma anche degli animali domestici e di tutto il vicinato, che cerca di difendere dal disordine morale del contesto popolare. Quando il giovane delinquente Max Katz (interpretato da Menashe Oppenheim, attore della Yidishe Bande) si fa credere un rispettabile ingegnere per sedurre la bella Berta (Gertrude Bullman) e per sfruttare la conoscenza delle serrature del fratello più piccolo, fabbro ma non ladro, Khavtshi riesce a salvare entrambi, sempre nell’ingratitudine generale, e conosce il proprio riscatto quando infine si innamora di un giovane affascinante musicista (Edmund Zayenda) che vive dall’altra parte del cortile, trovando la forza di lasciare la propria casa per una felice vita amorosa. O meglio: la famiglia invoca il suo ritorno e lei finisce per cedere, però unendo il ruolo di capo della casa a quello di moglie. Nei ricordi di Molly Picon, il film è presente soprattutto per ciò di cui non parla, ovvero dell’estrema miseria degli ebrei locali, che accettavano di fare da comparse senza alcun compenso soltanto con la speranza di farsi vedere nel film dai parenti lontani.
92Leon Trystan,48 già coregista di A brivele der mamen, fiducioso (in ritardo) circa le possibilità commerciali del cinema yiddish, acquistò un film muto polacco Piętro wyżej,49 lo doppiò in yiddish e lo propose con il titolo Shkheynim (I vicini). La divertente commedia parla di due famiglie che vivono in appartamenti contigui e sono costretti dalle circostanze a una convivenza che non riescono a rendere armonica. In questo caso l’esito commerciale fu sorprendente e positivo: mentre la versione polacca era stata distribuita senza alcun esito, quella in yiddish conquistò un grande pubblico, e la critica che ne sottolineò la spiccata spregiudicatezza rispetto alle altre pellicole yiddish e il debito nel confronti di Sholem Aleichem (oltre che Charles Dickens e Mark Twain).
93Tsvey shvester (Due sorelle) è un film carico dell’umorismo e del pathos tipici dello stile teatrale della Second Avenue. Dopo la solita apertura che mostra le strade affollate del Lower East Side all’inizio degli anni Venti, si passa al modesto interno in cui vediamo una donna sul letto di morte che si rivolge alle due figlie bambine, chiedendo alla più grande, Betty, di fare da mamma per la giovane Sally. Negli anni seguenti Betty (Jennie Goldstein, versatile e affermata attrice di teatro, qui nel suo unico film) lavora senza sosta, sopportando il carattere capriccioso della sorella (Sylvia Dell) e permettendole di studiare da infermiera. Il suo sacrificio sarà mal ripagato perché Sally s’innamora del dottor Max Feinberg (Muni Serebroff), fidanzato di Betty, e riesce a sedurlo, iniziando una relazione clandestina con lui.
94Lo sviluppo della trama è fitto di episodi, tutti indice di un dibattersi senza sapere a quali regole fare appello e scontando il contrasto insanabile tra etica e impulsi sessuali. A ciò si aggiungono i problemi contingenti di una classe sociale non stabilizzata. Essendo il padre delle ragazze malato e lontano, Betty dunque deve provvedere ad aiutare anche lui, lavorando forsennatamente. Sally, turbata da ciò che le sta accadendo, vorrebbe andarsene di casa e tratta male ripetutamente il proprio fidanzato prima di riuscire a lasciarlo. Betty offre aiuto economico a colui che crede il proprio fidanzato, il quale è imbarazzato ma infine accetta e i due si scambiano un bacio dal significato diverso per ciascuno dei due. Lipocrisia, o meglio la debolezza culturale dell’ambiente famigliare, che comprende un zio paterno e il di lui figlio, si sviluppa fino al punto in cui Betty annuncia il proprio matrimonio con il dottore (fa stampare addirittura le partecipazioni) e Sally può soltanto scoppiare a piangere. Nel prosieguo della vicenda si segnalano in particolare due scene, assai ben scritte e ben recitate: quella in cui Betty chiama il dottore e poi va a incontrarlo nel suo studio, credendo di dover discutere della festa di matrimonio, ma lui le chiede di rompere perché ama un’altra: Betty attonita dapprima controbatte «Ma tu sei mio» e infine si arrende, oltretutto scoprendo che si tratta della sorella; e il seguente confronto tra le due sorelle, a casa, che Betty affronta con la sicurezza dell’etica, rispondendo a una Sally che dichiara di amare il dottore con «Non devi» e infine crollando. Anche Sally, consumata da sentimenti contraddittori, è disfatta e sta per gettarsi dalla finestra, e ancora una volta l’imperativo vitale è di Betty, che la trattiene e dichiara solennemente di accettare la situazione e che continuerà a farle da mamma. Ma non è finita. Dopo che Sally e il dottor Feinberg hanno deciso di sposarsi, arriva l’anziano padre da Denver credendo di partecipare al matrimonio di Betty. Quando scopre cos’è successo cala una tristezza generale. Betty cerca di convincere il padre che bisogna rispettare il flusso dei sentimenti. Una variante di questa logica del sacrificio di uno per il bene di tanti si ha nel dialogo successivo tra Betty e Max, quando lui le chiede perdono e lei glielo accorda in cambio di un ultimo ballo. Poi resta un poco da sola a meditare. Di là, si tiene una cerimonia matrimoniale senza allegria. La chiusa è di Betty che sussurra al ritratto della madre: «Ho mantenuto la promessa».
95In bilico fra tragedia o commedia questa storia banale (anche nell’accezione di plausibile e comune) ha il pregio di posare su dialoghi ben scritti, che ricordano alcune sequenze ibseniane, e soprattutto sulla pregevole interpretazione di Jennie Goldstein, che qui, a quarantadue anni, in quello che purtroppo è il suo solo film, dimostra quanto fosse meritata la sua fama di grande attrice. Anche la data del film è importante, non in quanto eco degli eventi storici incombenti, ma come documento dei tormentati stati d’animo di una generazione ebraica di passaggio, in completo disequilibrio tra valori vecchi e nuovi, una generazione costretta a maturare senza avere il tempo di riflettere. Un altro elemento pregevole di Tsvey shvester è costituito dalle musiche (non ci sono canzoni) di Josef Rumshinsky, che non sono di semplice accompagnamento e creazione di atmosfera ma spesso fanno da contrappunto e commento all’azione.
96Tratto da uno dei copioni teatrali del compositore Sholom Secunda, Der lebediker yosem (Lorfano vivente) ha per oggetto i conflitti e i traumi della seconda generazione di immigrati ebrei negli Stati Uniti, per lo più assimilati, e in particolare di una coppia di artisti il cui matrimonio è rovinato dalla professione teatrale. Il regista Joseph Seiden fece adattare un famoso melodramma della Second Avenue, Mayn zundele (o My Sonny) di Secunda, per farne un film popolare sulla vita nella New York City negli anni Trenta. Il film presenta per la prima volta i due artisti europei Fania Rubina e Gustav Berger.50 I due interpretano una coppia che va in crisi proprio a causa del lavoro teatrale. La vicenda dolceamara è ambientata naturalmente nel Lower East Side, con le sue strade affollate, le insegne luminose della Second Avenue e i locali in stile romeno. Qui vive la particolare minoranza sociale costituita dalla gente di spettacolo, che conduce un’esistenza disordinata, fatta di interessanti eccentricità e di mentalità piccoloborghese, qui si consumano saghe domestiche nelle quali la vita del pubblico si proietta, amplificando desideri e paure. Oltre alle scene girate nel quartiere, ce n’è una bellissima, unica nel suo genere, girata nel Bialystoker Old Folks Home (Ospizio di Białystok).
97Il marito, la cui carriera non decolla, chiede alla moglie di restare a casa per accudire il figlio, ma la donna punta al successo. In apertura vediamo il serioso attore-cantante Muni Berger (Gustav Berger) esibirsi alla radio con il proprio successo Mayn zundele (Il mio bambino), cui seguono molte telefonate di ascoltatori che si complimentano. Già questa è un’interessante testimonianza sul ruolo della radio, anzi delle radio, un’emittente yiddish in questo caso, nella creazione di una nuova cultura di massa negli anni Venti. La profonda pulsione sentimentale espressa dalla canzone – un piccolo infelice per colpa dei genitori, al quale ci si rivolge pentiti dicendogli «Possa il tuo dolore essere il mio» – sarà incarnata dalla moglie Freda Berger (Fania Rubina) che abbandona il figlioletto (l’attore bambino Jerry Rosenberg, o Ross, qui in una interpretazione di altissimo livello) per realizzare il sogno della propria fortuna scenica. Come gli altri film di Seiden anche questo è girato rozzamente, come l’accurato restauro ci permette in un certo senso di apprezzare. Mayn zundele fu uno dei migliori melodrammi shund prodotti a New York in quel decennio, un esempio di cosa si intendeva per spettacoli che fossero in grado di emozionare e al tempo stesso svolgere una funzione educativa. Pare che alcune istituzioni della censura federale chiedessero l’eliminazione di una scena in cui Leybke diceva: «Dovrei andare a lavorare per chi? Per Morgan? Per Rockerfeller, per Henry Ford? Se i capitalisti vanno a lavorare, ci vado anch’io. Ma loro non devono lavorare, sono pieni di soldi». Il film è stato acquistato dal National Center for Jewish Film dagli eredi di Joseph Seiden e restaurato.
98Come si è visto spesso nei nostri volumi, l’interesse di massa per il teatro e il cinema yiddish si accompagnava a quello altrettanto intenso per i suoi artisti, per le loro vicende biografiche di “moderni”. Pertanto la trama del film non merita di essere esposta come una vera e propria storia, perché in essa non vi è uno sviluppo logico bensì un fuoco d’artificio di situazioni melodrammatiche, un percorso di specchi deformanti nei quali tutti gli spettatori potevano riconoscersi, al tempo stesso divertendosi e spaventandosi per qualcosa che sarebbe potuto accadere anche a loro.
99Dopo la performance radiofonica il gruppo di “gente dello spettacolo” si sposta a festeggiare in un locale storico (o, per i più giovani, “esotico”), il Rumanian Grill, nel quale si esibisce un gruppo musicale in costume (all’eventuale spettatore di oggi occorre dire che si tratta di un complesso di qualità). Qui Gustav promette al cantante del gruppo rumeno di aiutarlo a crescere artisticamente. Il Leybke interpretato da Jacob Zanger, essendo marxista, passa il tempo a domandarsi «Per chi dovrei lavorare?». Anche Gustav il divo si lamenta: lo spettacolo è un lavoro che assorbe completamente, impossibile avere una famiglia. Mostra la fotografia del proprio figlioletto e chiede «Dov’è la madre?» «Teatro, teatro!» è la risposta. Lei, la madre, è la diva di una numerosa compagnia. A tavola, nel dopoteatro, ci sono tutti, colleghi, amici e parenti, manca soltanto lei, Freda, che telefona per scusarsi, «Sai com’è il teatro!», e finalmente alle tre di notte li raggiunge. Tra marito e moglie scoppia una discussione: «Devi scegliere tra il teatro e la famiglia». Una volta a casa, lei dispensa al bimbetto in culla un patetico monologo per rassicurarlo sul proprio amore, ma il marito è irremovibile: «Se vai in scena ora non vedrai più il bambino!» Arriva Salkin, l’impresario: Freda deve partire per portare in tournée la “sceneggiata” intitolata Amore di mamma. Un dottore, qualche tempo dopo, visita il bambino e sentenzia che occorre portarlo in California, l’aria di New York non gli fa bene. Lei da Chicago non risponde ai telegrammi, il marito crede per disinteresse, in realtà perché l’impresario glieli ha nascosti. Gustav decide perciò di lasciare il teatro, prendendo atto che il piccolo è orfano di madre e se ne deve ne occupare lui. Dopo diverse settimane la compagnia sta per tornare a New York, e soltanto a quel punto Salkin consegna a Freda i telegrammi. Lei si precipita a casa, ma quando arriva scopre che marito e figlio se ne sono andati. Passano gli anni. Gustav è povero, sua madre è cieca in un ospizio, il piccolo Benny vende giornali per strada, cantando come un angelo e perciò suscitando l’ira dei concorrenti, per cui scoppia una rissa tra loro. Arriva la padrona a chiedere i soldi dell’affitto (lui è l’unico che lavora)… Leibke, lì in visita, canta un motivo che dice «Dai poco e prendi poco!» e che tutto andrebbe bene se si applicasse la sua ricetta per la pace del mondo, ovvero “A ognuno secondo i suoi bisogni”. Reduce da una trionfale tournée europea, arriva in città la diva Freda. Alla radio si esibiscono Olshanetsky e sua orchestra con il romeno baritono Chaim Green, eseguono il solenne canto intitolato America suscitando l’esaltazione generale. Al Palace è in cartellone Amore di mamma, ma Freda non riesce più a recitarlo. Arriva Benny in veste di fattorino con telegramma per la madre. I due si scrutano in modo strano, sono attratti l’uno dall’altra, ma non sanno. Il telegramma è dei detective che lei aveva assoldato per cercare i suoi ex familiari, che non si trovano. Lei parla con Benny, lo invita a teatro. Quando torna a casa, il ragazzo riferisce l’accaduto all’anziano padre e questi sobbalza, capisce, ma non gli rivela niente. Siamo di nuovo al cafè-concerto rumeno: esce Muni, vestito da Pierrot, barcollante, e canta malamente una canzone sulla Donna e il Serpente. È vistosamente ubriaco, come al solito, e il padrone lo licenzia. Intanto Salkin, produttore populista, porta la propria diva in un ospizio a cantare per beneficenza. Mentre Freda canta di nobili sentimenti in una scenografia di bandiere patriottiche, la madre cieca del marito scomparso si alza per inveire: «Sta dicendo bugie!». Lei abbandona il palco sconvolta, mentre la vecchia cieca la maledice. Freda crolla, poi capisce, la implora, viene perdonata, chiede del figlio, riceve l’indirizzo e corre a casa dei due. Muni avrebbe trovato un lavoro alla radio, ma vedendola ha un attacco di cuore, manda fuori Benny e proclama: «È troppo tardi!». Richiamano il ragazzo e lei gli annuncia di essere sua madre promettendo di comprargli tutto ciò che desidera, ma lui vuole restare con il padre. Comunque le cose sembrano aggiustarsi: Muni è convocato dalla radio e una volta tornato a casa, di nuovo ubriaco, vaneggia sulla futura vita felice. Benny si dà da fare a sua volta andando a rubare dalla padrona di casa, che però si sveglia e gli fa una scenata. Il padre reagisce da altruista: dice al ragazzo che non gli vuole bene e lo porta alla madre, dalla quale naturalmente è accolto a braccia aperte. A Muni non resta che augurarsi la morte, quando arriva Leybke il marxista, che ora si fa chiamare Green. I due arrivano alla determinazione che Benny con la madre sta male e si propongono di recuperarlo. Ma è lo stesso Benny a tornare dal padre per invitarlo a vivere tutti insieme. Il finale è glorioso, irreale. I due cantano insieme alla radio My Son. Sono felici nella professione e nel privato. Un telegramma di Salkin da Londra annuncia di avere fissato per i due, insieme in scena, un tour mondiale, ma Freda ormai ha raggiunto l’illuminazione e proclama: «Non andremo. Il teatro ci ha causato tanta infelicità. Ora la mia nuova carriera è quella di mamma».
100Questo messaggio buonista e quasi perfido (nei confronti degli spettatori) corona il catalogo di temi propri della seconda generazione di immigrati yiddish, un catalogo costellato di canzoni, ossia dei motivi di Sholom Secunda che hanno accompagnato la comunità yiddish americana per almeno un ventennio. Gli spettatori di oggi possono godere di un film del genere attraverso il filtro dell’ironia, dato che hanno problemi assai diversi (anche se probabilmente non meno gravi).
101Edgar Ulmer gira Fishke der krumer (Fishke lo zoppo) nello stesso set di Der zingendiker shmid, ossia sul terreno del monastero, tra l’accampamento nudista e quello nazista. Sceglie come protagonista l’attore teatrale David Opatoshu, figlio di Joseph e membro della compagnia di estrema sinistra Artef. Come confessa nel documentario The Yiddish Cinema (cfr. il prossimo capitolo) il giovane Opatoshu tendeva a una recitazione troppo teatrale e ciò rese necessaria una particolare cura da parte del regista e del collega più anziano Isidore Cashier, fondamentale dialogue coach del film, oltre che straordinario interprete di Mendele il venditore di libri, l’ebreo religioso e illuminato che svetta in questo film intenso, spiritualmente tragico e premonitore. Sarà perché non conteneva alcun appiglio consolatorio o per la cifra stilistica quasi espressionista, la storia d’amore tra lo zoppo e la cieca del villaggio, benché resa assai più romantica rispetto al “crudele” romanzo da cui è tratta, registrò un perentorio insuccesso commerciale. Eppure, come ribadisce più avanti Alessandro Cappabianca, questo è uno dei film yiddish assolutamente da non perdere per chi voglia farsi un’idea del genere. Il romanzo di Mendele Moykher Sforim, sceneggiato da Chaver Pahver, da Ulmer e sua moglie Shirley, ha una qualità che può far pensare, per chi lo conosca, ai personaggi di Raffaele Viviani, un Viviani dello shtetl invece che dei vicoli napoletani, spietato nei confronti della storia e delle tendenze dominanti nella comunità, e al tempo stesso compassionevole e persino ottimista nei confronti di alcuni personaggi. Al culmine di una notte che sembra eterna ma dovrà pur finire c’è il monologo con il quale Isidore Cashier-Mendele si rivolge al Dio assente e giunge alla conclusione che gli uomini possono contare soltanto su se stessi, purtroppo. Alla recitazione alto-teatrale di Cashier si affianca quella naturalistica dei due poveri amanti, per entrambi sostenuta dalla poeticità del testo. Anche sul piano visivo si assiste al contrappunto tra l’inquadratura scenografica di tipo espressionista e una sorta di neorealismo ante litteram degli attori. Il triste populismo dello shund è qui evocato e contraddetto, infine, da un montaggio musicale onnipresente e assai accorto.
102Nel complesso Fishke der krumer inquadra questa storia d’amore tra reietti in una comunità retrograda e irredimibile, unico caso di visione negativa di uno shtetl nel cinema americano, quasi a contraggenio con la tonalità bucolica del precedente Grine felder. In realtà i due film possono essere intesi come altrettanti aspetti di uno stesso discorso sulla difficoltà di essere ebrei e su alcuni spunti di speranza: la natura e la cultura agricola in Grine felder e la città (Fishke e Hodel fuggono a Odessa) con la sua promessa di uguaglianza e lavoro per Fishke der krumer.
103Lo scaltro Seiden riunì in questo Kol Nidre del 1939 un cast di alto livello e dalle personalità assai differenti tra loro. Il protagonista Joseph Schoengold, nei panni del pater familias Moishe Dorfman, è affiancato da Lili Liliana (sua figlia) e Leon Liebgold (il rabbino innamorato della ragazza), gli amanti del Dibek (in alcuni momenti chiaramente a disagio in questa trama di bassa lega), cui si aggiungono, oltre a caratteristi quasi leggendari come Bertha Hart (sua moglie), Yetta Zwerling e Chaim Tauber, il cantore-grandeschermo Leibele Waldman e il Double Choir di Joel Feig. Il tutto sotto l’attenta “orchestrazione” di Sholom Secunda. In questo caso lo shund si propone al proprio meglio, sia per gli amanti del genere che per gli spettatori più smaliziati. Certo bisogna predisporsi a una telenovela ossessivamente canora (Liebgold canta con una intensità degna di miglior film), una overdose di Secunda che potrebbe risultare poco godibile se non per scopi di studio. Resta il fatto che il grottesco yiddish è anche questo e assume il significato quasi simbolico della impossibilità di decidere se sia meglio il vecchio mondo ebraico cui si appellano i genitori o la vita americana intrapresa dai figli, impossibilità vissuta, con sentimenti alterni, da tutti, anche dai giovani condannati a essere “nuovi”, vale a dire materialisti e piccoloborghesi a tutt’orizzonte. I registri della recitazione riflettono due mondi sempre più lontani tra loro: gli attori più anziani, specie nelle scene in cui rimproverano i figli, sembrano in trance, come se fossero posseduti e attraversati da voci di un altrove, mentre i giovani si esprimono velocemente, con la nuova lingua sincretica, lo yinglish, sempre alle prese con gli oggetti-segno della vita nuova: sigarette, vestiti, gioielli, orologi, automobili, frigoriferi eccetera. Il prefinale di questi film è sempre realistico, nel senso che mostra il disorientamento esistenziale di tutti i personaggi. Nessuno di loro è nel giusto. In Kol Nidre, la bella Lili Liliana a un certo punto prende un mozzicone di sigaretta e sospira la seguente frase: «La vita è come questo fumo. Sale verso l’alto e scompare. Non ce la faccio più», ma poi prorompe in un canto che dovrebbe riaccendere le fantasie romantiche, sue e degli spettatori, preparando così il vero finale in cui tutto si ricompone, nel quale i figli si riconciliano con i genitori, che risorgono dai letti in cui erano crollati, e gli abbracci suggellano la quasi certezza di un futuro sereno. I finali artificiosi e obbligati dei film shund assolvono la funzione di proporre la soluzione impossibile di conflitti reali.
104Il classico della drammaturgia gordiniana Mirele Efros resta in forma di film per merito del regista Josef Berne,51 coadiuvato da Osip Dymov per la sceneggiatura del verboso dramma di Jacob Gordin. In effetti i due la definivano una «nuova versione» e i cambiamenti, per chi conosca il testo e la storia dei suoi allestimenti, in effetti conferiscono al testo la qualità di un vivace racconto cinematografico. Il cast, poi, è di prim’ordine, con la grande attrice Bertha Gersten52 come Mirele, e tutti gli altri, per lo più attori teatrali di lungo corso e familiari con il testo. Il film, appartenente a quella eccezionale annata che fu il 1939, vero e proprio canto del cigno del cinema yiddish e non solo, fu realizzato per il trentennale della morte di Gordin, fin da subito con sottotitoli in inglese (presagio o constatazione che gli spettatori yiddish stavano scomparendo: in questo senso l’assimilazione americana era destinata a produrre lo stesso effetto della Shoah in Europa).
105Nei cartelloni teatrali lo spettacolo era annunciato con il titolo Mirele Efros ovvero la Regina Lear ebraica. Il debito di Gordin nei confronti di Shakespeare e del suo personaggio più amato dai teatranti yiddish andava dichiarato in quanto nobilitava la trama, trasformando l’ennesima saga domestica in una fiaba moderna. Oggetto di questa fiaba era una famiglia ebraica agiata nella quale l’avvicendamento generazionale s’accompagnava a un simbolico scontro di personalità, sempre relativo alla questione del benessere materiale e dell’etica (in yiddish la mentshlekhkeyt, “umanità”) con la quale dev’essere ottenuto e governato. Mirele Efros somiglia a Lear in quanto scontrandosi con la nuora e con il figlio nella gestione della lucrosa attività di famiglia si autoesilia e assiste da lontano all’evolversi della situazione. Il cambiamento di contesto storico-sociale dal medioevo inglese all’Otto-Novecento occidentale dominato dalla rivoluzione industriale e dal primato dell’economia non consentiva di delineare un finale univoco. Se il grande re shakespeariano conquista l’illuminazione in un vero e proprio trionfo della morte (com’è evidente nella messinscena yiddish-sovietica del 1935, protagonisti Solomon Michoels e Veniamin Zuskin, si veda in proposito il settimo volume di questa serie), per Mirele Efros e la generazione successiva il finale è incerto in quanto avrebbe avuto luogo in un futuro ignoto sia a Gordin sia a chi metteva in scena il suo testo.
106Mirele è all’inizio dell’opera una vedova di cinquant’anni che ha risollevato le sorti economiche della famiglia dopo il fallimento del marito. Onesta e astuta imprenditrice, è anche autoritaria e arrogante, ma viene scalzata dalla nuora Sheyndele (Ruth Elbaum) che rivendica l’eredità per il proprio marito dal carattere sottomesso. Mirele si ritrova emarginata dalla propria famiglia e trova rifugio presso il proprio fedele impiegato, con il quale si comporta come prima. Dopo una decina d’anni tutto va male a Sheyndele, affari e matrimonio, e lei cerca almeno, in vista del Bar Mitzvah del figlio Shloymele, di ottenere il perdono della suocera nonché la sua presenza beneaugurale alla cerimonia e alla festa che seguirà. Dapprima Mirele rifiuta il riavvicinamento, poi ripiomba nella tristezza. Infine il nipote la convince a tornare. Il finale, come stiamo per vedere, cambiava a seconda degli autori delle messinscene.
107Per ora restiamo al film, innanzitutto per sottolineare che se le altre interpretazioni di Mirele (ricordiamo almeno Keni Liptzin, Ester Rokhl Kaminska, sua figlia Ida, Jenny Kaiser, e in Italia Tatiana Pavlova)53 sono descritte dai critici del tempo ed evocate dagli storici con espressioni altisonanti di cui non c’è motivo di dubitare, questa di Bertha Gersten, come chiunque può verificare, è davvero magistrale. Lattrice esprime l’ottusa fedeltà del proprio personaggio a un ideale etico, la consapevolezza di essere in errore nella circostanza presente, poiché provoca la dissoluzione di una famiglia, tuttavia con la certezza di obbedire a un imperativo di carattere superiore, religioso, ineludibile, che prima o poi tutti avrebbero riconosciuto. Lattrice manifesta la propria bravura in tutte le tappe del proprio itinerario, simile a quello di Lear, dalla presunzione iniziale di una sovranità sulla famiglia fondata su una saggezza che si rivela illusoria, allo scontro con la nuora, dal suo comportamento nell’orgoglioso autoesilio e la sua sofferenza soffocata nella solitudine degli affari, al lungo enigmatico finale. Gersten, alle prese con una sceneggiatura che adatta con intelligenza il più riuscito testo di Gordin, non ha niente da invidiare alle grandi attrici teatrali e cinematografiche del tempo. Occorre aggiungere che anche l’interpretazione dei suoi colleghi è di buon livello, a cominciare dalla nuora Sheyndl, attrice di formazione più cinematografica che teatrale, e quelle dei comprimari, tra i quali è da segnalare almeno Ruben Wendroff, l’interprete del badkhen (l’attore-intrattenitore dei matrimoni). La scena merita un’ampia citazione in quanto rara registrazione audiovisiva del discorso che questi tradizionalmente rivolge alla sposa (o agli sposi) con l’intento di farli piangere al pensiero delle difficoltà che li aspettano con il matrimonio.
108Questa la scena. Una volta preparata la sposa, le donne diventano un coro silenzioso, Mirele si toglie i propri preziosi orecchini, ereditati dalla suocera, e li cede alla nuova arrivata in una sorta di rito. Il badkhen venuto da Grodno, la grande città, è in piedi su una sedia, con il suo abito d’ordinanza, un fazzoletto colorato nella mano sinistra (come i cantanti d’opera in concerto).54 La sposa è seduta a centro della stanza, a testa bassa, circondata da tutte le donne, giovani e anziane, che guardano dal basso in alto il badkhen. Questi pronuncia un discorso evidentemente preparato per l’occasione, sapendo dei problemi che ci sono stati, ma il suo tono severo e il messaggio sono quelli della tradizione:
Signore e signori, attenzione, per favore!
Musicisti, suonate le vostre melodie.
Signore, preparatevi a versare qualche lacrima
in modo di calmare la vostra anima per ciò che state per sentire.
Ora continua con una cantillazione,55 mentre si sente in sottofondo la musica dei klezmorin.
Cara sposa, sono finiti i tuoi giorni spensierati,
sei approdata su una spiaggia sconosciuta.
Non riderai né canterai più,
d’ora in poi vivrai come incatenata,
la tua giovinezza libera è finita.
D’ora in poi vivrai tra estranei, lontana da casa tua.
Il tuo cuore sarà ingombro di apprensioni e guai,
sarai il capro espiatorio anche per quelli dei tuoi
familiari.
Piangono, per cominciare, la madre della sposa e le donne più anziane, come a confermare che per loro è stato così.
Guarda tutte queste persone con abiti all’ultima moda
e renditi conto di essere stata scelta dalla ricca signora
Mirele Efros.
Che guarda la nuora assorta e impassibile.
Suo figlio Yosele, tuo marito sarà.
Nessuno potrebbe essere meglio di lui.
Piangi, cara sposa, piangi.
Il tuo futuro non sarà come il passato.
Ti è stata posta una domanda
oggi, dinanzi al consesso divino,
dove persino il padre dello sposo ha indossato l’abito migliore
e ha detto: «Anch’io voglio andare al matrimonio di mio figlio».
Langelo gli ha risposto: «Sì, puoi andare,
ma a cinque cubiti di distanza ti devi fermare».
A questo punto Mirele comincia a commuoversi, piange senza lacrime.
Cara sposa, è arrivato il momento
di abbandonare la tua casa.
Ubbidisci a tua suocera e tutti i voti si compiranno,
altrimenti la sfortuna cadrà su di te!
Tutte le donne sorridono, fiduciose.
E dunque, cara sposa, poiché cieca non sei,
impedisci ai cattivi pensieri di entrarti nella mente.
Non pensare ad altri uomini,
altrimenti la tua vita andrà in rovina.
Se resterai sulla retta via e ti comporterai come devono gli ebrei
vedrai la tua casa prosperare rapidamente.
I tuoi amici sono arrivati qui da ogni dove
per essere al tuo fianco in questo giorno.
Tutti gioiscono per te dal profondo del cuore
e ti augurano ogni bene mentre ti accosti al baldacchino nuziale.
Terminato il discorso rivolto alla sposa, il badkhen cambia tono e accompagnato da un accordo di musica annuncia solennemente: «Ora può entrare lo sposo!». Si apre una porta e fa ingresso Yosl (Albert Lipton) con un corteo di amici.
109Altra sequenza degna di nota è quella conclusiva. Nella prima stesura di Gordin, Mirele rifiutava di riconciliarsi con la nuora e il figlio e allo spettatore non restava che prendere atto delle insanabili divergenze etiche tra generazioni. Ma fu lo stesso drammaturgo a scrivere, probabilmente cedendo alle pressioni degli allestitori americani, un finale diverso, nel quale Mirele torna dai suoi e li perdona, venendo così reintegrata nella famiglia, senza chiarire se soltanto con una “carica onoraria” oppure di nuovo alla sua guida. Fatto sta che praticamente tutte le messinscene del testo ripresero questo secondo finale e il film in questione lo fa ancora più nettamente, secondo il codice hollywoodiano ormai dominante che prescriveva lo happy end. Dapprima Sheyndele si presenta a casa di Mirele per chiederle perdono ( «Volevo il mio uomo tutto per me, ma ho combinato un disastro, ti scongiuro…») o almeno di presenziare al Bar Mitzvah di Shloymele. «E quando ti scongiuravo io?» è la prima risposta amara della matrona, che le oppone un netto e brusco rifiuto. A questo punto arriva a sorpresa il tredicenne e ribadisce la richiesta alla nonna in modo affettuoso, ma già virile, e di fronte al suo diniego, benché questa volta espresso con diplomazia, le restituisce il regalo che aveva ricevuto da lei tramite il padre, l’orologio d’oro del nonno, e se ne va offeso con la madre. Mirele resta sola e pensosa dinanzi al libro delle preghiere che non riesce a leggere oltre.
110Ora la scena si sposta alla festa che segue la celebrazione del Bar Mitzvah in sinagoga (durante il quale Shloymele si era accorto che la nonna era nascosta ad assistere nella balconata delle donne). Musica e brindisi, a proposito di Mirele i convitati scambiano soltanto qualche vago accenno. Mentre Shloymele sta pronunciando il suo primo discorso da adulto, la nonna entra lentamente nella sala. Prima la vedono gli altri e si sciolgono nei sorrisi, quindi si volta il ragazzo, che le va incontro felice chiedendole per prima cosa se gli ha portato l’orologio. Naturalmente sì. Mirele Efros viene fatta accomodare sulla sedia-trono da capofamiglia, circondata dai tutti i suoi. Il film si chiude con una sua battuta molto teatrale (per intensità del significato unita a una certa sospensione del senso): «Ci sono bravi bambini – dice prendendo la mano del nipote – e cattivi bambini, ma sono sempre bambini». E prende la mano della nuora.56
111Nel caso di Hayntige mames (Madri di oggi) il termine shund, più che appropriato, rimanda al degrado della tradizione ebraica nel contesto dell’american way of life. L’attrice protagonista del film, Esther Field (Esther Waldman), popolarissima yidishe mame della radio negli anni Trenta, appare in questo film e nello scombinato Eli, Eli del 1940. Il tema è quello della famiglia che si confronta con il desiderio di assimilazione dei più giovani.
112Siamo a New York, sulla Second Avenue, e la yidishe mame, in una casa borghese, intona una canto del Sabbath. A proposito di questo passaggio merita di essere ricordata l’opinione di Zalmen Zylbercweig:
Lappellativo «Yidishe mame» era decisamente appropriato perché lei non aveva nulla dell’attrice e sembrava una semplice donna ebrea. Parlava come una donna semplice (heymish) e cantava di rado, incantando tutti. La sua voce, che in gioventù era stata da soprano, era in realtà quella di un tenore che passava per un soprano. In ogni caso, mentre cantava, ella non impiegava soltanto il proprio talento, la sua voce era come assorbita dal cuore. Quando eseguiva le canzoni yiddish, specialmente quelle della mame, incantava gli ascoltatori, ma senza alcun segno esteriore del grande successo ottenuto nel corso degli anni, specialmente presso un pubblico di donne della sua età.57
Ciò significa che il film consente di verificare un’opinione così impegnativa.
113Per accennare all’artificiosa trama, diremo che la figlia Anna (Gertrude Krause), che sogna di affermarsi nel mondo dello spettacolo, arriva mostrando con fierezza un anello regalatole dal mondano spasimante Hymie, in realtà un volgare delinquente. Il modesto salotto di casa Waldman si popola di vari personaggi delle due generazioni. Tra essi vi è il giovane cantore Solomon, l’altro figlio di Esther, impersonato dal cantore Max Rosenblatt, costretto fare un film del genere perché ridotto sul lastrico da speculazioni sbagliate (e molto criticato per il suo modo di cantare in scena, sovraccarico di colorature e facili effetti). Arriva anche Hymie che, come comprendiamo, ha appena derubato qualcuno, seguito a ruota dalla polizia. Hymie, prima di scappare, infila l’anello rubato nella tasca di Solomon, il quale a seguito della perquisizione si ritrova arrestato. Dopo la solita prevedibile sequenza di eventi disgraziati che in questo caso davvero non meritano di essere dettagliati (comunque il film è visibile in edizione restaurata) e che il lettore può facilmente immaginare, Hayntige mames si conclude con pentimenti e riconciliazioni culminanti nel canto di Solomon finalmente reintegrato nel proprio ruolo presso la sinagoga.
114Dal punto di vista dei contenuti il dato da sottolineare è che le madri del titolo rappresentano altrettanti modi di essere “di oggi”, diversi ma in un certo senso complementari, se non altro perché la virtuosa yidishe mame di prima immigrazione incarnata da Esther Waldman nulla avrebbe potuto fare per dare alla vicenda il necessario lieto fine. Persino il figlio cantore, un pio ebreo, si lascia coinvolgere da donne di dubbia moralità e in derive illegali. Dunque il senso complessivo del film è tutt’altro che positivo, forse al di là delle intenzioni dei realizzatori. Girato in fretta e con un budget assai limitato, Hayntige mames beneficia però di una direzione degli attori assicurata dall’esperto Morris Strassberg, che forse limitò i possibili danni e contribuì a un discreto esito commerciale dell’impresa. Resta comunque tutta l’inadeguatezza di questo copione teatrale di bassa lega portato sullo schermo all’inizio della primavera di quel fatidico 1939. Negli stessi giorni l’opinione pubblica democratica era investita dalla notizia della capitolazione della Spagna repubblicana e gli artisti yiddish commentavano l’avvenuta “arianizzazione” dei teatri anche in Ungheria. Tutto ciò mentre a New York debuttava la Yidishe Bande con uno spettacolo satirico e musicale antinazista che conquistava un consenso di pubblico ben più significativo.
115Come s’è visto, Joseph Seiden voleva affermarsi come il più autorevole regista di B-movies, realizzati oltretutto in modo avventuroso, in fretta e senza finanziatori, ma sempre attento a farsi affiancare da esperti direttori della fotografia e attori consumati e amati dal pubblico, come dovevano essere anche gli autori delle musiche. Per Motl der opreyter (Motl il lavoratore) la sua astuzia e la sua coerenza arrivarono a scegliere un melodramma a tinte forti di Chaim Tauber, chiedendo all’autore di stendere la sceneggiatura e di interpretare il protagonista. Attorno a Tauber un gruppo di attori di vasta esperienza teatrale, alcuni dei quali avevano interpretato il testo sulle scene della Second Avenue.
116Il melodramma, in questo caso, aveva una forte connotazione sociale, poiché trattava dei conflitti tra padroni e lavoratori nella zona di New York City in cui si producevano capi di abbigliamento. Assieme alle tintorie, questi sweatshop erano i luoghi del lavoro più duro e malpagato dai quali passavano, almeno nei primi tempi, pressoché tutti gli immigrati ebrei. Il protagonista Motl è uno di questi poveracci, giovane marito e appena diventato padre, che partecipa a uno sciopero indetto per chiedere migliori condizioni di lavoro e viene gravemente ferito da una banda di teppisti assoldati dal padrone. Mentre Motl giace in un letto d’ospedale senza riprendere coscienza, la moglie cede il neonato in adozione a una famiglia benestante per assicurargli un futuro, poi se ne pente e cerca invano di riaverlo, quindi, in preda al senso di colpa, si suicida con il gas. Quando il padre esce dall’ospedale cerca invano i suoi, conducendo poi per anni una vita da reietto, mostrata a tappe nel film, e si riunirà al figlio quando questi, brillante e democratico avvocato, diventerà il suo difensore in un processo che lo vede imputato innocente.
117La tetraggine della trama si traduce in un film lento e pretenzioso nella denuncia, cui non vengono in soccorso i bravi attori che interpretano gli altri ruoli, tra i quali troviamo Maurice Krohner e Seymour Rechzeit, la simpatica Yetta Zwerling e Joseph Schoengold, il cantore Liebele Waldman e il coro Joel Feig. Nemmeno le accattivanti canzoni di Sholem Secunda, secondo il parere unanime di storici e critici, realizzano il miracolo di renderlo appassionante. Ma interessante lo è, almeno per chi rifletta sulle varie declinazioni del cinema yiddish, e si può vedere in edizione restaurata.
118On a heym (Senza una casa) è il solo film interpretato da Ida Kaminska negli anni Trenta.58 Lattrice aveva recitato fin da bambina in questa tragicommedia di Jacob Gordin, poi divenuta il cavallo di battaglia di molte dive yiddish, a cominciare da Sara Adler, per la quale il copione era stato originariamente concepito. Benché diretto da Aleksander Marten, regista e attore profugo dall’Austria, il film non si sofferma sulla digradante situazione politica del tempo, ma si attiene a un dramma di inizio secolo, per giunta edulcorandone gli aspetti più tragici. Lo spettatore di oggi, considerando che si tratta dell’ultimo film yiddish sonoro prodotto in Polonia e che pochi mesi dopo la sua uscita il bombardamento di Varsavia da parte dei nazisti avrebbe segnato l’inizio dell’apocalisse, tende a percepire come anacronistica la chiave melodrammatica, come d’altronde già fecero notare alcuni critici del tempo. Il «Literarishe Bleter» arrivò a ipotizzare che l’impronta sentimentale del film fosse dovuta alla sua destinazione per un pubblico di ebrei americani, allora inclini a uno sguardo idealizzante riguardo la vita nell’Europa orientale, e ciò è probabilmente vero quanto alle intenzioni, come è altrettanto vero che questa “distrazione” caratterizzasse diversi altri film del tempo, forse originata da un sentimento che intrecciava la difficoltà di comprendere come stavano volgendo gli eventi storici con una tendenza a mitizzare i propri caratteri identitari. D’altronde, come abbiamo accennato, una riflessione più cogente sul presente del popolo ebraico ormai sparso per il mondo era svolta dai documentari, che tra l’altro rendevano conto di tutte le opzioni in campo, da quella sionista (ricerca di una patria per il popolo ebraico) a quella del Bund (il movimento socialista ebraico che privilegiava la lotta di classe), alla miriade di organizzazioni educative o d’intervento umanitario come l’American Joint Distribution Committee (jdc), fondazione ebraico-americana di assistenza umanitaria.
119Marten si concentrò dunque sul confronto tra Vecchio e Nuovo Mondo e sugli effetti prodotti dall’emigrazione sull’istituzione famigliare. Qui una famiglia di pescatori di uno shtetl polacco che in seguito alla morte del figlio maggiore decide di emigrare negli Stati Uniti per sfuggire alla miseria e costruire un futuro più sereno. Nella nuova destinazione, tuttavia, non tutti i componenti della famiglia (ai quali si sono aggiunti anche due compaesani luftmentsch interpretati dagli impareggiabili Dzigan e Shumacher) riescono ad adattarsi ai ritmi e ai valori della goldene medine. Il disadattamento più grave è quello di cui soffre Bas Sheve (Ida Kaminska), il cui marito Avreyml (lo stesso Marten) si lega a una cantante ebrea perfettamente inserita nel nuovo ambiente, e il cui figlio sembra cavarsela assai meglio. Allo sradicamento, si aggiungono lunghe giornate in solitudine per la donna, straziata da un senso di inutilità in un appartamento disertatato dagli altri, piccolo tassello di un popoloso condominio dove tutti quanti vivono isolati. A farle compagnia soltanto i propri soliloqui e le parole dell’anziano suocero Jacob Elkhonon (Adam Domb), che tentano invano di richiamare i componenti della famiglia ai valori religiosi e ai costumi di un tempo.
120Altro aspetto che On a heym – considerato da alcuni critici la più claustrofobica e antiquata delle pellicole yiddish polacche – condivide con alcuni film dell’epoca è il giudizio negativo senza appello della cultura americana, giudicata superficiale, priva di un orizzonte religioso e perfidamente orientata all’assimilazione del “diverso”. Negativo ovviamente per i perdenti, per coloro che non si adeguano, i “vecchi”. Da qui l’aspetto forse più interessante della pellicola, tale per merito dell’insieme degli attori: il recitato-concertato di chiara gestazione teatrale attraverso il quale si rappresenta la resistenza o l’assimilazione alla vita americana: la lingua.
121Per cominciare, i nuovi arrivati mutano, più o meno volontariamente, i propri nomi. Nel «paese in cui gli uomini che lavorano insieme diventano amici», il padre di famiglia Avreyml diventa Abe, il figlio Khonokh diventa Harry e persino Fishl e Motl vengono identificati da suoni caricaturali: Foe e Moe. Lunica a non subire questo mutamento è Bas Sheve, che vediamo quasi sempre nel chiuso della propria abitazione, da cui assiste impotente al va e vieni continuo dei familiari e al progressivo sgretolarsi del loro vincolo. Gli altri si appropriano di alcune parole chiave, se le ripetono continuamente l’un l’altro come a suggellare la propria appartenenza al sogno americano: lo yiddish diventa sempre più yinglish: parole come goodbye e alright concludono sempre più frequentemente le conversazioni e costituiscono il segnale di un cambiamento a tutt’orizzonte. La rappresentazione del processo di assimilazione è resa possibile ed efficace dal virtuosismo degli attori, dalla loro capacità di mostrare la trasformazione del parlar cantato yiddish – sempre “poetico”, vivo e allusivo a qualcosa di non detto o di indicibile –59 in un gergo funzionale, un esperanto semplificato che si accorda con le relazioni più “commerciali” e consumistiche del nuovo mondo (abiti nuovi, accessori vistosi, sigarette a volontà…) e con il melting pot.
122L’adattamento cinematografico, appesantito da un eccesso di artifici tecnici, ridimensiona la portata tragica del testo di Gordin: la caratterizzazione negativa del marito e del figlio di Bas Sheve e lo sprofondamento della donna nella follia sono sfumati a favore di personaggi decisamente più positivi e a un finale in cui la famiglia, nuovamente congiunta, si riunisce attorno al tavolo per festeggiare lo Shabbat. Il film si chiude sulle parole del più giovane membro della famiglia, che si augura di non rimanere mai più senza una casa.
123Questi limiti, tuttavia, nulla tolgono al valore “documentario” al film, sia perché On a heym è l’unica testimonianza audiovisiva estesa in yiddish della grande attrice, sia perché la parlata scenica dice in modo incomparabile del mutamento dell’anima yiddish nel Nuovo Mondo. Il concertato d’attore che qui è testimoniato dimostra lo straordinario potere del teatro nel rendere presente ben altro di ciò che significano le parole. Se si osserva ad esempio il modo in cui tre interpreti come Ida Kaminska, Viera Gran (nei panni della seducente cantante Bessie) e Yisroel Shumacher (Foe) eseguono la canzone che dà il titolo al film, ci si rende conto di come l’arte della recitazione trasformi un dramma falsamente ottimista in un «intenso Kaddish per la casa disgregata e irrimediabilmente perduta».60 Larte dell’attore è decisiva per collocare un messaggio in un preciso contesto storico e nello stesso tempo sottoporlo a un vaglio trascendente. E ciò spiega perché Ida Kaminska abbia potuto riprendere con successo On a heym sulle scene teatrali della Repubblica Popolare Polacca degli anni Sessanta.
124Come abbiamo già visto, Henry Lynn puntava a un cinema che fosse al tempo stesso attraente per un vasto pubblico, poco costoso e strettamente legato all’attualità. L’incalzare degli eventi storici portava a un’accentuazione drammatica dei contenuti. Nel caso di Dos eybike folk (Un popolo eterno), Lynn si appropriò di diversi frammenti del film Jud Süss61 nella versione inglese del 1934, rimontandolo e doppiandolo in yiddish, con Julius Adler in funzione di narratore e la partecipazione, oltre naturalmente agli attori che appaiono nel film originale, di Ben Adler, Zina Goldstein, Lillian Blum, Leon Schechter, Herman Zorototzky, Miriam Torlovsky, Max Rosenblatt, A. Timyanov, Morris Bilofsky.62 In effetti questa operazione fu il canto del cigno di Lynn: la sua versione faryidisht dell’originale ebbe una lunga programmazione nei vari quartieri e sobborghi di New York, anche se non paragonabile con quella di Tevye der milkhiker, uscito alla stessa altezza di tempo.
Tevye der milkhiker (Tevye il lattivendolo) è un’opera di importanza capitale nella letteratura, nel teatro e nel cinema yiddish. Per questo è oggetto di analisi e osservazioni in diversi volumi della nostra serie, in particolare il primo e il quarto, oltre che della lettura che ne fa passim Alessandro Cappabianca, alla quale non resta che rimandare il lettore. È comunque a ciò, è opportuno ribadire qui che esso costituisce, assieme a Onkel Moses, del 1932, una testimonianza pregnante su questo attore-autore la cui lunga carriera segna uno degli esiti maggiori del teatro e del cinema yiddish. Tutti coloro che hanno avuto a che fare con il musical Fiddler on the Roof e la vulgata del romanzo di Sholem Aleichem, anche soltanto nella sua forma scritta, dovrebbero vedere questo film per misurare la decisiva funzione delle interpretazioni nella determinazione del senso dell’opera.
125Simile e differente è la situazione che riguarda Americaner shadchen (Il sensale americano) di Edgar G. Ulmer. Simile nel senso che poco o nulla rimane da aggiungere a quanto ne scrive Cappabianca, differente perché qui il protagonista è il “Fred Astaire yiddish” che si propone in un film che voleva essere allegro, sorta di consapevole distrazione dagli eventi luttuosi che si manifestavano nel mondo in quel 1940, e che è invece sottilmente angoscioso, come se il ripiegamento su temi psicologici “leggeri” e alla moda, ovvero il desiderio e la difficoltà di trovare un partner per la vita nell’America del tempo, fosse la metafora di una conclamata impossibilità di comprensione e serena convivenza tra esseri umani di ogni categoria sociale.63 Anche in questo caso il tema del matrimonio è visto nel contesto di una dissoluzione della cultura ebraica tradizionale, nella quale erano i genitori e i sensali a decidere gli accoppiamenti; qui, nell’America del tempo, il sensale è un imprenditore illuminato, che utilizza moderne tecniche pubblicitarie e vorrebbe regalare un matrimonio felice a molti, ma che perde di vista la nozione stessa di felicità, soprattutto la propria. Nell’ultimo film yiddish del grande Ulmer regna lo sgomento di fronte una concezione mondana della vita che ancora il cinema (forse l’arte in generale) non riusciva né a esorcizzare né a raccontare davvero.
126Der vilner shot khazn / Der vilner balebesl (Il cantore di Vilnius / Il piccoloborghese di Vilnius; negli Stati Uniti anche noto come Overture to Glory) è un film concepito di nuovo per Moishe Oysher come impersonatore del leggendario cantore lituano del xix secolo Yoel-Dovid Strashunsky. Osip Dymov fu incaricato di trarre la sceneggiatura dal testo teatrale di Mark Arnshteyn, con l’aiuto aiutato del regista Max Nosseck64 e del poeta Jacob Gladstein. Alexander Olshanetsky è l’autore della ricca partitura musicale.
127Nosseck, allora trentottenne tedesco in esilio, sarebbe diventato un importante autore-regista di B-movie. La sua esperienza fece sì che questo film vanti uno standard qualitativo superiore alla media. Notevole è soprattutto, in questo caso, il ricorso ai primi piani, con i quali riuscì a conferire alla recitazione di Oysher e non solo una insolita intensità.
128La trama del testo teatrale iniziava con una discussione in famiglia sull’opportunità per il giovane cantore di apparire su una scena teatrale, mentre per il film Dymov creò una lunga premessa che raccontava della progressiva fascinazione suscitata in Strashunsky-Oysher dal compositore Stanisław Moniuszko (l’attore Jack Mylong Munz). Nella prima scena vediamo Moniuszko presenziare a una celebrazione di Rosh Hashanah nella sinagoga di Vilnius e poi avvicinare il cantore. Strashunsky prende a frequentare segretamente la casa Moniuszko per familiarizzarsi con la musica “occidentale”, è sedotto dalla Serenata al chiaro di luna di Beethoven, impara a leggere la musica e infine scopre Chopin. Moniuszko vuole mettere in scena a Varsavia la propria opera Halka e lo porta con sé. La moglie Khane (Florence Weiss) non riesce a dissuaderlo, il suocero Reb Aaron (Maurice Krohner) lo accusa con veemenza di regalare la sua voce ai gentili, il rabbino Lazar Freed avverte «Se andate a Varsavia sarete sospesi tra due mondi». Ma lui è lusingato dall’idea di fare conoscere ai polacchi la «malinconia ebraica».
129A Varsavia, naturalmente, seduce il pubblico, ed è a sua volta sedotto dalla giovane contessa Wanda Mirowa (la bella e brava Helen Beverly, che abbiamo incontrato in Grine felder e Fishke der krumer) e quando resta solo nel proprio camerino, gli specchi, come avviene anche in The Jazz Singer, gli ricordano il passato e la sua appartenenza all’ebraismo. In questo senso trova un confidente nello shames, il sacrestano (Max Bozyk) divenuto suo assistente. La sua vita personale si avvita sempre più su se stessa, la frustrazione non è compensata dall’amore che gli porta Wanda. Cominciano a verificarsi alcuni incidenti causati dal disordine mentale in cui vive, ad esempio nel giorno di Pesach diserta il teatro per andare in sinagoga a pregare per la madre. Il suo bambino, rimasto a Vilnius, si ammala e muore, e gli appare reb Aaron che interpreta l’evento come una punizione divina. Quindi, senza dare retta a Moniuszko e alla contessina che gli dicono: «Non puoi, tutta Varsavia è ai tuoi piedi!», scompare, e infine, dopo essersi reso conto del danno arrecato alla famiglia e alla comunità, torna a Vilnius esausto e sconvolto. Siamo alla vigilia della festa di Yom Kippur, Strashunsky si presenta nella sinagoga e sorprende la comunità intonando il Kol Nidre con una straordinaria intensità, viene condotto alla bima accanto alla Torah e qui cade morto. Le ultime parole sono quelle del rabbino, che proclama: «La tradizione ebraica ha perso una battaglia, ma ha vinto la guerra».
130Un altro elemento di interesse di Der vilner shot khazn è il mix linguistico di yiddish, ebraico, polacco e daytshmerish, fatto che seccava Nosseck perché limitava la fruizione del film ma che contribuì al suo successo. Oysher e Nosseck sarebbero stati ancora insieme per Singing in the Dark, del 1956 (si veda il prossimo capitolo), postremo e lancinante omaggio al mondo distrutto dalla Shoah. Nosseck non avrebbe fatto più film d’argomento ebraico e per Oysher, già gravemente malato, sarebbe stata l’ultima apparizione.
131Linfaticabile “Titano di serie B” Joseph Seiden realizzò tra il 1940 e il 1941 ben cinque film, prima di impegnarsi come fornitore del ministero della difesa, e sarebbe ritornato alla cinematografia nel 1949, firmando i due ultimi film drammatici yiddish (Got, mentsh, un tayvl e Dray tekhter) dei quali si parla nel prossimo capitolo. I film concepiti come contrappunto all’incombente clima di guerra in cui il mondo intero era immerso65 erano: Eli, Eli (Mio Dio, mio Dio), Ir tzveyte mame (La sua seconda mamma), Der groyser eytse geber (Il grande consulente), Der yidishe nign (La melodia ebraica), e Mazl tov yidn (Mazel tov, ebrei).
132Con Eli, Eli Seiden, reduce dal grande successo ottenuto con Sex Madness, firmava uno dei film più modesti e scombinati della nostra antologia.66 All’inizio siamo in una tranquilla fattoria, dove l’anziano Mendel Shapiro (Lazar Freed) sta dando da mangiare agli animali, in particolare a un grosso gallo che s’ingozza “come gli umani”. Passa a salutarlo un amico, con il quale loda la natura e ringrazia il cielo per la vita serena che gli è toccata. Il clima idilliaco è però presto rovinato dalla moglie Hanna (Esther Field), che gli esterna la propria preoccupazione per la scadenza di un debito, seguito dall’arrivo di un funzionario della banca che gli intima di saldarlo entro il giorno seguente. Mendel conta sull’aiuto dei figli benestanti, che vivono a Philadelphia e New York, e li cerca al telefono. La nuora borghese risponde in modo evasivo, mentre la figlia gli promette di parlarne al marito. Arrivano alla fattoria i figli, Moishele (Muni Serebroff) e Mollie (Rose Greenfield) con i rispettivi coniugi e subito si mostrano polemici. A nulla vale l’obiezione paterna di essersi indebitato per permettere loro di studiare e diventare rispettabili borghesi. I due lo accusano di avere mandato denaro ai parenti poveri in Europa. Scoppia una breve lite che si conclude con l’invito ai genitori, destinati a perdere la fattoria, di andare a vivere ognuno con un figlio. Mamma Hanna a Philadelphia, papà Mendel a New York, separati a forza dopo cinquantacinque anni di amorosa convivenza. Un duetto lacrimoso di madre e figlia segna il distacco.
133Dopo di ciò, vediamo Michel (Max Badin), il vicino amico di Mendel, ricevere una lettera in cui questi si lamenta di non vedere la moglie da tre mesi, gli racconta della figlia che lo rimprovera continuamente per il disordine, perché fuma la pipa e con mille altre scuse. Tra Hanna e la nuora non va meglio, ma in quella casa un contrappunto comico (per lo spettatore) è offerto da una cameriera incapace e petulante, che rompe tutto ciò che tocca, e da un anziano cugino da poco arrivato dall’Europa che vive con loro, un umile bon vivant cui piace bere e che sostiene di passare il tempo in sinagoga mentre invece è un inveterato frequentatore del burlesque.
134Le due pettegole cognate sono complici e al tempo stesso rivali, si scambiano dichiarazioni di solidarietà per le rispettive sfortune e si fanno sottili dispetti, come quello di “prestarsi” la catastrofica cameriera. In una chiave di farsa lenta e poco mordente si vuole mostrare la distruzione culturale comportata dalla nuova condizione borghese, senza contatti con le radici identitarie e incapace persino di apprezzare il nuovo status. In una serie di scene scollegate tra loro, emergono i diversi momenti e aspetti di questo processo, che si consuma tra molte chiacchere, fumando continuamente e con la mente sempre rivolta al denaro.
135Lo spettatore di Eli, Eli potrà paragonarlo ad altri film e copioni del tempo che raccontano in chiave leggera dell’accesso alla vita urbana e moderna, tanto in Europa che in America, di gente della terra dalle più diverse provenienze e nazionalità. Numerosi episodi si susseguono in un disordine comico privo di una convincente progressione drammaturgica e con una regia cinematografica scialba (si pensi, a confronto, a come una vicenda simile, una tra le tante, sia raccontata in Miseria e nobiltà, del 1954, il film tratto dal copione di Eduardo Scarpetta e interpretato da Totò e altri grandi comprimari), esprimendo un disorientamento culturale e un moralismo senza solidi ancoraggi che sono anche degli autori del film. Proprio per questa intrinseca debolezza, però, Eli, Eli riflette l’incertezza di una intera comunità, a Seconda guerra mondiale già iniziata, su come collocarsi nel mondo. La nostra attenzione potrebbe soffermarsi su alcune delle scene più pregnanti, di evidente e sperimentata derivazione teatrale, nelle quali gli attori danno il meglio di sé e la banalità del contenuto è trascesa dalle intonazioni e dai gesti, così che il pathos poetico fa dimenticare, o meglio illumina, il debole ethos della sceneggiatura e della regia. Mi riferisco al momento in cui i due anziani coniugi si incontrano dopo la lunga separazione, esprimono una felicità senza età, ridono e piangono insieme come se cantassero (la vicenda volgerà a buon fine perché l’amico Michel, morendo, ha lasciato loro la propria fattoria). Oppure al battibecco della coppia di varietà costituita dalla cameriera petulante e dal cugino europeo, che discettano su quale sia lo yiddish migliore, se quello galiziano o quello lituano, sublimando la loro esaltazione in un duetto (composto da Sholom Secunda) e in un balletto.
136Il finale è improbabile perché doveva fare quadrare nella fantasia commerciale del cinema i conti che non tornavano nella vita. Ecco dunque tre generazioni della famiglia riunite per la cena di Sabbath. Mendel è di nuovo felice di accudire le proprie galline, la yidishe mame prepara la tavola in attesa dei figli, il nipote pare che viva con i nonni e torna raggiante dalla mungitura; quindi arrivano le coppie, quelle dei figli e quella nuova formata dal cugino e dalla cameriera Selena, ora somigliante alla sua ex padrona. Regali, sorrisi. Hanna serve in tavola e canta Mame! (altro celeberrimo motivo di Secunda). Lchaim! Tutti si baciano. Ma non è finita: Mendel, uscito per dare un’occhiata agli animali, è informato dalla moglie che ora è il figlio ad avere un debito con la banca, da saldare subito pena la perdita della casa. Il patriarca reintegrato nel proprio ruolo assicura che ci penserà lui. Un finale poco credibile, che probabilmente con il pubblico del tempo funzionava e che oggi sottolinea il disastro culturale derivante dall’incertezza su come abitare l’America.
137Ir tzveyte mame è la seconda madre di una bambina adottata. Il melodramma ha la propria scena culminante quando fa vedere la protagonista Surele Polakoff (interpretata da Esta Salzman), l’adottata ora adulta, che dapprima è stata presentata come una creatura dolce e integerrima, in tribunale, accusata di un reato in realtà commesso dalla sua sorella della famiglia adottiva. Durante il processo si scopre che il giudice è il suo padre biologico. L’uomo aveva perso la memoria in un incidente automobilistico che seguiva la morte della moglie per parto. Dopo il primo shock ( «Vedo mia figlia per la prima volta come una criminale») i due finiscono per perdonarsi reciprocamente. Con Ir tzveyte mame siamo sempre nel reparto che propone le rappresentazioni delle incomprensioni e dei consolatori ritrovamenti finali tra genitori e figli nell’America che cambia. E come sempre nei film di Seiden, un complesso di attori per lo più provenienti dal teatro, vede i protagonisti (Esta Salzman e Muni Serebroff) affiancati da solidi caratteristi come Yetta Zwerling, Seymour Rechzeit e Isidor Frankel. E tutto il film è immerso nelle musiche sempre accattivanti, potremmo dire persuasive, di Sholom Secunda.
138Der groyser eytse geber 67 (Il grande consulente, negli Stati Uniti noto anche come The Great Advisor) uscì a fine dicembre 1940 nella storica sala di Clinton Street appena riaperta. È il film più vivace di Seiden, che racconta di tre amici che vorrebbero migliorare le rispettive condizioni sociali con un buon matrimonio o un po’ di fortuna. La sceneggiatura di Isidore Frankel, non di diretta origine teatrale, è ricca di episodi, tra i più divertenti dei quali vi sono le disavventure di un annunciatore radiofonico con ambizioni artistiche. E la distribuzione degli altri ruoli, come al solito, promette e mantiene l’impegno di un solido mestiere. Tra gli interpreti si segnalano Irving Jacobson, Yetta Zwerling, il cantore Leibele Waldman, Chaim Tauber, Muni Serebroff, Isidore Frankel e Lazar Freed.
139Der yidishe nign (negli Stati Uniti noto anche come The Jewish Melody) svolge una trama lontanamente ispirata, forse, al Sogno di una notte di mezza estate shakespeariano, nella quale coppie di giovani promessi sposi si innamorano di altri e danno vita a una commedia nella quale, in verità, sono soprattutto i vecchi a brillare. Il protagonista si chiama Morris (interpretato dallo sceneggiatore Chaim Tauber, com’era successo anche per Motl der opreyter), qui cantante della radio e figlio di cantore, inviato in Italia a studiare l’opera (donde le viste del Canal Grande prelevate da altri film e interni kitch pseudo-veneziani), nell’intento di alludere a una yidishland come parte dell’Europa culturale. A “Venezia”, il maestro di canto e sua figlia Rosita parlano yiddish con un riconoscibile accento italiano. Nel finale, Rosita torna a Brooklyn e risolve i nuovi problemi che le si parano di fronte rivelando che è la figlia illegittima del presidente della sinagoga. Con un entusiasmo dissonante rispetto ai tempi, il film si conclude con ben tre allegri matrimoni. Una interpretazione di spicco è come al solito quella offerta da Isidore Cashier nei panni di un pio cantore ridotto a gestire un piccolo banco di giornali (se ne vede uno che titola «Terrore hitleriano») e comunque impegnato a svolgere la mansione di “maestro di strada” per i ragazzini del quartiere.
140A questi seguirà, nell’aprile del 1941, Mazl tov yidn (Mazel Tov, ebrei), film musicale di montaggio (con prelievi da Ikh vil zayn a mame e Kol Nidre) che rende omaggio ai compositori Alexander Olshanetsky e Sholom Secunda. Il maestro di cerimonie è Michael Rosenberg, gli attori e cantanti sono Leo Fuchs, Yetta Zwerling, Chaim Tauber, Leon Liebgold, Louis Kramer, Leibele Waldman, Harry Feld, Esta Salzman, Hanna Hollander, Lili Liliana, Jacob Zanger, Menashe Oppenheim, Gustav Berger, Seymour Rechtzeit, Anna Thomashefsky, Dave Lubritsky, Shirley e Victor. Come si sarà compreso si tratta di un vero e proprio varietà cinematografico, concepito come momento di svago nel clima di guerra dominante anche negli Stati Uniti, specie dopo l’attacco di Pearl Harbor e dell’entrata in guerra del paese, in dicembre. Il film, oggi acquistabile in edizione non restaurata (su Yiddismovie), è comunque un notevole documento su ciò che stava diventando il teatro yiddish, vale a dire un teatro leggero, di varietà e commedia, sempre più musicale e sempre più tendente a mimetizzarsi nel melting pot di Broadway. Mazl tov yidn, nella sua ora e mezza di durata, propone anche alcuni sketch brillanti e divertenti che permettono di apprezzare i virtuosi del genere come Skulnik, Buloff, Wilner, Michalesko e Yetta Zwerling.
Notes de bas de page
1 Così Zuskin ai propri giudici: «Quando nel 1935 si è messo in scena Re Lear sono stato costretto a interpretare il Fool […] Io sognavo di interpretare il ruolo di Vladimir Lenin. In Cercatori di felicità somigliavo così tanto a Lenin che dovettero tagliare alcune scene […] Niente di tutto questo si accorda con il mio essere un nazionalista radicale». Quello di essere un ebreo «nazionalista radicale» era il capo d’accusa che gli costò la vita.
2 «Kop’jo» è il termine russo che sta per «copeco», frazione del rublo e «man» è un tipico suffisso di cognome ebraico; «klop» in russo significa «cimice» e La cimice è il titolo della pièce di Majakovskij con musiche di Šostakovič messa in scena da Mejerchol’d nel 1929. Il kop’jo e il protagonista della Cimice Prisypkin potrebbero essere stati d’ispirazione per gli sceneggiatori di Iskateli sčastja? Prisypkin è un operaio russo con aspirazioni piccoloborghesi che è rimasto ibernato in un blocco di ghiaccio fino al 1979. Dopo dieci piani quinquennali, rinvenuto e scongelato, osserva la nuova società sovietica dal proprio punto di vista egoistico, riferendosi compulsivamente a un mondo di interessi privati che i cittadini del comunismo realizzato si sono lasciati alle spalle, dimenticandoli o considerandoli malattie di altri tempi. Prisypkin è sottoposto ad accurati esami e gli viene trovata addosso una cimice, che viene catturata e isolata nello zoo, ma i germi della patologia “borghese” sono ancora attivi in lui, anzi nonostante il controllo degli scienziati si diffondono. I due “parassiti” vengono quindi rinchiusi nello zoo per essere mostrati alla gente. Come si sarà compreso, anche il protagonista negativo majakovskiano risulta infine essere, al di là dell’assertività ideologica, un gigante di umanità rispetto ai suoi astratti antagonisti.
3 In proposito è interessante quanto annota Ala Zuskin: «Quando ho rivisto il film in Israele non ho potuto fare niente contro l’idea che gli eroi positivi del film, incluso Korney, il fidanzato non ebreo di Rosa, nella vita reale sarebbero stati arrestati con l’accusa di “nazionalismo ebraico borghese”».
4 Cfr. quanto se ne dice in diversi passaggi di questo libro, soprattutto nella sezione Letture e visioni. La sua breve carriera cinematografica, cui mise fine l’assassinio da parte dei nazisti nel 1942, è dettagliata in Imdb, ad vocem.
5 Tra le altre cose, oltre a ospitare la prima sede dello Yivo, la città fu la sede della Vilner Trupe, creata nel 1916, del museo e dell’archivio fondati da Sholem An-skij nel 1919 e dello Yung Teater, fondato nel 1927. Dal 1928 al 1933 Vilnius ospitò anche un importante Studio Drammatico Ebraico che aspirava a creare un teatro stabile in lingua ebraica in Polonia. Cfr. Mordechai Zalkin, Vilnius, The Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 2 novembre 2010.
6 Cfr. Alfred Döblin, Viaggio in Polonia, Bollati Boringhieri, Torino 1994.
7 La fonte di queste informazioni è lo stesso regista, intervistato nel 1977 da E. A. Goldman (cfr. Visions, Images and Dreams cit., pp. 168-190).
8 Konrad Tom è stato un personaggio eccentrico e molto prolifico, attivo dal 1926 al 1946 come autore di sceneggiature, soggetti, dialoghi, testi per canzoni, da solo o in collaborazione, oltre che attore, regista e cantante. Morì nel 1957 a Hollywood, dove si era trasferito. I film yiddish cui prese parte come sceneggiatore sono Yidl mitn fidl e Mamele, del quale ha inoltre condiviso la regia con Green.
9 Kazimierz (yid. Kuzmir) è oggi un quartiere storico di Cracovia, noto per essere stato sede della comunità Ebraica cittadina dal xiv secolo fino alla Seconda guerra mondiale. Kazimierz, fondata come città separata da Casimiro iii di Polonia nel 1335, fu costruita su un’isola sul fiume Vistola appena a sud della città, allora capitale della Polonia. Oggi, non esistendo più il ramo a nord del fiume, non c’è più alcun confine fisico tra Kazimierz e la Città Vecchia di Cracovia. Nel 1495 gli ebrei che vivevano nella parte occidentale di Cracovia furono espulsi e obbligati a trasferirsi a Kazimierz. Da allora in avanti, Kazimierz fu divisa in due parti, una cristiana a ovest e una ebraica a est. Alla fine, la città divenne il principale centro spirituale e culturale degli ebrei polacchi. Per secoli fu un luogo pieno di chiese e sinagoghe in cui polacchi ed ebrei vivevano pacificamente l’uno accanto all’altro. Nell’Ottocento furono ingranditi i confini amministrativi di Cracovia e Kazimierz divenne uno dei quartieri della città. Durante la Seconda guerra mondiale, gli ebrei locali furono trasferiti dai nazisti nel ghetto di Podgórze appena oltre il fiume e poi per la maggior parte deportati e assassinati. Kazimierz dal 1988 ospita anche un festival della cultura ebraica. Oltre a Yidl mitn fidl, a Kazimierz è stato girato Schindler’s List di Steven Spielberg nel 1993.
10 Su di lui vd. quanto se ne dice nei volumi della nostra serie, in particolare il primo, e cfr. Joel Berkowitz, Hirshbeyn, Peretz, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 12 agosto 2010.
11 Copioni di Hirshbeyn disponibili in traduzione sono: Miryam, tradotto in Landmark Yiddish Plays – A Critical Anthology, ed. and transl. by Joel Berkowitz and Jeremy Dauber, State University of New York Press, Albany 2016; Grine felder, in Nahma Sandrow, a cura di, God, Man, and Devil: Yiddish Plays in Translation, Syracuse University Press, Syracuse-New York 1998; Neveyle (Carcassa), Tzvishn tog un nakht (Tra giorno e notte) e Af yenem zayt taykh (tradotto come Lamuleto), in Ellen Perecman, a cura di, Selected Yiddish Plays, Vol. I, Universe, Inc., New York-Lincoln-Shanghai 2007.
12 Dopo un momento di interesse per il simbolismo, coincidente con i suoi testi in ebraico (Mondi solitari; Fiori sulla tomba; La terra; Nel buio e Il patto), Hirshbeyn rimase sempre fedele all’espressione in yiddish e al proprio peculiare naturalismo.
13 Come documenta Landmark Yiddish Plays cit., pp. 51-61.
14 Michael Goldstein e Helen Beverly era due importanti attori del teatro d’arte yiddish del tempo, il primo fu il protagonista del Buon soldato Švejk di Hašek nell’adattamento antimilitarista dell’Artef, la seconda tra i protagonisti dei Brider Ashkenazi di Singer messo in scena da Schwartz.
15 Su di lui non esiste una bibliografia accessibile, ma cfr. Joachim Stutschewsky, Der vilner balebesl (1816-1850). Legende vegn a yidish-muzikalishn goen: biografishe dertseylung, Tel Aviv 1968, ora disponibile sul sito del National Yiddish Book Center.
16 Lo spettacolo proponeva una contrapposizione tra un cantore fedele alla tradizione e uno occidentalizzato, questi interpretato da Tomashefsky, figlio e nipote di cantori divenuto un divo della Second Avenue e dello shund.
17 Der kholem fun mayn folk (Il sogno del mio popolo). Documentario. Regia: A. J. Bloome. Narratore: Zvee Scooler. Attore: Yossele Rosenblatt. Produzione: Palestine-American Film Co., Usa 1934. Durata: 66’. Restaurato dal National Center for Jewish Film.
18 Cfr. Milken Archive of Jewish Music, ad vocem.
19 Cfr. Yitskhok Niborski, Shteynbarg, Eliezer, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 18 ottobre 2010.
20 Su Alexander Olshanetsky, dapprima violinista molto apprezzato, poi veterano della Second Avenue, cfr. il capitolo sui compositori nel primo volume di questa serie.
21 Ilya Motyleff avrebbe anche diretto alcuni spettacoli a Broadway, ad esempio nello stesso 1937 The Empress of Destiny di Jessica Lee e Joseph Lee Walsh, con l’attrice italiana Elissa Landi nei panni dell’imperatrice russa Caterina la Grande, e Ghost for Sale di Ronald Jeans nel 1941. Due insuccessi senza appello. Personalità irrequieta, scrisse anche diversi copioni, mai rappresentati a Broadway, che ottennero soltanto un modesto riscontro di critica e di pubblico in altre città. Fu anche un assiduo e amato formatore al Dramatic Workshop e allo Hunter College. Divenuto cittadino americano, non riuscì mai a integrarsi in quel sistema dello spettacolo, condannandosi a un progressivo declino e una solitudine protrattasi fino alla morte, che lo colse nel 1970.
22 I fratelli Goskind forse non erano persone geniali e certamente erano molto attenti a non perdere denaro, ma avevano un vasto orizzonte culturale che li portò, tra l’altro, a promuovere diverse iniziative di grande spessore, come i documentari del 1938-1939 ora raccolti sotto il titolo Jewish Life in Poland – Pre WWII Polish-Jewish Travelogues (Jewish Life in Byalistok; Jewish Life in Cracow; Jewish Life in Lwow; Jewish Life in Vilna; A Day in Warsaw), di cui furono autori e registi. La fotografia era di V. Kazimierczak, il narratore Asher Lerner. Disponibili separatamente in versione restaurata del National Center for Jewish Film.
23 Il bambino inviato a cercare fortuna in America è diventato un famoso cantante con il nome di Irving Bird (interpretato da Edmund Zayenda). L’anziana madre (Lucy Gehrman) lo ha cercato invano e infine, sentendolo cantare una canzone dedicata a lei, crede di riconoscerlo. Dopo questa scena il film prosegue: all’uscita del locale, mentre lui sta per andarsene, la madre crolla, non si capisce bene se per un malore o investita dall’auto del divo; poi la vediamo all’ospedale, con il figlio accanto al letto, che può riabbracciare al proprio risveglio. Per un’attenta lettura di questo ultimo film firmato da Greenberg come regista si rinvia al testo di Alessandro Cappabianca nella seconda parte.
24 Cfr. l’intervista a Molly Picon in E. A. Goldman, Visions, Images and Dreams cit., pp. 195-211.
25 Dapprima il produttore Goskind pensava di affidare la regia ad Aleksander Marten, il quale però si era trasferito a Vienna. Il 1937 fu un anno di lavoro particolarmente intenso per Turkow, coregista e interprete di Tkies kaf e protagonista di Purimshpiler.
26 Mosze Broderson era nato a Mosca e in seguito all’espulsione della comunità ebraica dalla città era cresciuto a Łódź. Durante la Prima guerra mondiale, di ritorno a Mosca, partecipò con El Lissitsky al movimento del modernismo yiddish (nel cui ambito è celebre la loro opera Sikhes Kholin – Piccola conversazione, nella quale folklore yiddish e art nouveau sono fusi in una stampa su rotolo, come una Torah). Di ritorno nel 1918 a Łódź, città destinata a diventare la capitale dell’avanguardia polacca nel decennio successivo, fu il promotore – in veste di attore, drammaturgo e produttore – del cabaret kleynkunst Ararat, dove fu scoperto il duo Dzigan e Shumacher. Si vd. in proposito il primo volume di questa serie.
27 Il film fu girato in gran parte nei pressi dello shtetl di Brzeziny e molti cittadini furono coinvolti nelle riprese.
28 Bridge of Light cit. p. 278.
29 Cfr. David G. Roskies, Manger Itsik, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 18 febbraio 2011. Manger, oltre a essere uno dei maggiori poeti e scrittori yiddish del Novecento, è importate per la sua rivalutazione controcorrente del teatro yiddish più popolare, considerato un prezioso contenitore di «fiaba, grottesco e ballate», nonché per il suo impegno, spesso felicemente riuscito, nel comporre opere di alta caratura poetica destinate al pubblico e agli interpreti popolari.
30 Nella quale si percepisce l’eco del suo poema drammatico sul Libro di Ester (Megile-lider, del 1936) recitato nella finzione da un gruppo di giovani apprendisti sarti in occasione di un Purim ottocentesco.
31 Per il Purim-shpil in generale si rimanda ai diversi passaggi e alle indicazioni bibliografiche che gli sono dedicati nel nostro primo volume. Per una sintesi storica cfr. Jean Baumgarten, Purim-shpil, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 13 ottobre 2010.
32 Der Ewige Jude (Leterno ebreo). Regia: Fritz Hippler. Sceneggiatura: Eberhard Taubert. Fotografia: A. Endrejat, Anton Haffner, R. Hartmann, F. C. Heeve, Heinz Kluth, Erich Stoll, H. Winterfeld. Montaggio: Hans Dieter Schiller, Albert Baümeister. Musiche: Franz R. Friedl. Film documentario della D.F.G., Germania 1940. Durata 62’. Visibile nella versione restaurata dell’International Historic Films. Nel film figurano tra le più celebri personalità di ebrei indicati come campioni della «razza da annichilire»: Albert Einstein, Fritz Kortner, Peter Lorre, Ernst Lubich, Rosa Luxemburg, Kurt Gerron e Max Reinhardt. Gli ebrei della Polonia invasa dalla Germania nazista l’anno precedente vengono “mostrati” come esseri malvagi, luridi, corrotti e intenti a conquistare il mondo per dominarlo. Molte le scene riprese in strada, alternate a frammenti di film ebraici del tempo e fotografie di personalità. Il narratore illustra la visione nazista della questione ebraica, culminante nell’annuncio di Adolf Hitler del 1939 circa la definitiva Vernichtung (riduzione al nulla) di tutti gli ebrei del mondo.
33 E. A. Goldman, Visions, Images and Dreams cit., pp. 168-190.
34 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 219.
35 Celia Adler è tra i coprotagonisti del nostro quarto volume, dedicato alla vita e alla carriera di Maurice Schwartz.
36 David Pinski è un autore che ricorre spesso nei singoli volumi della nostra serie. Come Hirshbeyn, era tra i più apprezzati drammaturghi della generazione successiva a quella di Jacob Gordin, ma dall’inizio aveva goduto di importanti riconoscimenti, ad esempio per Der oyster (Il tesoro), messo in scena nel 1910 da Max Reinhardt. Pinski era arrivato a New York nel 1899 e fu tra dei primi scrittori a diventare un militante socialista. Cfr. Avraham Novershtern, Pinski, Dovid, The Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 27 giugno 2011. Anche quello di Osip Dymov è un nome citato di frequente. Già membro del Teatro d’Arte di Stanislavskij, Dymov aveva cominciato a scrivere in yiddish a partire dal 1913, data del suo arrivo a New York su invito di Boris Thomashefsky, debuttando con una satira del teatro yiddish più commerciale. In seguito avrebbe fornito testi a diverse compagnie sia del “teatro d’arte” yiddish – tra cui quella di Rudolf Schildkraut attiva per poco tempo nel Bronx – che dello shund. Cfr. Vassili Schedrin, Dymov, Osip, The Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 1 marzo 2011.
37 Assai utile in proposito il recente David Biale, David Assaf, Benjamin Brown, Uriel Gellman, Samuel Heilman, Moshe Rosman, Gadi Sagiv & Marcim Wodziński, Afterword by Athur Green, Hasidism. A New History, Princeton University Press, Princeton 2017.
38 Quella del Dibek è «una comunità che è presentata come integrale e autosufficiente, ma che il suo esponente più lucido sente come stanca e in un certo senso postuma. Il padre di Leah non solo non ha rispettato il voto stretto con il suo compagno di studi, ma soprattutto non è stato capace di rispettare il nesso fra economia e saggezza, commercio e studio, e anche quello fra ricchezza e povertà che aveva l’opportunità di suturare» (U. Volli, passim).
39 Volli ricorda come le scritture dell’ebraismo stabiliscano «che fra le aristocrazie del denaro e del pensiero debba svolgersi uno scambio continuo, innanzitutto in termini matrimoniali» e pertanto se il padre di Leah non fosse stato più “moderno” della figlia avrebbe applicato una norma che avrebbe salvato alcune vite.
40 Quella di Samuel Blumenfeld è finora l’unica biografia esistente sul regista: Samuel Blumenfeld, Człowiek, który chciał być księciem. Michał Waszyński – życie barwniejsze niż film (Luomo che voleva essere un principe. Michal Waszyński, quando la vita supera il film), Świat Książki, Varsavia 2008.
41 Per il resto si rimanda, oltre che alla biografia citata e a ciò che sta per uscire, dato il rinnovato interesse per la sua persona, al documentario di Elwira Niewiera e Piotr Rosołowski, Il principe e il dibbuk, Polonia 2017, 80’, v.o. sott. it. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, il documentario ha destato un vivo interesse anche per la lunga e intensa attività di Waszyński nell’Italia del secondo dopoguerra, fitta di episodi su cui non ci possiamo soffermare in questa sede ma che lo rendono una figura pressoché leggendaria.
42 È certamente possibile ipotizzare anche altre suggestioni, alcune delle quali più evidenti per gli spettatori colti polacchi di ieri e di oggi, ad esempio lo Adam Mickiewicz degli Avi, un caposaldo della cultura polacca, o la pittura di Artur Grottger e Władysław Podkowiński.
43 Una delle scene che maggiormente colpiscono gli spettatori è quella, anch’essa aggiunta nel film, della danza dei mendicanti al matrimonio di Leah. La danzatrice e coreografa Judith Berg, reclutata per l’occasione, era originaria di Łódź, si era formata con Mary Wigman in Germania e aveva aperto una scuola di danza a Varsavia, specializzandosi nello studio della specifica tradizione chassidica. Trasferitasi con il marito Felix Fibich negli Stati Uniti dopo aver realizzato spettacoli in diversi paesi, Berg è stata attiva sino alla fine degli anni Ottanta, rimanendo sempre fedele ai propri interessi originari.
44 In proposito cfr. la recente e unica monografia dedicata alla straordinaria compagnia: Debra Caplan, Yiddish Empire. The Vilna Troupe, Jewish Theater and the Art of Itinerancy, University of Michigan Press, Ann Arbor 2018. Nei nostri volumi la Vilner Trupe è ovviamente spesso citata; nel primo se ne parla diffusamente.
45 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
46 Molly non era nuova a questo tipo di performance: in un musical del 1930 aveva interpretato un personaggio dall’adolescenza agli ottant’anni.
47 Rumshinsky lavorava in quel momento con Picon e Kalich alla preparazione di un musical dal titolo Abi gezunt che sarebbe stato un successo pluridecennale. In proposito cfr. Milken Archive of Jewish Music, ad vocem. In Mamele, Molly canta Abi gezunt in cucina, mentre stira, pela patate, spazza e prepara il pasto dello Shabbat, ma alla fine della canzone estrae dal forno un pane bruciato.
48 Per il complesso della sua carriera, cfr. Imdb, ad vocem.
49 È acquistabile in edizione non restaurata sul sito Yiddishmovie e visibile in edizione polacca su Youtube: <https://www.youtube.com/watch?v=a0j_Sob-B8Is>.
50 Gustav Berger e Fania Rubina erano una coppia anche nella vita (sposati dal 1940). Arrivarono in America nel 1937 dalla Polonia, dove si erano affermati nel teatro di prosa e in quello musicale. Qui fecero parte per qualche tempo del Teatro d’Arte Yiddish e recitarono in alcuni film yiddish. Per entrambi cfr. Imdb, ad vocem.
51 Josef Berne, originario di Kiev, diresse tra il 1933 e il 1950 una trentina di film, la maggior parte dei quali corti. Quelli yiddish sono: Mirele Efros e Catskill Honeymoon (1950).
52 Per alcune notizie su Bertha Gersten si vedano gli altri volumi di questa serie, in particolare il terzo. Merita ricordare qui che la sua biografia artistica e personale s’intreccia con quella di Jacob Ben-Ami, l’attore-intellettuale molto più importante di quanto sia finora emerso nella bibliografia dedicata. Gersten era nata a Cracovia in una famiglia ortodossa che si era trasferita a New York nel 1899 e debuttò in parti da bambina per le conoscenze della madre sarta-costumista. Nel 1915 fu protagonista con la compagnia Thomashefsky e nel 1918 fu chiamata da Maurice Schwartz, assieme a Celia Adler, Anna Appel, Ludwig Satz e Jacob Ben-Ami come cofondatrice dello Yiddish Art Theater. Continuò a collaborare con Schwartz fino al 1950, seppure in modo discontinuo. Girò anche il mondo con diverse compagnie yiddish, ma il legame artistico più profondo, come s’è detto, fu quello con Jacob Ben-Ami.
53 Mirele Efros diretto e interpretato da Tatiana Pavlova è visibile nelle Teche Rai.
54 E proprio come nel dipinto di Marc Chagall, realizzato per decorare la prima sede del teatro yiddish sovietico, una descrizione dettagliata del quale si trova nel nostro quinto volume.
55 Per cantillazione si intende in ambito ebraico la pronuncia attenta e sfumata dell’altezza musicale delle vocali di ogni parola in un versetto della Torah. Il khazn, maestro cantore o cantillatore, utilizza un repertorio di tropi, cioè di modelli musicali tradizionali. Ogni tropo consiste in un mottetto iniziale per cantillare le vocali atone di una parola, seguito da un mottetto caudale più sviluppato per modulare le vocali toniche delle parole ossitone, di quelle toniche e post-toniche delle parossitone. Il repertorio dei tropi varia secondo i riti, il paese o gli usi delle comunità ebraiche locali. I tropi sono notati nel testo con l’aiuto di accenti grafici. Se l’accento è il segno scritto che rinvia al tropo, il tropo è il segno orale di una norma grammaticale che permette di strutturare il testo biblico modulando le pause che separano la pronuncia delle parole in ogni versetto. L’insieme di queste prescrizioni è chiamata te’amim. Questo genere di canto affonda le radici nella tradizione ed è privo di strutture metriche. Nei testi di questo tipo, formalizzati nel sistema diatonico, si prevede una particolare intonazione caratterizzata da fermate, sospensioni attese ed enfatizzazioni, oggi evidenziate dalla punteggiatura ma da tempo immemore trasmesse nella pratica sinagogale.
56 Gordin scrisse dunque in un primo momento un finale tragico e poi uno lieto. Come chiarisce Giulia Randone nel settimo volume di questa serie, il copione utilizzato da Ida Kaminska dagli anni Cinquanta in poi era basato sull’adattamento polacco del dramma realizzato da Andrzej Marek e noto con il titolo Mirla Efros (portato in scena anche nel ghetto di Varsavia). Nelle sequenze finali del dramma si assiste dapprima al confronto tra Mirele e la nuora, poi sopraggiunge Shloymele con l’orologio dono della nonna. Il ragazzino racconta di essere preso in giro dai compagni per via della vergognosa espulsione di Mirele dalla famiglia e con prepotenza infantile giura che riporterà la nonna a casa, aggiungendo che se lei non vorrà seguirlo allora le restituirà l’orologio. A questo punto fa il gesto di restituirle il regalo e Mirele crolla, sostenendo che non potrebbe mai riprenderselo e facendo intendere che li seguirà. Anche l’impassibile Sheyndl scoppia a piangere e quando Yosl, sorpreso, chiede alla madre se davvero stia tornando da loro, Mirele risponde con un sorriso: «Cosa posso fare con un tiranno simile? Tuo padre era Shloymele Efros e tuo figlio è Shloymele Efros». Yosl è felice e grato al figlio, il quale ribatte di non vedere in ciò nulla di strano e di avere soltanto riportato la nonna a casa, come s’era impegnato a fare. Così dicendo l’afferra per mano e la trascina con sé. Lultima battuta è di Mirele: «Sì. Ora vedo chiaramente che non sarebbe potuto accadere nulla di diverso… Andiamo», dice uscendo di scena condotta per mano dal nipote e poggiandosi al braccio del figlio, seguita dalla nuora a testa bassa.
57 Nella nota biografica a lei dedicata, cfr. Museum of Family History, ad vocem.
58 Il lettore faccia riferimento, in proposito, all’accurata lettura che ne dà Silvia Ferrannini nella seconda parte di questo volume.
59 In questo senso si vd. l’illuminante testo di Franz Kafka, Discorso sulla lingua yiddish, in Confessioni e Diari, a cura di Ervino Pocar, trad. it. di I. A. Chiusano, Mondadori, Milano 1981, pp. 1001-1005.
60 Giulia Randone, Di case, lingue e finestre: Ida Kaminska, attrice yiddish, «Altre Modernità», numero speciale Finestre: sguardi e riflessi, trasparenze e opacità, 2015, pp. 156-180: 167.
61 Jud Süss è un film storico-romantico britannico del 1934 basato sul romanzo omonimo di Lion Feuchtwanger, del 1925, diretto da Lothar Mendes e interpretato dall’attore tedesco Conrad Veidt. La sceneggiatura era di Dorothy Farnum e Arthur Rawlinson. Il film è visibile su Youtube. Per la scheda tecnica cfr. Imdb, ad vocem. Ma si tenga presente che un altro Jud Süss (Süss, l’ebreo; diffuso in varie lingue), regia di Veit Harlan, è un film antisemita tedesco del 1940, fortemente voluto e promosso dai vertici nazisti (visibile nella versione restaurata dell’International Historic Films).
62 La versione di Lynn è conosciuta con i titoli A People That Shall Not Die oppure A People Eternal oppure The Wandering Jew, ovvero Un popolo che non morirà, Un popolo eterno e Lebreo errante.
63 Relativamente “depressa” è anche la regia di Ulmer, il quale non era riuscito a trovare i fondi per realizzare il film come avrebbe voluto e fu costretto a girare tutto in fretta e in interni.
64 Nosseck, nato in Polonia, si era affermato nell’industria cinematografica tedesca come attore e regista quando nel 1933 fu costretto a emigrare a causa delle proprie origini ebraiche. Diresse film in Spagna, Olanda e Stati Uniti e dopo la Seconda guerra mondiale tornò a vivere in Germania. Per la sua filmografia cfr. Imdb, ad vocem.
65 Così Seiden cit. in J. Hoberman, Bridge of Light, p. 322: «Il mondo aveva bisogno di ridere e perciò abbiamo realizzato questi film sulla falsariga di quelli dei fratelli Marx».
66 Cfr. Imdb, ad vocem. Sex Madness non ha contenuti ebraici ma parla di teatro secondo un’ottica spregiudicata e intrigante che infatti ne determinò un grande successo di pubblico. Il protagonista, noto come un filantropo, in realtà promuove nuove “patologie sociali” come la sifilide e la gonorrea, dovute alla sua intensa partecipazione alla vita del teatro, ambiente nel quale si pratica il sesso con leggerezza. La vicenda si sviluppa coinvolgendo diversi personaggi dello spettacolo e di altri ambienti e si conclude con un ammonimento, tuttavia facendosi una ragione della irreversibile e progressiva libertà sessuale che connota l’America.
67 Acquistabile sul sito Rarefilmsandmore.com.
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