3. 1929-1935. Voci e suoni, oltre che luci e ombre
p. 110-149
Texte intégral
1Il desiderio di unire la proiezione delle immagini alla voce umana, alla musica e ai suoni è presente dai primordi, come abbiamo visto a partire dalla kino-deklamatsye. Da allora sino alla fine degli anni Venti è un continuo susseguirsi di esperimenti, sia pure con battute d’arresto a causa di eventi drammatici come la Prima guerra mondiale o considerazioni di opportunità economica. Fino alla piena affermazione del sonoro, che segue di qualche anno, come si vedrà, lo strepitoso debutto di The Jazz Singer con Al Jolson, il destino del cinema è ancora strettamente intrecciato a quello del teatro, sebbene secondo modalità assai differenti da quelle degli anni Dieci e primi Venti, quando la maggior parte dei film era di diretta derivazione teatrale. Con l’affermazione dei talkies, ovvero del cinema sonorizzato e parlato, si manifestò tutta l’inadeguatezza dei divi del muto e per affrontare la nuova fase ci si rivolse di nuovo, innanzitutto, agli attori di teatro. D’altra parte, però, anche il teatro stava cambiando nel quadro dell’espansione economica e della trasformazione sociale che riguardavano praticamente tutto il mondo. E dalla fine della Prima guerra mondiale gli Stati Uniti erano il paese egemone, il più potente, con il quale tutti gli altri, Unione Sovietica in primis, si confrontavano ed erano in competizione.
2Il teatro yiddish, di natura transnazionale, e quello americano più degli altri, si presentava con molte facce, come raccontano i singoli volumi di questa serie. Con Maurice Schwartz, Jacob Ben-Ami, la Vilner Trupe, i Kaminski, il Goset sovietico e pochi altri si raggiungevano i vertici dell’arte teatrale, ma, come sempre accade, la maggioranza del pubblico era conquistata dal teatro più votato all’intrattenimento: gli spettatori e la movimentazione economica attorno alla figura di Molly Picon e pochi altri grandi comedians avevano nella cronaca e nelle statistiche dimensioni decisamente superiori al teatro d’arte yiddish. Il teatro, come suo figlio il cinema, procedeva soprattutto allo sviluppo della dimensione spettacolare, elaborando codici come lo happy end e altre regole che Hollywood e Broadway andavano elaborando e imponendo. E come nel campo teatrale, anche in quello cinematografico vi era una vivace concorrenza tra una produzione industriale orientata al successo economico e una produzione “indipendente”, che stava sul mercato con finalità più articolate. Concorrenza, ma anche una continua interazione.
3Influenzata da Fanny Brice, Molly Picon si era affermata sulla scena mettendo a punto un nuovo genere ibrido, l’ «operetta letteraria», restando però fedele alla lingua e al pubblico yiddish, almeno fino al secondo dopoguerra. Non era così per Ludwig Satz, il quale recitava a Broadway in inglese o, ad esempio, in un film tratto dalla commedia yiddish Der meshugener (Il lunatico o Il pazzo) di Harry Kalmanowitz, in un adattamento che non aveva più niente di ebraico. In questa situazione, un elemento fondamentale dello spettacolo teatrale e cinematografico era quello musicale. Oltretutto le canzoni alimentavano un’industria parallela, che conosceva attraverso gli spartiti, i dischi e la radio una propria specifica grande espansione.
4La questione ebraica, last but not least, costituiva al tempo stesso la decisiva cornice e un ricorrente contenuto del teatro e del cinema del tempo, distinguendosi in due aspetti fondamentali: da una parte il contenzioso ideologico aperto da un antisemitismo che si manifestava come un’idra dalle mille teste e che poteva contare su potentissimi sponsor economici e politici, antisemitismo cui l’opinione pubblica ebraica reagiva a sua volta in molti modi, dai vertici economici e politici della società fino agli strati più indigenti della popolazione; un altro fronte era costituito da una dialettica senza possibilità di sintesi tra differenti modi di percepirsi e di vivere come ebrei, in rapporto alle proprie tradizioni di provenienza e alle nuove condizioni di vita nel paese all’avanguardia della modernità.
5La compenetrazione reciproca tra ebrei e Amerike si manifestava in vari modi, come s’è cominciato a vedere nel capitolo precedente. Uno dei più vistosi è documentato proprio da quello che è considerato il primo film sonoro, The Jazz Singer (1927), nel quale il personaggio interpretato da Al Jolson, cantore figlio di cantore, si sottrae al destino della propria stirpe per esibirsi sulla scena secolare con il volto dipinto di nero, come molti altri interpreti degli anni Venti. Il significato di questa maschera da “negro” è di una profondità quasi insondabile. In primo piano vi era l’identificazione con coloro che erano arrivati come schiavi e ora stavano diventando i nuovi americani, tra l’altro creando un patrimonio culturale di incredibile ricchezza, qui significato appunto dal jazz e dal canto. Per i poveri arrivati successivamente – ebrei e italiani soprattutto – il jazz e la cultura performativa dei neri erano il luogo di un incontro, il segno di una fratellanza elettiva, una religione del tempo nuovo,1 religione-ponte tra gli ex schiavi neri e i nuovi «schiavi bianchi», come pure si definivano gli immigrati ebrei più poveri, una religio in grado di travolgere gli schieramenti ideologici e i pregiudizi di classe. Se la cultura yiddish si americanizzava, anche in quest’accezione “trans”, la cultura americana si yiddishizzava, o meglio subiva l’influenza di tutti i protagonisti del melting pot. Non deve stupire perciò che vi fosse una consistente migrazione di cantori russi e polacchi nelle Americhe, contesi non soltanto dalle sinagoghe ma dalle più diverse imprese di spettacolo, cantori spesso eclettici, come i grandi Yossele Rosenblatt,2 e Leibele Waldman,3 a proprio agio tanto con i canti liturgici quanto nel vaudeville e naturalmente nel cinema.
6I temi che stiamo rievocando trovano ampio spazio anche in una cinematografia internazionale di cui qui non ci occupiamo, ma data la sua stretta contiguità con The Jazz Singer non si può tacere del film tedesco Das alte Gesetz (La vecchia legge,4 1923) di Ewald André Dupont, tra i cui protagonisti vi era Avrom Morevsky nei panni del rabbino di un povero shtetl galiziano alle prese con il figlio Baruch che vuole diventare attore. Baruch entra in una piccola compagnia di burlesque, dove si fa scoprire da una arciduchessa austriaco-erzegovina che lo presenta al direttore del prestigioso Burgtheater di Vienna. Lì Baruch fa carriera ed è sempre più assimilato, fino a quando la sua relazione con la nobildonna è disapprovata dalla corte e i due sono costretti a separarsi. Un vecchio amico venuto a trovarlo fa nascere in lui una certa nostalgia per il luogo di origine, dove torna in vacanza e incontra nuovamente la bambina di cui era stato innamorato. Il padre, per contro, gli nega persino l’accesso a casa e Baruch torna infine a Vienna con la propria sposa: siamo così a un compromesso interrogativo tra assimilazione e fedeltà alle origini.
7La Warner Brothers si era associata alla Western Electric per creare Vitaphone, società produttrice della tecnologia necessaria per realizzare il film sonoro. Dopo un inizio sperimentale caratterizzato dalla produzione di corti di una o due bobine (da dieci minuti a mezz’ora) con accompagnamento sincronizzato registrato su dischi, la Warner acquistò i diritti di The Jazz Singer, musical scritto da Samson Raphaelson e interpretato da George Jessel che si era replicato con enorme successo per trentotto settimane. Essendo Jessel impegnato a Hollywood, fu scelto come protagonista un astro nascente del teatro musicale, Al Jolson. Il film (del quale si propone qui la lettura di Alessandro Cappabianca) fu girato in esterni nel Lower East Side e nel teatro dello stesso Jolson, mentre la sinagoga di Orchard Street e la strada in cui il cantore junior era nato e vissuto furono invece ricostruite a Hollywood. Una delle novità più rilevanti rispetto allo spettacolo era l’apparizione di Yossele Rosenblatt. Il film nelle intenzioni doveva essere musicale e non “parlato”, ma una improvvisazione di Jolson – un dialogo con la madre che prima gli astanti e poi il pubblico mostrarono di apprezzare moltissimo – portò a sviluppare questo aspetto.
8Con The Jazz Singer il cinema, con maggiore forza del teatro, si affermava come costruzione della “bella menzogna”. Nella finzione scenica il figlio rinunciava alla carriera mondana e tornava a cantare in sinagoga, ma ciò ai produttori di Hollywood non poteva piacere e dunque l’accento assimilazionista fu posto sul protagonista che torna a cantare sulle scene di Broadway, con una blanda compensazione sentimentale: quando scorge la madre in platea, Jackie Rabinowitz, il cantore divenuto cantante jazz, le dedica la canzone Mammy.5 Siamo in presenza, qui, di uno degli atti di fondazione della cultura pop, una nuova tendenza culturale che avrebbe caratterizzato non soltanto la storia di questo artista e dei suoi simili, ma soprattutto quella dell’industria culturale americana. Altro aspetto da sottolineare è che questo film non-yiddish rese inevitabile una ripresa della produzione di film yiddish, sia per continuare nel solco del suo successo, sia per proporre altre storie sul rapporto degli ebrei con l’America, sempre tenendo in primo piano la questione del conflitto tra le diverse generazioni dell’immigrazione.
9Il 6 ottobre 1927, alla prima, The Jazz Singer fu accolto da un entusiasmo del pubblico che nessun film aveva conosciuto fino ad allora, un’ovazione teatrale.
Dalla sinagoga a Hollywood, cantando
Alessandro Cappabianca
Diretto da Alan Crosland nel 1927, The Jazz Singer è passato alla storia del cinema come il primo esempio di lungometraggio sonoro, utilizzando il sistema Vitaphone per le canzoni e una minima parte dei dialoghi che, per la maggior parte, continuavano a essere espressi tramite didascalie. Interpretato da Al Jolson, cantante, ballerino e intrattenitore d’origini ebraiche, già famoso in teatro, il film ebbe un grande successo. La novità del sonoro, per quanto parziale, incontrò il favore immediato del pubblico, salvando la Warner Brothers che allora navigava sull’orlo del fallimento.
Dopo un’introduzione orchestrale e qualche inquadratura in esterni del quartiere ebraico (il ghetto) di New York, il film ha inizio con una serie di scene in montaggio alternato: mentre i genitori lo attendono a casa per festeggiare lo Yom Kippur, Jackie Rabinowicz, il loro figlio tredicenne, appassionato di musica jazz, si esibisce in una performance estemporanea a beneficio degli avventori d’una birreria. Jackie ha già una bella voce e il ritmo jazz nel sangue, ma la cosa è disapprovata dal padre, cantore nella sinagoga, desideroso che anche il figlio si dedichi alla musica religiosa come hanno fatto tutti i Rabinowicz da cinque generazioni; la madre Sara, invece, lo capisce e lo difende.
Un amico di famiglia, un certo Moisha Yudleson, corre ad avvertire i genitori di Jackie di quello che sta facendo il figlio. Il padre lo va a prendere, lo riporta a casa, lo picchia, malgrado le suppliche di Sara. Jackie decide di seguire la propria vocazione e andarsene di casa. Il padre lo ripudia, non vuole più sentirne parlare. «Non ho più un figlio!», dice (in didascalia).
Sono passati alcuni anni. Jackie Rabinowicz è ora Jack Robin. Come cantante di jazz, sta diventando popolare. Lo vediamo mentre cena in un ristorante, assieme a un amico, e mangia seguendo il ritmo dell’orchestra che sta suonando. Lo invitano a cantare e quando lo fa si scatenano gli applausi. A questo punto Jack dice (in sonoro) la famosa frase: «Non avete ancora sentito niente!». Mentre canta un’altra canzone, arriva nel locale la bella Mary Dale, soubrette già affermata: è amore a prima vista.
In tournée nelle principali città degli Stati Uniti, Jack scrive spesso alla madre. La informa dei suoi primi guadagni, le confida d’aver conosciuto Mary, confessa una certa nostalgia di casa. A Chicago, si reca a vedere uno spettacolo del grande cantore ebraico Yossele Rosenblatt e non può fare a meno di ripensare a suo padre, che canta in sinagoga. Mentre sta per partire con la compagnia verso un’altra tappa della tournée, lo raggiunge la notizia d’una scrittura importante, propiziata da Mary, per una rivista a New York, a Broadway!
Tornato a New York, Jack ne approfitta per tentare di riconciliarsi con il padre, nel giorno in cui questi compie sessant’anni. Qui, nella situazione drammatica, si inserisce una gag gustosa. Sia Sara, sia una signora loro amica, scoprono di aver comprato lo stesso regalo per il cantore: uno scialle da preghiera nuovo. Arriva Yudleson. Anche lui ha comprato lo stesso scialle: e sono tre! Poi, mentre il padre sta dando lezioni di musica ad alcuni allievi, arriva Jack. Baci e abbracci con la madre. Jack canta e suona il piano per lei, ma constata con dispiacere che al posto del suo ritratto fotografico da ragazzo, appeso al muro, ora c’è il quadro d’un paesaggio. Il padre non lo ha perdonato e, quando a sua volta arriva, interrompe sdegnato l’esecuzione. Invano Jack gli mostra il regalo che gli ha portato per il compleanno, uno scialle da preghiera (e quattro!); invano tenta di fargli ammettere che la musica è preghiera, è voce di Dio, ovunque e comunque si faccia. Il padre lo scaccia di nuovo.
A teatro, si prova la rivista April Follies, di cui Jack e Mary sono le star. Jack si esibisce nel suo numero black face, cantando una canzone con il viso dipinto di nero e una parrucca di capelli crespi, come un afro-americano. Era un trucco consueto, all’epoca, da parte dei cantanti bianchi: si può intendere come una prova, un tentativo, un suggerimento d’integrazione nel grande melting pot americano, ma anche, nel caso particolare, come segreta affinità tra etnie per motivi diversi disprezzate.
Il padre di Jack è molto malato, non potrà cantare in sinagoga nel giorno dello Yom Kippur, come aveva fatto da sempre. Prima Yudleton, poi la stessa Sara (che sulle prime non riconosce il figlio truccato in black face), scongiurano Jack perché sia lui a cantare al posto del padre nella cerimonia religiosa. Ciò significa dare forfait in occasione della prima teatrale, e Jack teme per la propria carriera. Sembra che non intenda accondiscendere a quello che potrebbe essere l’ultimo desiderio di suo padre, ma poi l’amor filiale vince: salterà la prima della rivista e canterà in sinagoga. Dal suo letto, attraverso la finestra aperta, il morente lo ascolta e può spirare in pace.
Il successo di Jack comunque non si ferma. Nell’ultima sequenza, lo vediamo cantare Mammy a teatro, in black face, rivolto alla madre che siede commossa in prima fila. Inni sacri della tradizione ebraica, spiritual dei neri americani: è musica, voce di Dio.
All’improvviso… la voce. D’un tratto, dal silenzio parlante dei corpi muti, scaturisce qualcosa di udibile, senza bisogno di didascalie, di un benshi (così chiamato in Giappone) o di una kino-deklam matsye, ovvero dell’attore che aveva il compito di commentare le immagini dei film muti, stando ai piedi dello schermo, o dietro. Per immaginare la sorpresa del pubblico, alle prime applicazioni del sonoro cinematografico, dobbiamo pensare che si trattava d’un paradossale rovesciamento di prospettiva antropologica. Se è del tutto ovvio pensare alla priorità temporale dell’oralità rispetto all’invenzione della scrittura (tenendo conto, tra l’altro, delle riserve già espresse da Platone sulla reale utilità di questo passaggio), nel cinema è accaduto esattamente l’inverso: per seguire e comprendere lo svolgimento d’un intrigo appena un po’ complesso, il pubblico doveva leggere, o bisognava che altri leggesse per lui; sentire parlare gli attori costituiva quindi una novità inaudita, al limite della magia, uno choc poco meno sconvolgente di quello che aveva colto gli spettatori dei primi film-Lumière nel vedere le immagini fotografiche mettersi in moto. Parlare ci sembra naturale, sentir parlare anche, ma di fronte a The Jazz Singer il pubblico deve essersi trovato, all’improvviso, di fronte a una sorta di rivelazione dell’origine “innaturale” o comunque complessa ed elaborata della nascita del linguaggio. Riscoperta della meraviglia di sentir parlare…
Sentir parlare gli attori, ma ancora di più, sentirli cantare. Se c’è un mistero della voce, considerata come uno degli oggetti lacaniani, ossia come qualcosa da cui ci separiamo per costituirci come soggetti, il mistero aumenta nel caso del canto. Certe voci, nel canto, non sembrano scaturire da un organo corporeo (ugola, o quel che sia), ma provenire da una lontananza misteriosa, o da una creatura aliena, estranea, introdottasi nel corpo di chi canta, che esige impaziente di manifestarsi. Emissioni di organi corporei che sembrano non appartenere più al corpo ma a un suo Doppio, o a un’entità soprannaturale che lo possiede. Questo implica l’esistenza di un’antica funzione liturgica del canto, non solo come omaggio alla divinità, ma come sua diretta espressione, come se Dio si manifestasse nella voce stessa del cantore.
Attraverso la voce del cantore, che canta le lodi di Dio, invocando la sua misericordia e il suo perdono, chiamando alla penitenza, si ha l’impressione che gli uditori, i fedeli in una sinagoga o in una chiesa, ma anche gli spettatori in un certo tipo di teatro, vadano incontro a un’esperienza estatica, di contatto auditivo con la divinità; o si può pensare, se si preferisce, che alla formazione dell’idea stessa di divinità abbia fortemente contribuito la fascinazione del canto: del canto, della voce umana-oltre-umana, prima ancora che della musica proveniente dagli strumenti. O meglio: il canto doveva essere in origine l’alternativa estatica alla frenesia indotta, per esempio, dal ritmo orgiastico degli strumenti a percussione. Ma allora avrebbe ragione il Jackie Rabinowitz del film di Crosland a pensare che non esista differenza tra cantare inni sacri in sinagoga e spiritual o blues a teatro, e suo padre, rabbino e cantore intransigente, avrebbe torto marcio (come riconosce alla fine, in punto di morte) a opporsi alla vocazione del figlio per il jazz. Il fatto è che dietro ogni musica, per antica che sia, risuona sempre l’eco d’una musica ancora più antica, e Al Jolson, ebreo di nascita, lo sapeva bene. Il padre caccia Jackie di casa, o meglio, lui se ne va, a tentare l’avventura teatrale nei locali americani profani, abbandonando il ruolo di cantore da sinagoga cui le tradizioni familiari lo destinavano; va incontro al successo, ma non si limita ad americanizzare il proprio nome in quello di Jack Robin: dipingendo di nero la propria faccia, indossando una parrucca di capelli crespi, utilizzando insomma il trucco della black face, del fingersi afro-americano, incontra le radici sacre del canto e della musica, comuni a etnie per motivi diversi assoggettate al disprezzo. La musica, che fa cambiare nome, che fa cambiare pelle, che affratella… che sacralizza il luogo in cui si svolge, sia in mezzo a vecchi ebrei barbuti, sia in mezzo a ballerine sgambettanti seminude.
Non a caso il sistema Vitaphone di registrazione del sonoro nel cinema era stato ideato, all’inizio, principalmente in vista dei numeri musicali, e The Jazz Singer ne porta ancora il segno. Sul piano cinematografico, vengono già utilizzati (dal regista Crosland) i classici espedienti di montaggio: per esempio, durante l’esecuzione dei numeri musicali di Jolson sono sempre inseriti primi piani abbastanza convenzionali dei volti degli ascoltatori più o meno estasiati e i pochi movimenti di macchina (in genere carrelli veloci) sono riservati alle scene in esterni. Al Jolson regge benissimo lo schermo, anche nei primi piani. Canta le canzoni allegre con grande verve, muovendo ritmicamente il suo fisico da ballerino, e canta quelle sentimentali con garbo, senza esagerare in patetismo, all’interno d’una storia che di patetismo è abbastanza intrisa. Lo stesso si può dire per tutti gli interpreti, maschili e femminili, e anche per Eugenie Besserer nel ruolo di Sara (la madre di Jackie), il più esposto al rischio. In un solo caso, il regista sembra aver perso il controllo dell’attrice, nella scena della morte del marito (il padre di Jackie), durante la quale gesticola in modo che sembra oggi veramente eccessivo.
The Jazz Singer rimane essenzialmente un film muto con didascalie, arricchito da inserti musicali e poche battute di dialogo in inglese, ma segna uno dei principali punti di svolta nella lunga storia cinematografica della comunità ebraica e dei problemi della sua integrazione negli Stati Uniti. Si può dire che il canto venga assunto a vessillo e marchio d’identità, di cui il padre, il cantore della sinagoga, è geloso custode. Padre e madre sono i custodi della tradizione e degli affetti familiari, anche se la madre, in quanto tale, comprende le aspirazioni del figlio; ma il canto, al tempo stesso, si fa veicolo e strumento d’assimilazione. Alla fin fine, l’alternativa sinagoga/teatro, canti sacri/musica jazz, si rivela artificiosa, funzionale tutt’al più a mandare avanti l’intrigo drammatico. Jack Robin può benissimo cantare a teatro e in sinagoga per lo Yom Kippur, anche a prezzo di una temporanea perdita d’identità (la madre dapprima non lo riconosce, travestito da afro-americano!), e anche se la riconciliazione può avvenire soltanto quando il padre è in punto di morte. Notiamo d’altra parte, stando almeno ai riassunti della trama attualmente disponibili, che in The Singing Fool, il successivo film semi-sonoro di Al Jolson, diretto l’anno seguente (1928) da Lloyd Bacon, e premiato da un successo di pubblico strepitoso, la crisi di Al Stone, il personaggio protagonista, innescata dall’abbandono da parte d’una moglie troppo volubile, sembra precipitare invece, quasi simmetricamente, con conseguenze rovinose, in seguito alla morte del figlio: come se per ogni favola d’integrazione, più o meno faticosamente riuscita, occorresse comunque pagare il prezzo d’un sacrificio.
Questo episodio segnò l’inizio di una nuova era. La Warner annunciò che avrebbe realizzato da allora in poi soltanto film sonori e cominciò presentando l’anno seguente la popolare Fanny Brice in My Man6 come equivalente femminile di Al Jolson, ottenendo però un riscontro molto minore. Intanto fioccavano gli annunci, ad esempio Griffith prometteva un film con Molly Picon, purtroppo mai realizzato. Molly sarebbe tornata al cinema soltanto nel 1934 con un corto di mezz’ora dal titolo A Little Girl with Big Ideas7 in cui cantava in inglese con un intenzionale forte accento yiddish, ovvero quando ormai diversi artisti e produttori l’avevano preceduta nell’impegnarsi nel nuovo mass medium.
10Soprattutto significativo per il cinema yiddish è il caso della Judea Film, casa produttrice diretta con mano sicura dal giovane Joseph Seiden, che si era assicurato come regista fisso il già noto Sidney M. Goldin. La produzione della Judea Film (o Judea Pictures) consistette, come stiamo per vedere, soprattutto in corti di una o due bobine, con dominante musicale e alcune brevi scene parlate. Joseph Seiden, che più avanti incontreremo come regista, fu innanzitutto un operoso artigiano del cinema. Aveva cominciato da ragazzo come proiezionista, poi era diventato assistente alla fotografia e direttore della fotografia per alcuni documentari. Dal 1919 per qualche tempo aveva servito nell’esercito con queste mansioni. Dopo un primo tentativo, non riuscito, di avviare una propria casa di produzione, aveva trovato lavoro a Vitaphone, dove insieme a Ivan Abramson aveva realizzato diversi corti muti d’argomento ebraico. All’inizio del 1930 si associò con il proprietario di quattro sale cinematografiche del Bronx per assumere il controllo della Judea Pictures.8
11Tra le sue maggiori realizzazioni dobbiamo annoverare East Side Sadie (Sadie dello East Side, 1929), nuova edizione di un Hearth of a Jewess (Il cuore di un’ebrea) del 1913, sempre diretto da Goldin. Qui la “ragazza del ghetto” era interpretata dalla figlia del regista, Bertina Goldin, il cui personaggio si sacrifica in uno sweatshop (una “bottega del sudore”) per pagare il college al fidanzato, il quale poi l’abbandona per sposare una ragazza ricca che lo tradirà a sua volta. Interessanti, in questo film, sono una sequenza parlata di bambini che giocano sul tetto di un palazzo e cantano l’inno di New York, East Side, West Side, e la scena del matrimonio celebrato da un cantore. Le recensioni tuttavia furono pessime, East Side Sadie fu giudicato «amatoriale» e inclassificabile. Lo stesso avvenne per Ad mosay (Fino a quando), una mezz’ora di piccole apparizioni individuali, film forse realizzato come reazione alla cronaca di un “piccolo” massacro di ebrei in Europa. A proposito di Ad mosay è da segnalare un articolo di Harry Alan Potamkin,9 il già citato corrispondente da New York della rivista britannica «Close-Up», che lo bollava come il peggiore film yiddish della storia e tuttavia lo considerava degno di studio come documento antropologico sulla vocalità e la gestualità dei recenti immigrati dall’Europa orientale, oltre che interessante nell’utilizzo del sonoro e per essere una produzione newyorchese indipendente. Per quanto riguarda alcuni esempi positivi di rappresentazione degli ebrei nel cinema, Potamkin indicava il citato La vecchia legge, invocava il Granovskij di Fortuna ebraica e, sempre condannando senza appello il cinema yiddish americano fino allora prodotto e soprattutto l’imperizia tecnica e poetica di Goldin, consigliava di rivolgersi piuttosto alla drammaturgia più significativa, a cominciare dal Dibbuk.
12Il crollo di Wall Street e l’inizio della Grande Depressione aprirono una fase nuova, difficile per tutti, un passaggio sul quale ci soffermiamo nel volume dedicato a Maurice Schwartz.
13La Judea Pictures fu la società di produzione più attiva tra il 1930 e il 1931. Seiden come manager e Goldin come regista si diedero un gran daffare per realizzare film che tanto nei contenuti quanto nella tecnica e nel formato potessero affrontare il mercato in quel frangente. All’inizio del 1930 uscirono i primi “due bobine” girati nel loro studio con i modesti mezzi di cui disponevano: Style and Class (Stile e classe), con la coppia di danzatori comici Marty Baratz e Goldie Eisenman, riprendeva un numero di varietà della Second Avenue, mentre la versione moderna di una fiaba russa intitolata Shuster libe (Lamore di un ciabattino) era interpretata da Joseph Buloff e alcuni membri della Vilner Trupe (Leyb Kadison, anche autore della sceneggiatura, Luba Kadison, Leah Noemi e forse altri).
Un regno teatrale itinerante
La Vilner Trupe si incontra spesso nei volumi primo e quarto, ma meriterebbe una conoscenza più approfondita come quella resa possibile dalla prima monografia a essa dedicata dalla giovane studiosa statunitense Debra Caplan, che speriamo di poter tradurre come volume conclusivo della nostra serie.10 Dunque ci limitiamo, qui, a indicare alcuni motivi di interesse.
Il primo è il carattere del tutto anomalo della Vilner, un’eccezione assoluta nella storia del teatro, poiché non si ha notizia di altre compagnie suddivise in diversi rami autonomi, operanti con la medesima lingua sui palcoscenici di tutto il mondo per oltre un ventennio e, occorre aggiungere, così influente nello sviluppo del fenomeno dal quale prende origine, il teatro yiddish, appunto. Come i nostri lettori hanno modo di verificare, questa influenza (non soltanto sul teatro yiddish) si esercitò, oltre che attraverso gli spettacoli, per opera di diversi attori e registi che provenivano da quell’esperienza. Ecco dunque perché i riferimenti alla Vilner occupano alcuni paragrafi in tutti i nostri volumi.
Un altro elemento, reale e simbolico al tempo stesso, che la connette al tipo di narrazione da noi scelto, ovvero al privilegio accordato alle biografie degli attori, è la sua nascita, dovuta a una disputa relativa a un triangolo amoroso. La prima Vilner Trupe (letteralmente Compagnia di Vilna) era nata da un collettivo di volonterosi dilettanti nel 1915 e si era conquistata immediatamente una meritata fama per l’indiscutibile valore artistico dei propri spettacoli, sempre di ambito yiddish.
Al 1918 risale la prima scissione, o meglio la creazione del primo ramo autonomo, che conservava orgogliosamente e legittimamente il nome. Caplan, dopo una ricerca pluriennale in diversi paesi, ha elencato le seguenti filiazioni della Vilner dopo la scissione del 1918: la compagnia diretta da Alexander Azro e Sonia Alomis, attiva dal 1918 al 1926 in Germania, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda e Stati Uniti; quella di Mordechai Mazo, attiva dal 1918 al 1935 in tutta l’Europa orientale; la prima formazione rinata in America e attiva negli anni 1926-1927; nel medesimo torno di tempo quella diretta da Jacob Waislitz, Khavel Buzgan e Daniel Shapiro, operante tra Lemberg (Lviv) e New York; la Vilner detta “del Bronx”, attiva tra il 1928 e il 1930 negli Stati Uniti e in Canada; quella operante in Belgio (Anversa) tra il 1929 e il 1930; la Vilner diretta da Alex Stein tra il 1930 e il 1933; una seconda formazione americana attiva tra il 1932 e il 1933; e infine una terza operante nel 1936. Tutto ciò contando un totale di duecentonovanta membri (tra essi ventinove scenografi-costumisti, ventiquatto registi, dieci compositori e due coreografi), una settantina dei quali erano uniti da vincoli familiari o amorosi.
Per dare un’idea complessiva della storia e della geografia della Vilner, Debra Caplan ha creato un sito (www.vilnatroupe.com) nel quale di dà conto, attraverso una ingegnosa rappresentazione grafica interattiva, non soltanto delle informazioni di base riguardanti tutti i membri della Vilner, ma anche di tutti coloro che per motivi di parentela o di amicizia, professionali o di studio, o semplicemente perché ispirati dalla visione dei suoi spettacoli, posso essere considerati nella medesima aura. Al sito possono fare riferimento i lettori di Yiddish Empire e chiunque voglia dargli un’occhiata anche senza chiavi di ricerca. Gli uni e gli altri faranno grandi scoperte riguardanti molti artisti qui citati e altri come Max Reinhardt, Alexander Moissi, attori come Paul Newman e Kirk Douglas e artisti come Vasili Kandinskij e Tadeuz Kantor.
Il buon esito dei film citati indusse i due a lanciarsi, nonostante la congiuntura economica sfavorevole, in altre produzioni. Allo scopo fu scritturata la diva Jennie Goldstein, specialista in ritratti sentimentali, ma l’attrice, colta da dubbi chissà se relativi al medium cinematografico o sul proprio esserne all’altezza, ci ripensò e sarebbe apparsa in una pellicola soltanto nel 1938 con Tsvey shvester (Due sorelle).
14Il loro primo film lungo e narrativo sarebbe stato Mayne yidishe mame (La mia mamma ebrea) con Mae Simon (Rabinowitz), che invece era entusiasta di apparire sullo schermo e lì conobbe il proprio successo. Mayne yidishe mame durava un’ora e si apriva con l’invocazione di Abramo e Isacco per introdurre il tema biblico rovesciato dei genitori che si sacrificano per i figli. Mae Simon impersonava una vedova lavoratrice di sweatshop con tre figli “moderni”, vale a dire difficili: la maggiore che si dà al vizio, uno che diventa uno sbandato e l’altro che sparisce. Passano gli anni: il figlio che era sparito è diventato un affermato avvocato e torna infine dalla yidishe mame pronta a perdonare tutto. Con ciò, il film introduceva il tema che sarebbe divenuto poi dominante della riconciliazione familiare tra esponenti di generazioni e di orientamenti diversi. La distribuzione con affidabili attori teatrali negli altri ruoli completava il quadro e consolidò il relativo successo della Judea Pictures, che era sempre però nel mirino dei critici, soprattutto quelli di sinistra, i quali ridicolizzavano Goldin, anche se riconoscendo talvolta che i suoi film erano dello stesso livello di quelli in lingua inglese. Intanto la Judea Pictures cercava di allestire un circuito nazionale, riuscendo inizialmente a fare circolare le proprie pellicole anche nei dintorni di New York e altrove, con un discreto riscontro economico. Il suono era registrato su dischi della durata di dieci minuti, che costituivano la principale unità di misura cui uniformarsi; dato il budget ristretto le scene non potevano ripetute, ma per fortuna alla Judea si potevano utilizzare due macchine da presa. I corti uscirono insieme al primo film “parlato” di Greta Garbo (Anna Christie), proposto in prestigiose sale di Manhattan, mentre la Judea dovette accontentarsi di un piccolo cinema di Coney Island, tuttavia suscitando un certo interesse e la richiesta di altri gestori. Si annunciavano di continuo progetti favolosi che poi erano realizzati soltanto in minima parte. Nei mesi seguenti si proseguì nella produzione di diversi corti come The Jewish Gypsy (La zingara ebrea), con il ballerino Hymie Jacobson e sua moglie Miriam Kressyn, e scritturando il grande comico Menasha Skulnik,11 un allegro ipocondriaco, per Oy doktor! (Oh dottore!).
15A quest’altezza di tempo, il cinema yiddish assolveva complessivamente la funzione di compensare la crisi della scena (anche perché il teatro era più costoso del cinema) e proponeva uno yiddish liberato dall’eccesso di anglicismi, in un certo senso reso kosher. Alla Judea sostenevano che il cinema sarebbe stato «il teatro yiddish del futuro». In quel momento le sale cinematografiche degli Stati Uniti vendevano cento milioni di biglietti la settimana. E una ingente produzione in yiddish, o meglio in yinglish (lo yiddish americanizzato), soprattutto d’intrattenimento, cominciava a essere diffusa dalla radio.
16La crisi avrebbe manifestato i propri effetti anzitutto nella stagione 1929-1930, con molti teatri chiusi o cartelloni cancellati, ad esempio nel caso di Maurice Schwartz, ma come stiamo vedendo tutti cercavano di reagire e la nuova industria cinematografica era in prima fila. La Judea produsse fino a tutto il 1931 molti corti, oltre a una versione in cinque bobine del classico teatrale Shulamis, per un totale di una ventina di film, tutti diretti da Goldin. Questi era ingaggiato anche da altri produttori, ad esempio da Jacob Berkowitz per dirigere due corti come Khazn afn probe (Il provino del cantore)12 e Di seder nakht (La festa di Pesach), dei quali si dice meglio più avanti. I sindacati ebraici contestavano alla Judea l’impiego di attori non tesserati e protestavano addirittura perché i film circolavano mentre alcuni dei loro interpreti recitavano in teatro. La polemica era seguita e amplificata da tutti i giornali e si concluse infine con un accordo, dopo il quale Goldin realizzò Eybike naronim (Eterni pazzi), altra saga sull’ingratitudine filiale e il sacrificio dei genitori, sceneggiata da Harry Kalmanowitz a partire da un proprio copione teatrale, i cui interpreti erano Judel Dubinski, nei panni del nonno, Juda Bleich in quelli del padre, Bella Gudinsky (la madre), Seymour Rechzeit (il figlio)13 e Charlotte Goldstein come sua sorella, mentre Isidore Meltzer si esibiva in un ruolo comico del proprio repertorio. Seiden, inoltre, si dava da fare con successo per distribuire i film anche in altri paesi, soprattutto in Palestina. Questa espansione ebbe fine quando alcune associazioni ebraiche tradizionaliste presero a protestare con veemenza per i contenuti assimilazionisti dei film, soprattutto Mayne yidishe mame, che fu proibito al termine di un’aspra vertenza dopo la quale per vent’anni non si vide più un film yiddish a Tel Aviv. Tutto ciò mentre gli artisti più pop come Molly Picon e Ludwig Satz sfuggivano alla crisi con lunghe tournée in Europa (Picon) o passando ai vaudeville in lingua inglese (Satz); e altri capocomici come Schwartz e Thomashefsky tagliavano le paghe dei rispettivi ensemble, giocando talvolta la carta di portare Uptown o a Broadway spettacoli in inglese. Come s’è detto, ci sarebbero voluti alcuni anni di alti e bassi perché tutti si rendessero conto della “intraducibilità” del teatro yiddish. Nel 1931 fu la volta dell’ambizioso ma modesto (in quanto girato in soli nove giorni con un budget minimo) Zayn vaybs lubovnik (Lamante di sua moglie)14 diretto da Goldin a partire da una sceneggiatura di Shin Ra-Chell (Sheyne Rokhl Simkoff) tratta dal proprio testo teatrale omonimo, un successo della stagione precedente, e concepito per l’apprezzato comedian Ludwig Satz,15 qui circondato da solidi attori teatrali quali Isidore Cashier, Michael Rosenberg, Anne Shapiro e altri, tra cui lo stesso Goldin. Uscito a fine settembre, ovvero in apertura della nuova stagione, Zayn vaybs lubovnik fu presentato come il primo film yiddish musicale sonoro. Le musiche, firmate da Satz, in realtà erano composte da Abraham Ellstein, che sarebbe diventato il collaboratore essenziale di Molly Picon.
17In realtà Satz si sarebbe limitato a questo unico film che nonostante l’apprezzamento ricevuto e la novità tecnicoestetica non poteva surrogare il suo successo come interprete-autore teatrale che, al pari di Molly Picon, aveva fondato un vero e proprio regno artistico. È forse difficile riconoscere le sue qualità guardando questo film, ma il comedian Satz è considerato il capostipite di comici come Sid Caesar e Jerry Lewis, ossia di attori-autori che trasferivano un identico tipo, se non una vera e propria maschera evidentemente derivata dal luftmentsch, anche se imborghesito e ideologicamente più corruttibile, nelle mille situazioni riflesse dal prisma della modernità americana.
18Tra i rari film sceneggiati da una donna, Zayn vaybs lubovnik è girato soprattutto nel Lower East Side e racconta, come si evince dal titolo, di un triangolo amoroso, disponendolo in una farsa dalla trama molto elaborata, anzi strampalata e poco credibile, pretenziosamente fiabesca. Questa la trama: si annuncia uno spettacolo di Edouard Wien (Satz), divo la cui attesa eccita le belle coriste che intanto stanno provando il balletto del varietà. Il produttore è suo zio Oscar Stein, tirchio e balbuziente, un Isidore Cashier qui al di sotto dei propri standard. Mentre Edouard prova una canzone, incrocia lo sguardo ammirato dell’aspirante soubrette Golde Blumberg (interpretata da Lucy Levine). Con lo zio scambia poi qualche battuta maliziosa sulle donne e infine accetta di scommettere ben diecimila dollari sul fatto che la bella Golde avrebbe finito per sposare un vecchio ricco. Edouard ha puntato sull’integrità della ragazza e decide di metterla alla prova lui stesso, truccandosi da vecchio. Dopo questa scena, a contrappunto vediamo una moltitudine di gente che riempie la popolare Rivington Street per uno sciopero.
19Lanziano produttore si propone alla ragazza, che sembra lasciare la questione in sospeso. Edouard, travestito da vecchio, si presenta a sua volta a casa di Golde e dopo averla corteggiata e chiesta in moglie si sente rispondere con un sì che lo intristisce invece che rallegrarlo. Dopo di ciò zio e nipote scommettono altri venticinquemila dollari sul fatto che lei lo tradirà entro il primo anno di matrimonio.
20Alla celebrazione del matrimonio in sinagoga segue una prima notte trascorsa dagli sposi in camere separate. Passano alcune settimane, Edouard regge la finzione. Sono in una casa al mare, lui ha un aspetto malsano e si lamenta in continuazione, lei è chiaramente disperata ma si contiene. Lui le strappa un penoso bacio, poi i due cantano insieme, a lungo. Passa un po’ di tempo, lei è sola nella ricca casa sul mare perché il marito è partito per un viaggio d’affari. Arriva Wien in versione giovane spacciandosi per un amico del marito, i due civettano, vanno sulla spiaggia, in barca, fanno passeggiate, poi s’incontrano di sera in giardino, lui canta, sembra sedurla, ma Golde sul più bello se ne va. Edouard, che questa volta ha vinto la scommessa, sparisce e riappare nei panni del vecchio marito. A questo punto i due hanno un intenso dialogo di chiarimento (una scena potente, questa, nella quale si manifestano le contraddizioni insanabili tra libertà dei sentimenti e desiderio di assicurarsi il benessere). Dopo uno stacco, siamo di nuovo in teatro, dove Edouard riceve una lettera d’amore di Golde e piomba in una crisi nera, la prova è sospesa. Ha perso la scommessa? L’attore va da lei per l’ultimo riscontro e si trova di fronte a una donna che dichiara di non poter lasciare l’anziano marito e al tempo stesso di non poter vivere senza il vero amore, racconta di essere arrivata in America come orfana e di avere trovato lavoro soltanto in uno sweatshop, dove non ha intenzione di ritornare. Gli propone di morire insieme e quando lui ribatte che invece potrebbero frequentarsi come amanti segreti, Golde lo caccia sdegnata. Lui è al settimo cielo perché ha vinto la scommessa, poi la raggiunge in camera da letto e si rivela: «Nient’altro che una rappresentazione?», «Certo». Dopo un attimo di incertezza i due si separano e vanno nelle rispettive stanze, da cui intonano insieme una canzone, senza vedersi, finché lei apre la propria porta, spegne la luce e si infila languida sotto le lenzuola, lui entra e finalmente… Mai commedia fu più avvilita e avvilente.
21Lannata cinematografica 1932 vide l’uscita di altri film più o meno melodrammatici come il citato East Side Sadie del 1929, ma anche molti inserti yiddish in film di Hollywood, come quello con James Cagney, già noto al grande pubblico come l’efferato gangster di Public Enemy. In Taxi!16 Cagney è un tassista indipendente in lotta contro i trust e ha una scena di cinque minuti in cui parla in yiddish a qualcuno che non capisce assolutamente niente. Esilarante ma per pochi, sempre meno.
22Con Onkel Moses (Zio Mosè),17 invece, abbiamo il primo e unico caso di film yiddish impegnato e riferito esplicitamente all’attualità politica, d’importanza capitale per l’opzione etica ed estetica che esprime, oltre che per essere un film indipendente. Dopo le apparizioni filmiche precedenti, delle quali era tutt’altro che soddisfatto, Schwartz approfittò della sottoccupazione che colpiva il teatro per riproporre in film il racconto omonimo di Sholem Asch che aveva già adattato per la scena e mise in piedi una produzione che gli doveva consentire, come in effetti avvenne, di lasciarsi alle spalle l’immaturità tecnico-registica del passato. Goldin è qui affiancato da Aubrey Scotto e il cambio di marcia è evidente: movimenti di camera, dialoghi sovrapposti, uso del gergo yinglish sono tra gli elementi di una vivacità narrativa e di un realismo che ne fanno uno dei migliori film del tempo, anche grazie alla superba prova di Schwartz. Di Zio Mosè dice in dettaglio Alessandro Cappabianca più avanti, qui ci limitiamo a sottolineare il trattamento teatrale del tema ebraico, qui costituito – com’era già accaduto in Zayn vaybs lubovnik – dal matrimonio forzato di una ragazza del ghetto, matrimonio destinato a fallire e a vedere infine il prevalere dei giovani, in questo caso ponendo in primo piano l’operaio Charlie, il nuovo Mosè marxista che avrebbe guidato gli ebrei nell’uscita dalla schiavitù che consegue il benessere capitalistico corruttore. Zio Mosè sarebbe uscito tre mesi prima di quel capolavoro dissonante con il proprio tempo che è Freaks, cui somiglia almeno per quella festa di matrimonio rappresentata come un baccanale degradato. Insomma il più intenso dei film ambientati nel Lower East Side è anche il più pessimista, di un pessimismo che oggi possiamo intendere come una risposta negativa o almeno dubbiosa sulla possibilità di un cinema yiddish radicato nella più scottante attualità. Zio Mosè infatti uscì praticamente insieme a Scarface18 con Paul Muni, attore che otteneva un riconoscimento universale proprio dopo avere abbandonato la scena yiddish e Schwartz. Tra i critici del tempo ci fu chi definì Scarface «il primo buon film yiddish», commettendo una gaffe involontaria e molto significativa, poiché Muni trasformato in gangster costituiva una ulteriore testimonianza dell’impossibilità di un cinema americano a soggetto ebraico e in yiddish al tempo dell’uscita euforica dalla Grande Depressione. D’altronde ciò che stava accadendo in Europa con l’affermazione del fascismo e del nazismo dettava altri temi.
23La Judea Pictures produsse, come s’è detto, diversi corti e film e documentari oltre a quelli già citati. Vale la pena di passarli in rassegna perché presentano non poche, benché contradditorie, connessioni con i temi oggetto della nostra riflessione. Protagonista di un buon numero di essi è il cantore Louis “Leibele” Waldman, che in pratica si esibisce ogni volta in una canzone minimamente sceneggiata.
24Il 1930 cominciò con il corto Kol Nidre, che riproponeva Waldman in una semplice cornice teatrale figurata dall’attore-presentatore Shmuel Kelemer nei panni di Shmulikel (contrazione di nome e cognome), lo stesso personaggio con il quale si era proposto l’anno precedente in Fino a quando. Sempre nel 1930 lo stesso Waldman apparve in altri corti, in pratica corrispondenti ciascuno a una canzone-preghiera. Di seder nacht (La festa di Pesach) è un filmetto serio e umoristico al tempo stesso, nel quale si mostra la celebrazione della festa presso una famiglia russa d’inizio secolo e in una casa americana del 1930, nella quale è evidente l’attenuazione dell’atmosfera rituale insieme all’intenzione degli immigrati di rimanere comunque fedeli alla tradizione. Eclettico protagonista è un Waldman affiancato da Noah Nachbush e Mark Schweid (anche autore della sceneggiatura con Schorr). Unsane-Toykef (Giudizio), titolo di un inno religioso, è un corto con musica di Sholom Secunda che propone un’altra performance del cantore. L’accoppiata Waldman-Secunda è riproposta anche in Yidishe nigun (Melodia ebraica).
25Diverso è Khazan afn probe (Provino per un cantore),19 prodotto da Jacob Berkowitz, nel quale si propone in undici minuti una spassosa e virtuosistica performance di Waldman impegnato nell’impersonare tre cantori, e quanto diversi!, che sostengono un provino per un posto fisso presso una sinagoga newyorchese. Il primo a presentarsi è uno schivo galiziano, vecchio stile in tutto, dagli abiti al modo di cantare, il secondo è un daytsher (ossia un tedesco), un tipo sportivo con il pizzetto e un modo di cantare piuttosto freddo. Mentre i giudici discutono delusi e incerti sul da farsi, ecco presentarsi un agente che propone un terzo cantore, un tipo moderno che si esibisce con pep e jazz, capace di cantare Kol Nidre come un two-step e Netaneh Tokef in stile black bottom. Naturalmente è lui che vince e gli entusiasti giudici lo circondano con un balletto. Rispetto al più “serio” Yossele Rosenblatt, Waldman primeggiava per la sua capacità di concedersi come attore ai gusti più facili del pubblico, anche se le sue qualità vocali non erano inferiori a quelle di Rosenblatt (in proposito vi erano fiere discussioni). Ma sarebbe stato detronizzato da un altro cantore-attore che poco tempo dopo avrebbe debuttato nel film Dem khazn zundl (Il figlio del cantore), Moishe Oysher.20
26Veniamo agli altri corti prodotti dalla Judea e diretti da Goldin in quel lasso di tempo. The Jewish Gypsy (La zingara ebrea) presentava la coppia Hymie Jacobson–Myriam Kressyn in un numero normalmente eseguito nei varietà; Sailor’s Sweetheart (La fidanzata del marinaio) riproponeva i due che cantavano e danzavano sulla musica di Sholom Secunda al centro di una coreografia con una decina di ragazze. In Oy doktor! (Oh dottore!) il protagonista era il comico in grande ascesa Menasha Skulnik, qui ripreso in una scena di varietà (su copione di Isidore Lillian) condivisa con Judy Gassel. Questo corto, l’unico della serie ancora rintracciabile in alcuni archivi, mostra uno Skulnik che sa muoversi e cantare con vivacità, ed è interessante anche perché documenta un suo errore, dato che, come s’è detto, non si potevano ripetere le riprese. The Broken Doll (La bambola rotta) riproponeva un numero canoro della coppia Sadie Banks e Celia Person. Di Ets khaim (Lalbero della vita) non vi sono purtroppo notizie o descrizioni. Di An Evening in a Jewish Camp (Un notte nell’accampamento ebraico) si sa soltanto che il protagonista era l’altrimenti sconosciuto E. Miller. The Jewish Day Hour (Lora del giorno ebraico), di due bobine, era sceneggiato da Z. H. Rubinstein, direttore amministrativo del quotidiano «Der Tog», anche intraprendente produttore cinematografico e radiofonico. Dos land fun frayhayt (La terra della libertà) è un corto di due bobine nel quale recita l’attore Seymour Rechzeit, anche autore del soggetto. Mai-ko-mashma-lon? (Che cosa significa? [in yiddish]) è nient’altro che una scherzosa canzone tratta da una poesia di Abraham Reisen ed eseguita da Harry Peld, attore-cantante, ospite fisso nella popolare trasmissione radiofonica curata da «Der tog». Shvartse Natasha (Natasha nera) è un due bobine realizzato su sceneggiatura di Pinchus Lavenda, che vi recitava assieme agli attori Mildred Block e Hymie Jacobson. Un aspetto significativo di questi primi passi del cinema yiddish sonoro è costituito dal fatto che non soltanto si faceva per lo più ricorso a interpreti teatrali, ma che questi erano in molti casi gli autori dei soggetti e dei testi prima portati in scena e poi adattati per il cinema.
27Oltre ai corti è opportuno ricordare almeno un paio di documentari della Judea, purtroppo sinora non rintracciati, come Shtime fun Israel (La voce d’Israele) del 1931 e Gelebt un gelakht (Vivi e ridi) del 1933. Il primo consisteva in un ricco album di novantatré minuti interpretato da cantori e cantanti come Yossele Rosenblatt, Shaile Engelhardt, Mordecai Hershman, Adolf Katchko, Meyer Machtenberg, David Roitman, Seidel Rovner, Joseph Shapiro, Joseph Shlisky, Leibele Waldman. Il titolo allude all’idea che la Terra d’Israele fosse il luogo nel quale si conservavano le sue tradizioni. L’impegnativo documentario utilizzava per lo più materiali d’archivio, qui sonorizzati e commentati, per dare l’immagine della coeva condizione ebraica nel mondo, per cui si parlava (e qualcosa si vedeva) anche di pogrom e della Palestina, sempre con la voce dei cantori a fare da contrappunto. Questo «primo [documentario] classico» della Judea raccolse lodi unanimi, ma il suo scarso esito di botteghino mise in crisi la società. Il seguente Gelebt un gelakht durava un’ora e presentava invece, attingendo a materiale d’archivio, una interessante galleria di attori presentati da Max Wilner in veste di maestro di cerimonie: Pinchus Lavenda, Judel Dubinsky, Celina Breene, Seymour Rechzeit, Hy Jacobson, Miriam Kressyn, Chaim Tauber, Mae Simon, Eddie Friedlander, Eva Miller, Yossele Rosenblatt, Tamara, Menasha Skulnik, Joseph Buloff, Boris Rosenthal, Jack Shargel, Meyer Machtenberg, Sadie Banks. Tutti i generi vi erano rappresentati, come si vede.
28Un passaggio produttivo importante per la Judea Pictures fu nel 1932 la versione sonorizzata di Ost und West con il titolo Mazel tov, purtroppo oggi non più visibile. Il girato muto era accompagnato da effetti sonori e inframmezzato da sequenza in cui un’anziana signora raccontava del viaggio di formazione di Molly Picon e del marito in Galizia. Le riproposte sonorizzate di film muti erano abbastanza frequenti. Approfittando del successo di Zio Mosè e di Schwartz si mise in circolazione, pressoché insieme a Mazel tov, una nuova versione di Yizkor. Un regista specializzato in questi repêchage era George Roland.21
29Tra il 1932 e il 1933 Roland fece di necessità virtù realizzando una serie di film la cui caratteristica comune è quella di utilizzare precedenti film muti conferendo loro, soprattutto attraverso la sonorizzazione, alcune caratteristiche che li rendessero nuovamente proponibili sul mercato. Il primo è Yoysef in Mitsraim (Giuseppe in Terra d’Egitto, 1932) basato su un film italiano, pare del 1914, del quale non è dato conoscere l’autore. Oltre al commento parlato di Michael Goldstein che attingeva ovviamente alla Bibbia, e a quello musicale, il nuovo autore del film, per renderlo faryidisht (yiddishizzante), aggiunse un prologo e un epilogo interpretati da attori quali Ben Adler, Joseph Greenberg (il futuro regista Joseph Green), Sigmund Zuckerberg, Herman Sarotsky, Wolf Goldfaden, Joseph Schwartzberg, Wolf Barzell, Ida Adler, Gertrude Levitan, Sonya Adler.
30Altra operazione del genere, benché di calibro decisamente superiore, è quella realizzata letteralmente rubando Tkies kaf (Il voto) del 1924, con la regia di Henryk Szaro e Zygmunt Turkow come protagonista senza nemmeno citare nei titoli di testa metà del cast originale.22 Il film (1933) venne reintitolato Dem rebns koyekh (La forza del rabbino). La nuova edizione arricchì il film di elementi narrativi ed espressivi, riducendone la durata a sessanta minuti. Oggi disponibile in edizione restaurata, Dem rebns koyekh è un documento di eccezionale importanza sul rapporto tra teatro e cinema, per i motivi che abbiamo evidenziato a proposito della prima edizione ma soprattutto per l’occasione che offre di osservare due generazioni e due culture performative assai diverse, come quelle degli attori teatrali polacchi dei primi anni Venti e degli attori americani degli anni Trenta, molto più duttili e capaci di interagire con la macchina da presa. Basterebbe pensare a Joseph Buloff nel suo ruolo di narratore: la sua dizione è limpida, in un puro yiddish lituano, molto bello, ma non per questo è priva di intonazioni e sfumature o di una vigorosa espressione sentimentale e ideologica (bisogna anche tenere conto del fatto che il rifacimento data al momento traumatico della conquista del potere dei nazisti in Germania). Oltre al narratore, degne di attenzione sono le scene aggiunte che introducono e accompagnano la trama, ambientate in una locanda. Gli ebrei riuniti intorno al tavolo, bicchiere in mano, esplicitano molti significati prima evocati in modo sommesso sebbene – secondo la tipica contraddizione di gran parte del cinema muto – con una recitazione troppo “teatrale”. Questi attori recitano per la macchina da presa e non più per la seconda galleria.
31Per realizzare il seguente Yidishe tokhter (Figlia ebrea oppure Figlia del suo popolo) Roland ricorse in buona parte alle riprese del film tedesco Judith Trachtenberg23 del 1921. I dialoghi furono affidati a Jacob Mestel e i nuovi attori mobilitati furono Chaim Shneier, Joseph Greenberg (Green), Michael Rosenberg, Ben Besenko, Helen Blay, oltre allo stesso Mestel. Il film tedesco raccontava la storia (vera, si diceva) della giovane e avvenente ebrea Judith Trachtenberg. Roland lo fece cominciare con un prologo costituito da una conversazione di amici attorno a un tavolo, poi protratta da un narratore, sui costumi esotici degli ebrei galiziani.
32Judith incontra a un ballo un conte polacco e ne diventa l’amante. La famiglia la proscrive, il conte la prende con sé. Quando lei resta incinta, il conte organizza un falso matrimonio per aggirare la legge locale che gli proibisce di sposare un’ebrea. Judith, per questo fatto, è condannata come apostata dalla propria comunità di origine e seppellita simbolicamente, mentre suo padre muore di crepacuore. A questo punto il conte si trasferisce in uno stato più tollerante per unirsi a lei con un vero matrimonio legale, ma Judith non riesce a sopportare la situazione e si suicida. Il medesimo procedimento drammaturgico venne utilizzato per Der vanderer yid o Avrom ovinu (Lebreo errante oppure Il nostro patriarca Abramo), assemblando frammenti di diversi film muti a soggetto biblico e accompagnandoli con un commento di Jacob Mestel. Gli autori di questo film, tra i quali si deve menzionare il bravo e sensibile Jacob Ben-Ami, furono i primi a raccontare della situazione degli ebrei nella Germania. Si parla poco di Der vanderer yid perché ne restano soltanto alcune recensioni, che tuttavia evidenziano la grande prova di Ben-Ami nei panni di un pittore ebreo-tedesco (il cui cameriere è interpretato da Jacob Mestel, autore della sceneggiatura) che vede naufragare la propria relazione con una fidanzata “ariana”. Il film è stato oscurato, dal punto di vista storico, da altre clamorose manifestazioni culturali anti-naziste, come lo spettacolo di massa (in inglese) The Romance of People, realizzato nell’estate del 1933 anche per raccogliere fondi destinati agli ebrei tedeschi che si trasferivano in Palestina. Regista del Romance era lo stesso Jacob Ben-Ami. Anche Der vanderer yid era in un certo senso un “cinema di massa” perché la vicenda del protagonista era incastonata in un montaggio di sequenze prelevate da diversi altri film che illustravano una sorta di storia universale dell’antisemitismo e la ricerca di una terra in cui stabilirsi, tant’è che il finale mostra l’Eterno Errante che si rivolge al pittore chiamandolo “figlio” ed esortandolo a continuare nella ricerca di una Terra Promessa «in Palestina, Argentina, Canada o Birobidžan». Forse è superfluo aggiungere che il film fu apprezzato per la stima che il protagonista si era guadagnato in altre prove e non certo per il suo legnoso discorso ideologico.
33La matrice di Oy di shvinger! (Che suocera!), invece, è Der meshugener (Il pazzo),24 un corto tratto da un vaudeville di H. Kalmon (Harry Kalmanovitz) con Ludwig Satz. Qui vediamo anzitutto Max Wilner e Paula Klida che discutono a proposito di un programma radio in yiddish: lui lo vuole ascoltare e lei no, la disputa sfocia in un duetto. Quindi arriva in visita Satz, lo zio di Klida, e nasce tra loro un vivace scambio di battute sulla suocera, mentre Wilner continua come narratore. Il filmetto merita di essere preso in considerazione per il suo duplice obiettivo di yiddishizzare un ambiente borghese e di imborghesire l’origine yiddish dei personaggi. Ma di ebraico qui c’è poco o niente, a parte gli interpreti. Ciò che resta è l’indicazione di una tendenza, che sarebbe diventata dominante fino a oggi, secondo cui la matrice yiddish diventa un sottotesto, drammaturgicamente importante ma sempre meno percepibile dal grande pubblico.
34Un altro regista statunitense attivo dalla metà degli anni Trenta è Henry Lynn.25
35Di tutti e tre i film che stiamo per presentare Lynn è sceneggiatore prima che regista, dato sommamente significativo. Yidishe foter oppure Yungt fun Rusland (Padre ebreo oppure Gioventù della Russia) del 1934 è interessante in quanto interpretato soprattutto da attori del Teatro d’Arte Yiddish (non Maurice Schwartz, ma Wolf Goldfaden, Gertrude Bullman, Sam Gertler, Boaz Young, Dora Kashinskaya, Rose Wallerstein, Morris Marcus, Moishe Silverstein, Dave Feffer, Morris Strassberg, Esta Salzman, Morris Silberkasten) cui si aggiungono Louis Bakshintsyky, Alex Balshanov, Meier Silczer, Itzak Swerdlov e Chai Yaen. Sul piano dei contenuti, il film è di una bizzarria degna di nota poiché tratta del conflitto generazionale fra tradizioni ebraiche e stato sovietico. Wolf Goldfaden è Israel Zlotopolsky, una volta ricco commerciante ridotto dal comunismo a fare il calzolaio. Israel è confuso dalle nuove leggi sul matrimonio e dai comportamenti dell’adorata figlia Kaile (Gertrude Bulmann), una vivace komsomolka che ama il vecchio padre ma anche, anzi soprattutto, il regime sovietico. Kaile è una neofita della libertà sessuale al punto da cambiare cinque mariti in un anno. Il film è andato perduto, ne rimangono soltanto alcune fotografie in cui si vede lei avvolta in una elegante tuta da lavoratrice e languidamente stesa su un divano in déshabillé. Assai poco yiddish, questo melodramma generazionale valorizzava gli argomenti di tutti i personaggi, tratteggiando con ironia l’ebrezza ideologica (Kaile trascorre la propria quarta luna di miele assistendo a un parata militare) e l’ibridazione culturale (la celebrazione del suo quinto matrimonio è sincrona a quella del Sabato e in venti minuti s’intrecciano preghiere, danze russe, canzoni popolari e persino l’esibizione di un cantate yiddish nero), senza mai assumere un tono di scherno anticomunista, anzi. Resta il fatto che gli ebrei come il padre Israel non comprendono la nuova religione del lavoro, anche se sono contenti di essere sopravvissuti al regime zarista. Yidishe foter voleva presentare in modo leggero una serie di temi degni di discussione, temi di cui il quinto marito di Kaile, dal significativo nome di Abrasha, è una sintesi. Abrasha spiega a Israel quali fossero le contraddizioni del passato che occorreva assolutamente superare e il suocero apprezza il suo sincero idealismo pur continuando per molti versi a dissentire. Israel alla fine benedice la figlia, accontentandosi del fatto che qualcuno reciterà il Kaddish per lui. Lesito di Yidishe foter non fu clamoroso ma neanche tale da impedire a Lynn di proseguire nella sua originale carriera, l’anno seguente, con Bar Mitsve (Bar Mitzvah) e Shir hashirim.
36E infine, assai significativo per le circostanze produttive e per essere l’unico documento audiovisivo riguardante Boris Thomashefsky,26 è proprio Bar Mitsve. Thomashefsky era stato l’autore, il protagonista e il regista dello spettacolo con lo stesso titolo che aveva debuttato nel 1927. Nonostante le accuse di plagio, del resto ricorrenti e ininfluenti dalle parti della Second Avenue, lo spettacolo era stato ripreso nel 1931 con musiche di Joseph Rumshinsky e Thomashefsky in veste di guest star. Nel film le musiche sono invece composte da Jack Stillman e la distribuzione, diversa da quella teatrale, comprende l’ultima partner dell’attore, Regina Zuckerberg, oltre ad Anita Chayes, Gertrude Bullman, Leah Noemi, Morris Strassberg e altri.
37Prima di passare al film è opportuno informare il lettore che non avesse presente la parabola di Boris Thomashefsky, oggetto del terzo volume di questa serie, su qualche dettaglio non insignificante. Il nostro aveva praticamente inventato il teatro yiddish americano debuttando all’età di sedici-diciassette anni e aveva avuto una splendida carriera, svolta in buona parte all’insegna dello shund ma anche misurandosi con i testi di autori come Jacob Gordin o William Shakespeare, beninteso sempre con grande spregiudicatezza. Questa sorta di Rodolfo Valentino yiddish (lui si definiva «America’s Darling»), divo dalla bella voce, aveva sedotto, dalla scena e nel proprio sontuoso camerino, almeno tre generazioni di donne, sempre ostentando il proprio stile di ricco sibarita e sempre incontrando l’apprezzamento di un vastissimo pubblico. Gli anni Trenta vedevano insieme il suo declino fisico (era nato nel 1866) e la sua crisi artistica, dovuta beninteso non secondariamente alla Grande Depressione. Bar Mitsve è dunque l’unico documento della sua arte, anche se purtroppo lo coglie ormai allo stremo delle forze, completamente disorientato di fronte alla macchina da presa, per niente aiutato da un regista di scarso talento e intimidito, che non sa nemmeno imporre all’attore di non guardare continuamente in camera come se dietro vi fossero gli spettatori. Già negli anni immediatamente precedenti questo film, Thomashefsky si era ridotto a recitare in locali di fortuna come una steakhouse di Allen Street, con la sua compagna Regina Zuckerberg che lo affiancava in scena e come organizzatrice. Nell’autunno del 1935, però, aveva preso avvio il Federal Theater Project, il programma statale di aiuto al teatro in crisi, e in quest’ambito era stato riproposto Bar Mitsve, spettacolo frettolosamente trasposto in pellicola da Lynn. Dunque quello che potrebbe essere considerato un prezioso documento del teatro yiddish più popolare è limitato dalle circostanze evocate. Ciò non toglie che, non fosse che per un pubblico di appassionati e studiosi, qui si assista a una formazione teatrale yiddish in una tipica rappresentazione di grande successo soprattutto in “provincia”.
38Questa l’improbabile vicenda narrata in Bar Mitsve. Il protagonista Israel (Thomashefsky) crede di avere perso la moglie in mare dieci anni prima e si è da poco risposato con Rosalie (Zuckerberg), donna cinica che sta progettando di portargli via tutto ciò che ha. Il dramma ha inizio quando Israel sta preparando il figlio Yudele per il Bar Mitzvah. Gli spettatori vedono che la moglie creduta morta, Leah (Anita Chayes), è in realtà sopravvissuta a un naufragio e ha appena riacquistato la memoria, ma non vuole rientrare bruscamente nella nuova vita dei suoi e si limita a partecipare di nascosto al Bar Mitzvah del figlio. Tuttavia, allorché questi intona il Kaddish per la madre morta, Leah non riesce a trattenere le lacrime e viene scoperta. Nello scatenamento degli eventi, Israel viene a conoscenza degli intrighi della seconda moglie, il cui amante lo minaccia con una pistola. Lintervento del fidanzato americano della figlia consente di neutralizzare la perfida coppia, che viene arrestata, mentre la famiglia originaria si riunisce in letizia. Lungo tutto l’arco del dramma si ascoltano alcune canzoni tipiche del Lower East Side, compresi alcuni grandi successi eseguiti da Thomashefsky e accompagnati da intermezzi di canto e danza del giovane americano, a conferma dell’influenza reciproca tra teatro yiddish e scena di Broadway.
39Visto senza alcuna preparazione, il film può destare la perplessità e il riso di uno spettatore non familiare con lo shund di cui Bar Mitsve può essere considerato un capolavoro, con i limiti cui si è accennato. Però chiunque può riconoscere almeno un ex-cantante notevole, dalla bella voce, in un film popolare realizzato nelle circostanze sociali ed economiche più avverse. E riflettere su come queste storie e questo modo di recitare segnassero una sorta di transito dal grottesco yiddish al naturalismo ormai dominante nel teatro e nel cinema americani, con storie che commuovevano milioni di persone e ponevano la questione di costruirsi un’etica adatta ai tempi nuovi. Resta da aggiungere soltanto che la grossolana drammaturgia di Thomashefsky si risolve nell’invocazione di un’assimilazione accorta, sintetizzata nella scena in cui il patriarca si rivolge al figlio tredicenne che il Bar Mitzvah sta per rendere adulto con un canto intitolato Erlekh zayn (Sii virtuoso) e gli regala un antico libro di preghiere «sopravvissuto a persecuzioni e pogrom», invitandolo a «studiare la grande letteratura mondiale» e a imparare nuove lingue «senza però dimenticare la tua».
40Dopo questa incursione nel teatro, Lynn, di insuccesso in insuccesso, passò alla realizzazione di un altro lungometraggio, Shir hashirim (Il cantico dei cantici), il cui soggetto era costituito da una storia di Anshel Schorr. Tra gli attori vi erano Samuel Goldenberg, Seymour Rechtzeit e Yudel Dubinsky. Il cinquantatreenne Goldenberg era un attore colto, diplomato al conservatorio di Varsavia, a suo agio con diverse lingue e già gestore di un proprio teatro (lo Irving Place) nel quale si era allenato ad alternare banali melodrammi a spettacoli basati su testi letterari di buon livello. Inoltre, essendo un esperto pianista, Goldenberg inseriva spesso negli spettacoli lunghi assoli recitati e cantati. In Shir hashirim – di cui si sa molto poco, ma certo che non era la sceneggiatura del testo biblico bensì una moderna storia d’amore – il protagonista di Goldenberg era un compositore indotto in tentazione da una seducente giovanissima nipote.
41Il film è andato perduto e le recensioni ripetono i soliti argomenti di critica a Lynn, più furbo imprenditore che stimato regista. A parte il rispetto per il protagonista, niente di esso era ritenuto degno di nota. Eppure, come vedremo, Lynn avrebbe continuato a proporsi come realizzatore per un alcuni anni, talvolta cavandosela con dignità.
42Der yidisher kenig Lier (Il re Lear yiddish), del 1935, è basato sul classico omonimo del teatro yiddish, ovviamente ispirato a Shakespeare, che Jacob Gordin aveva scritto per la Grande Aquila Jacob Adler e che Boris Thomashefsky aveva inserito nei propri cartelloni dal 1927. Come il lettore avrà compreso a proposito di Bar mitsve, Boris Thomashefsky forse non si sentiva di lasciare una testimonianza delle proprie precarie condizioni e preferì riallestire lo spettacolo per una lunga tournée in provincia nel corso della quale anche molti ebrei che non comprendevano più lo yiddish poterono conoscere indirettamente quel teatro. La regia del film fu affidata al figlio Harry,27 un giovane volonteroso ma senza futuro in quella professione, che si occupò soprattutto di dirigere gli attori (d’altronde quasi tutti reduci della versione teatrale di anni prima) come aveva fatto il padre, mentre l’esperto Joseph Seiden sovrintendeva alla cinematografia. Degnissimo sostituto di Boris fu Maurice Krohner.28 Il copione teatrale fu sceneggiato da Abraham Armband.
43Il dramma scritto da Jacob Gordin nel 1892 assumeva negli anni Trenta un sapore persino più attuale. Quella di Boris, qui, è una “presenza assente” percepibile, molto suggestiva: il divo, spogliato delle proprie ricchezze dalla Grande Depressione, partecipava alle attività teatrali della unità yiddish che agiva nell’ambito del Federal Theater Project – il programma di aiuti governativi che nel corso di cinque anni consentì di assicurare un salario di sopravvivenza a circa tredicimila professionisti dello spettacolo – e il film permette di vedere al lavoro alcuni attori che recitavano in yiddish e in inglese e che presero parte a diversi spettacoli storici del tempo.29 Anche in questo caso, dunque, disponiamo del documento di una cultura performativa in transizione verso quel cinema e quel teatro che per le generazioni successive sarebbero stati semplicemente “americani”, caratterizzati dalla presenza di una struttura fiabesca e mitica (basti pensare al genere Western) sotto la pelle di un naturalismo convenzionale.
44Questo Re Lear inizia durante una festa di Purim a casa di un ricco mercante di Vilnius, David Moyshele, rappresentato come un Grande Ebreo del xix secolo circondato da familiari, amici e servitori, in effetti un monarca con la sua corte. Quando spartisce i propri averi per ritirarsi in Terra d’Israele, la figlia più virtuosa Taybele-Cordelia gli racconta la storia del re Lear e contestando l’autorità paterna si ritira a studiare a San Pietroburgo. Al protagonista tocca il medesimo destino di rovina e follia del re shakespeariano, con la differenza che qui c’è un lieto fine in cui si riconcilia con la propria figliolanza. I mariti delle figlie ai quali Moyshele ha donato il proprio “regno” sono un chassid, un commerciante ortodosso e un apikoyres (un ebreo laico, così definito con un termine che deriva da Epicuro). Tanto la scelta del “re” David Moyshele che il rifiuto di Taybele-Cordelia suonavano come una condanna per ogni esibizione esteriore di benessere e di stravaganza nel momento in cui lunghe file di disoccupati facevano la coda per ottenere un poco di pane. Il fidanzato di Taybele, Yaffe, solidale con la ragazza, il personaggio più moderno del dramma, costituiva un’altra novità: i due giovani, infatti, rompevano con la tradizione patriarcale ebraica e preferivano studiare medicina per aiutare i più bisognosi.
45A fronte di un Maurice Krohner più che rispettabile nel ruolo principale, lo spettatore di oggi vede chiaramente come la fretta e la relativa imperizia dei registi non riescano a dare vita a un’opera che nella versione teatrale, a quanto è dato di capire, funzionava assai meglio. Qui gli attori impegnati nei ruoli secondari sono chiaramente a disagio, le figlie di Lear sono fuori età e rischiano il ridicolo nel tentativo di apparire credibili nei rispettivi ruoli.30 Lo scrittore e drammaturgo Joel Berkowitz nota che gli storici del cinema, mentre giudicano la regia di Harry Thomashefsky statica e inefficace, valutano molto positivamente la prova del protagonista Maurice Krohner e rilevano che il suo naturalismo diede l’avvio a un modo di recitare che avrebbe connotato il miglior cinema americano del decennio.31
46Con riferimento a quel momento assai vivace è emerso di recente un altro documento, un film di diciotto minuti intitolato Yosl Cutler and His Puppets, realizzato nel 1935, che consente di vedere il geniale burattinaio all’opera. Lui e il suo sodale, che si erano formati tra l’altro a contatto con il burattinaio di origine siciliana Remo Bufano, riuscirono nell’impresa di realizzare un teatro ideologicamente radicale e militante e al tempo stesso di altissima caratura artistica, come tutti riconoscevano, e collaborarono anche come scenografi-costumisti con il Teatro d’Arte Yiddish di Schwartz. La loro vicenda è tratteggiata accuratamente nel primo volume di questa serie e questo breve film (oggi nel catalogo del National Center for Jewish Film), oltre a provare ciò che stiamo affermando, è commovente in quanto realizzato appena prima della partenza dell’artista per la California, dove intendeva realizzare un versione satirica del Dibbuk di Sholem An-skij, restando però ucciso in un incidente d’auto durante il viaggio.
47Dopo il già segnalato A mentsh fun shtetl (1930), l’unico film yiddish sovietico degli anni Trenta, e l’ultimo in assoluto visto che il consolidamento dello stalinismo comportò una progressiva e sistematica repressione della minoranza fino alla scomparsa totale delle istituzioni ebraiche alla fine degli anni Quaranta, fu Nosn Beker fort aheym (Nathan Becker torna a casa),32 la cui sceneggiatura fu affidata allo scrittore e drammaturgo Perets Markiš33 (coadiuvato dai registi Boris Špis, non ebreo, e Rokhl Milman). Markiš collaborò a più riprese con il Teatro Yiddish di Mosca, soprattutto dal momento in cui, autoesiliatosi Granovskij, come direttore artistico fu nominato Michoels, stimato attore dal fianco scoperto per non essere iscritto al partito. Markiš lo si incontra in diversi volumi della nostra serie e, da qualche anno a questo parte, è oggetto di una rivalutazione anche in ambito internazionale. Sembrano superate le riserve nei suoi confronti che prevalevano nel secolo scorso e lo si considera, più equamente, come un autore sensibile e di valore seppure sottomesso a una “volontà di fede” stalinista che lo avrebbe portato talvolta a imperdonabili rozzezze nella scrittura, oltre che nell’azione politica.34 Il suo La famiglia Ovadis (1937) fu il dramma yiddish più rappresentato in Unione Sovietica, anche se per imposizione delle autorità più che a causa del gradimento del pubblico. E come per molti altri, la sua ortodossia ideologica non gli risparmiò i sospetti e quindi l’arresto, la tortura e la morte, nel 1952, poco dopo aver scritto un lungo poema in ricordo di Michoels nel quale la morte dell’attore è descritta come un assassinio.35
48Il film in questione era pensato in funzione propagandistica, in un momento in cui l’Occidente pativa la Grande Depressione mentre l’Unione Sovietica godeva di un’ammirazione in tutto il mondo per il compimento del primo piano quinquennale di pianificazione economica (1928-1932) con il quale si era compiuto un enorme balzo in avanti in campo industriale (a scapito dell’agricoltura, in grave crisi). Delle storture del regime stalinista non si sapeva ancora molto, se non in ambienti particolari. Fatto sta che nel nuovo paese socialista le avanguardie che tutto il mondo aveva ammirato erano in piena crisi e soltanto alcuni decenni dopo si sarebbe convenuto che la fine del sogno sovietico era stata simbolicamente contrassegnata dal suicidio di Majakovski, avvenuto nell’aprile del 1930. In campo cinematografico il momento di gloria degli Ejzenštejn e dei Pudovkin era già tramontato. Stalin, dopo avere visto alcuni film sonori, aveva deciso di promuovere soprattutto la produzione di documentari destinati sia al mercato interno che a quello estero, così da fare conoscere al mondo le realizzazioni del paese presentato come un’alternativa positiva agli Stati Uniti. Film muti se ne produssero fino al 1936, quando praticamente tutte le sale erano state adeguatamente attrezzate. Anche i film di fiction erano a loro volta concepiti sempre più come documentari che dovevano mostrare modelli positivi di lavoratori comunisti e ottimisti.
49Nel 1932 la Belgolskino s’impegnò nella produzione di Nosn Beker fort aheym,36 girato in yiddish per l’esportazione, poiché doveva svolgere una funzione di propaganda presso gli ebrei di tutto il mondo, e in russo per la distribuzione interna. In quell’anno si celebrava, oltre al piano quinquennale, il quindicesimo anniversario della Rivoluzione. Con Nosn Beker fort aheym si intendeva dimostrare che l’assimilazione degli ebrei offerta dai paesi capitalisti era un fallimento, mentre l’Unione Sovietica era in grado di proporre una sorta di un sionismo non sionista, favorendo la stanzialità degli ebrei in nuovi insediamenti. Loperazione fu accuratamente progettata anche sul piano estetico, affidando la sceneggiatura al citato Perets Markiš e scegliendo come protagonisti due attori di punta come David Gutman, già nella Feks (Fabbrica dell’attore eccentrico) e apparso nel capolavoro di Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg, La nuova Babilonia (1929), e Solomon Michoels primattore e direttore del Teatro Ebraico di Mosca.
50La versione oggi visibile corrisponde più o meno a quella pensata per l’esportazione. In questo caso i «contenuti comunisti, yiddish soltanto nella forma» consistevano nel presentare i militanti politici che solidarizzavano con gli ebrei ed erano contrari ai vecchi regimi, fossero essi quello zarista o quello tradizionale ebraico. L’esaltazione della produttività industriale sovietica vi era proposta come contrappunto al capitalismo americano e alla sua spinta all’assimilazione. All’uscita negli Stati Uniti Nosn Beker fort aheym fu apprezzato incondizionatamente dalla critica di orientamento comunista (il «Morgn frayhayt» lo definì «fresco […] vero […] gioioso» e ricco di humour, per quanto in una recensione sbrigativa), mentre altri giornali, come «Forverts», argomentarono sulla sua classificazione come «prevedibile melodramma» seppure corretto da sequenze pregne di ironia ebraica ed espressione di una cinematografia evoluta. Tali reazioni gli assicurarono alcune settimane di affollata programmazione, almeno a New York e dintorni. Nel considerare questi fatti, si deve tenere presente che i pochi mesi intercorsi tra la prima moscovita e quella americana furono contrassegnati, tra l’altro, dall’ascesa al potere dei nazisti in Germania, evento accompagnato da una significativa produzione cinematografica che intendeva mettere in guardia il mondo.37
51Il protagonista Nosn Beker (Nathan Becker) è un ebreo che torna nel proprio paese d’origine dopo aver trascorso ben ventotto anni in America e tutto il film – come si evidenzia nella lettura che se ne propone più avanti – articola il tema della superiorità etica e produttiva della fratellanza comunista rispetto alle democrazie occidentali. Il rovesciamento del sogno americano potrebbe sembrare incongruo oggi, nel momento in cui molti milioni di persone cercano di lasciare i paesi meno liberali del mondo per cercare approdo in quelli a capitalismo avanzato, ma si deve tenere conto che in effetti a quel tempo alcune decine di migliaia di emigranti, ebrei e non, tornavano pieni di speranza in quello che prometteva di essere il “paradiso socialista”.
52Al tempo del film, Markiš era ancora molto influente. Il Goset metteva spesso in scena i suoi testi e ciò gli consentiva di proteggere, in un certo senso, Michoels, il quale faceva parte dell’infima minoranza di artisti non iscritti al partito. Se Nosn Beker fort aheim è l’ultimo film yiddish sovietico, Granitsa è l’ultimo a mostrare uno shtetl. Lo sceneggiatore e regista Michail Dubson poté contare, per raccontare questa edificante storia sovietica, su una distribuzione di prestigiosi interpreti, quasi tutti di provenienza teatrale. Oltre a Veniamin Zuskin, qui alla sua seconda prova da protagonista (Arieh), si segnala, in un ruolo minore, un attore di primo piano del Teatro d’Arte di Stanislavskij come Vasili Toporkov.
53Granitsa, girato nel 1933 e uscito nel 1935, è ambientato in un piccolo shtetl polacco situato a pochi chilometri dal kolkhoz Lenin nella confinante Bielorussia, uno shtetl che riassume il peggio del vecchio mondo, con i suoi ebrei oppressi che si consolano con l’oppio dei popoli e un ricco e avido fattore che spadroneggia, affiancato dal rabbino locale. Arieh lavora per il prepotente e appare la prima volta seduto alla scrivania, concentrato nel fare conti con un pallottoliere, mentre canticchia una canzone improvvisata in cui al posto delle parole ci sono i numeri e compila con attenzione il registro contabile. Nello sviluppo della trama si comprende che tale scelta era finalizzata a mostrare fin dall’inizio un uomo diligente, affidabile e serio.
54La superstizione suggerisce alla comunità di chiedere una grazia celebrando un matrimonio tra due persone emarginate e facili da convincere nel cimitero a mezzanotte: Arieh, il povero impiegato vedovo interpretato da Veniamin Zuskin e un’anziana zitella (Elena Granovskaja). Arieh accetta per ottenere in cambio che il figlio, agitatore comunista, sia rilasciato dalla prigione. Una irruzione della milizia polacca interrompe la cerimonia e nel caos che segue Arieh uccide un soldato, quindi è costretto a fuggire, attraversa la frontiera e viene accolto nel kolkhoz Lenin. Dopo questa esperienza rivelatrice e liberatoria torna di nuovo nello shtetl e nella scena finale che segna la vittoria dei sani principi sovietici contro i soprusi del capitalismo, Zuskin ricorre al proprio stilema teatrale preferito ed esprime il proprio sentimento canticchiando una melodia ebraica a bassa voce, poi il canto si fa più forte e quando il compagno russo (Nikolai Čerkasov) prende la fisarmonica per accompagnarlo con voce baritonale, splendido sorriso e sigaretta tra le labbra, la canzone si trasforma in una melodia che potrebbe essere sia russa sia ebraica, una sorta di Internazionale aggiornata.
55Come si sarà compreso, all’identità artistica del film concorre in modo determinante la partitura musicale, in questo caso assicurata da Lev Pulver, compositore fisso del Goset moscovita. Sul piano visivo Granitsa, a parte la «stasi voluttuosa»38 che lo definisce in generale, merita di essere preso in considerazione anche per alcune sequenze che echeggiano un grottesco poetico à la Granovskij, come quella del matrimonio nel cimitero, o il dialogo a gesti tra il ciabattino sordo e un rabbino che non smette di pregare, o ancora l’inizio, nel quale l’intenso canto sinagogale è contrappuntato da primi piani delle donne ciarliere del matroneo e dal borbottio altrettanto pettegolo degli uomini, mentre il cantore, accorgendosi di una donna che lo guarda ammirata, per compiacerla raddoppia l’intensità del canto. Come sempre accade nei film che vorrebbero ridicolizzare una ebraicità desueta, si ottiene l’effetto opposto: lo sguardo critico s’infrange nella tenerezza per un mondo che, giusto o sbagliato che fosse, non semplificava brutalmente la natura umana per assecondare le pretese di un’ideologia rigida come quella sovietica. E a proposito degli attori si deve segnalare che ognuno di essi trasferisce nel film lo stile del proprio teatro, cosa evidentissima in Vasili Toporkov e Veniamin Zuskin, il primo con il suo naturalismo a “bassa intensità” e ricco di sfumature e il secondo in una composizione che tende a sostituire l’univocità del discorso verbale con una recitazione che privilegia la mimica e il canto. Dall’esperienza Zuskin uscì vincitore con se stesso, nel senso che a partire da quel momento cominciò a pensare al cinema come complemento e infine anche come possibile alternativa a un teatro i cui spazi di libertà si restringevano progressivamente. Purtroppo invano.
56Per quanto riguarda la Polonia, bisogna anche ricordare che a partire dagli anni Venti furono prodotti numerosi documentari sugli insediamenti ebraici in Palestina, pensati per il pubblico delle varie landsmannschaften (paesi e regioni di provenienza) e soprattutto per quello americano. Il più famoso di essi è Mir kumen on (Arriviamo, 1935), realizzato da Aleksander Ford39 (nato Moyshe Lipshutz).40 La parte del film originale oggi visibile consente di dare uno sguardo alla vita nella Polonia prebellica, in particolare al sanatorio per bambini ammalati di tubercolosi, situato nei pressi della cittadina di Miedzeszyn, e nelle strade di Varsavia, dove i bambini “sani” ma poveri si arrangiavano in mille modi per assicurarsi un minimo di sussistenza. Mir kumen on è il titolo della canzone-inno cantata dai piccoli ospiti del sanatorio.
57Figura straordinaria di animatore culturale prima che regista, Ford era arrivato a Varsavia per studiare storia dell’arte, ma si era innamorato del cinema e aveva diretto un primo cortometraggio nel 1929. Per Mir kumen on si avvalse di molti degli stessi collaboratori di Al khet. Comunque per la realizzazione della pellicola dovette affrontare molte traversie produttive e polemiche, sollevando il caso più celebre tra le due guerre in Polonia.41 L’importanza della sua figura è confermata dal fatto che anche dopo la Seconda guerra mondiale si sarebbero additate a modello le sue opere. Ford, che sarebbe stato attivo come regista fino al 1975, aveva al tempo di Mir kumen on ventisette anni e aveva già diretto un documentario su quei ragazzi che nelle strade di Varsavia vendevano giornali e cianfrusaglie varie, poi, nel 1933, era stato sei mesi in Palestina, girando molto materiale sia documentario che narrativo, successivamente montato in Polonia. Ne trasse il film Sabra, per fare conoscere in cosa consistesse il confitto tra i pionieri ebrei e gli arabi. Per Sabra aveva fatto ricorso alla grande attrice Hanna Rovina e altri artisti del teatro Habima, già trasferitosi in Israele. Vi si narra la storia d’amore tra un ragazzo ebreo e una ragazza araba e di uno sceicco che raggira gli aspiranti agricoltori vendendo loro una terra arida, ma la vicenda evolve fino alla scoperta dell’acqua da parte degli acquirenti. Il film, realizzato in versione polacca ed ebraica, uscì anche a New York e fu considerato all’altezza dei migliori film sovietici, di propaganda o meno; da alcuni storici del cinema è considerato addirittura un precursore del neorealismo italiano. Ciò a dispetto del suo insuccesso economico. Naturalmente, da un punto di vista ideologico, l’accoglienza da parte della comunità ebraica fu controversa, come sempre di fronte all’istanza sionista. In Palestina Sabra fu censurato dagli inglesi come anti-arabo, ma raggiunse ugualmente il pubblico con il diverso titolo di Khalutzim (Pionieri) e con il taglio di una cruenta scena di battaglia. Come che sia, qui non abbiamo a che fare con un’opera yiddish (gli stessi attori di Habima avevano adottato l’ebraico), ma con qualcosa che interseca il film d’arte con il documentario e il cinema con il teatro.
58Fino al 1939 furono realizzati una decina di documentari ad ampia diffusione, ai quali si aggiungevano altri film di produzione palestinese, ugualmente poi assemblati in tutto o in parte in Polonia.
59Diversi film yiddish veri e propri furono prodotti o realizzati in Polonia anche dopo il 1935 – e dunque se ne parla nel prossimo capitolo – anche perché il sonoro fu introdotto nel paese con qualche ritardo rispetto all’America e nei primi anni Trenta, anche a causa delle traversie politiche ed economiche del paese, il pubblico privilegiava ormai il cinema d’evasione.
Notes de bas de page
1 «Il jazz è preghiera. È qualcosa di troppo passionale per essere altro. È una musicalità distorta, malata, inconsapevole della propria destinazione. Per il cantante jazz vale ciò che scrive Matthew Arnold dell’ebreo: “È perduto tra due mondi, uno morto e l’altro privo del potere di nascere» (Samson Raphaelson cit. da J. Hoberman, Bridge of Light cit. p. 116). Ma cfr. anche, per una interpretazione più estensiva, il capitolo di Marida Rizzuti dedicato alla musica nel primo volume di questa serie.
2 Cfr. Milken Archive fo Jewish Music, ad vocem.
3 Cfr. Jewish Music Research Center, ad vocem.
4 Cfr. Imdb, ad vocem.
5 I produttori affidarono ad Alfred A. Cohn l’incarico di modificare il copione in modo da rivolgersi a un pubblico più vasto di quello in maggioranza ebraico che aveva decretato il successo teatrale. I fratelli Warner non avevano lo stesso atteggiamento nei confronti della produzione: fu Jack a imporre le variazioni della trama originaria che Harry invece apprezzava senza riserve. E Jolson era d’accordo con Jack: di tornare a cantare in sinagoga non se ne parlava. Per un contrappunto esplicito a questo orientamento ideologico occorre tenere presente Tevye di Schwartz (1939) e Der vilner balabesl (1940), film la cui influenza è tuttavia imparagonabile a quella delle produzioni hollywoodiane. Sul complesso di questa vicenda si vd., oltre alle osseervazioni qui proposte, Eric A. Goldman, “The Jazz Singer and its reaction in the yiddish cinema”, in Sylvia Paskin, ed., When Joseph met Molly cit., pp. 39-48.
6 Cfr. Imdb, ad vocem.
7 Cfr. Imdb, ad vocem. Prima di allora l’attrice era apparsa nel corto austriaco Das Judenmädel (1921, con il nome di Maly Picon) diretta da Otto Kreisler, poi in Hütet eure Töchter (1922, come Maly Picon) e in Ost und West (1923) diretta in entrambi i casi da Goldin, quindi in Molly Picon (1929), diretto da Murray Roth. In A Little Girl la si vede in due scenette: nella prima nei panni di una famosa star intervistata in camerino che racconta come ha ucciso il marito; nella seconda descrive in yiddish al proprio vicino di casa irlandese come il marito buono a nulla la maltratti ma lei non possa fare a meno di amarlo.
8 Per il complesso della sua carriera un ottimo punto di partenza è quello offerto da E. A. Goldman in Visions, Images and Dreams cit. Seiden, oltre che a figurare come produttore, sceneggiatore, direttore della fotografia e altro per diversi film, firmò come regista i seguenti film (qui con in titoli in inglese): Paradise in Harlem (1939), My Sonny (1939), Kol Nidre (1939), The Jewish Melody (1940), The Great Advisor (1940), Motel the Operator (1940), Her Second Mother (1940), Mazel Tov Yidden (1941), Stars on Parade (1946, unico non di argomento ebraico), Three Daughters (1949), God, Man and Devil (1950). Tutti oggetto di lettura in questo volume. Paradise in Harlem è incorniciato in una serie di musiche e canzoni “swing and blues” e racconta del comedian Lem Anderson, la cui lunga attesa di mettersi alla prova in ruoli drammatici è interrotta quando, testimone di un omicidio, è costretto a scomparire. Lem diventa un vagabondo, cede all’alcolismo ma infine ha l’occasione di tornare a Harlem per interpretare Otello. Qui, dopo una serie di eventi melodrammatici, si giunge a un finale inaspettato.
9 È J. Hoberman a riproporre il contrappunto critico di Potamkin in Bridge of Light cit., p. 153
10 Cfr. Debra Caplan, Yiddish Empire. The Vilna Troupe, Jewish Theater and the Art of Itinerancy, University of Michigan Press, Ann Arbor 2018.
11 Menasha Skulnik è ampiamente citato in tutta bibliografia del teatro yiddish, alla quale si possono aggiungere le testimonianze raccolte nel sito Museum of Family History e il bell’articolo commemorativo di Alden Whitman apparso sul «New York Times» il 5 giugno 1970, per la morte dell’artista: . Per le sue apparizioni cinematografiche cfr. Imdb, ad vocem.
12 Copia restaurata con nuovi sottotitoli in inglese nel catalogo del National Center for Jewish Film.
13 Rechzeit aveva debuttato come enfant prodige, ma non ebbe la carriera brillante che prometteva. Per la sua ventennale presenza cinematografica cfr. Imdb, ad vocem.
14 Copia restaurata dal National Center for Jewish Film, 2007.
15 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
16 Cfr. Imdb, ad vocem.
17 Copia restaurata con sottotitoli in inglese nel catalogo del National Center for Jewish Film.
18 Cfr. Imdb, ad vocem.
19 Copia restaurata con sottotitoli in inglese nel catalogo del National Center for Jewish Film.
20 Cfr. Milken Archive of Jewish Music, ad vocem.
21 Oltre ai riferimenti di Hoberman e di Goldman, per la sua carriera cinematografica cfr. Imdb, ad vocem.
22 Dei sei attori menzionati, quattro erano quelli americani impiegati nel prologo (Joseph Buloff, Benjamin Fishbein, Leyb Kadison, Jacob Mestel), cui si aggiungevano Ida Kaminska e Zygmunt Turkow (il quale viveva allora in Brasile e leggeva i giornali newyorchesi). Era ignorata persino «la Duse del teatro yiddish» Ester Rokhl Kaminska.
23 Cfr. Imdb, ad vocem.
24 Cfr. Imdb, ad vocem.
25 Naturalmente in tutti i volumi sul cinema yiddish qui citati gli è dedicato ampio spazio, ma si vd. in particolare E. A. Goldman, Visions, Images and Dreams cit. Per la sua produzione cinematografica cfr. Imdb, ad vocem.
26 Il film, restaurato, è compreso nel catalogo del National Center for Jewish Film. Thomashefsky è uno dei protagonisti del terzo volume di questa serie.
27 Harry (Hersh-Yonah) Thomashefsky aveva recitato fin da bambino con i genitori, ma crescendo fu attivo soprattutto sul versante organizzativo. Come assistente del padre, fu con lui in diverse tournée, talvolta recitando in brevi parti comiche. Nel 1920 diresse la commedia con musiche in tre atti Parlor Floor and Basement, firmata con il padre. Nel 1929-1930 recitò in inglese al Gabel’s Public Theatre. Nel 1931-1932 fu amministratore della compagnia paterna prima al Lyric Theatre e poi al Gaiety Theatre. E non mancò di tradurre in inglese e dirigere qualche operetta, sempre del padre, per esempio nel 1931 Il rabbino cantante, che sfortunatamente ebbe soltanto tre repliche. La sua eclettica attività si estese anche alla scenografia e alla caricatura (per testate inglesi).
28 È possibile vedere Maurice Krohner in diversi film yiddish e non (cfr. Imdb) quali Ouverture to Glory (1940), Motel the Operator (1934) e i corti Foiling the Camorra (1911), The Taxicab Mystery (1911) e The Italian Sherlock Holmes (1910).
29 Per la versione teatrale padre e figlio scelsero, in coerenza con il contesto del Federal Theatre Project (cfr. anche quanto se ne dice nei volumi primo e terzo di questa serie) di lavorare con attori disoccupati e praticare una politica di prezzi bassissimi, così che l’insieme suonasse come una dichiarazione in favore della cultura intesa come servizio pubblico.
30 Diverso il caso degli attori che interpretavano la versione teatrale e anche, in yiddish, testi come Svegliati e canta di Clifford Odets, Qui non può accadere di Sinclair Lewis, la rivista (kleynkunst) di successo Noi viviamo e ridiamo di Jacob Bergren e Il sarto diventa negoziante di David Pinski, tutti esempi di teatro militante di alta qualità. E che lo fecero con compagnie che percorrevano in lungo e in largo tutto il paese, recitando ovunque fosse possibile, senza apparati scenografici e altri orpelli. Lo yiddish era una delle lingue utilizzate nel grande progetto di nuovo teatro nazionale.
31 Cfr. Joel Berkowitz, Shakespeare on the American Yiddish Stage, University of Iowa Press, Iowa 2002.
32 A proposito del film si vd. anche la lettura proposta nella seconda parte di questo volume.
33 Cfr. Avraham Novershtern, Markish, Perets, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 15 dicembre 2010, e Jeffrey Veidlinger, The Moscow State Yiddish Theater, Veidlinger, Indiana University Press, Bloomington 2000, pp. 119 sgg. Anche la biografia dello scrittore era segnata da un ritorno: Markiš era stato all’estero dal 1921 al 1925, ma poi aveva deciso di tornare e si era iscritto al Partito Comunista.
34 Così impietosamente lo cita Isaac B. Singer, forse con una punta di ingenerosità: «[…] Perets Markiš, che cantò le lodi di Stalin, finché Stalin stesso non lo fece liquidare» (Ricerca e perdizione, Guanda, Parma 2002, p. 50).
35 Markiš sarebbe stato fucilato con Zuskin nell’agosto del 1952, pochi mesi prima della morte di Stalin, le rispettive famiglie mandate in esilio. Nel 1955 esse poterono ritornare a Mosca e riconquistare poco a poco una certa libertà, fino all’espatrio. Suo figlio David Markiš, nato nel 1938, è un apprezzato scrittore tradotto in tutto il mondo.
36 Per il merito del film si vd. anche la lettura proposta nella seconda parte di questo volume.
37 In proposito J. Hoberman (p. 194 passim) è molto dettagliato.
38 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 201.
39 In italiano cfr. Enciclopedia Treccani, ad vocem. Per il suo curriculum cinematografico cfr. Imdb, ad vocem.
40 Su Mir kumen on e Aleksander Ford si vd. il saggio di Matteo Tamborrino nella seconda parte di questo volume.
41 Cfr. in proposito il dettagliato resoconto di J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 228 segg.
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