2. 1919-1928: tempo di rivoluzioni
p. 53-109
Texte intégral
1Le vicende relative al teatro e al cinema yiddish nella Russia postrivoluzionaria, poi Unione Sovietica, sono del tutto peculiari e dunque richiedono di essere trattate separatamente.
2Negli anni a cavallo tra il xix e il xx secolo vi era in Russia una classe dirigente del tutto incapace di governare la irrevocabile modernizzazione che avrebbe dominato il nuovo secolo. Basti pensare a ciò che lo zar Nicola ii annotava sulle proprie carte private, mentre ufficialmente fingeva di approvare il cinema: «Considero il cinematografo una vuota, inutile e pericolosa perversione. Soltanto un individuo anormale può considerare quest’attrazione da fiera qualcosa di artistico. È tutto un nonsenso, e nessuna importanza dovrebbe essere accordata a tale schifezza».1 Ciò mentre nello stesso tempo un bambino per metà ebreo frequentava il Cinema Progresso della città di Riga accompagnato dalla governante, dato che per i genitori sarebbe stato sconveniente mostrare interesse per la «schifezza». Quel bambino di nome Sergej Michajlovič Ejzenštejn, che al primo incontro con l’ «illusione» del cinema, sopraffatto dall’emozione, aveva pianto a dirotto, avrebbe poi elaborato la propria teoria del montaggio (prima «montaggio delle attrazioni», poi «montaggio intellettuale» e infine «montaggio verticale»). All’ottusità reazionaria del potere zarista, i giovani come Majakovskij, Mejerchol’d, Ejzenštejn e tanti altri opponevano una visione rivoluzionaria della vita, basata sulla libertà e lo sviluppo dei sentimenti individuali e collettivi. Tra queste due sensibilità si sarebbe inserito, in funzione dominante, il nuovo potere sovietico, al quale quei giovani aderirono, credendo, all’inizio, che esso fosse l’alveo in grado di contenere la loro concezione artistica della vita e di orientarla verso le nuove masse di protagonisti della storia. E operarono in tal senso, imparando in fretta, in una certa misura persino all’insaputa di se stessi, a rielaborare in chiave artistica il proprio singolare “comunismo”, sulle prime accolti con entusiasmo dai nuovi protagonisti sociali, i quali però non comprendevano o facevano finta di non comprendere un film come Ottobre, che avrebbe dovuto celebrare la rivoluzione popolare e ne mostrava invece la natura di colpo di stato, o come La corazzata Potëmkin fosse in tutta evidenza una potente e struggente fantasia sulla fratellanza tra uomini, poeticamente omosessuale. Erano opere di autori destinati a essere presto censurati da un regime che ne aveva compreso l’incompatibilità con il proprio autoritarismo e voleva mettere a punto i protocolli di un’arte del consenso, fino al trionfo di quella teleologia satanica posta sotto il titolo del «realismo socialista». Come già abbiamo visto nel caso del teatro, anche i film yiddish parteciparono a questa fatale parabola.
3Ricorda Jay Leyda che negli anni precedenti la rivoluzione
il cinema era particolarmente sottoposto alla censura. Del Miracolo (Das Mirakel): di Max Reinhardt,2 [dove si raccontava di una novizia che lascia il convento per seguire il cavaliere di cui è innamorata] fu impedita la distribuzione. Ogni film che parlasse di ebrei era confiscato o pesantemente tagliato, si trattasse del Dio della vendetta, Il dovere civico dell’ebreo o Il caso Beilis [il film di Joseph Soiffer che i russi videro soltanto dopo la rivoluzione del febbraio 1917]. Dalla Vita di Wagner fu tagliata la scena del cantore ebreo e il film reintitolato Vita di un compositore. Questa logica portava a estremi ridicoli: erano proibiti tutti i film di argomento biblico, come Davide e Golia ( «Troppo pericoloso vedere tanti ebrei sullo schermo»); le scene riguardanti le prigioni siberiane in Resurrezione vennero tagliate e lo stesso destino toccò persino ai becchini del Cadavere vivente (Der lebediker mes) di Tolstoj.3
La settima arte tuttavia prosperava, la gente voleva distrarsi dalle tragedie del presente e in Russia si distribuivano con successo film francesi, inglesi e italiani (soprattutto quelli del produttore torinese Ambrosio). Ciò fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, quando tutto cominciò a precipitare a causa della diffusa povertà e della progressiva degenerazione politica di un impero nel quale comandava in effetti il monaco Rasputin, poi assassinato da complottisti di estrema destra. In controtendenza, il cinema andava relativamente bene: vi erano oltre centocinquanta tra produttori e distributori, una trentina dei quali erano impegnati a produrre nuovi film; ingenti capitali erano investiti nell’apertura di molti “teatri” nei quali le proiezioni erano accompagnate da un pianista, mentre in quelli più lussuosi vi era un’orchestra da camera. Una nuova generazione di professionisti veniva alla ribalta, tra essi un grande regista come Yakov Protazanov4 o il nuovo divo Ivan Mozžuchin.
4Mentre preparava l’avvento del bolscevismo, Lenin frequentava i piccoli cinema di Zurigo e maturava un’idea tutt’altro che negativa del cinema, immaginato come un potente strumento di agitazione e propaganda in grado di raggiungere ovunque le masse incolte.
5Nel marzo 1917 lo zar abdicò e la stessa cosa fece subito dopo il suo successore. Pochi giorni dopo tutta la famiglia imperiale fu posta agli arresti. Tra febbraio e ottobre di quell’anno cruciale in Russia tutto era provvisorio, compreso il comitato che sovrintendeva alla produzione cinematografica, produzione che d’altra parte si spingeva spregiudicatamente a realizzare anche film su Rasputin e la famiglia imperiale, oscillando tra la denuncia politica e la pornografia. Con l’arrivo di Lenin in aprile si assistette a un rilancio del processo rivoluzionario: tutto il potere passava progressivamente ai soviet, organismi dirigenti dei lavoratori.
6A fronte del governo Kerenskij, che otteneva un prestito americano per condurre l’offensiva militare sul fronte orientale, Lenin e i suoi rafforzavano progressivamente il potere dei soviet e fiancheggiavano le vertenze dei lavoratori che avrebbero portato, tra l’altro, dapprima alla chiusura dei maggiori studi cinematografici e poi al loro controllo da parte di quei lavoratori che avrebbero formato il nucleo dirigente del futuro cinema di regime. Già in giugno fu emanato un decreto che mobilitava il cinema per la propaganda di guerra, ma pochi mesi dopo, con il confronto armato tra il governo Kerenskij e i bolscevichi, ebbe inizio l’era del potere rosso, con le banche nazionalizzate, la terra sottratta alla proprietà privata e, naturalmente, la nazionalizzazione dell’industria cinematografica.
7A fronte dei decreti che progressivamente mettevano tutte le attività sotto il controllo del nuovo potere, ognuno doveva scegliere se accettare o rifiutare le nuove condizioni. Molti, da quel momento in poi, erano coloro che espatriavano, ma le loro storie in genere non ebbero un esito felice. Parigi era la capitale dei “bianchi”, ma a parte coloro che erano molto ricchi, gli altri faticavano a farsi una nuova vita. Un artista come Majakovskij non aveva dubbi, «Questa è la mia rivoluzione», diceva. Lo stesso Mejerchol’d e tanti altri.
8A fine giugno era stato prodotto il primo film sovietico, quel Signal diretto da Aleksandr Arkatov e la cui fotografia era assicurata da Eduard Tisse,5 figura chiave quanto poco conosciuta della cinematografia sovietica, che incontreremo ancora. Anche la compagnia ebraica Habima prese parte ad alcuni film, mentre il teatro yiddish diventava statale, si insediava a Mosca e, guidato da Alexei Granovskij, proponeva i propri clamorosi spettacoli, alcuni dei quali sarebbero riverberati in un film come Fortuna ebraica (1925), realizzato tra Sciopero! e La corazzata Potëmkin, i film che consacravano la coppia Ejzenštejn-Tisse.
9Dal 1919, su indicazione di Lenin, si cominciarono a realizzare i film di agitazione, di una bobina ciascuno, ai quali tutti, da Majakovskij al ministro della cultura Lunačarskij collaboravano come autori. Dalla fine del 1918 molti Treni Rossi, carichi di materiale di propaganda, percorrevano il paese, e lo stesso faceva l’ “agit-battello” Stella Rossa, con una sala da ottocento posti. Gorkij era attivissimo nel promuovere teatro e cinema, anche proponendo molte sceneggiature ambiziose, ma gli attori erano alla fame e lavoravano male; Gorkij stesso, malato, fu inviato a curarsi in Italia.
10Il 1919 è l’anno del film Tovariš Abram (Compagno Abram) di Alexander Razumni, del quale diremo più in dettaglio, ma è anche, forse soprattutto, l’anno dell’arrivo in Russia di Intolerance, il film dell’americano David Griffith la cui tecnica e poetica per almeno dieci anni avrebbero esercitato un’influenza decisiva sul cinema del primo paese comunista del mondo, come ricordava il regista Vsevolod Pudovkin.6 Lidea base del montaggio veloce fu sviluppata da Ejzenštejn e dagli altri proprio a partire dall’opera di Griffith.7 Più che per i contenuti del suo Nascita di una nazione, in effetti discutibili, il regista americano fu considerato un caposcuola per la sua proposta di una nuova e spregiudicata sintassi del linguaggio filmico narrativo. A sua volta influenzato dal cinema italiano e soprattutto dai colossal di Giovanni Pastrone come Cabiria del 1914, film visionario di quasi tre ore di durata, Griffith proponeva una perfetta costruzione lineare delle scene (senza salti di tempo tra un’inquadratura e l’altra), e per primo iniziò a fare uso delle inquadrature che spezzavano il classico piano medio di lunga durata e proponevano un continuo cambiamento del punto di vista, come un dettaglio ingrandito o un primo piano che esplicitava lo stato d’animo del personaggio. Tra le tecniche innovative da lui utilizzate vi erano il montaggio alternato (di due azioni distinte per ottenerne un effetto di simultaneità, come potrebbe essere la ripresa della corsa di un uomo verso la macchina da presa e la ripresa della corsa di un treno nella stessa direzione: alternandole, si dà l’effetto dei due in corsa l’uno contro l’altro), o il cosiddetto “finale alla Griffith” consistente nel creare la massima tensione prima dello scioglimento, per non parlare dei diversi piani di ripresa, la ripresa con camera in movimento ecc.
11Tovariš Abram 8 non è propriamente un film yiddish, ma è indicativo in quanto uno tra i primi prodotti dopo l’Ottobre con il compito di presentare la questione ebraica in versione sovietica a un vasto pubblico, soprattutto agli ebrei stessi e ai soldati impegnati nella guerra civile contro i bianchi. Concepito e prodotto dall’intraprendente I. Ermolyev, un ex dipendente dalla Pathé,9 il breve film è diretto da Alexander Razumni,10 anche responsabile della fotografia. La trama è ispirata a una vicenda biografica nota alle cronache. Il protagonista si chiama qui Abram Herš, ma il film inizia con un militare di alto grado che legge sul giornale il titolo «Gli ebrei del luogo hanno aiutato i nostri nemici». Presto comprendiamo che il traditore è proprio lui, poiché annota una mappa che gli portano e l’affida a un’elegante signora che a sua volta la consegna al quartier generale del nemico tedesco, ricevendo in cambio una grossa somma. Poi passiamo a vedere gli effetti del tradimento, vale a dire una pattuglia di soldati russi che è attaccata dai tedeschi. Una delle figure che giacciono nella neve si muove, è ferito a una gamba e riesce a trascinarsi fino a una povera casa di paesani ebrei, gli Herš, dai quali il capitano Yegorov viene accolto e curato. Dopo due settimane Yegorov si congeda commosso dalla famiglia e torna in città. Qui, nel quartiere ebraico, legge un volantino che accusa gli ebrei di complicità con il nemico e lo getta indignato.
12Dopo uno stacco vediamo una riunione nel salone di una casa lussuosa che la didascalia ci dice appartenere all’Orda Nera, le squadracce antisemite composte da militari e borghesi, ufficiali e semplici soldati. Lì si delibera di reagire al tradimento degli ebrei con un pogrom, naturalmente diretto contro i più poveri, e si distribuiscono le armi. La scena successiva mostra Abram sconvolto: la sua famiglia è stata sterminata nel pogrom e lui, rimasto solo e tentando di fuggire, incontra Yegorov alla stazione, gli racconta cos’è accaduto e viene da questi fatto salire su un treno che trasporta i soldati feriti a Mosca. Nella capitale Yegorov consegna ad Abram alcune lettere di raccomandazione per mezzo della quali viene ospitato in una casa borghese e trova lavora come operaio in una officina meccanica. Lo vediamo al lavoro, quando una didascalia annuncia che «È arrivata l’ora del riscatto»: all’esterno un agitatore arringa gli operai, che poi entrano in fabbrica e si rivolgono agli altri: «Compagni! Fratelli lavoratori! Uniamoci tutti all’Armata Rossa!». Abram ascolta, quindi abbandona il proprio posto dicendo: «Io ho sofferto due volte, come lavoratore e come ebreo» e si unisce ai compagni che s’incamminano. Ora vediamo un reparto di lavoratori armati, trasformati in soldati, ai quali gli ufficiali comunicano che dovranno combattere contro i bianchi. Il reparto si mette in marcia e più tardi, in un paesaggio desolato, sembra soccombere in uno scontro a fuoco con i controrivoluzionari, meglio armati. Quando i suoi vorrebbero ritirarsi, Abram li ferma dicendo: «Non potete arrendervi ai capitalisti e alle Orde Nere. Hanno ucciso la mia famiglia. Io non mi arrenderò mai». Tornati a combattere con nuovo vigore i rossi vincono e tornano in caserma con molti prigionieri. Abram, che ha dato l’esempio e guidato l’azione, viene proclamato capo del battaglione. Una didascalia ci dice che si sta preparando la battaglia decisiva e che – come poi vedremo – tutti l’affronteranno con coraggio cantando l’Internazionale. Il finale mostra il fiero battaglione in marcia con Abram Herš alla sua testa.
13In sostanza Tovariš Abram ribadisce l’idea marxista ripresa da Lenin e poi da Stalin che non esiste una questione ebraica in quanto tale, ma si tratterebbe soltanto di comprendere come le contraddizioni di classe agiscano e vadano affrontate in quel contesto. È lo stesso imperativo ideologico con il quale il teatro e la cinematografia yiddish sovietiche dovettero fare i conti fino alla proclamazione del realismo socialista, la rigida “poetica sovietica”. Fino a quel momento il grottesco e il realismo yiddish rispettarono, con convinzione o meno, lo schema classista, in genere con un’ambientazione delle vicende narrate nei decenni precedenti la Rivoluzione. Con l’alibi che tutto il male dipendesse dalle condizioni di vita precedenti, si potevano raccontare storie assai più ricche di verità e radicate nella peculiarità della questione ebraica alle prese con i cambiamenti storici e quindi tentare di esorcizzare la criminale patologia dell’antisemitismo.
14Il film Der mabul (Il diluvio), del quale non esistono attualmente copie visibili, fu girato nel 1925, nello stesso momento in cui Alexei Granovskij realizzava il proprio Fortuna ebraica con Solomon Michoels come protagonista. Il trentatreenne regista russo Yevgeni Ivanov-Barkow aveva un assistente che era l’ex proprietario di un grande studio e noto antisemita. Nel film appaiono diversi attori della compagnia ebraica Habima, alla quale era stato proposto inizialmente di farsi carico di tutta la sua realizzazione, ma alcuni di essi erano sfiniti dal ritmo di lavoro degli ultimi tempi e non tutti accettarono di partecipare. La faccenda prese dunque un’altra piega: russo il regista e il suo aiuto, entrambi ora assai interessati agli usi e costumi della minoranza ebraica, e russi i due protagonisti, A. Dzuybina e D. Čečik-Efrati. Curiosamente lo spettacolo seguente di Habima, l’ultimo prima di lasciare l’Unione Sovietica approfittando di una tournée, sarebbe stato un altro Diluvio (Mabul).11 I compensi percepiti dagli attori furono versati nella cassa della compagnia e spartiti equamente tra tutti i suoi membri. Prima di allora Habima aveva preso parte soltanto a un agitka di tre bobine del 1918, Khleb, dunque questa esperienza costituì per loro una importante occasione per esercitarsi a padroneggiare la differenza tra recitazione teatrale e recitazione cinematografica in vista di possibili futuri impegni in tal senso.
15Questo Diluvio era tratto dal romanzo omonimo di Sholem Aleichem, del 1907, il suo più politico. È la storia di tre famiglie con figli rivoluzionari che partecipano ai tumulti del 1905. La narrazione di Sholem Aleichem si svolge tra San Pietroburgo e una città ucraina, dove tra ebrei di varie condizioni sociali e convinzioni politiche, agisce l’eroina Maša Basevič, che muore suicida in prigione e la cui cerimonia funebre si trasforma in una rivolta. Raikin Ben-Ari, al tempo attore, ricorda la controversa realizzazione del film, molto sorvegliato da vari responsabili ideologici anche per correggere la trama dell’originale nella quale agiscono insieme ebrei socialisti e sionisti (questi ultimi considerati eretici nell’ideologia rivoluzionaria) e che si conclude con la partenza di molti di loro per l’America. Il film includeva alcune sequenze riguardanti la famigerata Domenica di sangue, durante la quale i soldati dello zar avevano sparato sulla folla inerme, e un pogrom nel corso del quale gli ebrei erano difesi dai lavoratori rivoluzionari. Inoltre Maša, che nel romanzo è un personaggio secondario, qui diventava la protagonista: non era accusata, come in Sholem Aleichem, di avere preso parte a una generica cospirazione, ma era imprigionata per avere sparato a un funzionario di polizia quando questi aveva fatto irruzione in una riunione di lavoratori, e non si suicidava, ma veniva condannata a morte, morte seguita da un pogrom contro gli ebrei poveri (il film segnalava che quelli ricchi venivano risparmiati) e non si chiudeva con l’emigrazione bensì con i canti rivoluzionari che accompagnavano il funerale delle vittime del pogrom.
16Nel film Raikin Ben-Ari interpretava il proprietario di una pensione che ospitava i giovani rivoluzionari, Yehoshua Bertonov era il padre di Maša, un onesto lavoratore, D. Čečik-Efrati, già profeta Elia nello spettacolo Il golem, era una viscida spia della polizia e Aaron Meskin, dopo avere impersonato il golem, era qui un leader rivoluzionario; Hanna Rovina, già famosa per la propria interpretazione nel Dibbuk diretto da Vachtangov, interpretava il ruolo minore di Anna Zubova, un’altra rivoluzionaria. Nel film appaiono anche Nahum Zemach, il fondatore di Habima, e il giovane Benno Schneider, che sarebbe poi diventato un protagonista del teatro yiddish militante americano, come si racconta nel primo volume di questa serie. Lo scenografo era Robert Falk,12 cognato di Granovskij, ma soprattutto reduce dallo straordinario lavoro compiuto al Teatro Yiddish di Mosca (Goset) per Notte al Mercato Vecchio, ampiamente descritto nel nostro quinto volume. Il compositore delle musiche d’accompagnamento era Modhe Milner, a sua volta collaboratore del Goset e della stessa Habima per Il golem.
17Il film, distribuito con il titolo yiddish Der mabul e un sottotitolo russo che suonava come Il sangue versato, fu uno dei primi esperimenti di cinema sovietico sulle minoranze etico-linguistiche e dunque soggetto, oltre che a diversi cambiamenti in corso d’opera, anche a un ingente investimento economico, cosa che – come ricordavano gli attori – aveva comportato lussi dimenticati come la sistemazione in un elegante albergo di Leningrado e cibi di buon livello.
18Il regista Yevgeni Ivanov-Barkow era alla prima prova, avendo lavorato in precedenza soltanto come scenografo. Nell’occasione scoprì la grandezza di Sholem Aleichem e della letteratura ebraica, assieme al proprio assistente, già noto antisemita e proprietario di un grande studio che gli era stato espropriato. Ivanov-Barkow era anche un adepto del naturalismo e curava ogni dettaglio del film. Ad esempio per la scena della sinagoga fece cercare autentici rotoli della Torah e oggetti sacri, cosa non facile dopo le devastazioni antireligiose degli anni precedenti. Ben-Ari ricorda che il regista, in nome del naturalismo, arrivava fino a vertici di sadismo: ad esempio quando in una scena Ben-Ari doveva servire un’autentica zuppa bollente scottandosi le dita e fu costretto a eseguirla più volte in modo realistico e doloroso. E avendo detto al regista «Meno male che non ci sono scene in cui dobbiamo essere picchiati o in cui ci sparano» si sentì rispondere «Non ti preoccupare, ci sono anche quelle». Per la sequenza del pogrom arrivarono infatti veri cosacchi, ex poliziotti, coadiuvati da altri brutti ceffi. Ben-Ari racconta come senza bisogno di prove questi picchiassero brutalmente le povere comparse – oltretutto, qui, russi travestiti da ebrei –, non fermandosi ai ripetuti richiami della regia, così che quelle comparse poi si dileguarono per evitare di prendere parte alle scene successive. Ma quando si passò alle riprese nel villaggio corrispondente al mitico shtetl di Kasrilevke descritto da Sholem Aleichem – qui il quartiere ebraico di Vinnytsia, in Ucraina – moltissimi ebrei parteciparono alla scena del matrimonio, girata dal mattino alla notte, per un misero mezzo rublo a testa, ma felici. Anche Hoberman sottolinea la costante «confusione tra vita e arte»13 che regnava sul set: tra gli altri episodi segnalati vi è l’apparizione di Bertonov in divisa da cocchiere che veniva rimproverato dai vecchi ebrei perché indossava un abito da lavoro il sabato, oppure lo stupore dei contadini di fronte alla polizia zarista, tanto che «si toglievano il cappello e cambiavano strada».14
19In questa clima di novità, improvvisazione e assillante supervisione ideologica, il regista e la sua équipe non riuscivano a creare un’opera compatta e unitaria. La sorveglianza politica complicava le cose anche perché il funzionario delegato era in difficoltà con la materia ebraica; per questo fu chiamato infine Boris Veršilov, ebreo assimilato e già regista del Golem, il cui intervento si risolse in qualche aggiustamento ideologico a scapito dell’aspetto artistico e della verità storica. Il film che ne risultò, dopo molti interventi anche in sede di montaggio, fu disgraziato in ogni senso. Era stato girato all’inizio dell’estate del 1925 (poche settimane prima della Corazzata Potëmkin) e uscì soltanto nell’aprile del 1927. Nel frattempo Habima aveva lasciato l’Unione Sovietica, nel gennaio 1926, e nessuno dei suoi membri avrebbe più fatto ritorno; nello stesso 1926 scoppiò uno scandalo finanziario (forse pilotato politicamente contro l’estrema sinistra), per cui la Proletkino e la Kultkino finirono sotto processo con l’accusa di avere sperperato il denaro pubblico (tra l’altro per questo film la sceneggiatura era stata rifatta, e pagata, ben quattro volte); alla fine dell’anno una cinquantina di registi, anche importanti, furono arrestati con un complesso di accuse che rimandavano in effetti alle dispute ideologiche in corso. Erano tempi di contrasti dialettici e di disordine, nei quali si fronteggiavano posizioni avanguardistiche e di estrema sinistra con istanze sempre più normalizzatrici che avrebbero portato alle purghe staliniste e infine alla proclamazione del realismo socialista (1934), che metteva la cultura e l’arte in uniforme e puniva chiunque non ne rispettasse i protocolli.
20Yidishe glikn (Fortuna ebraica) è un’opera di eccezionale interesse per diversi motivi: anzitutto in quanto unico documento cinematografico della poetica registica di Alexei Granovskij, di chiara origine teatrale e qui felicemente applicata al cinema, poi perché ci permette di vedere nel suo intero arco narrativo uno dei maggiori attori del Novecento teatrale, Solomon Michoels, benché senza sentirne la voce.15 I due sono anche tra i protagonisti del quinto volume di “Tutto era musica” e a Yidishe glikn è dedicato un testo di Alessandro Cappabianca nella seconda parte di questo volume. Con tali rimandi, dunque, qui si propongono soltanto alcune osservazioni preliminari sul contesto generativo dell’opera.
21Approfittando del grande successo e prestigio conquistati nei primi anni di attività del Teatro Yiddish di Mosca, Granovskij e i suoi sodali, soprattutto Michoels e Zuskin, intendevano dimostrare che l’espressione culturale ebraica concretizzata nel teatro yiddish poteva avere valore per un pubblico ben più vasto e internazionale. Benché si fosse ai primi passi del cinema d’autore, Granovskij si guarda bene dal proporre la semplice ripresa cinematografica di uno dei propri successi teatrali e, pur prendendo spunto da materiali di Sholem Aleichem (qui in particolare le lettere del luftmentsch Menachem Mendel, sfortunato ottimista) già utilizzati per la scena, si rivolge a Isaac Babel’16 per la sceneggiatura e a Eduard Tisse per la direzione della fotografia. Dal (suo) teatro provenivano invece lo scenografo-costumista Natan Altman, già complice del regista per un controverso eppure grandioso allestimento del Misterija-Buff di Majakovskij nel 1921, in occasione del terzo congresso del Komintern, e il compositore Lev Pulver per le musiche che avrebbero dovuto accompagnare la proiezione.17
22Il film fu girato nell’estate del 1925, qualche mese dopo il debutto di Notte al Mercato Vecchio, spettacolo di una bellezza conturbante, che avrebbe profondamente colpito persino uno spettatore sgamato come Sigmund Freud. Yidishe glikn è per molti versi un’opera sconcertante anche per lo spettatore di oggi, portato a chiedersi ad esempio se Michoels si ispiri a Chaplin o viceversa, oltre che ad ammirare l’aerea libertà di un linguaggio cinematografico così lontano dal realismo, talmente sofisticato e al tempo stesso seducente e poetico. Lo sfondo è sempre quello della Russia prerivoluzionaria, che diventa qui un luogo fiabesco fitto di prove e agnizioni, morti e resurrezioni, con un finale apertissimo sia nei confronti di una integrazione conformistica nel nuovo mondo dominato dal denaro, sia nella “ricerca della felicità” dello sconfitto ma inesausto protagonista. Con le coordinate della cultura sovietica del momento, il cinema e il teatro esprimevano una relativa libertà e una vivace elaborazione poetica e ideologica. Non dimentichiamo che a quell’altezza di tempo il dibattito tra rappresentanti dei diversi modi di concepire le funzioni e i protocolli delle arti era particolarmente vivace e spregiudicato, nonostante la pressione dell’ortodossia ideologica cominciasse a manifestarsi e diventare sempre più normativa in quanto fatta propria in primis dagli organismi che presiedevano ai sussidi pubblici e alla produzione. Il film, benché prodotto dalla Goskino di Mosca e non dall’ucraina Vufku,18 è ambientato a Odessa,19 già capitale del teatro yiddish russo.
23Sull’importanza di Tisse in quanto effettivo coautore dei registi dei cui film fu direttore della fotografia, soprattutto Ejzenštejn, la storiografia è ancora carente. In Fortuna ebraica un particolare che consente di verificarlo, è il modo di riprendere la famosa scalinata di Odessa, che nella Corazzata Potëmkin è la cornice geometrica della violenza del potere, mentre in Yidishe glikn è lo sfondo sbrecciato dell’incontro onirico tra il luftmentsch Michoels e un’affascinante nobildonna.20
24Yidishe glikn fu tra i pochi film sovietici a essere esportati negli Stati Uniti. Alla sua uscita newyorchese del 1930 critica e pubblico reagirono mostrando apprezzamento e interesse per la poetica e i contenuti del film, sottolineando anche alcune finezze come i movimenti delle mani e delle dita di Michoels, definiti «una danza».21
25Anche Benya Krik22 fu girato a Odessa in quella felice estate del 1925. Il regista Vladimir Vilner,23 ebreo, aveva allora soltanto una limitata esperienza in quanto attore e regista teatrale ed era un propugnatore del realismo, orientamento che gli procurò in seguito l’incarico di realizzare un importante documentario di propaganda, Cemento (1928). Nel caso in questione la scelta di puntare su di lui fu un ripiego poiché il progetto del film era nato da una sollecitazione di Ejzenštejn, al quale piacevano immensamente i testi di Babel’ su Odessa e sul bandito Miška Japončik, protettore e difensore dei miseri, trasformato in Benya Krik, re del quartiere ebraico Moldavanka. L’inesperto Vilner si trovò a maneggiare una sceneggiatura sontuosa, certamente non realistica e ideologicamente pericolosa a causa del fascino sprigionato dal protagonista negativo e dal suo mondo. Ejzenštejn s’era tirato indietro perché impegnato nella preparazione della Corazzata Potëmkin, ma forse anche perché aveva percepito le riserve ideologiche sui testi babeliani e non voleva esporsi (infatti La corazzata è in apparenza ideologicamente inappuntabile, fino al punto di distorcere i fatti storici cui si riferisce, inoltre la fantasia omosessuale di cui è permeato il film è così magistralmente confusa con il cameratismo dei marinai rivoluzionari da non essere ufficialmente rilevata da nessuno). Il povero Vilner – come ebbe a dichiarare in occasione della prima – doveva assolutamente «uscire dal romanticismo» e quindi in pratica lottava contro Babel’, ma con scarsi risultati. L’accurato apparato di note dell’edizione italiana delle opere babeliane chiarisce tutti i passaggi della vicenda, menzionando l’intervento censorio forse decisivo del generale Lazar’ Kaganovič, ebreo molto ligio al regime, dopo il quale il film fu tolto dalla circolazione dall’Ufficio ucraino per l’educazione politica.
26In ogni caso, neppure Babel’ era contento del film, lo definì «molto brutto» (in una lettera privata) e in un articolo dichiarò di avere commesso l’errore di non partecipare alla sua realizzazione (interessante questo salvare il testo e accusare la realizzazione di averlo tradito). Sia come sia, Benya Krik è intriso di una forte ironia, benché non padroneggiata dal regista. In proposito si può fare riferimento alle sequenze riguardanti il covo dei banditi, una sorta di fattoria-caserma, o alla scena della festa di matrimonio della mostrosa sorella del capo-bandito al suono di un’orchestra klezmer talmente vivace che sembra quasi di sentirla, una manifestazione di dionisismo popolare tutt’altro che sgradevole, oppure ancora al finto funerale inscenato dai banditi nel cimitero monumentale ebraico della città. Benya risulta simpatico anche quando riceve il denaro di un’estorsione avvolto in una Torah, simpatico e persino ingenuo a fronte dei suoi spietati finti alleati. Particolarmente agghiacciante e di effetto contrario al desiderato è il finale (ambientato nel 1919, in piena guerra civile) in cui si assiste alla barbara esecuzione del bandito e del suo luogotenente e alla telefonata dell’ufficiale al proprio superiore per confermarglielo. Il capo bolscevico solleva appena la testa dalle carte in cui è immerso per sussurrare «Bene. Avanti, compagni…».
27Come osservava lucidamente Joseph Roth, coloro che, partoriti da Maimonide, avrebbero voluto farsi adottare da Lenin, sarebbero andati incontro a un destino nefasto. Questo vale per i contenuti del film, ma è importante notare come un’opera sottoposta a un rigido controllo ideologico e alla quale era assegnata una funzione propagandistica, nel suo farsi artistico ottenesse un effetto corrosivo rispetto a quelle idee. Da cui la censura. Il dogma del realismo socialista sarebbe nato anche per risolvere questo tipo di problemi e in una buona misura avrebbe funzionato, ma resta il fatto che molti film concepiti in funzione propagandistica dimostrarono, a cose fatte, di produrre l’effetto contrario, poiché la promozione dei classici yiddish della letteratura aveva come conseguenza un crescente orgoglio per l’eredità culturale ebraica. Allo stesso modo, il teatro yiddish era percepito anzitutto come una espressione identitaria. Negli anni Trenta la frequenza degli spettacoli teatrali aveva ormai sostituito il recarsi alla sinagoga come principale manifestazione di ciò che significava essere ebrei in Unione Sovietica.24
28Anche Blondzhende shtern (Stelle erranti, o vagabonde) fu girato nello stesso anno di Benya Krik. La sceneggiatura era stata commissionata dalla Goskino a Babel’ su proposta di Granovskij e del Goset. Lo scrittore aveva urgente bisogno di soldi e aveva accettato di lavorare sul feuilleton di Sholem Aleichem, definito «materiale altrui e ingrato» che gli procurava «spiacevoli sensazioni». Ci mise «due mesi per dimenticare il testo originale» e nei tre mesi seguenti lavorò alacremente, sebbene in mezzo a mille incertezze, poiché «i registi cambiavano e, di conseguenza, cambiavano anche le esigenze nei confronti della sceneggiatura».25 Del poco amato testo di Sholem Aleichem, di cui si parla dettagliatamente nel nostro primo volume, Babel’ conservò assai poco. La sua sceneggiatura – che il sottoscritto considera, nonostante la deviazione dall’originale, di altissimo valore – comincia in un piccolo shtetl nel quale l’adolescente Lëvuška ruba il denaro del padre, un ricco mercante, per fuggire con una compagnia di artisti girovaghi. Se ne va senza Rachele, una giovinetta di cui è innamorato e con la quale ha scambiato il primo bacio prima che la sorte li separi, con promessa però di ritrovarsi dopo un paio d’anni e sposarsi. Lëvuška, aspirante violinista, parte con la compagnia di guitti yiddish il cui capo, un certo Ocmach, nella seconda parte della sceneggiatura si esibisce in una rappresentazione del Re Lear tra il ridicolo e il mostruoso. L’opera è presentata come «l’ultima novità dell’autore e canzonettista nuovayorchese Jakov Shakespeare» e reintitolata Re Lear ovvero con quelli di famiglia ci si arrangia…» (riecheggiando così una famosa opera di Ostrovskij). La prima apparizione dell’attore yiddish Ocmach è in camerino: «Trucco: una lunga barba grigia divisa in due come quella di un maggiordomo, sopracciglia spioventi, rosso su tutta la guancia, enormi orecchini falsi alle orecchie, sulla testa una parrucca incipriata come se ne portavano alla corte dei re di Francia alla fine del diciottesimo secolo»; quando passa alle tre figlie del sovrano, Babel’ le descrive come «tre donne agghindate nella maniera più assurda […] Due delle figlie sono grasse ebree non più giovani, la terza [Cordelia] è una bambina di sei anni. Anche le attrici – come Ocmach – portano stivaloni di vernice con gli speroni. I loro enormi ventri vistosamente compressi in panciotti di raso. Una delle attrici ha in testa una specie di elmo dal quale spuntano due trecce posticce, un’altra porta un cappuccetto adorno di piume. La terza figlia di re Lear, la bambina, ha i capelli sciolti, e porta sui capelli una ghirlanda di fiori di carta. Indossa un caffetano. Le ebree mangiano qualcosina in attesa che si alzi il sipario. Ocmach passa di corsa accanto a loro con il campanello in mano».26 La stessa tonalità è utilizzata per descrivere il pubblico. Abbiamo insomma a che fare con un teatro yiddish mai esistito. Il tono derisorio e sarcastico non è fine a se stesso ma intende rievocare, in una sorta di estremismo poetico, la complessità di un mondo popolare che poi, sul versante più moderno e borghese che fa da sfondo all’azione dei protagonisti, si tinge di noir e di tragedia.
29Un famoso musicista presente allo spettacolo nota però soltanto Lëvuška, virtuoso del violino e lo recluta come proprio allievo. La terza parte si svolge tre anni dopo, a Mosca nel 1912. Rachele, arrivata nella città per completare gli studi di medicina e alla ricerca di Lev, viene cacciata dalla pensione in cui sperava di alloggiare quando scoprono che è ebrea e priva di permesso. Troverà infine alloggio con Baulin, un giovane rivoluzionario, in una pensione che in realtà è un bordello dei più sordidi. Una retata della polizia fa sì che Baulin si getti dalla finestra per tentare di fuggire, rompendosi una gamba, e Rachele sia arrestata per i volantini sovversivi che Baulin aveva nascosto sotto il letto. Dopo avere ricevuto un documento giallo da prostituta, nell’interrogatorio lei si assume la colpa del materiale proibito. La quinta parte si svolge alla stessa altezza di tempo a Berlino. Lëvuška ora è Leo Rogday, un famoso violinista, è smagrito, quasi vecchio; tiene in camera una fotografia di Rachele, e il suo impresario, l’italiano Vittorio Maffi, prosseneta e sentina di ogni vizio, lo deride per la sua ingenuità, lo imbottisce di assenzio e gli promette di farlo «diventare un vero uomo».
30Nello stesso albergo vengono assunti Baulin e Rachele, lui come addetto alle caldaie, lei come stiratrice. I due innamorati si sfiorano, senza accorgersi uno dell’altro. Maffi procede nell’iniziazione di Leo Rogday, portandolo a casa della baronessa Grennier, in un ambiente dalle apparenze aristocratiche dove viene presentato come il Conte di Rongday all’affascinante Hélène, la figlia della baronessa che in realtà è costretta a prostituirsi. La sera stessa Maffi concede la giovane a un proprio creditore e Rongday, pur attratto da lei, non può far niente perché sta partendo per una lunga tournée all’estero. Parte dunque, non senza avere sfiorato inavvertitamente ancora una volta Rachele in albergo. Passano due anni – siamo dopo il 1914 – e Rongday torna a Berlino. Lo incontriamo nell’imminenza di un concerto affollatissimo. Lui è smagrito, intossicato dall’assenzio e ora anche dalla morfina. A fine concerto, Rachele, che ha compreso di chi si tratta, chiede di lui tra le quinte del teatro, ma incontra Maffi, che la convince a seguirlo a casa Grennier, dove la fa arrestare come criminale russa da riconsegnare alla polizia del suo paese. Rongday drogato e ubriaco rientra casa Grennier e ascolta non visto un dialogo tra Maffi e i suoi sottoposti, capisce che la casa è un bordello e che lui è soltanto una ulteriore fonte di guadagni per la banda. Disperato cerca Hélène e la trova a letto con l’anziano creditore di Maffi, di cui porta via la dentiera che riposava in un bicchiere.
31Intanto Rachele detta la propria confessione e la vicenda precipita verso il finale. Rachele fa cadere una statua su Maffi, ferendolo gravemente ma senza riuscire a ucciderlo e cerca di sapere dove si trovi il suo amato. Il poliziotto l’ammanetta e la trascina via. Passando nella stanza contigua, i due trovano il corpo di Rongday che si è impiccato stringendo in mano la dentiera del vecchio. Maffi spara a Rachele senza colpirla e centra la mano di Rongday, che lascia cadere la dentiera. Dopo di ciò vediamo Rachele – che è stata rilasciata in quanto rifugiata politica – e Baulin. Lei ha i capelli completamente grigi. «E ora, dove andiamo?», si chiedono, e la risposta è «Ora andiamo in Russia» (a fare la rivoluzione).
32La trama di Babel’ è dunque completamente diversa dall’originale. Il suo è un grottesco estremo, spietato tanto nei confronti del vecchio mondo ebraico quanto nei confronti del mondo moderno, che, come s’è visto, è accusato di distruggere ogni talento. Alle prese con questo soggetto estraneo, Babel’ si lancia in una scrittura differente da quella delle altre sceneggiature e dei copioni teatrali: il suo stile è sovraccarico, sarcastico, macabro, delinea un noir che diventa ideologicamente accettabile in quanto premessa alla catartica azione rivoluzionaria.
33Il film27 diretto da Grigorij Gričer-Čerikover,28 lo stesso regista di Benya Krik e Durkh trern (Attraverso le lacrime), prescindeva quasi completamente dalla sceneggiatura di Babel’, non soltanto perché si concludeva con un melenso e improbabile lieto fine, ma perché, come rilevò tutta la critica del tempo, il regista aveva optato per un «leccato virtuosismo» al fine di creare un prodotto di «medio livello commerciale», come ribadiva un Babel’ deluso e arrabbiato, che definiva il film un’opera «priva di talento, volgare, tremenda».29 Ciò nonostante, Durkh trern fu bene accolto dal pubblico russo del tempo.
34Babel’ aveva una grande stima per il Goset e definiva Michoels «stupendo attore ebraico», però questo episodio segnò una battuta d’arresto nei loro rapporti. In seguito, a metà degli anni Trenta, il Goset diretto da Michoels intendeva mettere in scena il dramma babeliano Tramonto, ma a causa, pare, di una pressione censoria preventiva ciò non fu possibile, e quando lo stesso teatro propose una versione teatrale di Blondzhende shtern, nel maggio del 1941, Babel’ era già stato fatto sparire e assassinato dal regime, dunque l’adattamento fu curato da Yekhezkl Dobrušin, lo scrittore che rivestiva la carica di responsabile letterario del Goset.30
35Osip Lubomirsky, amico e primo storico del Goset, scrisse del film sulla rivista «Der Emes» quando uscì a Mosca. La sua recensione, estetica più che ideologica, disapprovava non tanto l’allontanamento dal testo originale quanto l’avere ignorato la sceneggiatura di Babel’, così ricca di motivi poetici innovativi e forti, più che mai necessari in un clima politico e culturale che si faceva di giorno in giorno più plumbeo: (l’ebreo) Trotskij era ormai in esilio, il Vufku era sottoposto a una purga “antinazionalista” e il film prestava il fianco all’accusa di idealizzare «atteggiamenti patologici della borghesia decadente e pubblicizzare surrettiziamente prostituzione e depravazione».31 Diverse le tristi obiezioni di Itzik Fefer, poeta vicino al Goset, fervente stalinista e informatore della polizia politica, che criticò tutti i tre i film yiddish di quegli anni (Blondzhende shtern, Durkh trern e Benya Krik) perché secondo lui non rappresentavano i lavoratori e la loro lotta contro gli «ebrei borghesi», per concludere sostenendo la tesi secondo cui nell’arte «la classe lavoratrice [sullo schermo e sulla scena] vuole vedere se stessa».
36Durkh trern, il film su cui ora ci soffermiamo, realizza un paradosso, in quanto è il terzo film a tema ebraico realizzato dalla Vufku e dal regista Grigorij Gričer-Čerikover evitando di ricorrere ad autori e registi come Babel’ e Vilner, così da realizzare un’opera inappuntabile secondo l’ideologia marxista in versione bolscevica, di grande richiamo per un pubblico ebraico e non solo. Un primo aspetto del paradosso consiste dunque nel trattarsi di un film yiddish-non-yiddish, un altro nel fatto che questo caso di manipolazione ideologica avrebbe avuto un grande successo, tanto in Unione Sovietica che negli Stati Uniti. Agli spettatori, soprattutto americani, tutta la complessa e delicata materia appariva trattata all’insegna del buon gusto. Dunque vale la pena di tentare di comprendere meglio come ciò sia successo.
37La sceneggiatura era tratta dal racconto di Sholem Aleichem Der farkirshefter shnaider (Il sarto stregato), già molto conosciuto e amato dal pubblico,32 ma attingeva anche ai racconti su Moytl Peyse dem khazans (Motl Peyse il figlio del cantore) e Dos meserl (Il coltellino). Il titolo del film richiama sia il celebre detto di Puškin sulle «risate attraverso le lacrime» sia quanto aveva detto proprio dello Shnaider Maksim Gorkij: «Ho letto, riso e pianto». È un racconto particolarmente felice non soltanto per la riuscita figura del protagonista Motl Peyse, ma anche per la ricchezza di molti personaggi di contorno, tutti divenuti leggendari, almeno nel milieu culturale yiddish. Motl Peyse, uno dei personaggi più riusciti del narratore, qui è trasformato dagli interpreti sovietici in una «figura simbolica del destino delle masse sotto il giogo capitalista» nonché umile profeta del socialismo. In questo senso i cambiamenti introdotti dalla sceneggiatura di I. Skvirskij e del regista Gričer-Čerikover e poi dal film sono molto significativi. Motl Peyse è presentato anzitutto come il rappresentante di una generazione di mezzo tra i “vecchi” e i “nuovi” ebrei, tant’è che all’inizio lo si vede accanto al padre morente, simbolo di un mondo scomparso.
38La storia è ambientata in due shtetl immaginari i cui nomi significano rispettivamente “La tana dei ladri” e “Il latte di capra”, è condotta con un tono lieve ma è molto drammatica e triste, come stiamo per vedere. Quella che per lo scrittore era una riflessione sulla crisi del mondo ebraico premoderno qui si manifesta in un aspro scontro di classe, enfatizzato anche dall’introduzione di nuove situazioni e personaggi, mentre i toni grotteschi e comici del racconto sono decisamente smorzati.
39Nel caso di Durkh trern la distinzione tra la versione restaurata e la prima (nella versione sonorizzata del 1933) è cruciale, in quanto il restauro ci restituisce immagini molto luminose e di potente suggestione, mentre la prima, accompagnata dalla narrazione in yiddish di un intenso Michael Rosenberg, dalla musica, dai “cartelli” originali e diversi sottotitoli, aiuta la comprensione di tutti i temi e le tensioni che convergono nel film.
40L’inizio ha già il tono di una epopea leggera. Dopo i titoli in yiddish vengono presentati i personaggi principali: Shimen-Elye il sarto al lavoro nella cucina di casa, la sua bottega; Tzipe Beyle, sua moglie (Sholem Aleichem la descrive come una virago che lasciava in pace il marito soltanto quando dormiva, qui è una donna grassa e stressata); Bruche, la loro figlia in età da marito (da Sholem Aleichem descritta come «larga e mascolina […] con qualche cicatrice e una voce profonda», qui una graziosa ragazza); Elye, il suo innamorato (nel testo «piccoletto e vanitoso», qui un giovane di bell’aspetto); Pinye, detto “il Cervello”, amico del cuore di Elye; il piccolo Motl, cioè Motele, figlio tra i tanti del sarto (interpretato da Moshe Silberman, un bambino che era già un apprezzato attore del Teatro d’Arte); il rabbino che dirige il cheder, la scuola religiosa per bambini (barba scura, bombetta); il proprietario della locanda di campagna affiliata alla “tana dei ladri”; il professore russo del villaggio; e la protagonista della storia, la capra (e il suo doppio, come stiamo per vedere). Altri personaggi pure importanti come il funzionario di polizia e il barbiere cerusico, entreranno nella storia più tardi. Intanto una panoramica ci mostra le case del poverissimo shtetele, mentre il Narratore, che sarà con noi sino alla fine, comincia a “leggere” Sholem Aleichem.
41Ora eccoci di nuovo all’interno della casa-bottega di Shimen-Elye, che canta e cuce mentre la moglie pesta qualcosa nel mortaio, una bimba piccolissima gioca con la farina, due più grandicelli si accapigliano (il Narratore: «Erano bambini felici soltanto quando mangiavano, altrimenti erano tristi»). Elye sta tornando dopo una lunga assenza, Bruche si pettina, poi esce a incontrarlo. Lui le confessa desolato che in città gli ebrei non trovano lavoro e lei lo invita a risolvere il problema perché altrimenti il padre non acconsentirà alla loro unione. In un flashback,33 Elye racconta che era al servizio di un piccolo tipografo-rilegatore quando è arrivata la polizia ( «Aprite la porta, ebrei!»), ha perquisito la soffitta trovando alcuni opuscoli rivoluzionari e dopo aver devastato il luogo e malmenato il titolare lo ha arrestato.
42Shimen-Elye ha visto la coppia sulla panchina posta dinanzi alla rozza insegna della propria bottega e si precipita ad affrontare il giovane, che subito gli chiede in moglie Bruche e si sente rispondere che prima deve trovare un lavoro, poiché in casa loro non riescono nemmeno a mangiare tutti i giorni. E conclude con la frase che quasi tutti i padri di tutte le culture hanno pronunciato: «Con tutte le ragazze che ci sono, perché proprio mia figlia?». Tornando a casa, Elye trova il proprio padre, il vecchio cantore, morto, la madre e il fratellino Motl affranti. La macchina da presa è sempre fissa, ma il regista ci propone molte inquadrature, primi piani e particolari d’ambiente molto significativi; gli attori di scuola russa sono molto espressivi e di una sobrietà lontana anni luce dagli esagitati melodrammi degli anni Dieci.
43Nel cheder tutti i bambini giocano felici in un caos tremendo, approfittando dell’assenza del rabbino, che rientra con Motele, ora povero e orfano, rassicura la madre ( «Ne farò un uomo!») e lo inserisce nella classe. La scena ha una costruzione ironica, in quanto si mostrano i bambini scatenati anche quando fanno finta di studiare, ondeggiando nella lettura dei testi sacri. Motele è trattato da recluta, preso in giro e oggetto di scherzi, ma si capisce che entro poco sarà uno di loro.
44Mentre Bruche, all’aperto, lava i panni in un mastello e parla con Elye, arriva Pinye, l’amico sempre allegro del ragazzo, che reagisce al racconto delle sue disavventure cittadine proponendo di fare qualcosa insieme, anzi di guadagnare milioni, come promette un manuale del quale ha visto la pubblicità. Detto fatto: Bruche scrive una lettera in russo con la quale ordinano il libro, pagato con i risparmi segreti della ragazza.
45Quando finisce la lezione al cheder, il rabbino spiega a Motele che dovrà pagarsi la scuola badando per qualche ora a una piccolissima handicappata. Intanto Tzipe affronta il marito e gli ingiunge di comprare una capra, foss’anche indebitandosi, per assicurare almeno un poco di latte quotidiano alla famiglia. Shimen-Elye parte per la missione. Intanto Motele, dopo un po’, esce a giocare nel cortile con i compagni, la bimba che ha lasciato trasforma in bambola uno scialle di preghiera, componendo una figurazione molto tenera di fronte alla quale, però, il rabbino si arrabbia, insegue e cattura tutti gli scolari e li rinchiude in una gabbia, prima di riunirli di nuovo nel cheder e chiedere come debba essere punito Motele. Il bravissimo Silberman piange accoratamente e si abbassa i pantaloni, mentre il rabbino si sfila la cintura per batterlo. Lo salva Shimen-Elye, arrivato per comprare la capra. Tutti i bambini ne approfittano per tornare in cortile, mentre Motele si avvia verso casa e sulla strada scopre Elye e Bruche che si baciano. Ogni sequenza è arricchita da brevi intermezzi che delineano un quadro ambientale; sarebbe troppo lungo e poco interessante descriverli a parole, ma il dato fa comprendere perché il film fosse concepito e apprezzato anche per la sua ricca componente documentaria (come accade per altri film yiddish, Yidl mitn fidl soprattutto).
46Il sarto, felice di aver compiuto la propria missione, si reca a festeggiare nella locanda della “Tana dei ladri”, dove trova gente che suona e canta e l’oste che mentre gli serve da bere si offre di portare la capra a riposare nella stalla, dove la sostituisce con una capro dall’identico aspetto. Dopo la bisboccia, il bravuomo torna a casa un po’ barcollante. I suoi (quattro figli piccoli, oltre a Bruche) lo aspettavano per bere il latte, ma sono presi dallo sgomento quando Tzipe torna con il verdetto fatale. Allo sconcertato Shimen-Elye non resta che tornare dal venditore a chiedere spiegazioni.
47Intanto in paese arriva il postino e consegna a Bruche il libro magico (in russo, ovviamente) intitolato Come guadagnare 100 rubli al mese, ad esempio facendo il sidro. I tre giovani, eccitatissimi, si mettono all’opera. Li vediamo mescolare vari ingredienti in una botte mentre leggono e discutono le istruzioni.
48Shimen-Elye, non senza fare tappa all’osteria ed essersi lamentato dell’inganno attribuito al rabbino, si è recato con la capra alla corte rabbinica per chiedere giustizia. Le massime autorità dello shtetl devono sentenziare se la capra sia maschio o femmina, consultano libri e discutono, finché la moglie del rabbino munge la capra e porta agli uomini una scodella di latte. Dopo averlo assaggiato e stabilito che sì, è vero latte, rimproverano aspramente Shimen-Elye e lo cacciano. Il poveretto non se la sente di tornare a casa e, di nuovo all’osteria, racconta bevendo un po’ di acquavite le proprie disavventure. Naturalmente il perfido oste ne approfitta per scambiare di nuovo il capro con la capra. E Shimen-Elye riparte per tornare a casa, ansioso e fisicamente provato.
49Sulla piazza del mercato, Motele vende bicchieri di sidro riempiendoli da una grande brocca, mentre a casa i grandi sono impegnati nella produzione. Una guardia prima assaggia il sidro e poi vorrebbe arrestare il piccolo per commercio illegale, ma i paesani lo aiutano a scappare e lui torna alla “fabbrica”. Arriva anche la guardia, che lo ha seguito, minaccia tutti e si siede a stendere un verbale di denuncia, non senza rimpinzarsi dei dolci che gli offrono.
50Dopo questo incidente, i neoimprenditori decidono di cambiare attività, d’altronde il manuale è ricco di indicazioni in proposito. Il sidro, dicono, è troppo buono per gli zoticoni del paese, passiamo a produrre inchiostro, merce assolutamente legale.
51Shimen-Elye sta tornando a casa con la capra, è sfinito, si sente male. Incontra un gruppo di compaesani che sanno o hanno capito e lo vogliono vendicare, lui però non si regge in piedi e dev’essere anzitutto soccorso. A casa, i fabbricatori d’inchiostro, assai maldestri, fanno una gran confusione e tra l’altro macchiano la divisa bianca confezionata e pronta per il capo della polizia. Quando arriva, Shimen-Elye viene posto a letto e si decide di chiamare l’unico medico dello shtetl, il barbiere, uno che, dice il Narratore, «cura allo stesso modo la malaria e il dibbuk». Lazzimato professionista abbandona tutti i propri clienti mezzi rasati e si reca a esaminare il paziente.
52Intanto i nostri cercano di vendere l’inchiostro, ma nessuno lo vuole.
53I paesani nel frattempo partono in corteo, armati di bastoni, e assediano la corte rabbinica, dove vengono ricevuti e chiedono giustizia. Arriva anche l’oste, che manifesta tutto il proprio disprezzo per la folla di poveracci, li caccia a forza ed esce inseguendoli. Ma la gente radunata fuori finisce per circondarlo e picchiarlo. Sarà l’arrivo della polizia a salvarlo. Queste scene, assai animate, sono girate con una certa maestria e con uno stile di montaggio chiaramente influenzato da film come La corazzata Potëmkin, già universalmente considerato un capolavoro. Alla rivolta ha partecipato da protagonista anche Motele, lanciando per primo una manciata di fango contro l’oste.
54I giovani, intanto, hanno posto la loro insegna scritta a mano a coprire quella del sarto, con la speranza di attirare clienti, ma l’unica a presentarsi è una bimbetta che chiede un poco d’inchiostro in prestito per la sorella che deve scrivere al promesso sposo in America. Il sarto, che si è ripreso, ha scoperto la divisa rovinata ed è terrorizzato al pensiero delle conseguenze. Quando il capo della polizia arriva per ritirarla, Shimen-Elye non può che mostragliela promettendo di rifarla, mentre i giovani si nascondono. Un cartello avverte: «Arriva la tempesta!». E qui la comicità surreale del film assume l’aspetto di una fantasia gogoliana: nella cucina-atelier le finestre si chiudono da sole, i manichini si mettono a danzare e il gatto scappa per lo spavento. Quando il capo della polizia, urlando minaccioso, finalmente se ne va, anche gli oggetti si tranquillizzano.
55Shimen-Elye strappa il cartello dei ragazzi, mentre arriva Motele con un gruppo di paesani solidali ai quali racconta l’accaduto.
56La scena seguente ci mostra il capo della polizia che torna e legge al poveretto un decreto di espulsione. Dopo cinquant’anni «sofferti come un animale in gabbia», dovrà lasciare entro ventiquattr’ore il paese con tutti i suoi famigliari: ciò per essere stato causa di disordini e offese ai pubblici poteri.
57Bruche, Elye e Motele, lo anticipano e fuggono dal paese per andare altrove in cerca di libertà e lavoro. Il sarto e la moglie, scossa dal pianto, caricano su un carro le loro povere cose, i bambini e partono. La folla che protesta è controllata dai minacciosi militari a cavallo. Passando davanti alla casa del capo della polizia, che seduto in giardino ascolta un grammofono appena acquistato, Shimen-Elye gli consegna una nuova divisa, che il grassone indossa prima di rimettersi a leggere il giornale e ignorando ostentatamente l’attesa del pagamento da parte del partente. Anzi lo caccia. E il carro è scortato da soldati a cavallo fuori del paese. Con il campo lungo di quel povero monumento alla “sfortuna ebraica” che si allontana finisce Durkh trern.
58È un finale che vedremo ripetersi nel caso di Tevye il lattivendolo, il segno di una sconfitta tristissima e tuttavia non definitiva. Gričer-Čerikover teneva a enfatizzare la povertà degli ebrei e la repressione di cui erano stati oggetto sotto il regime zarista, ma soprattutto aveva messo l’accento sulle contraddizioni di classe tra ebrei e sulla solidarietà tra poveri. Gli attori, qui, sono tutti bravi, mai esageratamente melodrammatici, e il regista li valorizza al massimo. Il piccolo Moshele Silberman è oggetto di molte sequenze e primi piani nei quali dimostra di essere un consumato, ma mai manierato, attore. La satira del severo insegnamento religioso impartito ai bambini e della corte rabbinica è privilegiata, qui, a scapito dell’anticlericalismo a tutto campo di Sholem Aleichem.
59Uno degli aspetti che maggiormente colpirono il pubblico dei due continenti fu quello pseudo-documentario, molto accurato. In questa occasione l’autore-regista del film fu attento a intrecciare continuamente il dramma con un certo umorismo, per cui anche la critica dell’oscurantismo proprio dell’ebraismo tradizionale, per quanto sovraccarica, non scade nell’antisemitismo, come invece sarebbe accaduto nel film successivo dello stesso Gričer-Čerikover, pienamente russo, La fiera di Soročinkij, dove la derisione degli ebrei aveva un deciso sentore di odio. Lo scopo educativo di Durkh trern si concretizzava mostrando diversi aspetti di quel mondo con un intento critico accettabile per gli spettatori degli anni Trenta, cittadini di un mondo molto diverso. Gričer-Čerikover fu molto abile nel fare leva anche sull’ambiguità della nostalgia, presentando il mondo scomparso dello shtetl, al cui centro stava una vivace comunità (colta nelle scene di strada e del mercato) che rievocava un passato da tutti definitivamente dimenticato con il passaggio al comunismo o con l’emigrazione.
60Tra il 1925 e il 1930 molti volumi di Sholem Aleichem erano tradotti in russo e l’autore era oggetto anche di affollate letture pubbliche. Quando Solomon Michoels recitava Dos meserl in yiddish, una buona metà del pubblico composta di non parlanti yiddish lo capiva ugualmente e reagiva con entusiasmo. Un testimone americano, però, riferisce di essersi trovato accanto ad alcuni intellettuali ebrei di sinistra che irridevano performer e spettatori: «Idioti, applaudono colui che esalta il sottoproletariato, il poeta degli ebrei con la barba…».34 I critici sovietici ebbero reazioni differenziate rispetto al film, ma tutti sottolineavano che per apprezzare il presente ai più giovani si dovesse mostrare com’era la vecchia Russia antisemita. Il dogmatico Itzik Fefer evitò questa volta la solita reprimenda del “dare voce ai lavoratori” per rilevare che prima delle lacrime in Sholem Aleichem ci sono l’ironia e la comicità; forse fu lui a suggerire la nuova titolazione del film per l’esportazione, Risate attraverso le lacrime.
61La versione con sonorizzazione e narrazione in yiddish presentata nel novembre del 1933 allo Acme Theater di New York ebbe una tenitura di sei settimane a sala esaurita. Un noto attore come George Jessel ebbe a dichiarare di avere goduto ogni istante del film e lo raccomandava dicendo: «È un classico, ne sarete rapiti». Per comprendere il successo americano bisogna pensare alla distanza abissale culturale esistente negli anni Trenta tra il vecchio mondo ebraico dei padri e di nonni e quegli spettatori, distanza che consentiva loro di guardare alla vita nello shtetl con tenerezza ma anche con la certezza degli irreversibili passi avanti compiuti.
62Abbiamo detto che Durkh trern è un’opera yiddish-non-yiddish, un’operazione culturale basata su una sorta di marketing ideologico (di partito) e, in questo caso, destinata al successo. È interessante, in questo senso, guardare anche al teatro yiddish degli anni 1928-1933 e in particolare a ciò che si faceva in America per rendersi conto che la cultura ebraica stanziata nel nuovo mondo si poneva problemi simili. La sincronizzazione tra le istanze artistiche e gli orientamenti ideologici, da una parte, e il riscontro economico dall’altra è ciò che caratterizzava anche l’operato di Maurice Schwartz a quell’altezza di tempo.
63Oltre al rimandare al quarto volume nel quale tali vicende sono raccontate accuratamente, merita ricordare che anche Schwartz tendeva a ridimensionare la drammaturgia di autori come il “tradizionale” Goldfaden e il “moderno” Gordin e a mettere in scena opere ambientate nel mondo ebraico del passato, chassidico in particolare. Nel suo caso, però, ciò avveniva non per esaltare il luminoso presente, capitalista o socialista che fosse, bensì per constatare come fosse necessario e al tempo stesso difficile fare i conti con quel passato perché oltre ai suoi lati oscuri da cui congedarsi definitivamente esso era la rappresentazione reale e metaforica di cosa significasse l’entrata nel mondo moderno, poneva la questione di quali fossero i nuovi valori del melting pot americano da condividere e quali i tratti identitari da non perdere.35
64È dunque molto significativo che Schwartz allestisse nella stagione 1928-1929 il dramma di Sholem Asch Kiddush Hashem (Santificazione del Nome), su uno degli episodi più cruenti della storia ebraica, che aveva visto il massacro di oltre centomila ebrei. Uno spettacolo di tale severità e non concepito per suscitare una banale sentimento di compatimento doveva essere «grandioso» per attirare un vasto pubblico. E così fu: con i fondi di una sottoscrizione popolare il nostro mise insieme una compagnia di alto livello, investendo molto anche in scene e costumi, registrando un grande, unanime successo.36
65Nello stesso torno di tempo, Paul Muni passava definitivamente al cinema di lingua inglese e un approccio in tal senso dei produttori di Hollywood a Schwartz si risolveva in un nulla di fatto. Però, mentre continuava a pensare al proprio sbarco nel cinema, Schwartz realizzava esperimenti coraggiosi in scena, ad esempio allestendo Spettri di Ibsen e Il mutilato di Toller, con la conseguenza di dover chiudere il teatro dopo poche repliche per non accumulare passivo. Sperimentare significava anche fare sciocchezze come uno “Shylock on Broadway”, vaudeville basato tre frammenti del Mercante di Venezia. Questi esiti fallimentari ebbero però anche un effetto benefico, perché gli diedero materia di riflessione e tempo libero durante il quale si dedicò alla realizzazione cinematografica di Onkel Moses, grandiosa, benché spigolosa, rappresentazione dell’ebraicità nell’America del tempo. Il film (sul quale più avanti si sofferma Alessandro Cappabianca) uscì nell’aprile 1932 ed ebbe un notevole riscontro di pubblico e di critica, oltre a risollevare le finanze dell’autore.
66In quei giorni, commentando la situazione generale del teatro, il critico William Schack scriveva che gli artisti del teatro yiddish non comprendevano come i tempi fossero cambiati e si ostinavano a «ricorrere alla vecchia efficace farmacopea delle facili risate e lacrime» ( «New York Times», 25 settembre 1932).
67Ma la sintesi e il trionfo di tutti questi motivi si ebbe nel 1932 con Yoshe Kalb, lo spettacolo tratto dal romanzo di Israel Joshua Singer, anch’esso concepito come un kolossal. In Yoshe Kalb il tema del tramonto del mondo chassidico e la drammatica impossibilità di decidere del proprio destino che costringeva gli ebrei più sensibili a un esilio anzitutto da se stessi fu decantato nel più grande spettacolo yiddish di tutti i tempi.37 Tra Kiddush Hashem e Yoshe Kalb l’America era stata colpita dalla più grave crisi economica della propria storia, crisi che avrebbe prodotto nell’ambito artistico e culturale effetti devastanti e al tempo stesso uno strepitoso fermento creativo.
68Zayn ekstselents (Sua Eccellenza), del 1928, possiamo vederlo in una versione accuratamente restaurata, benché mancante di una bobina. Secondo il regista Grigori Rošal,38 il contenuto del film era talmente delicato da richiedere la supervisione del ministro sovietico della cultura Anatolij Lunačarskij. La sceneggiatura era firmata dal regista con la sorella e la moglie e il film fu realizzato nei nuovi studi Belgolskino di Leningrado, nei quali comunque, afferma Rošal, si lavorava in «condizioni primitive». Zayn ekstselents ripercorre la storia di Hirš Lekert, un calzolaio militante bundista che nel 1902 aveva tentato di assassinare il generale Viktor Van Wahl, governatore di Vilnius, per vendicare la fustigazione feroce inflitta a molti lavoratori che avevano preso parte a una marcia di protesta. Qui l’azione è spostata intorno al 1905, in una città non precisata, e Lekert è identificato soltanto come «un combattente ebreo». Questo perché Lenin si era dissociato dalle celebrazioni in memoria di Lekert con le stesse motivazioni avanzate nel film contro le «vendette individuali», ma soprattutto – e la sceneggiatura su questo non si sofferma – perché i bundisti erano tacciati di «nazionalismo piccoloborghese» e considerati acerrimi rivali dei comunisti; il Bund era stato soppresso dopo l’Ottobre e i bundisti di estrema sinistra erano confluiti nel partito comunista.39
69Anche questo film, come i precedenti, era concepito come una critica dell’individualismo e soprattutto intendeva mettere in rilievo le contraddizioni di classe interne alla comunità ebraica. Per questo gli ebrei sionisti borghesi vi erano rappresentati come i nemici più infidi proprio perché più prossimi degli ebrei proletari. Sua eccellenza fu il primo film prodotto su ordine diretto del Dipartimento di Agitazione e propaganda, con la raccomandazione di realizzarlo in modo che potesse essere compreso e apprezzato «da milioni di spettatori». Nel solco della nobile tradizione inaugurata da cineasti come Pudovkin e Ejzenštejn, Zayn ekstselents è un’opera che appare molto curata, oltre che interpretata da grandi attori come Leonid Leonidov,40 del Teatro d’Arte di Mosca, chiamato significativamente a impersonare nel film sia il governatore che il rabbino capo della comunità, e Nikolaj Čerkasov,41 nei panni del clown alto e magro. Čerkasov avrebbe conquistato la fama come protagonista dei film di Ejzenštejn Aleksandr Nevskij e Ivan il Terribile. J. Untershlak e Tamara Edelheim sono gli equivalenti di Hirš Lekert e della sua amata Rivele.
70Sua Eccellenza si apre con una scena nella prigione cittadina: in una cella affollata di prigionieri politici ammucchiati gli uni sugli altri e assopiti (tra essi vi sono anche alcune donne), arriva il governatore per arringarli e minacciarli. Di fronte al loro atteggiamento non sottomesso ordina che a ognuno di loro siano impartite cinquanta frustate, incurante del fatto che potrebbero ucciderli. Si procede, quindi, anche con le donne. Le inquadrature si susseguono velocemente, mentre all’interno di esse i movimenti degli attori sono eseguiti quasi al rallentatore e una forte accentuazione espressiva è assunta dal sapiente gioco di luci e ombre, che fa emergere i vari aspetti drammatici di cui ogni personaggio è portatore. Sarà così per tutto il film, sia in interno che all’esterno, sia di giorno che di notte, conferendo un accento espressionista a una narrazione che procede con un solido stile realistico e non più melodrammatico come nei film degli anni Dieci.
71In un povero alloggio di fortuna, una cantina, una giovane donna di quelle prima incarcerate giace in un letto, il suo compagno trae da un nascondiglio una pistola e la carica. Lei è Rivele, figlia adottiva del rabbino capo della città, lui è un giovane rivoluzionario. Dopo un’alternanza di immagini che mostrano diversi personaggi e situazioni rappresentativi della tensione che domina la città, si assiste a una riunione del comitato clandestino rivoluzionario. Un esponente del partito avverte di fare attenzione agli estremisti, che possono danneggiare la causa con azzardate azioni individuali. Le frustate hanno rafforzato, secondo lui, la volontà di tutti i militanti. Ai margini dell’assemblea vediamo un sarto che ricuce pazientemente gli abiti rovinati dei presenti. Un segnale li avverte che la polizia sta entrando a perquisire il luogo, che è anche la loro tipografia, dunque prelevano il materiale stampato e si danno alla fuga. Le donne che s’incontrano per strada si raccomandano l’un l’altra di fare attenzione a che i mariti non si espongano troppo nei disordini annunciati. Il giovane gira mostrando la sua pistola. Un’altra scena ci mostra Rivele con il rabbino, suo padre adottivo, che tenta di convincerla a lasciare i rivoltosi e di fronte alla sua impassibilità giunge a maledirla e scacciarla, anche per la sua peccaminosa relazione con un goy. I compagni del giovane armato lo avvertono di non tentare azioni individuali perché, dicono, «le vendette non fanno le rivoluzioni» e «bisogna prima armare le masse». La scena contrapposta a questa mostra una riunione, in una casa borghese, dei dirigenti dell’Orda Nera, che si preparano e si armano per dare una lezione ai rivoluzionari. Siamo alla vigilia del primo maggio. Lindomani un corteo popolare e pacifico marcia verso il centro della città, ma viene attaccato e disperso da uno squadrone di cosacchi a cavallo che non esitano a uccidere diversi dimostranti inermi. Le sequenze dei cosacchi a caccia delle loro vittime in un quartiere in rovina sono cinematograficamente molto forti: la macchina da presa non è mai in movimento ma le diverse inquadrature si susseguono a un ritmo incalzate, alternando campi lunghi a primi piani. Gli ebrei ortodossi, intanto, riuniti in preghiera nella sinagoga, parlano della paura che le manifestazioni possano giustificare un pogrom che nuocerebbe anche a loro. Mentre i cosacchi sparano e uccidono, il rabbino condanna i rivoluzionari ebrei come apostati.
72Dopo questi fatti, nascosti i numerosi feriti in una cantina, mentre di nuovo i prigionieri sono gettati in cella gli uni sugli altri, per Sua Eccellenza il governatore l’ordine è ristabilito. In funzione di contrappunto a ciò lo spettatore è portato ora ad assistere a una cena in una casa di ricchi ebrei, che si consolano dicendo di essere sionisti e contrari ai rivoluzionari, i quali vanno giustamente puniti, cosa che va comunicata alle autorità.42 Nella città si vedono rovine e cadaveri e gli ebrei borghesi dicono ai membri attoniti della comunità che comunque ai «ciarlatani saranno inflitte soltanto frustate». Gli stessi poi vanno a trovare il rabbino e lo convincono a chiedere udienza al governatore, il quale invece si rifiuta persino di riceverli. Nella scena dell’incontro tra il rabbino e il governatore (ricordiamolo: interpretati dallo stesso attore, irriconoscibile agli spettatori) i due hanno movimenti lentissimi che ben esprimono l’incertezza della situazione. Il rabbino raccomanda di punire soltanto i colpevoli, non tutta la comunità, e il governatore acconsente, precisando però che intende estirpare le radici della rivolta. Al che il rabbino, spaventato, osa confessare che sua figlia è tra loro.
73A questo punto, dopo uno stacco (siamo oltre i cinquanta minuti) cominciano le bellissime sequenze finali. Il governatore va al circo, il passatempo che predilige, dove assistiamo al numero dei due clown, uno spaventosamente grasso e piccolo, l’altro magro e altissimo; i due aprono una grande sfera dalla quale sbuca la soubrette-acrobata. Le tribune del circo d’inverso sono affollate di rivoltosi tutti dotati di bouquet di fiori che a un certo punto lanciano verso gli artisti, creando una confusione nella quale fiocca una pioggia di volantini. Lo spettacolo è interrotto e il governatore promette: «Gli farò vedere cosa significa ribellarsi».
74Il governatore furioso, con i suoi, dà disposizioni per una repressione totale e scaccia i capi della comunità ebraica venuti per ribadire la loro sottomissione, ma intimando loro di provvedere a frenare i loro correligionari. I notabili ebrei si recano perciò dal rabbino chiedendogli cosa fare e questi, anche pensando alla propria figlia, si limita a dire che sono scomunicati e che la legge di Israele è contro di loro.
75Il rivoluzionari si riuniscono per decidere che fare. Lo pseudo-Hirš agita la pistola e dichiara che si propone di utilizzarla, ma i capi di nuovo gli obiettano che il partito è contrario alle azioni individuali e che se si uccidesse il governatore ne nominerebbero subito un altro. Mentre Rivele, nel suo rifugio, aspetta inquieta il precipitare degli eventi, la scena si sposta di nuovo al circo. È una sera fredda e ventosa, il pubblico scarseggia, ma c’è il governatore e c’è il giovane ormai deciso ad agire, che lo osserva accarezzando la pistola. Il clown grasso è ora un militare baffuto, proiezione del governatore, mentre quello magro è il suo prigioniero, tutto tremante in attesa dell’esecuzione. Qui l’atmosfera è decisamente espressionista, l’intenzione non è certo quella di fare ridere lo spettatore, semmai di metterlo di fronte alla paura e all’orrore che fanno da premessa all’azione che seguirà. Il clown alto e magro viene colpito da uno spruzzo di sangue e crolla a terra morto. Nel proprio palco il governatore è distratto in quanto impegnato a bere, ma quando comprende cosa accade in pista, comincia ad agitarsi. Entra una barella per portare via il clown morto, che però resta a terra e ammicca al pubblico, prima di seguire a piedi il proprio funerale. Al che quello grosso dice «Ma è ancora vivo!» e ride, ma poi, notando la reazione irritata del governatore, è paralizzato dalla paura.
76Il governatore se ne va platealmente e quando, davanti al circo frustato da un vento che ne strappa i manifesti, sale sulla propria carrozza, è inseguito dal giovane rivoluzionario, che gli pianta una pallottola nel petto. Mentre il giovane, che crede o spera di avere ucciso il governatore, viene arrestato e picchiato da militari e borghesi, uno stacco mostra Rivele, in attesa accanto alla finestra con la speranza di vederlo tornare. Invece una didascalia avverte che «il processo fu veloce». Rivele incontra i compagni e questi la informano che il prigioniero non è in condizione di chiedere clemenza. Ciò mentre gli ebrei altolocati, seduti a tavola, celebrano la propria salvezza: «Se non avessimo emarginato quel delinquente, avrebbe rovinato tutti i nostri affari». Rivele, rimasta sola, ha capito che il suo uomo sarà impiccato. Una didascalia avverte: «E la sua sepoltura è sconosciuta». Poi vediamo le strade della città e del quartiere ebraico battute dal vento e deserte e un ultimo cartello recita: «Il partito e la classe lavoratrice hanno ottenuto la vittoria lasciando sul terreno molte vittime».
77Anche un film e un regista minori nel 1928 non potevano che risentire positivamente di una cinematografia sovietica evoluta tecnicamente e poeticamente. Zayn ekstselents non è certo un film sofisticato come quelli di Ejzenštejn, Protazanov e Pudovkin, ma è tutt’altro che disprezzabile e merita di essere conosciuto anche per la manipolazione ideologica di cui è portatore. Il film è spesso involuto, vi sono analessi incongrue attorno alla data fatidica del primo maggio. Grigori Rošal sarà sempre un regista modesto, caratterizzato da uno stile che è un misto di realismo e di espressionismo, con interni chiaramente teatrali, a volte sorprendenti, come le scene del circo che ricordano la Fabbrica dell’Attore Eccentrico (Fabrika ekscentriceskogo aktëra, Feks) o quelle chiaramente influenzate da Sciopero di Ejzenštejn. Esportato negli Stati Uniti nel 1929 con il titolo Seeds of Freedom il film fu accolto tiepidamente, anche dal pubblico e dai critici simpatizzanti dell’Unione Sovietica, ma la stampa di sinistra si limitò a sottolinearne gli aspetti positivi.43
78Il cinema muto yiddish sovietico annovera anche altri film. Grigori Rošal vi sarebbe ritornato per l’ultima volta (avrebbe poi avuto una carriera da ligio artista sovietico fino agli anni Sessanta) nel 1930 con A mentsh fun shtetl (Un uomo dello shtetl, rus. Čelovek iz mestečka),44 sceneggiato con la moglie e la sorella dai racconti di Sholem Aleichem David Gorelick, Il sognatore e La pausa), con partitura musicale sincronizzata. Veniamin Zuskin era il protagonista David Gorelik, un giovane povero che mentre combatte nell’esercito zarista riconosce tra i nemici tedeschi il vecchio amico Brandt. I due disertano e si uniscono all’Armata Rossa, ma quando Brandt, che aveva assunto la responsabilità di commissario politico, è condannato per malversazione, David, designato per comandare il plotone d’esecuzione, compie il proprio dovere, nonostante la crisi di coscienza, soffocando la propria sofferenza interiore. Questo interrogativo sulla eliminazione fisica del nemico è un tema caro a Babel’ e ai suoi protagonisti, ma con Rošal i personaggi dei rivoluzionari sono decisamente più stereotipati45 al fine di ribadire l’imperativo ideologico che gli ebrei devono dare la precedenza alle logiche di classe rispetto a quelle di appartenenza.46 Dopo la guerra Gorelik viene nominato direttore di una fabbrica sovietica di scarpe, dove di nuovo mostrerà la propria virtù opponendosi alle prepotenze di alcuni controrivoluzionari, fino a rimanere ucciso. Il film annuncia con poetica brutalità la liquidazione delle politiche “nazionaliste” degli anni Venti (in proposito è utile ricordare che nel gennaio 1930 furono liquidate tutte le sezioni “nazionali” del partito e nello stesso tempo cominciarono consistenti ondate di arresti). Comunque quella di Zuskin fu considerata da tutti una superba interpretazione e, seppure riconoscendo le evidenti forzature propagandistiche, A mentsh fun shtetl fu accolto molto bene accolto negli Stati Uniti.
79Il film Motl shpindler (Motl il sarto) è purtroppo perduto e non si sa nemmeno se entrò in circolazione. Ciò perché il regista Vladimir Vilner non convinceva i supervisori ideologici e infatti ebbe una carriera piuttosto breve nel cinema. Non piaceva nemmeno a Itzik Fefer, il bolscevico di ferro informatore della polizia politica, che accusava il cinema yiddish di essere arretrato rispetto a quello propriamente sovietico in quanto rivolto ossessivamente verso il vecchio mondo ebraico.
80Motl shpindler era tratto esclusivamente dall’omonimo racconto di Sholem Aleichem che aveva per protagonista appunto un povero sarto (interpretato da Y. Mindler); tra gli altri protagonisti vi erano Matvei Lyarov e A.D. Goričeva, sempre presenti nei film della Vufku d’argomento yiddish. Motl, qui costretto ad andare in guerra e sballottato tra funzionari zaristi corrotti e militari sadici, deriva da un tipo fisso del teatro e del folklore yiddish. Sua sorella Rosa (Yuliya Solntseva, moglie del regista Alexander Dovženko) è costretta a sposare il depravato figlio di un fabbricante di scarpe. Per venirle in soccorso Motl diserta, o vorrebbe disertare. La bobina mancante non consente di ricostruire tutta la trama, si sa però della conclusione tragica, con l’umile sarto ucciso al fronte nello stesso momento in cui sua moglie e suo figlio sono massacrati durante un pogrom. Prima dell’evento conclusivo si assiste alla cacciata degli ebrei dalla città per ordine dello zar, con l’accusa di collaborare con il nemico tedesco. Per sottolineare le contraddizioni di classe si mostrano gli ebrei ricchi in fuga, ai quali è assegnata una scorta, che riempiono un camion di oggetti preziosi e banconote.
81Il film uscì nel 1934 a New York con il titolo Eyes That Saw (Gli occhi che videro) e con la speranza, disattesa, di ottenere lo stesso successo di Durkh trern.
82A dire il vero, gli studiosi di cinema citano anche alcuni altri film dello stesso periodo di quelli di cui ci siamo occupati, ma senza darne molte notizie, anzi per lo più limitandosi ai titoli.47
83Negli anni Venti il sessanta per cento degli ebrei stanziati negli Stati Uniti si spostarono nei quartieri newyorchesi di Brooklyn e del Bronx. L’esistenza di un pubblico ebraico così cospicuo e facilmente raggiungibile spinse Hollywood a produrre film che potessero interessarlo, magari come parte della platea più vasta del melting pot. Il produttore Samuel Goldwyn in particolare fu il committente di alcuni «ghetto melodrama» sull’onda del successo ottenuto dal primo di essi, Humoresque (1920),48 prodotto dal miliardario razzista e reazionario William Randolph Hearst. Humoresque è un film completamente americano su una coppia di genitori ebrei che si sacrificano per permettere al figlio Abraham di coltivare la propria vocazione musicale. Una volta diventato un famoso violinista, il giovane viene chiamato in guerra e ne torna disabile. Sembra definitivamente sconfitto dalla vita, ma la madre lo aiuta e lui poco a poco riesce a riprendere in mano il violino. Humoresque era uscito tra l’altro nel momento in cui l’industriale Henry Ford dava il proprio sostanzioso contributo all’antisemitismo pubblicando una versione dei Protocolli dei Saggi di Sion, il falso russo sul complotto mondiale giudaico.
84Un altro «ghetto melodrama» era stato Cheated Love49 (1921), remake di un corto di Sidney M. Goldin del 1913 prodotto dalla Universal, mentre la Samuel Goldwyn Company si rivolse alla scrittrice Anzia Yezierska, recente immigrata, per Hungry Hearths. Furono entrambi tentativi parzialmente riusciti di sfruttare i temi che avevano successo sulle scene della Second Avenue, tentativi analoghi a quelli compiuti nell’ambito del teatro Uptown, ad esempio con la proposta di Humoresque interpretato dalla diva di origine irlandese Laurette Taylor, improbabile yidishe mame del giovane Luther Adler, oppure Boris Thom che provava a recitare Uptown, come d’altronde faceva anche Schwartz, con Anathema in inglese: tutti flop da cui ricavare importanti insegnamenti, ma ci sarebbero voluti diversi anni perché si comprendesse che il teatro yiddish era “intraducibile”.
85Rosa Rosanova, protagonista di Hungry Hearths, era veterana della scena yiddish e recitava qui nel ruolo per il quale erano state interpellate anche Celia Adler, Sarah Adler e Bessie Thomashefsky. I produttori cinematografici ebrei puntavano sul melting pot e l’assimilazione, con un certo successo se consideriamo che Hungry Hearths fu seguito da film come In Hollywood with Potash e Permutter (1924),50 una commedia di Montague Glass diretta da Alfred Green, protagonisti Alexander Carr, George Sidney e Vera Gordon, His People,51 Surrender52 e soprattutto We Americans,53 riuscita commedia sugli ebrei del Lower East Side, nella versione teatrale recitata da Morris Strasberg e Paul Muni al suo debutto in inglese dopo aver lasciato per sempre Schwartz. Lo straordinario successo ottenuto da Muni dimostrava che temi ebraici resi “universali” e un convinto innesto della teatralità yiddish sulla scena in lingua inglese funzionavano. In questo modo la scena yiddish si impoveriva, ma il teatro e il cinema americani si nutrivano di nuovi sapori e colori.
86La difficile sopravvivenza dello spettacolo yiddish era dovuta anche al sopravvenuto blocco dell’immigrazione, che dal 1925 comportava una netta diminuzione dei parlanti yiddish negli Stati Uniti, mentre i centri della cultura yiddish tornavano a essere, verso la fine del decennio, alcune grandi capitali europee, anzitutto Varsavia.
87Benché tratto da un romanzo di Anzia Yezierska, autrice che per prima raccontava al grande pubblico delle donne ebree catapultate dai più diversi paesi nel Lower East Side, anche Hungry Hearths è un film essenzialmente “americano”, definito dalle cronache del tempo «un classico dolceamaro» e, per dirla più schiettamente, un melodramma con ambizioni realistiche, in parte riuscite e in parte no a causa dell’overacting (la recitazione enfatica e gigionesca) di alcuni degli interpreti americani.
88La vicenda ha inizio nel 1910 in un piccolo villaggio russo nel quale scorre una serena vita campestre. Nella capanna della famiglia Levin, il pio Abraham insegna clandestinamente ai bambini le tradizioni ebraiche, utilizzando, nel tentativo ingenuo di superare eventuali controlli di polizia, non il Talmud ma un vecchio libro su Leggi e costumi di Israele. Le donne, secondo l’uso, sono impegnate nei molteplici lavori quotidiani. Arriva il solito cosacco prepotente, che minaccia Abraham di infliggergli dieci anni di prigione se continuerà a farlo e scaccia i bambini a frustate. Hanneh piange, ma il marito continua a sostenere sorridendo che c’è sempre speranza.
89Una paesana riceve una lettera del fratello Gedalyeh, già misero portatore d’acqua, dall’America. Abraham è incaricato di leggerla e lo fa dinanzi a una piccola folla attenta e pronta a commentare ogni passaggio in modo colorito. Gedalyeh afferma di essere diventato un uomo d’affari, proprietario di una rispettabile bancarella di banane e mele nel Lower East Side e di guadagnare ben due dollari al giorno. La lettura della missiva è un momento assai toccante, specie quando si tratta del passaggio riguardante il fatto che in America le donne sono rispettate al punto di cedere loro il posto a sedere e capita persino che gli uomini lavino i piatti: mentre i paesani sono sconcertati o assumono atteggiamenti derisori, le donne ridono felici. Gedalyeh aggiunge il particolare stupefacente di avere una stanza tutta per sé, con una porta alla quale la gente deve bussare per entrare, proprio come un re. E conclude dicendo che nella goldene medine chiunque può diventare presidente e lui conta quanto Rockfeller.
90Dunque l’imperativo diventa vendere tutto e raggiungere il «ghetto dove gli immigrati arrivano con i cuori affamati e il loro carico di sogni». Per partire, i Levin vendono tutto ciò che hanno (anche le pellicce «che tanto in America non servono perché c’è sempre il sole»). Quando arrivano nella nuova Terra Promessa, Gedalyeh li accoglie e li conduce al loro alloggio attraversando l’affollato Lower East Side. I Levin sono incantati e al tempo stesso sconcertati: la loro guida è elegante e indossa i guanti, «come una donna!», ma il sole non si vede, di fiori nemmeno l’ombra e la casa loro destinata è un piccolo antro scuro per il quale dovranno pagare dieci dollari al mese.
91Dopo una vivace carrellata nel mercato, vediamo la giovane Sara che dichiara la propria intenzione di lavorare e diventare qualcuno, perché – le hanno detto – in America non si è nessuno finché non si guadagna. Il vecchio Abraham ha ora una propria bancarella, ma è disorientato, non ricorda a quale prezzo deve vendere la frutta e gli portano via tutto quanto sottocosto.
92A questo punto il film ci presenta un altro giovane, David, un avvocato fresco di laurea. Lo zio Rosenblatt, che lo ha mantenuto agli studi, anziché complimentarsi, gli ricorda il suo debito e lo incarica di riscuotere l’affitto dai propri inquilini, tra i quali ci sono i Levin, che nel frattempo sono tutti in attività, con Sara che fa le pulizie per Rosenblatt e i tre figli più piccoli impegnati come shoeshine di strada.
93Abraham torna a casa, dove per festeggiarlo hanno preparato un pranzetto di fegato con la cipolla. Gli hanno persino rubato il carretto, ma lui ha portato un cappellino in regalo alla moglie, acquistato con ciò che ha ricavato vendendo il proprio orologio al macellaio Sopkin. Quando i suoi familiari capiscono cosa è successo, piombano nello sconforto, ed ecco arrivare l’avvocato-esattore.
94Gli spettatori assistono a un immediato scambio di sguardi appassionati tra David e Sara, ma poi, quando lui se ne va rinunciando a riscuotere l’affitto, Sara scoppia a piangere: «Perché noi possiamo soltanto guardare il benessere degli altri?», si chiede. La crisi è superata quando Gedalyeh la fa assumere nello sweatshop di cui è caporeparto. Anche l’innocente Abraham si mette ancora alla prova con le assicurazioni sulla vita, ma è troppo preso dallo studio del Talmud per concludere affari.
95Quando arriva di nuovo David per riscuotere l’affitto, Abraham lo invita a fermarsi. Madre e figlia, colte alla sprovvista, si danno da fare per imbastire una cena, inviano i piccoli a chiedere ai vicini una cipolla e un poco di pepe e a rimediare un’altra sedia. Sara legge un testo ebraico e lo spiega con orgoglio a David, che su questo versante è completamente ignorante, si offre di pagarle una scuola serale e infine la bacia furtivamente (sulla guancia). Al che Sara si precipita dalla madre per sussurrarle che «il cielo sta precipitando sulla terra!». Nel laboratorio di sartoria, il suo capo Gedalyeh, che sta per mettersi in proprio, chiede la mano di Sara, ma lei gli dice che c’è un altro. Infatti all’uscita dallo sweatshop David la aspetta e poi su una panchina l’abbraccia pudico chiedendola in moglie. In famiglia sono entusiasti di questo fidanzamento e Hanneh, che ha scoperto la bellezza della cucina tutta bianca dei signori per quali lava la biancheria, si mette al lavoro per tinteggiare la propria casetta.
96Rosenblatt, l’avido proprietario, ha seguito il nipote e irrompe in casa Levin. È furioso, accusa David di essere sceso al livello di una «banda di morti di fame» e quando questi gli dice che intende sposare Sara reagisce con l’annuncio che gli taglierà i fondi. Ora però è Sara a dirgli che devono rompere la loro relazione e lo invita ad andarsene. Rosenblatt esce insultando i Levin e annunciando che da quel momento gli devono un affitto raddoppiato. Hanneh lo segue in strada: «Non c’è dunque giustizia in America?», poi, in un ascesso di follia, torna in casa, accarezza e bacia i muri dipinti e prende a distruggere tutto con una mannaia. È questa una scena particolarmente realistica e impressionante, tutto merito dell’attrice. Il guardiano del palazzo avverte il padrone e arrivano i poliziotti (per Hanneh sono “i cosacchi”) che la trascinano via fendendo la folla solidale del quartiere.
97Il mattino dopo, in tribunale l’aula trabocca della comunità ebraica di poveri immigrati. Quando tocca a Hanneh di essere interrogata, nel momento in cui il giudice le chiede se ha un avvocato, ecco arrivare David, che annuncia di essere il suo difensore. Alla fine della propria deposizione, dopo avere ammesso la propria reazione incontrollata e avere invocato la «giustizia americana per il povero», Hanneh sviene. Segue l’interrogatorio del landlord, al quale il giudice rivolge una secca paternale democratica deliberando infine di annullare la causa e multandolo per il suo comportamento oltraggioso. Per i Levin dunque «C’è giustizia!», come ribadisce la didascalia.
98Apprendiamo che è passato un anno, mentre l’inquadratura ci mostra una bella casetta di periferia nel cui giardino giocano i piccoli Levin benvestiti. A Sara e David abbracciati, gli amici, il macellaio Sopkin e Gedalyeh, predicono che dopo qualche causa vittoriosa andranno a vivere nella Fifth Avenue.
99La retorica di Hungry Hearths è assolutamente speculare e simmetrica a quella dei film obbedienti all’imperativo del realismo socialista (che sarebbe diventato legge una dozzina di anni dopo), solo che qui il paradiso alla portata di tutti è costituito dal neocapitalismo americano. Rosa Rosanova è una Anna Magnani yiddish, benché decisamente in sovrappeso, e insieme a Helen Ferguson (Sara), e a E. A. Warren, (Abraham), recita su tutta la tastiera del sentimental-patetico fino alla ottimistica conclusione che fa coincidere il mito della goldene medine con l’apertura su quella “felicità possibile” che quasi sempre connota le poetiche yiddish.
100A Sidney M. Goldin andrebbe dedicata una monografia, come d’altronde agli altri importati autori e ispiratori del cinema yiddish. Non è un compito alla portata della nostra serie, che comunque attinge alla messe di notizie e di annotazioni critiche su di loro presenti in tutte le pubblicazioni sul cinema yiddish qui citate. Il nostro incontro con lo spettacolo yiddish guarda soprattutto agli attori e dunque a Molly Picon, protagonista di alcuni film di cui stiamo per occuparci. L’attrice è la protagonista di un volume di questa serie, mentre dei suoi film si occupa nella prossima sezione Marida Rizzuti.
101Nel 1923 Molly Picon aveva venticinque anni e pesava quarantacinque chili «contro gli ottanta delle altre prime attrici».54 Era nata in America nel 1898 e il marito Jacob Kalich l’aveva convinta della necessità di un lungo soggiorno in Europa per imparare bene lo yiddish e formarsi come attrice secondo un modello ancora eccentrico per le scene americane, tanto per le sue caratteristiche fisiche e vocali quanto perché orientata verso una caratterizzazione cabarettistica dei personaggi.
102In Austria già aveva preso parte a due film, uno dei quali (Hütet eure Töchter – Attento a tua figlia) diretto dall’eclettico Goldin. In questo caso il regista accettò con entusiasmo l’idea dei giovani coniugi di creare una casa di produzione e girare un film yiddish da distribuire in diversi paesi. I due pensavano, e i fatti diedero loro ragione, che il film sarebbe servito anche a presentare la nuova Picon sulle scene della goldene medine.
103Fu lo stesso Goldin a provvedere un soggetto e una sceneggiatura che potessero rispondere ai diversi interessi convergenti nell’operazione, compresi i propri, miranti a una distribuzione europea. Mizrekh un mayrev (Est e ovest) racconta di un ricco ebreo americano, un grossolano olraytnik (allrightnik) che nemmeno conosce l’ebraico e scambia un libretto di preghiere per un libretto di assegni, interpretato dal corpulento Goldin. Questi torna nella propria città natale in Galizia per un matrimonio di parenti portando con sé la figlia (Molly Picon), una ragazzina americanizzata che ne combina di tutti i colori, ad esempio concedendosi una furtiva abbuffata con i cibi preparati per la festa di Yom Kippur. Nello shtetl c’è anche Ruben, un giovane studioso del Talmud (interpretato da Kalich) proveniente dalla Russia polacca. La ragazza, impertinente e insofferente delle convenzioni esistenti in quell’ambiente ebraico piccoloborghese e moderatamente tradizionalista, inscena uno scherzoso matrimonio con il barbuto talmudista, matrimonio che poi risulta essere vero, dato che lui le ha messo l’anello dinanzi a due testimoni. Quando il pasticcio viene a galla, il giovane accetta di concedere il divorzio religioso (get) all’assai turbata giovinetta, ma, nonostante le pressioni ricevute, soltanto dopo i cinque anni previsti da un’altra norma religiosa. Trascorso questo tempo, tutti i protagonisti si ritrovano, questa volta a Vienna, città in cui l’ex studioso scontroso e barbuto è diventato un apprezzato «orientalista» e ha pubblicato un libro intitolato Est e ovest, naturalmente cambiando completamente d’aspetto. A sua volta la ragazzina sta diventando una donna, s’innamora di quel giovane che non ha riconosciuto e al quale non osa manifestarsi in attesa del divorzio. Dopo qualche ulteriore buffa peripezia si giunge all’agnizione finale e alla formazione di una nuova coppia.
104Mizrekh un mayrev è nei contenuti un film diverso da tutti gli altri, ma il messaggio che lancia è chiaramente assimilazionista, con un forte accento sul fatto che gli ebrei avrebbero dovuto abbandonare molte delle proprie tradizioni, proprio come il giovane studente religioso, che ottiene il successo dopo essersi liberato della barba, degli abiti tradizionali ed essere diventato uno scrittore laico, benché non del tutto mondano. Hoberman cita un critico viennese del tempo, tale E. G. Fried,55 che apprezzò la differenza con i melensi e mal recitati film a tema ebraico (senza specificare a quali si riferisse, presumibilmente a quelli tedeschi) e la rappresentazione di veri caratteri ebraici, anche se la sceneggiatura non si segnalava certo per l’alta qualità letteraria. Un’opinione piuttosto accondiscendente la sua, come possiamo constatare oggi vedendo il film. Comunque la grazia e l’umorismo di Molly riscattano un quadro di moderata volgarità d’occasione e si può ammirare un insieme di buoni attori provenienti per lo più dal teatro. Resta il debole messaggio che gli ebrei si dovessero liberare della barba lunga e del kapote per diventare cittadini europei. Mizrekh un mayrev ebbe un discreto successo, battendo nella tenitura viennese persino Il monello di Chaplin, e fu distribuito anche in Romania e a Parigi. Nel frattempo Molly era rientrata in America e si presentava in quello che sarebbe stato uno dei suoi spettacoli di maggior successo, Yankele, nel quale interpretava la parte di un ragazzetto, variante moderata del luftmentsch, destinato a diventare una vera e propria maschera yiddish. Strillato come «The Greatest Sensation from Europe», il successo di Yankele frenò la volontà della coppia di tornare in Europa per realizzare altri film. Nel giro di un paio d’anni, Molly Picon ebbe il proprio teatro e si affermò come la più pagata star yiddish della storia.
105L’istanza assimilazionista olraytnik (perbenista), sempre criticata dall’intellighenzia ebraica, può essere vista come il classico bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, ma segnalava, come dimostrò il riscontro di pubblico, l’orientamento maggioritario dell’emigrazione ebraica.
106Altro film prodotto in Austria nel 1924 e diretto da Sidney M. Goldin fu Yiskor (Ricordo, ovvero Preghiera del ricordo). Il regista-produttore approfittò della presenza in Europa della compagnia di Maurice Schwartz per girare in ambienti assai simili a quelli in cui s’era svolta la vicenda storica e aggiungendo attori austriaci lo spettacolo già portato in scena dal Teatro d’Arte Yiddish nella stagione precedente. Un’idea molto pratica che produsse un risultato oltremodo deludente. Protagonista è Leybl o Leybke, un celebrato martire sulla cui tomba ogni anno si celebrava la Preghiera del ricordo.
107Nell’anniversario del martirio gli ebrei del luogo si recano sulla tomba di Leybke per ricordarlo. Il film si apre con il corteo che giunge al luogo sperduto nel bosco in cui c’è la tomba di Leybke e il rabbino, dopo la preghiera rituale, ne racconta la storia a uno dei bambini presenti. Per lo spettatore la storia comincia con la vista del magnifico castello in cui vivono il dispotico Conte Zsaky e la sua adorata figlia Helena. In una fattoria vicina vive il giovane Leybke con la propria madre adottiva (cattolica).
108I soldati della guardia sono gelosi di Leybke perché il provveditore generale del Conte lo frequenta da amico e lo preferisce a loro. Mentre Leybke, il Provveditore e la madre mangiano e conversano in allegria, sopraggiunge il Gobbo del castello e riferisce delle maldicenze dei soldati, al che Leybke esce d’impeto, lotta con il loro capo e lo atterra. Poi raggiunge sul bordo di un laghetto Kreyndl, la figlia dell’oste. I due si baciano e si recano a casa della ragazza per annunciare alla Nonna cieca la loro intenzione di fidanzarsi. Arriva anche un messaggero a dirgli che il conte lo ha nominato guardia. Tutti sono contenti, ma la Nonna gli ricorda che in quanto ebreo deve ricordarsi del suo patto con Dio.
109La guardia che aveva battuto nella lotta, Stefan, gli resta profondamente ostile. Quando il conte e la figlia tornano da un viaggio, tutti quanti si recano a rendere loro omaggio, gli ebrei portando la Torah da baciare e pane e sale beneaugurali. La nuova guardia Leybke dona al Conte la pelle di un orso che ha ucciso con le proprie mani. Helena lo guarda con occhi trasognati, poi lo invita nei propri alloggi con una scusa e lo nomina capitano della guardia, atto che lo farà odiare ancora di più dagli altri. Il suo ufficio prevede che debba accompagnare la contessina nelle cavalcate mattutine e la donna ne approfitta per tentare un approccio. Ma è respinta e se ne torna da sola.
110Durante la cena del venerdì Leybl chiede Kreydl in sposa alla Nonna e a papà Zimel. La Nonna benedice i promessi. Si passa poi ai preparativi di matrimonio e alla festa vera e propria, che comincia nell’attesa del promesso, il quale nel frattempo è stato convocato dalla contessina che, con la scusa di brindare al suo matrimonio, lo fa bere ripetutamente e gli si getta addosso. Leybl reagisce con sdegno e lei sviene. Al Conte sopravvenuto, la figlia rivela che lui ha tentato di baciarla. Leybke, che nel frattempo si è tolto la divisa e va a cavallo verso casa, viene raggiunto da due guardie e arrestato. Al castello, Helena ribadisce le proprie accuse davanti a tutti e l’allibito Leybke è gettato in una cella.
111Intanto, a casa, lo aspettano invano, poi partono a cercarlo, mentre il rabbino cerca di consolare i parenti. Il Provveditore e il Gobbo, che sanno cos’è accaduto, vanno in prigione, distraggono il guardiano impegnandolo in una partita a dadi e consegnano a Leybke una lima con la quale egli sega le sbarre e fugge. Arrivato a casa, il giovane racconta tutto. Il rabbino consiglia di celebrare immediatamente le nozze, cosa che avviene, e invita gli sposi a fuggire.
112Mentre tutte le guardie sono scatenate alla ricerca di Leybke, il Conte emette un ordine secondo il quale se il fuggitivo non si consegnerà entro quarantott’ore dieci ebrei finiranno in prigione al suo posto. La piccola comunità reagisce in modo difforme: alcuni non vogliono pagare per lui, uno si offre di prenderne il posto. Dopo due giorni dieci ebrei sono imprigionati e il Gobbo corre ad avvisare Leybke, che immediatamente si consegna in prigione per liberarli.
113La scena si sposta al castello, dove è in corso una grande festa con balli e libagioni, durante la quale appare a sorpresa, trascinato da una guardia e ripetutamente frustato un uomo coperto da una pelle d’orso, che infine crolla a terra. Si tratta naturalmente di Leybke, che viene di nuovo trascinato in cella mentre la festa riprende. La contessina è sconvolta e lo raggiunge in cella per ribadirgli la sua volontà di essere amata, alla quale lui risponde, con gli occhi al cielo e le mani sul cuore: «Puoi umiliarmi, torturarmi ma il mio amore appartiene a mia moglie». A che Helena reagisce ingerendo un veleno che aveva con sé, nell’agonia gli chiede perdono e spira. Le guardie accorrono, le campane suonano a stormo, qualcuno avverte il Conte e la corte che Helena è morta per colpa dell’ebreo. Al funerale, il padre sconvolto e furente si chiede quale potrebbe essere la vendetta più efficace ed è Stefan, la guardia battuta da Leybl, a suggerire (ispirato da un ridicolo diavoletto) di seppellirlo vivo. Subito viene convocato il becchino di corte.
114La madre adottiva di Leybl prega Cristo, la comunità ebraica si riunisce in preghiera e quindi si reca dal conte con ricchi doni. Invano. Una didascalia avverte di sfuggita che il cielo guada a questo crimine senza fare niente. Dopodiché l’azione si sposta nel cimitero, dove il giovane, prima di essere gettato in una fossa, alza lungamente gli occhi al cielo. Come durante tutto il film, nessuna azione violenta è mostrata realisticamente. Un “cartello” avverte che dopo tre giorni i suoi resti furono prelevati dagli ebrei, e una volta celebrati i riti di purificazione a essi fu data degna sepoltura nel luogo in cui ogni anno si riunisce la comunità per ricordare. Un’ultima didascalia rivolge a Dio la richiesta di proteggere il suo popolo dai despoti che si accaniscono contro gli innocenti.
115Il racconto del film può soltanto rendere più interessante una materia che nella realizzazione, pur tecnicamente degna (ma niente di più), è trattata con una malagrazia poetica e stilistica davvero impressionante. Se avessimo a disposizione soltanto questo film per giudicare Schwartz lo condanneremmo senza appello; se la cavano meglio i suoi attori, specie Isidore Cashier nei panni del Provveditore. Ma soltanto un poco meglio. Prescindendo da una impossibile valutazione estetica dettagliata di questo film lento e stucchevolmente serioso, con scene brevi che sembrano lunghissime, resta da accennare al discorso che articola. Allora definito «Jüdischer Tendenzfilm», ovvero di propaganda, il messaggio è in qualche modo il contrario di quello di Mizrekh un mayrev: qui, nell’ambientazione settecentesca, la comprensione e la fusione tra ebrei e gentili sono denunciate come impossibili. Per ribadire però come la cronaca confonda la storia dobbiamo ricordare che, sebbene giustamente strapazzato dalla critica, Yizkor ebbe un breve successo internazionale e comunque dimostrava che si poteva trarre un film da uno spettacolo teatrale, a patto di montarlo con una logica diversa (anche se in questo caso del tutto priva di grazia). Dopo Yizkor, Goldin tornò in America e film yiddish in Austria non se ne fecero più. Yizkor sarebbe stato rifatto in versione sonora con il titolo The Prince and the Pauper.
116Alcuni anni dopo la conclusione della Prima guerra mondiale, la Polonia visse un periodo di rinascita e di sviluppo. L11 novembre del 1918 il Maresciallo Józef Piłsudski, da poco liberato dai tedeschi, aveva proclamato l’indipendenza della Polonia dopo centoventitré anni di occupazione straniera, diventando capo dello stato, comandante supremo e conducendo poi vittoriose guerre che avrebbero portato a una reintegrazione dei confini. Dal 1921 il paese ebbe una nuova costituzione. Piłsudski, con un colpo di stato nel 1926, sarebbe rimasto al potere fino alla sua morte, nel 1935. A quel tempo gli ebrei costituivano circa l’otto per cento della popolazione.
117Il primo film yiddish del dopoguerra in Polonia fu Tkies kaf (Il voto),56 la cui importanza consiste nel fatto di essere un raro documento audiovisivo sulla grande stagione del teatro yiddish polacco degli anni Venti. Benché la Polonia fosse tra i più importanti paesi al mondo per l’industria cinematografica e il teatro yiddish, una produzione cinematografica a tema ebraico stentava a decollare a causa del pervasivo antisemitismo crescente nel paese. Nel 1924 furono due neoprofessionisti come Henryk Bojm e Leo Forbert ad adattare per lo schermo questo dramma di Perets Hirshbeyn. La loro impresa ambiziosa fu ripagata da uno dei maggiori riscontri di pubblico del decennio, soprattutto grazie agli attori teatrali di alto livello cui aveva fatto ricorso. E fu in base a questo precedente che più tardi, nel 1933, un gruppo di attori yiddish di New York decise di dare nuova vita al film nell’era del sonoro, aggiungendo una narrazione e nuove scene.
118Il voto è, nelle due versioni, in un certo senso un precursore di Dibbuk, del 1937, soprattutto per quanto riguarda il senso della storia, imperniata sull’amore inappagato tra due giovani e la questione del voto inizialmente non rispettato: lo studente di yeshiva e l’orfana profondamente innamorati l’uno dell’altra ma separati dagli eventi nonostante i rispettivi genitori li avessero destinati l’uno all’altra da prima della nascita. Soltanto l’intervento miracoloso del profeta consentirà di rispettare il voto e ai due giovani di unirsi nell’amore.
119Nella prima versione muta del 1924 gli attori mostrano qualche difficoltà nel recitare per la macchina da presa, a differenza di quelli degli anni Trenta. Bojm veniva da una famiglia chassidica di stretta osservanza, che aveva lasciato da adolescente, mettendosi a girare la Polonia per realizzare ritratti fotografici. Poi aveva aperto uno studio nei pressi della capitale e dalla fine della Prima guerra mondiale si era concesso alcune piccole prove letterarie. Dalla fotografia e la scrittura fu naturale per lui pensare di passare al cinema come sceneggiatore e trovò infine un produttore in Leo Forbert, ebreo assimilato proprietario della Meteor con il quale creò la Leo Film anche con un chiaro intento di resistenza e protesta contro il progressivo «pogrom freddo» alimentato, o non contrastato, dal governo. Bojm scrisse la sceneggiatura pensando a Ester Rokhl Kaminska, a sua figlia Ida e a Zygmunt Turkow, che aveva sposato Ida nel 1921 e fuso le compagnie delle reciproche famiglie. Turkow interpretò nel film, al quale parteciparono alcuni dei migliori attori del tempo, diversi ruoli, o meglio il profeta Elia che che si presenta in varie sembianze. Il direttore della fotografia era Seweryn Steinwurcel, cugino del produttore, che già godeva di un’alta reputazione. Prima di allora i due avevano prodotto alcuni film polacchi, senza grande esito; per questa occasione volevano Goldin come regista, ma questi era impegnato con Yizkor, per cui le riprese iniziarono senza una guida. Turkow era perplesso. Il più esperto di ripresa era Steinwurcel, che però non sapeva dirigere gli attori, al che Turkow subentrò nel ruolo di regista.
120Tkies kaf fu il primo film yiddish polacco autonomo da uno spettacolo, una esperienza nuova per tutti. Turkow dirigeva la suocera primattrice, la moglie, il cognato e la cognata, insomma la registrazione non troppo esperta di grandi interpreti ancora segnatamente teatrali, che tendevano a recitare, come si deve in teatro, per gli spettatori dell’ultima fila e non per la macchina da presa. Di conseguenza il tentativo di realismo è talvolta rovinato da manierismi teatrali, più vistosi nelle scene di interni, girati in un piccolissimo studio nel quale prevalgono i gesti didascalici e le pose artificiose. Gli esterni – di migliore qualità per le posizioni della macchina da presa che favorivano la recitazione cinematografica – furono girati a Vilnius e Varsavia. Il montaggio era quasi inesistente. Le didascalie furono preparate in polacco per il mercato interno e in yiddish per l’esportazione.
121Lesito economico di Tkies kaf consentì di realizzare l’anno seguente Der Lamedvovnik (Uno dei Trentasei Giusti). La regia fu affidata questa volta a Henryk Szaro, ebreo russo di nascita, un giovane assai dotato che si era formato a Mosca con Arbatov e Mejerchol’d e che alla fine degli anni Venti aveva conquistato la reputazione di uno dei migliori registi del paese. Jonas Turkow (fratello di Zygmunt) e Moyshe Lipman erano i protagonisti.
122In uno shtel attaccato dai russi durante la rivolta polacca del 1830-1831, uno tsaddik (Turkow), uno dei Trentasei Giusti che secondo la tradizione portano sulle proprie spalle il peso del mondo, si sacrifica per la propria città. Il film fu girato a Kazimierz (come poi sarebbe stato il caso di Yidl mitn fidl) e Sandomierz per gli esterni, e per gli interni si fece ricorso questa volta a un grande studio. Della pellicola pare non esistano copie. Lo storico del cinema polacco Jerzy Toepliz57 afferma che i problemi evidenziati dal film precedente erano stati risolti, ma la risposta del pubblico fu assai debole e ciò mise nei guai Forbert, oltretutto poco abile come imprenditore, costretto a cedere la società che da allora in poi produsse soltanto film strettamente polacchi.
123Nonostante dal 1926 le cose non andassero bene per Forbert e Bojm, il governo guidato da Piłsudski assicurava al paese un periodo di relativa calma, anche per aver posto fine (almeno) all’antisemitismo di stato e alla promozione di sentimenti nazionalisti esasperati. La Forbert Film scelse il romanzo In poylishe velder (Nei boschi polacchi) di Joseph Opatoshu. Uscito nel 1921 e subito diventato un best-seller In poylishe velder era ambientato al tempo del confronto tra chassidismo e Haskalah nell’Europa orientale, mettendo l’accento sulla decadenza della dinastia chassidica fondata dal Rebbe Mendel di Kotzk e sull’unità tra polacchi ed ebrei durante le rivolte del 1861-1863. Gli eroi ebrei del romanzo spergiurano, rubano, ballano, si ubriacano, sono insomma sfrenati e vitali. Il soggetto era adatto a Bojm, anche se più difficile che adattare rispetto a un dramma o alla creazione di una storia originale, oltretutto partendo da un romanzo conosciuto dal grande pubblico. Comunque sia, Opatoshu incoraggiava Bojm e gli interpreti, collaborava con loro e visitava il set durante le riprese.
124Il protagonista è tale Mordkhe che lascia la famiglia per studiare con un rabbino e poi si arruola per combattere contro i russi. L’attore Jonas Turkow era incaricato della regia: se ne sentiva all’altezza e dichiarava di voler lavorare «su basi realistiche» per creare una presentazione artistica di questa epopea della vita ebraica. I ruoli principali erano ricoperti da sua moglie Diana Blumenfeld e Silven Rich, Forbert si occupava di scene e costumi. Partecipavano al film anche diversi attori non ebrei, per la prima volta artisti yiddish e polacchi lavoravano insieme. Gli esterni furono girati a Kotzk e dintorni, gli interni in studio a Varsavia.
125Purtroppo non sapremo mai come fosse In polishe felder. La sua uscita fu bloccata dalle proteste della potente organizzazione ultraortodossa Agudas Israel, che ottenne dall’ufficio censura di visionarlo e chiese di tagliare le sequenze che a loro parere dimostravano «tendenze liberali e antireligiose», «orge», un bacio tra amanti e persino un uomo e una donna che camminavano insieme verso casa del rabbino, cosa proibita. In realtà ce l’avevano contro il senso del film il cui giovane protagonista rompeva con le tradizioni. Il risultato dell’intervento censorio fu un triste collage senza carattere, che ebbe un pubblico limitato e fu totalmente disapprovato dalla critica.
126Con l’arrivo della Grande Depressione del 1929 non ci sarebbe stata più un’altra occasione per Bojm e Forbert. Non che mancassero le idee, Bojm ne aveva tante, ma non c’era denaro. I due tornarono alla fotografia (ma Bojm collaborò alla versione sonora del film, nel 1937), mentre Steinwurcel, ormai affermato come uno dei migliori direttori della fotografia, sarebbe tornato ai film yiddish nel 1937 con Der purimshpiler e nel 1939 con Mamele e A brivele der mamen. Zygmunt Turkow lo incontreremo ancora in pellicola, mentre suo fratello Jonas e la cognata Diana Blumenfeld non uscirono più dai confini del teatro.
127Negli Stati Uniti, Maurice Schwartz, pur deluso dalla mancata riuscita di Yizkor, si era però innamorato del cinema e si sarebbe messo alla prova, o avrebbe desiderato farlo, sino alla fine dei suoi giorni, beninteso considerandolo un’attività non alternativa a quella teatrale. Con Gebrokhene hertser (Cuori infranti) nel 1926, Schwartz debuttò come regista, oltre a essere protagonista del film tratto dal dramma teatrale di Solomon Libin, che nel 1903 era stato un grande successo per Jacob e Sarah Adler. Fu una scelta di comodo, più astuta che di qualità: un copione di non grande valore poetico venne riciclato nella sceneggiatura di Frances Taylor Patterson, non disprezzabile scrittrice, seconde le regole ormai codificate di Hollywood. La trama fu ulteriormente involgarita per irrobustire il ruolo di Schwartz e darle un happy end. Nonostante la presenza di alcuni dei suoi migliori attori come Isidore Cashier, Wolf Goldfaden, Anna Appel e Julius Adler, assai collaborativi e duttili, e di Henrietta Schnitzler moglie del produttore, bella donna ma attrice evanescente, e persino all’immissione nel cast di una star del cinema come Lila Lee, non esistono appigli che consentano di salvare il film (anche se alcune caratterizzazioni come quelle di Goldfaden e soprattutto di Cashier sono come sempre di grande finezza). Ciò perché Schwartz era letteralmente sopraffatto dai mille compiti del regista cinematografico, tutti nuovi per lui, chiaramente a disagio con la macchina da presa e l’organizzazione del set e faticava a dirigere gli attori, essendo oltretutto impegnato come protagonista. Anche qui, dunque, per diversi motivi, è al di sotto dei propri standard, come risultò chiaro a tutti. Le difese d’ufficio delle recensioni del tempo lasciano trasparire la mancata riuscita di Gebrokhene hertser in tutti i suoi aspetti, senza nemmeno le attenuanti di un’operazione di alta cultura.
128Il film, con didascalie in inglese e in yiddish, inizia nella modesta casa del rabbino-cantore Esterin (Wolf Goldfaden), dove regna la serenità, tutto è musica e canto, compresi il canarino in gabbia e l’attività della mamma (Bina Abramowitz) tra le stoviglie. Mentre si prepara la cena del venerdì, alcuni bambini mostrano al cantore-rabbino come sanno leggere. Un “cartello” ci presenta Benjamin Rezanov (Schwartz), seduto su una panchina, un po’ spaesato, che cerca di decifrare un giornale americano e poi guarda con desiderio la vetrina di una panetteria nella quale non si può permettere di entrare. Il montaggio alternato mostra il cantore che introduce l’argomento del matrimonio con la figlia, dicendole che Mr. Kruger (Charles Nathanson), il presidente della sinagoga, dunque il suo datore di lavoro, sostiene che lei sarebbe una buona moglie. Benjamin Rezanov è un giovane scrittore fuggito dalla Russia zarista. Quando incontra un conoscente russo gli racconta (e noi lo vediamo) come abbia lasciato, nascosto sotto un carico di patate, la propria famiglia e la moglie a cui ha promesso un rapido ricongiungimento in America. Il conoscente gli procura un lavoro e Benjamin diventa un pensionante di Victor Kaplan (Isidore Cashier), il simpatico e mite vicino di casa del cantore Esterin. Lavorando di giorno e studiando di notte, il giovane si prepara a «dare il meglio di sé all’America». Intanto gli presentano Ruth (Lila Lee), che fa da baby sitter ai Kaplan. Presto i due prendono a frequentarsi: Benjamin insegna il russo a Ruth e impara da lei l’inglese, ma – avverte un cartello – tra loro è già in corso una comunicazione più profonda con «il linguaggio universale dell’amore».
129A casa dei ricchi Kruger, intanto, un sensale propone come sposa per l’elegante e fatuo rampollo la bella figlia del cantore e i genitori olraytnik acconsentono a visitare la famiglia Esterin. I due innamorati sono talmente assorti che Ruth rientra in ritardo e ha la sorpresa di trovarsi di fronte al promesso voluto dai genitori, ma, lasciata sola con lui, lo offende e causa la fuga dei Kruger. La signora Kaplan (Anna Appel) arriva a intercedere per Benjamin, che poi il cantore affronta personalmente chiedendogli: «Cos’hai da offrire a mia figlia?» e di fronte alla reticenza del giovane torna dalla figlia per dissuaderla.
130Dopo un brusco stacco (forse manca un tratto di pellicola), vediamo invece che Ruth e Benjamin sono sposati, sembrano felici e vivono in un bell’appartamento. Arriva la signora Esterin, è la prima volta dopo la rottura, riabbraccia la figlia ma si mostra turbata di fronte al genero. Altro stacco e arriva una lettera dalla Russia per Benjamin, intercettata dalla signora Kaplan, che la legge e trasecola. Ester (Henriette Schnitzer), la moglie russa, scrive di essere in prigione a Kiev, informa che il regime zarista sta per crollare e chiede al marito di rientrare. Dopo un passaggio dagli Esterin, Victor Kaplan porta la lettera a Ruth e Benjamin, che trova felicemente allacciati in un valzer. Leffetto è devastante, anche perché Benjamin informa subito la moglie dell’accaduto, si dichiara dispiaciuto e, con la mesta approvazione di lei, si appresta a partire per la Russia e fare fronte ai propri doveri. Ruth sussurra che lo amerà sempre e lo accompagna fin sulla nave.
131Kruger padre obbliga per vendetta il rabbino a celebrare il matrimonio del figlio Milton e poi, durante la festa nuziale, lo deride. Il poveretto ha un sussulto d’orgoglio e se ne va provocando lo sconcerto dei fedeli. Nel frattempo Ruth tra i pettegolezzi cattivi dei vicini vive con il piccolo che ha partorito. Per sopravvivere si è adattata a lavorare in uno sweatshop, ma comunque non ce la fa. Si presenta dunque a casa dai suoi nel Giorno dell’Espiazione, la madre la riabbraccia commossa e dopo un’esitazione anche il padre, che poi vediamo cantare in sinagoga per invocare da Dio una consolazione per i «cuori infranti». Il finale edulcorato del 1926 prevedeva che Rezanov tornasse in America e riprendesse la sua nuova vita nella felicità generale, mentre nella versione del film rifatta sei anni dopo, in edizione sonorizzata con il titolo yiddish Di umgliklekhe kale e inglese The Unfortunate Bride, Rezanov non ritorna e la seconda moglie muore di crepacuore. La sposa sfortunata aggiunge un prologo parlato e cantato, che spesso torna in forma di analessi, e un commento musicale continuo, di non eccelsa qualità. Come s’è detto, manca l’ultima bobina, per cui il finale dev’essere ipotizzato in base ai resoconti (peraltro non chiarissimi). Nel prologo parlato di circa sette minuti l’anziano Esterin è interpretato dal fidato attore schwartziano Michael Goldenberg, che aveva in effetti soltanto trentadue anni. Il rabbino rivolge a Ruth e a un suo fratello ancora ragazzini un sermone sentimentale alternato a canti, costellato di auguri e ambigui presagi per il loro futuro, e si conclude con la didascalia che indica come il cuore di un cantore sia dedicato a Dio e la sua voce al popolo.
132Il film che, a differenza del dramma, celebrava il successo ottenuto in America, fu un silenzioso insuccesso. E fu anche l’ultima pellicola yiddish muta negli Stati Uniti. Con l’arrivo del sonoro, ampiamente annunciato e pieno di incognite, si stava per aprire una stagione completamente diversa. I frammenti oggi visibili ci autorizzano a classificare Gebrokhene hertser come un fallimento comunque istruttivo per Schwartz, il quale avrebbe affrontato le prove successive con ben altro piglio.
Notes de bas de page
1 Jay Leyda, Kino: A History of the Russian and Soviet Film cit., p. 69.
2 Per la sua produzione cinematografica cfr. Imdb, ad vocem.
3 Jay Leyda, Kino: A History of the Russian and Soviet Film cit., p. 83.
4 Cfr. Yuri Tsivian, Jakov Protazanov, in Encyclopedia of Early Cinema, Routledge, London 2005, pp. 541-542, e Imdb, ad vocem.
5 Tisse debuttò come sostituto di un collega proprio in Signal. Subito apprezzato dal settore, ebbe la propria consacrazione come direttore della fotografia affiancando Ejzenštejn in Sciopero! nel 1924 e per La corazzata Potëmkin (1925), cui seguì Ottobre nel 1928. Per la sua filmografia cfr. Imdb, ad vocem.
6 Cfr. Amy Sargeant, Vsevolod Pudovkin: Classic Films of the Soviet Avant-garde, I.B. Tauris, London 2000.
7 Dopo le polemiche suscitate da Nascita di una nazione (1915) per l’equivoca deriva razzista della seconda parte in cui si esaltava il Ku Klux Klan nell’azione di ristabilimento dell’ordine negli stati del sud dopo la Guerra di Secessione, Griffith, turbato se non pentito, tentò di rimediare con Intolerance (1916), montaggio parallelo di quattro storie ambientate in tempi e luoghi molto diversi: l’America di quegli anni, tra lotte sociali e nascente proibizionismo; il massacro della Notte di San Bartolomeo in Francia; la Palestina al tempo di Gesù; Babilonia prima della conquista da parte di Ciro di Persia. Intolerance divenne una sintesi della violenza nel mondo, con i suoi singoli episodi che acquistavano valenza universale grazie al continuo montaggio straniante. Ma il messaggio pacifista del film non fu particolarmente apprezzato e ciò portò al fallimento del regista-produttore.
8 Cfr. Zvi Gitelman, Century of Ambivalence. The Jews of Russia and the Soviet Union, 1881 to the Present, Second Expanded Edition, Indiana University Press, Bloomington 2001, cap. 2, “Revolution and the Ambiguities of Liberation”, pp. 64-71.
9 La sua storia è ricostruibile attraverso i vari riferimenti che gli dedica Jay Leyda, Kino: A History of the Russian and Soviet Film cit., e rappresenta un caso paradigmatico di imprenditore che si sarebbe messo al servizio del nuovo regime con impegno e onestà finché non fu costretto a fuggire e continuare a svolgere la propria attività all’estero.
10 Per la filmografia di Razumni cfr. Imdb, ad vocem. Hoberman lo cita soltanto di sfuggita, mentre nel citato Kino di Jay Leyda lo si incontra in diversi passaggi che ne sottolineano la iperdeterminazione ideologica, predominante sulla tecnica artistica.
11 Le vicende della compagnia sono descritte dettagliatamente in Raffaele Esposito, La nascita del teatro ebraico cit., ma la fonte principale resta il libro di memorie dell’attore Raikin Ben-Ari, Habima, pref. di Harold Clurman, Yoseloff, New York-London 1957. Sulla tragicommedia Diluvio dello svedese Henning Berger, messo in scena da Habima ed “ebraicizzato” con qualche goffaggine, si vd. il volume di Esposito, p. 88.
12 Per questo importante scenografo russo, attivo tra l’altro presso il Goset, cfr. il quinto volume di questa serie e il sito RusArtNet, ad vocem.
13 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 98.
14 Ivi, p. 99.
15 Come accade ad esempio nel Ritorno di Nathan Becker e nei frammenti del Re Lear (cfr. il terzo volume di questa serie).
16 Il volume di Isaac Babel’, Tutte le opere, a cura e con un saggio di Adriano Dell’Asta e uno scritto di Serena Vitale, Mondadori, Milano 2006, raccoglie anche i soggetti e le sceneggiature cinematografiche dell’autore. I curatori non hanno incluso la sceneggiatura di Fortuna ebraica, primo suo lavoro per il cinema (se si esclude il progetto riguardante Larmata a cavallo condiviso con Ejzenštejn, non andato in porto perché troppo eterodosso) in base al fatto che considerano Babel’ autore delle sole didascalie. È probabile che Granovskij avesse avuto parte attiva nella preparazione, ma è impossibile immaginare che Babel’ non avesse almeno espresso la propria opinione a tutto campo.
17 Le musiche composte e dirette da Lev Pulver, purtroppo attualmente irreperibili, furono eseguite in occasione della prima.
18 Per la controversa vicenda della Vufku e la storia degli ebrei in Ucraina, Crimea, Bielorussia e Birobidžan tra il 1921 e il 1938 cfr. il sito Ort. Il sito presenta anche Gli ebrei sulla terra, documentario di 18’ prodotto dalla Vufku di Yalta, per Ozet (il sindacato unitario dei lavoratori ebrei dell’Urss) nel 1926 e mostrato in novembre alla prima assemblea Ozet. La sceneggiatura era di Vladimir Majakovskij (sue anche le didascalie) e Viktor Šklovskij; Abram Room, già direttore di una compagnia teatrale yiddish, era il regista, la fotografia era di Avgust Kiun, assistito da Lili Brik. Ozet fu fondato nel 1925 e liquidato nel 1938, quasi tutti i suoi membri furono incarcerati e uccisi durante la repressione stalinista.
19 Su Odessa si vd. quanto se ne dice nel nostro terzo volume e naturalmente cfr. Isaac Babel’, Odessa, trad. e cura di Costantino Di Paola (anche autore della prefazione Le parole del sole, ovvero le leggende del grande mistificatore), Marsilio, Venezia 1998.
20 Viktor Šklovskij nei propri saggi su Ejzenštejn fa lo stesso esempio per sostenere la tesi opposta, vale a dire che la diversa percezione della scalinata è dovuta alla personalità dei due registi e Tisse in questo senso sia ininfluente. Cfr. Sua Maestà Ejzenštejn: biografia di un protagonista, Aleph, Torino 1992.
21 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 101.
22 A proposito del film si vd. anche la lettura che ne propone Alessandro Cappabianca nella seconda parte di questo volume.
23 Vladimir Vilner era nato a Grodno (Bielorussia) nel 1885. Dopo aver studiato in Svizzera, nel 1912 si laureò in legge a San Pietroburgo, città nella quale cominciò a praticare il teatro come attore. Dal 1918 fece parte della compagnia di Nikolai Sinelnikov a Kharkov e firmò la regia di diversi spettacoli. Nei due decenni seguenti, oltre a tre regie cinematografiche (l’ultima nel 1928) lavorò con diverse compagnie e teatri dell’Unione Sovietica. A Kiev, dal 1928 al 1931 diresse il Teatro Nazionale Accademico Russo Lesya Ukrainka, dal 1938 al 1941 il Teatro Accademico Ucraino Taras Shevchenko e infine tra il 1949 e il 1950 il Teatro Accademico del Dramma e della Commedia di Kiev. Molti degli spettacoli da lui diretti erano in yiddish. Il crescente antisemitismo sovietico influì sulla sua carriera, tanto che non riuscì a portare a termine alcuni importanti progetti, come il film Mestechka (Ladeniu; Lo shtetl di Laden), tratto dalla commedia dello scrittore ebreo-ucraino Leonid Pervomaiskij. Per molto tempo Vilner fu impegnato con l’insegnamento e nel 1947 fu nominato docente dell’Istituto Teatrale di Kiev. Nel 1940 era stato insignito del titolo di Artista del Popolo Ucraino. Morì a Kiev nel 1952.
24 Anna Shternhis, Soviet and Kosher. Jewish Popular Culture in the Soviet Union 1923-1939, Indiana University Press, Bloomington 2006, p. 184.
25 Così in una nota che accompagna la sceneggiatura, tradotta con il titolo di Stelle erranti e proposta in Tutte le opere cit., p. 647. E in forma di racconto: ivi, alle pp. 1187-1197.
26 Ivi, pp. 655-656.
27 Il film è dato per scomparso da Hoberman, ma oggi è visibile sul sito Geek, ad vocem.
28 Cfr. J. Hoberman, Cinema, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 2 agosto 2010.
29 Isaac Babel’, Tutte le opere cit., p. 1380.
30 La regia era di Michoels, scene e costumi di Aleksandr Tyšler, le musiche di Lev Pulver. Lo sterminato feuilleton di Aleichem, riportato a dimensioni teatrali da Dobrušin, grazie anche alla sapiente distribuzione, ebbe un enorme successo concretizzatosi, in tempo di guerra, nell’esecuzione di ben duecento repliche. Zuskin era Hotzmach, l’attore itinerante di scarso talento che scopre e trasforma in un divo del nascente teatro yiddish Leibl, poi Leo Rafalesko, il ragazzino fuggito dal piccolo shtetl. La storia d’amore tra i due giovani che si perdono e si cercano per molti anni per poi scoprire, ritrovandosi, di non desiderarsi più, in questo adattamento passava in secondo piano rispetto a Hotzmach, interpretato da uno Zuskin che teneva il pubblico in pugno, lo faceva ridere e piangere parlando del teatro e della vita, dei sogni e della miseria di un artista, nonché delle inedite difficoltà del xx secolo soprattutto per gli ebrei di umile origine. Di straordinario impatto erano anche alcune semplici soluzioni registiche (dovute a Michoels), come la scena in cui Hotzmach continuava a sistemare le panche per un pubblico che non arrivava e si esibiva in un monologo quasi senza parole di circa venti minuti, a significare la fine di un mondo i cui esponenti comunque sopravvivevano, senza però sapere cosa dire né dove andare.
31 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 128.
32 Sulle scene del Goset il personaggio di Sholem Aleichem fu rievocato più volte, fino a quando, nel 1943 Zuskin chiese a Dobrušin un adattamento del racconto e fu il protagonista dello spettacolo da lui stesso diretto.
33 D’ora in avanti utilizzeremo al posto del familiare flashback il termine «analessi».
34 L’episodio è rievocato da J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 132.
35 Un articolo di Schwartz sul melting pot of the theatre apparve il 15 dicembre 1929 sul «New York World». Nel dichiarare chiusa l’epoca dei Goldfaden e dei Gordin, l’attore prendeva atto che «i sentimenti nazionalisti una volta prevalenti in scena sono stati spazzati via».
36 Poi, in una delle proprie stagioni più ricche, Schwartz tolse dal cartellone il classico Luomo, dio e il diavolo per mettere in scena Otello, con le musiche di Giuseppe Verdi. Ben-Zvi Baratov era il Moro, Celia Adler era l’amorevole Desdemona e Schwartz Iago. Rodrigo era Joseph Greenberg (il poi noto regista e produttore cinematografico Joseph Green), così agitato nella gondola prevista dal regista russo Boris Glagolin da capovolgersi durante una replica e continuare a recitare fradicio.
37 «Schwartz ha organizzato una straordinaria serie di affascinanti sequenze, quadretti romantici e brutali scene di massa, uno spaccato di vita che nessuna produzione di Broadway uguaglia in intensità e originalità» (così il critico Daniel Frohman citato in Nahma Sandrow, Vagabond Stars. A World History of Yiddish Theater, Syracuse University Press, Syracuse 1996, p. 271).
38 Su di lui cfr. E. A. Goldman, Visions, Images, and Dreams cit., pp.42-48 e Olga Gershenson, The Phantom Holocaust. Soviet Cinema and Jewish Catastrofe, Rutgers, New Brunswick, New Jersey, and London 2013, p. 22-23 e passim.
39 Lekert è invece il protagonista esplicito di un dramma di H. Leivick, Hirš Lekert (New York, 1927), nel cui finale un rabbino visita il prigioniero per dirgli che lo lasceranno libero se farà i nomi dei suoi compagni, cosa che il giovane rifiuta.
40 Per Leonidov, ebreo odessita (il suo vero nome era L. M. Volfenzon), Zayn ekstselents fu l’ultimo film della sua carriera. Faceva parte del Teatro d’Arte dal 1903 ed era considerato da Stanislavkij, forse con una iperbole eccessiva, «l’unico attore tragico russo». In Sua Eccellenza fornisce un’altissima prova della propria bravura con l’interpretazione di due personaggi così diversi come il governatore e il rabbino. Per la sua carriera cinematografica cfr. Imdb, ad vocem.
41 Per una prima notizia e un orientamento bibliografico riguardante Čerkasov cfr. il sito Treccani, ad vocem.
42 Gli ebrei reazionari sono rappresentati in modo del tutto incongruo: ad esempio si riuniscono sotto il ritratto del fondatore del sionismo Theodor Herzl e sono, nel linguaggio e nell’abbigliamento, decisamente germanizzati.
43 Il resoconto di Hoberman è in proposito molto accurato (cfr. Bridge of Light cit., pp. 134-136).
44 Cfr. Imdb, ad vocem.
45 Sholem An-skij nelle proprie corrispondenze dal fronte citò alcuni episodi del genere realmente avvenuti.
46 Grigori Rošal aveva iniziato come direttore di scena della compagnia Habima, passando al cinema alla fine degli anni Venti con Zayn ekstselents. Dopo A mentsh fun shtetl sarebbe tornato al tema ebraico soltanto un’altra volta, nel 1939, con il film in russo d’ispirazione antinazista, La famiglia Oppenheim, basato su un romanzo di Lion Feuchwanger, protagonista uno straordinario Solomon Michoels.
47 Tra i libri già menzionati si può fare particolare riferimento a Olga Gershenson, The Phantom Holocaust, cit.
48 Humoresque è stato definito da un critico della sinistra radicale come una favola «impertinente scritta da una donna sentimentale, Fannie Hurst, resa ancora più sentimentale dal regista Frank Borzage, e piuttosto oscenamente sentimentalizzata dalla recitazione di Vera Gordon, un prodotto del super-sentimentale teatro yiddish» (Alan Potamkin citato da Hoberman, Bridge of Light cit., p. 115). Da notare che Vera Pogorelsky Gordon e il marito erano rivoluzionari fuggiti dalla Russia zarista. Il film creava un nuovo tipo, quello della «Long-Suffering Mother», mentre in film successivi come His People (1925), The Jazz Singer (1927) e The Younger Generation (1929) la figura paterna declinava dallo stigma dell’autorità a quello del patetismo. Per Humoresque cfr. Imdb, ad vocem.
49 In Cheated Love, Sonya (Carmel Myers) è un’immigrata che lavora nella botteguccia paterna. Il giovane lavoratore edile David Dahlman (Allan Forrest) s’innamora di lei, che però è a sua volta innamorata di Misha, un dottore appena giunto da Odessa, e per aiutarlo finanziariamente si afferma nel teatro yiddish. Misha però la lascia per sposare una ereditiera e Sonya, per l’opposizione di una gelosa diva, perde un importante ruolo. Durante uno spettacolo al quale è presente David, un’esplosione accidentale crea il panico nel teatro e Sonya si prodiga per calmare gli spettatori. David deve intervenire per salvarla e lei finisce per accettare il suo amore.
50 In Hollywood with Potash e Permutter è un’altra produzione di Goldwin tratta da un grande successo teatrale di Broadway che dal 1913 presentava due tipi comici di ebrei. Cfr. Imdb, ad vocem.
51 His People annovera due protagonisti di livello come Rosa Rosanova e Rudolph Schildkraut, qui nelle vesti dei genitori di due ragazzi assai problematici che nel Lower East Side si stanno mettendo nei guai. Ma alla fine tutti impareranno a rispettarsi nelle differenze, accettando la famiglia come terreno comune di amore e rispetto. Cfr. Imdb, ad vocem.
52 Prodotto dalla Universal nel 1927 e tratto dal dramma Lea Lyon di Alexander Brody, il film è ambientato in un villaggio della Galizia invaso dai cosacchi e racconta la storia d’amore tra la figlia di un rabbino e un principe russo. Le dinamiche sono le stesse del «ghetto drama» e in primo piano c’è la lotta tra i giovani desiderosi di assimilazione e le rispettive famiglie.
53 We Americans (1928), protagonista George Sidney. Cfr. Imdb, ad vocem.
54 Come lei stessa ricordava nel 1977 a E. A. Goldman (cit. in Visions, Images an Dreams cit., p. 12).
55 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 68.
56 In proposito si vd. la lettura che ne propone Silvia Ferrannini nella seconda parte di questo volume.
57 Jerzy Toeplitz, Historia Sztuki Filmowej, vol. ii, Filmowa Agencja Wydawnicza, Warzaw 1956, p. 358.
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