IV. Gioie e dolori di un capocomico
p. 95-130
Texte intégral
1L’alto canone di affitto del Nora Bayes Theatre era il principale motivo per cui Schwartz tentava in tutti i modi di proporre spettacoli che sollevassero clamore e riempissero la sala. Così era stato per Shakespeare and Company e per Saul, che però non avevano convinto recensori e pubblico. Un altro tentativo in questo senso fu l’allestimento dell’Uomo d’aria, commedia di Semyon Yushkevich ambientata nella Russia dell’inizio secolo. L’autore, un medico, era arrivato in America nel 1921 e anche grazie a una raccomandazione di Maksim Gorkij aveva trovato lavoro presso il quotidiano «Der tog». L’uomo d’aria aveva per protagonista un certo Elias Gold che s’ingegnava in mille modi per sfuggire alle conseguenze degli editti zaristi contro gli ebrei. Per interpretare il protagonista Schwartz delegò la guida dello spettacolo ancora una volta al fidato Leonid Snegoff.1 Anche in questo caso però il riscontro fu assai tiepido, forse a causa della somiglianza del copione con il già noto È difficile essere ebreo. Seguì l’allestimento di Un filo di perle, un’austera tragedia di Sholem Asch sulle vicissitudini di una famiglia di ebrei benestanti dell’Europa orientale. L’autore godeva di un’ottima reputazione, guadagnata anche a causa dei propri copioni già rappresentati da Schwartz come L’uomo morto e Motke il ladro, ma Un filo di perle era all’altezza dei precedenti.
2Alla fine di dicembre ecco Schwartz proporsi come registe e interprete del dramma Il cerchio di gesso di Alfred Henscke, che si firmava Klabund. La trama prendeva spunto da una fiaba cinese nella quale una ragazza povera, dopo avere subito una sequenza di persecuzioni e sofferenze, diventa infine la sposa dell’imperatore. È lo stesso testo da cui sarebbe partito Bertolt Brecht per comporre il proprio Cerchio di gesso del Caucaso, nel quale l’autore tedesco mette in primo piano la vicenda delle due donne che si disputano un bambino.
3All’inizio del 1926, per risollevare gli incassi, Schwartz fece ricorso al Dibbuk e l’esito fu ancora una volta lusinghiero; lo stesso avvenne con Stracci in marzo, spettacolo nel quale Ben-Zvi Baratov si alternava con Schwartz nel ruolo di un giovane che solidarizza con gli operai in sciopero nella fabbrica del padre. Tra gli attori vi erano anche Baruch Lumet, padre del poi famoso regista Sidney Lumet, e il talentuoso Michael Rosenberg,2 uno dei migliori allievi del capocomico. Nello stesso torno di tempo la compagnia fu coinvolta nel film Cuori infranti, tratto dal copione di Solomon Libin (che nel 1903 aveva risollevato le sorti di Jacob Adler) e interamente girato a Manhattan. Un altro titolo di Libin, L’uomo e la sua ombra, era stato, come abbiamo visto, alla base del primo spettacolo dello Irving Place Theatre. Dopo il fallimento del film Yitzkor, Schwartz era riuscito a ottenere l’appoggio del produttore Louis Jaffe3 per realizzare questo nuovo progetto. In questa occasione fu fondata la Jaffe Art Film Corporation. Quella di Cuori infranti era una scelta prudente, si ricorreva a un grande successo del passato anche perché Jaffe aveva impegnato un ingente capitale nella costruzione del nuovo teatro per Schwartz, il quale si mise subito al lavoro come regista girando nel Bronx e nel Lower East Side in condizioni difficili: centinaia di bambini circondavano la troupe facendo un chiasso infernale che sommergeva tutto. Oltre al nostro, gli altri protagonisti del film erano Anna Appel, Leonid Snegoff, Julius Adler, quel Charles Nathanson con cui c’erano stati fieri contrasti anni prima a Philadelphia e Henrietta Schnitzer,4 la dispotica moglie di colui che aveva finanziato la compagnia del ribelle Ben-Ami nel 1919.
4Schwartz aveva scritto la sceneggiatura con l’aiuto di Frances Taylor Patterson, il primo docente di cinematografia della Columbia University. Come aveva già fatto a Vienna, girava il film di giorno e la sera recitava al Nora Bayes. Con Jaffe condivideva il progetto di una sinergia tra teatro e cinema yiddish che fosse utile a entrambi, nella speranza di educare un pubblico numeroso e non soltanto ebraico. Le nobili intenzioni si concretizzavano in un prodotto decisamente shund e in questo senso l’attore era in flagrante contraddizione con se stesso. Ma non con il suo ego, tanto che giorno dopo giorno amplificava il proprio ruolo e giunse persino a inventarsi un happy end. Le recensioni del film rimarcarono la schiettezza dell’impegno profuso dal regista del film assieme alla sua inesperienza, evidente soprattutto nella durata eccessiva delle singole sequenze. Nel 1932, il film sarebbe stato riproposto con il titolo The Unfortunate Bride e l’aggiunta di sottotitoli in yiddish e in inglese, con musica e sonorizzazione di alcune sequenze.
5In questo momento di fervore e relativo benessere Schwartz diede vita a una nuova società, la Anboard Theatre Corporation, per la gestione del nuovo edificio destinato allo Yiddish Art Theatre che Jaffe stava costruendo sulla Second Avenue su progetto del famoso architetto Harrison G. Wiseman. La sala poteva accogliere milleduecento spettatori che si trovavano di fronte a un palcoscenico tecnicamente all’avanguardia, con due piattaforme mobili; e vi erano altre confortevoli novità come i camerini provvisti di acqua corrente.
6Nell’aprile del 1926, durante la settimana di Passover, vi fu la morte di Jacob Adler. Tutti i negozi furono chiusi per due ore e alcune cerimonie commemorative si tennero nel Second Avenue Theatre, sul palcoscenico del quale era esposta la salma, che fu visitata da circa mezzo milione di persone prima dell’imponente funerale e della sepoltura.
7Quattro mesi più tardi, nell’agosto, fu stipulato un contratto tra Anboard e il cognato di Maurice, Meyer Golub e altri due soci, ai quali furono dati in gestione per un congruo affitto il bar e il guardaroba del teatro. Schwartz utilizzò il denaro per saldare il debito con Jaffe. Un altro contratto assegnava a Schwartz un compenso di seicento dollari la settimana per le trentasei settimane della stagione teatrale, con l’aggiunta di alcune serate d’onore. Schwartz, ammaestrato dall’esperienza precedente, si assicurò anche il diritto esclusivo di scegliere i testi da rappresentare e di avere il diritto di dirigerli oppure designare altri registi.
8Il 24 maggio si tenne una cerimonia nel teatro quasi completato, ospite d’onore la vedova di Sholem Aleichem, circondata dai più autorevoli esponenti della comunità ebraica newyorchese. Tra le altre giunsero le congratulazioni di Chaim Bialik, decano degli scrittori yiddish, e persino di Henry Meeker, il potente presidente del St. Mark’s Hospital che all’inizio si era strenuamente opposto alla costruzione del teatro.
9A tutti era chiaro che Maurice Schwartz stava riprendendo e sviluppando la tradizione inaugurata da Jacob Adler, ora nel segno di una resistenza vitale al declino già da tutti percepito della lingua e della cultura yiddish. Il nuovo teatro si rivolgeva ai figli di coloro che due decadi prima avevano assistito con orgoglio alla costruzione del Grand Street Theatre, ma questa volta l’attore non era un partner secondario dei finanziatori. Lo Yiddish Art Theatre costò molto più del previsto, ma tutti ne erano contenti. Nel corso degli anni l’involucro esterno dell’edificio sarebbe spesso stato modificato, mentre gli imponenti interni sarebbero rimasti invariati.
10Per l’inaugurazione fu scelta l’operetta di Avrom Goldfaden Il decimo comandamento e le prove si tenevano mentre proseguivano i lavori, decisamente in ritardo. Boris Aronson progettava scenografie all’avanguardia, Michel Fokine, il coreografo dei Ballet Russes, provava in spazi di fortuna con i propri danzatori e Lazar Weiner, il direttore d’orchestra, cercava di sistemare i musicisti nel cantiere. Ogni giorno sembrava sempre più improbabile di riuscire a debuttare a settembre e il clima di confusione stressava il già oberato Schwarz. Passò settembre, passò ottobre, il primo quarto della stagione era saltato. Soltanto il giornalista del «Forverts» e scrittore Leon Hoffman riusciva a calmare Schwartz, ne aveva fatto la propria missione, anche se figurava ufficialmente soltanto come addetto alle pubbliche relazioni. Fu presa la decisione di aprire il 17 novembre, a lavoro finito o meno, ma una settimana prima della scadenza Schwartz, vista la orribile coreografia di carpentieri e danzatori che condividevano la scena, ipotizzò di rimandare l’apertura di un mese. Gli fecero notare che ne sarebbe derivato un gravissimo danno economico, dunque l’allestimento del Decimo comandamento procedeva rinviando l’apertura al pubblico di giorno in giorno. Più avanti negli anni Schwartz avrebbe rimpianto l’idea di cominciare con una produzione così impegnativa, con migliaia di biglietti venduti e non onorati, a fronte della quale nemmeno il tutto esaurito avrebbe coperto le spese. Oltretutto la concorrenza era molto vivace: Molly Picon aveva sfondato con Molly Dolly, Gertrude Lawrence e Victor Moore furoreggiavano a Broadway nell’opera di Gershwin Oh, Kay, e Mae West, la bionda esplosiva che faceva nascere negli uomini pensieri proibiti, si era messa in mostra con Sex, spettacolo che le era costato anche dieci giorni di prigione, una impagabile pubblicità, la pioniera del teatro yiddish Berta Kalich recitava in inglese in Magda, mentre Paul Muni si godeva il successo di Noi americani. Tra le formazioni più affini allo Yiddish Art Theatre si segnalava il successo della compagnia Habima finalmente arrivata negli Stati Uniti. Benché lodata da tutta la stampa ebraica e non solo, Habima, che recitava in ebraico, attirava comunque un pubblico ristretto. La concorrenza più temibile per Schwartz arrivava dalla compagnia di Jacob Ben-Ami e Max Wilner, in scena allo Irving Place. Ben-Ami, forte anche dell’esperienza avuta anni prima con Schwartz nello stesso teatro, aveva unito le proprie forze con quelle di altri attori esperti come Goldschmidt, Snegoff e Vinogradoff. Anche questa impresa, tuttavia, era logorata dal quasi stereotipo contrasto tra il direttore artistico e il produttore e finì presto per dissolversi, spingendo Ben-Ami a recitare per Eva Le Gallienne5 nel suo Civic Repertory Theater sulla Quattordicesima, dove la sua bravura era comunque apprezzata da un vasto pubblico.
11Il decimo comandamento era stato scritto da Goldfaden durante la direzione del teatro di Lemberg, in Polonia. Racconta di due soci in affari che cadono sotto il dominio di Satana e seducono l’uno la moglie dell’altro. Dopo un serie di diabolici e melodrammatici disastri – tra cui la morte, la discesa agli inferi e la redenzione – le due coppie si ricompongono e iniziano una nuova e serena vita comune. La compagnia messa insieme da Schwartz per l’occasione prevedeva oltre settanta elementi, nonostante diversi attori coprissero tre o più ruoli. Celia Adler era la pia moglie di Peretz, un ricco e devoto chassid. Peretz era interpretato da un nuovo attore chiamato dalla Romania, Joseph Buloff: mesi prima, Celia e Molly Picon avevano conosciuto nel corso di una tournée una coppia di talento formata da Joseph Buloff e Luba Kadison, già membri della Vilner Trupe e molto amati dal pubblico di Bucarest, soprattutto nel Cantante della propria tristezza di Osip Dymov. Schwartz era entrato in corrispondenza con Buloff e aveva vinto la sua ritrosia a trasferirsi in America, dove peraltro si erano già stabiliti altri membri della Vilner. Un motivo per andarsene era stato il crescente antisemitismo, cui si aggiungeva il timore di finire tra le mani di un regista autoritario. Inoltre Buloff aveva una formazione più “classica”, diversa da quella spregiudicata di Schwartz. Comunque sia Buloff e Kadison, ricevendo per posta un buon contratto da parte di Schwartz, lo sottoscrissero e partirono.
Kadison, Buloff e la Vilna Trupe
«Non ha bisogno di recitare – disse di lui Maurice Schwartz quando lo vide la prima volta – Si muove naturalmente in un modo curioso e il pubblico scoppia a ridere. È un clown nato. Per il resto della sua vita può limitarsi a recitare se stesso». E così fu, sia sulla scena yiddish che su quella di lingua inglese.
Dopo l’andata via di Paul Muni nel 1925 Schwartz era alla ricerca disperata di un altro attore dello stesso calibro e lo trovò in lui. Joseph Buloff6 aveva fatto parte della Vilner Trupe,7 debuttando nel Dibbuk. La Vilner aveva costituito per diversi anni il modello a cui guardavano tutti coloro che volevano conferire una caratura artistica al teatro yiddish.
Buloff era nato a Vilnius nel 1899 e crescendo era stato testimone dei grandi rivolgimenti del tempo. Quando da giovanissimo aveva conosciuto Leib Kadison, fondatore dei Vilner, gli aveva manifestato la volontà di fare l’attore e alla domanda «Ma ora dove vivi?» aveva risposto «Ancora non vivo».
In poco tempo divenne uno degli attori più importanti della compagnia e conquistò il cuore della sua collega Luba Kadison,8 nata nel 1907, la figlia prediletta di Leib. Nel 1923, alla (prima) scissione dei Vilner, Joseph e Luba portarono una propria compagnia a Bucarest, dove tra un successo e l’altro furono visti e immediatamente corteggiati da Schwartz, il quale, dopo mesi di trattative, li convinse a raggiungerlo a New York per recitare nel nuovissimo Second Avenue Theatre, debuttando nel Decimo comandamento di Goldfaden. L’insuccesso di questo spettacolo, ma soprattutto la delusione per i cedimenti commerciali del teatro yiddish, indussero Buloff e Kadison ad andare a Chicago, dove diressero per un po’ una seria compagnia di dilettanti, la Dramatishe Gesellschaft. Dopo un paio d’anni di vita durissima ma non priva di soddisfazioni i due reclutarono alcuni altri Vilner e aprirono un teatro nel Bronx, che funzionò per una sola stagione.
Dopo di ciò eccoli, nel 1930, essere riaccolti da uno Schwartz talmente ammirato da stare tutto il tempo possibile in quinta a studiare il modo di recitare di Joseph. I due, tuttavia, avevano idee molto diverse su come si dovesse fare teatro, uno più incline a sedurre un pubblico numeroso, l’altro più purista. Alla fine di quella stagione, in piena Grande Depressione, la coppia rientrò a Bucarest, dove la situazione però si era fatta, per altri motivi, altrettanto difficile.
Nel decennio seguente la coppia fece del proprio meglio per corrispondere ai propri ideali realizzando spettacoli in diversi teatri attorno alla Secondo Avenue assieme ad attori come Lazar Freed, Zvi Scooler, Yehuda Bleich, Celia Adler e Bina Abramovich e con il ricorso a drammaturghi come David Pinski, Perez Hirschbeyn, Chono Gottesfeld, Sholem Asch e Osip Dymov. Le cose andavano così e così, sia per il calibro dei loro concorrenti sia perché Buloff era un attore bravissimo, e dunque amato dagli intenditori, ma incompleto, poiché non sapeva né cantare né danzare, e dunque non attirava un grande pubblico.
Nella stagione 1934-1935, Buloff e compagni recitarono nel teatro lasciato libero da Schwartz in tournée, ribattezzandolo Yiddish Folk Theatre e proponendo spettacoli di buon livello. Di nuovo, però, la fine stagione segnò la fine dell’impresa per motivi economici. Ciò lo costrinse nel 1936 a recitare al Nora Bayes in una modesta commedia che comunque dovette chiudere dopo poche repliche.
Da quel momento in poi, Buloff cominciò ad alternare le apparizioni sulla scena yiddish con quelle negli spettacoli di Broadway, che lo fecero “scoprire” dai critici, soprattutto il sensibile Brooks Atkinson. E soltanto all’inizio degli anni Quaranta le scene di Broadway gli offrirono il successo pieno e un benessere crescente, un successo motivato dalla sua recitazione ricca di sfumature e dunque dalla creazione di personaggi memorabili. Dopo Oklahoma di Rodgers e Hammerstein, spettacolo che lo impegnò per tre anni (e destinato ad avere oltre duemila repliche), Buloff prese parte a molti film non memorabili. D’altra parte, come vedremo più avanti, il teatro yiddish aveva avuto la propria fine ufficiale nel 1950, con la chiusura dello Yiddish Art Theatre. Buloff provò ad adeguarsi recitando in giro con piccole compagnie locali, ma nel 1951 tradusse e interpretò Morte di un commesso viaggiatore in yiddish. Il suo Willy Loman lo consacrò definitivamente come un grande attore. A ciò seguirono diversi altri successi nel teatro in lingua inglese. Soltanto nel 1970 tornò al teatro yiddish dirigendo e recitando nei Fratelli Ashkenazi alla Folksbiene. Il tentativo si protrasse fino al 1975, quando ci si dovette rassegnare alla inesistenza, ormai, di un pubblico di parlanti yiddish.
La morte lo colse improvvisamente nel 1985, durante un ennesimo viaggio alla ricerca di lavoro.
Il sito che qui si segnala è prodigo di notizie su Joseph Buloff e Luba Kadison e consente anche di ascoltare la vibrante testimonianza dell’attrice.
La sera della prima, il 17 novembre, è rievocata in modo vivido da Brooks Atkinson, all’inizio della propria carriera come critico del «New York Times». Atkinson descrive la folla che stazionava davanti al teatro, la frenesia dei bagarini e l’impegnativo controllo esercitato da un gruppetto di poliziotti, mentre i dignitari della città cercavano di non confondersi tra la folla e si slacciavano i colletti delle camicie a causa del caldo. Alla vista di tutto ciò, Schwartz scoppio a piangere dalla gioia, ma poi si mise a gridare per cercare di limitare il caos. Così ricorda, nelle memorie uscite a puntate negli anni Quaranta, quella serata: «In teatro si dice che a un’ultima prova generale non riuscita segue una eccellente prima. La mia esperienza mi dice invece che a una eccellente generale segue una eccellente prima. Eravamo in un edificio non finito. Persino l’ingresso e i botteghini erano un cantiere. Doveva essere un disastro. E io continuavo a urlare». In sala l’attore riconosceva i propri ospiti, politici, borghesi e artisti. E tremava di paura, invocando tra sé e sé un miracolo che non sarebbe arrivato. Lo spettacolo che in prova era sembrato così innovativo e vivace risultò confuso, incomprensibile e soprattutto noioso. Le scenografie erano state montate malamente, i cantanti non andavano d’accordo con l’orchestra. Lo spettacolo cominciò alle 21 e finì alle 2 di notte, quando i critici se n’erano andati da tempo per fare uscire le proprie recensioni il mattino seguente. Dalla mezzanotte in poi anche il pubblico cominciò a svuotare la sala e alla fine soltanto pochi valorosi patrioten applaudirono calorosamente. Schwartz li ringraziò e poi andò incontro a Louis Jaffe, l’unico davvero soddisfatto. Poche ore dopo ecco i giornali che parlavano di uno spettacolo incompleto come il teatro, dalle grandi pretese ma troppo lungo e confuso per essere piacevole. La reazione di Abe Cahan fu più articolata e severa. Di Maurice diceva che era un artista dotato, ma che era incorso in un infortunio con la decisione di dirigere un tale spettacolo. Il solo contrappeso alle recensioni negative sarebbe stato, ma soltanto alcuni mesi dopo, il commento del critico John Mason Brown, che riconosceva allo spettacolo doti artistiche purtroppo mancanti nella scena coeva newyorchese.
12Il decimo comandamento divenne una fonte di malessere per Schwartz, che vi mise fine dopo cinque settimane, riconoscendo pubblicamente che i critici avevano il diritto di non tenere conto dei problemi logistici e organizzativi incontrati nell’allestire lo spettacolo; ma il suo ego era ferito e diceva agli amici più stretti che i critici avrebbero dovuto capire che Maurice Schwartz era pur sempre l’apice del teatro yiddish e che quell’esito, largamente sperimentale, non segnava una battuta d’arresto. Non gli restò che reagire in modo positivo e lo fece rilanciando, cioè ricorrendo a una di quelle scelte sorprendenti e al tempo stesso sensate che lo avevano distinto in passato. Cominciò con il proporre, a fine dicembre, Mendel Spivack di Semyon Yushkevich, spettacolo che aspirava a essere di buona fattura anche se di modeste dimensioni e a dare soddisfazioni economiche. Lui recitava nel ruolo del titolo, Buloff e Kadison erano al debutto sulla scena yiddish americana. Il successo fu immediato.
13Ancora una volta si proponeva la storia di un poveruomo, anzi l’ennesima variazione – per il teatro del tempo – sul tema della povertà. Mendel Spivack è un umile guardiano di ospedale appena licenziato, un personaggio ispirato forse al santo medievale Bontze il Silenzioso (protagonista di uno dei più noti racconti di I. L. Peretz), nella cui vita appare un raggio di luce nell’undicesimo anno di matrimonio: il primo figlio. Ma la felicità dura poco, poiché il neonato muore dopo sette giorni, alla vigila della circoncisione rituale. Questa trama semplice è espressa con grande potenza dall’autore, che evita di cadere nel sentimentalismo e riesce comunque a suscitare una profonda compassione negli spettatori. Ciò perché tutti i personaggi sono accuratamente delineati e il copione prevede anche diversi episodi umoristici che fanno da contrappunto alla tragedia.
14I principali protagonisti dei tre atti erano, oltre a Schwartz-Mendel, Buloff (un povero calzolaio suo amico) e Kadison, Bina Abramowitz, Celia Adler (Hannah, moglie di Mendel), Anna Appel (Zivyah, la sorella di Mendel), Isidore Cashier (suo marito, sarto senza lavoro), Berta Gersten (Peshka, una ragazza) e Anna Teitelbaum (Mani Gittel, la moglie del sarto). Particolarmente significativo era il terzo atto – un concerto di voci e di azioni durante il quale si passava da un tono di festosa commedia alla tragedia senza catarsi – nel quale si assisteva alla vigilia e ai preparativi per la grande festa della circoncisione. C’erano molti parenti e amici, abbondanza di frutta e dolci, ma l’atmosfera gioiosa era fragile per la notizia pian piano affiorante sul neonato che era peggiorato durante la notte. Arrivava un dottore dell’ospedale in cui lavorava Mendel e scopriva che questi era stato ingiustamente licenziato, ma per fortuna tra i visitatori c’era anche un funzionario dell’ospedale che gli prometteva la riassunzione. Tutti sembravano contenti, specie quando i più giovani cominciavano a ballare al suono del violino di Moishela, un amico che sognava di essere un artista. Invano Hannah invocava il silenzio perché il piccolo stava male. Il crescendo festoso era infine rotto dall’urlo della madre per il piccolo moribondo. Il mite Mendel, sconvolto e infuriato, chiedeva spiegazioni a Dio per la crudeltà degli eventi che colpiscono persone innocenti, poi la ribellione si placava nel dolore e tutte le voci man mano si spegnevano. Lo spettacolo andò benissimo, una drammaturgia essenziale e densa di contenuto emotivo fece breccia laddove il precedente sfarzoso allestimento aveva fallito.
15Nel febbraio dell’anno seguente una ripresa di successo fu Stracci seguito in marzo da Il reverendo Dottor Silver di Sholem Asch, un dramma sulla redenzione e il perdono ambientato in una piccola città americana, già rappresentato altrove. Il rabbino Silver è il marito di Clara e non riesce a capacitarsi di come la donna possa tradirlo con il proprio insegnante di musica, tale Rubinstein. È una trama chiaramente ispirata alla Sonata a Kreutzer, ma mentre il marito geloso di Tolstoj uccide la fedifraga, Silver si considera responsabile di ciò che accade e perdona Clara, che comunque fugge con il proprio amante. Un anno dopo però l’adultera ritorna perché è stata abbandonata a sua volta e il marito l’accoglie, perdendo per questo la direzione della propria comunità religiosa. Lei, angosciata da ciò che ha causato, si suicida. La trama e l’ambientazione rivelano chiaramente l’intenzione di Schwartz di parlare della e alla seconda e terza generazione di ebrei arrivati in America, senza più alcun legame con le tradizioni, senza le quali tuttavia non vi sarebbe possibilità di salvezza.
16Dopo di ciò, Schwartz propose Il suo delitto, un copione di Moissaye Joseph Olgin, un uomo politico e fondatore del quotidiano comunista «Morgen Freiheit», non molto dotato scrittore, ambientata nella Russia rivoluzionaria. Siamo nel 1919 e i Rossi stanno vincendo, ma i Bianchi controllano ancora il sud della Russia. Alla frontiera tra i due schieramenti gli incontri sono contrassegnati da intrighi, tradimenti e vendette; tutto ciò conferisce un sapore drammatico e originale alle storie d’amore. In marzo toccò a Buloff mostrare il proprio talento registico con Il cantante della propria tristezza, l’opera che lo aveva segnalato in Romania. In questa occasione Schwartz fece un passo indietro, limitandosi a cambiare il titolo in La sposa in affitto, così da attrarre un pubblico interessato più all’intrigo amoroso che alla disperazione del protagonista. Il testo proponeva una fantasia lirica su un violinista che s’innamora di una servetta. Lei però è attratta da un disgraziato giocatore d’azzardo. Il violinista vince una fortuna alla lotteria ma intenzionalmente la passa, perdendo al gioco, al suo avversario in amore, così che lui possa sposare la ragazza. Poi, ripensando a ciò che ha fatto, il poveretto impazzisce. Buloff aveva allestito questo testo a Bucarest incontrando persino l’apprezzamento del re Carlo e della sua amante, figlia di un farmacista ebreo, ma nella New York del tempo questi non erano sentimenti apprezzati e lo spettacolo fece immediatamente naufragio, causando una perdita economica che rovinò la stagione.
17Gli insuccessi tuttavia non fermavano la frenesia produttiva, anzi. Come reazione, a fine marzo ecco Polvere umana di Dymov, con scene di Boris Aronson e musiche di Vladimir Heifitz, cugino del più famoso Jascha. Buloff e Kadison avevano qui ruoli secondari, mentre Celia e Maurice erano i protagonisti. La vicenda era ambientata nella Manhattan del momento, al culmine dei Roaring Twenties. Un certo Teddy mette incinta Betty, un’ingenua lavoratrice, e poi la lascia. Lei incontra Joe, che l’adora. Joe è il macchinista del treno che lei prende tutti i giorni. I due si sposano, ma Teddy torna a molestare Betty, finché lei, esasperata, gli spara uccidendolo. Ecco ancora una volta diversi personaggi di ebrei nati in America, ormai in crisi d’identità e simili in tutto ai gentili. Così finiva la stagione 1926-1927, contrassegnata da successi e cadute. La compagnia si predisponeva di buonumore a involarsi per la tournée estiva, percepita come una vacanza.
18Durante le tournée si godeva della libertà di non dover mettere in scena una grande produzione dopo l’altra, rischiando ogni volta l’osso del collo. In città come Boston, Philadelphia, Chicago, Detroit e Cleveland, e poi a Montreal e Toronto, le spese erano molto minori, il pubblico bendisposto e i critici sempre indulgenti. La compagnia proponeva le produzioni meno impegnative del proprio repertorio e la compagnia era sempre accolta sontuosamente dai locali ebrei benestanti, felici della loro presenza. I piccoli teatri nei quali si recitava erano sempre tutti esauriti e dopo gli spettacoli le cene erano sempre offerte dalle organizzazioni locali.
19Al ritorno, Schwartz si ritirò nella casa di Sea Gate, sulla costa sud di Brooklyn. Mentre rifletteva sulla stagione seguente ricevette due visitatori, Morris Lipshitz e il nuovo direttore amministrativo del teatro Jacob Rovenger. Lipshitz lo aveva convinto a reclutare Rovenger, manager esperto che avrebbe potuto raddrizzare le sorti economiche del teatro. Rovenger chiese che il teatro aprisse la stagione seguente con Le figlie di Greenberg, un dramma americano rivolto agli spettatori più giovani. Ne era autore Jacob Adershlager, un altro giornalista passato alla drammaturgia. Adershlager era stato barbiere, poi aveva iniziato a collaborare con il «Forverts» e infine era entrato in redazione e aveva cominciato a scrivere racconti. Ambientata nel Lower East Side degli anni Venti, Le figlie di Greenberg descriveva le conseguenze della guerra sulla vecchia mentalità degli shtetl e il confronto con le nuove istanze etiche americane. Schwartz obiettò che si trattava di un testo non dello standard desiderato, ma alla fine dovette cedere.
20Durate l’estate i debiti aumentavano. Lipshitz dimostrava di essere sempre meno un ammiratore-investitore e sempre più uno speculatore. La posizione di Schwartz si aggravò al punto che dovette chiedere un ulteriore prestito ipotecario sulla casa che aveva comprato per i genitori Isaac e Rose, prestito che doveva essere restituito a rate mensili. I prestiti precedenti gli erano serviti per sottoscrivere le quote societarie del teatro. Oltre ai problemi finanziari, il nostro ne aveva anche altri. Il cuore della madre dava segni di cedimento, il dottore era pessimista e i familiari vivevano nell’angoscia della perdita imminente. Il suo avvocato Charley Groll propose una soluzione: l’attore avrebbe dovuto affittare il teatro a una nuova società formata con Lipshitz e Rovenger che gli avrebbe assegnato un salario di seicento dollari la settimana. La società si sarebbe assunta l’onere delle spese, comprensivo del rimborso dei debiti di Schwartz, il quale con ciò perdeva la proprietà del teatro conservando soltanto la posizione di direttore, ovvero ritrovandosi in una posizione difficile che già aveva conosciuto. Si distrasse dal problema impegnandosi per la miglior riuscita possibile delle Figlie di Greenberg, spettacolo per il quale si aspettava uno scarso riscontro di critica, come in effetti avvenne, con l’eccezione – guarda caso – del «Forverts».
21Sempre in settembre, durante un matiné dell’odiato spettacolo, Schwartz fu letteralmente paralizzato da un terribile presentimento riguardante la madre. Fu messo a sedere in stato catatonico mentre i suoi colleghi terminarono lo spettacolo senza di lui, improvvisando. Vedeva soltanto Anna Appel che in un angolo piangeva come non era mai accaduto neanche in scena e non capiva perché. Berta Gersten gli ordinò di vestirsi e di lasciare il teatro con lei per andare a trovare la madre, della quale era giunta la notizia che era in agonia. Berta lo fece salire sul taxi che aspettava e lo accompagnò a Sea Gate, dove tutta la famiglia in lacrime lo stava aspettando. La sorella maggiore lo portò accanto al letto in cui giaceva Rose, i cui occhi da poco si erano chiusi per sempre. Lui rimase lì, immobile per circa mezz’ora, senza una lacrima, e infine, uscito da questo stato, si rese conto di avere perduto la persona che gli era più cara al mondo. Papà Isaac sedeva solitario in un angolo e pregava. Era tornato giusto la settimana prima dalla Palestina, dove avrebbe voluto stabilirsi con la moglie. Ora ci sarebbe andato da solo, dopo i trenta giorni di lutto, salutando amici e parenti per sempre. Voleva essere sepolto a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi. Questo passaggio rimase indelebile nella mente di Maurice, come confermano le sue memorie, in particolare la partenza del padre: sulla nave s’imbarcò un uomo la cui barba e i cui capelli erano diventati completamente bianchi nel giro di pochi giorni.
22Di ritorno al lavoro teatrale, Maurice si dedicò allo spettacolo seguente, dato che Le figlie di Greenberg doveva chiudere ben prima di quanto Rovenger aveva auspicato. Si passò a una commedia del Diciassettesimo secolo, Il cane del giardiniere di Lope de Vega, scelta troppo eccentrica per gli spettatori dello Art Theatre. La mossa successiva di Schwartz fu quella di chiamare nientemeno che un regista del Teatro Majakovskij di Mosca, fondato nel 1920 per presentare opere di propaganda sovietica. Boris Glagolin sembrava a Schwartz il professionista adatto a dirigere con spirito moderno (ossia con un occhio rivolto alla biomeccanica di Mejerchol’d) i classici non yiddish. Apparentemente l’attore era libero di scegliere quali spettacoli realizzare, come dimostrava la scelta di Lope de Vega disapprovata da Rovenger. Maurice amava moltissimo Il cane del giardiniere, con i suoi ritmi eccentrici, la trama effervescente e i brillanti dialoghi. Lui era Theodor il bello, il giovane servitore della Contessa Diana, innamorata di lui, che amava invece una cameriera. Si divertiva a recitare in questa giostra di tre atti con tutte le complicazioni che via via si manifestavano e venivano infine risolte.
23L’ormai prestigioso critico Atkinson non fu molto impressionato dal testo, ma lo fu per la grande performance fisica del protagonista, definendo lo spettacolo «un incrocio tra il burlesque e la palestra, con gli attori che incessantemente si agitano tra le sbarre della commedia, con risultati molto buffi […]. Si divertono molto più loro del pubblico» ( «New York Times», 21 ottobre 1927). Abe Cahan era molto irritato. E il pubblico non fu più favorevole, facendo crollare immediatamente gli incassi e dunque lo spettacolo. La proposta di un testo spagnolo di trecento anni prima aveva confuso e scoraggiato molti potenziali spettatori. La chiusura dello spettacolo dopo una settimana determinò il drennaggio delle ultime risorse del teatro, cosa che peggiorò molto i rapporti con Lipshitz e Rovenger. Più tardi, in dicembre, il caparbio direttore artistico propose Sul suolo straniero di un certo Saint Andrea o, secondo David Lifson, Areas De Santos, autore del quale non si ha alcuna notizia. Il tema trattato era quello ricorrente del tentativo di integrarsi nella società e nella cultura dei gentili. Ambientata nell’Italia fascista, la storia presentava un anziano patriarca che tentava invano di preservare la propria ebraicità mentre prendeva parte alla vita mondana dell’ambiente circostante. Questa volta i critici mostrarono di apprezzare sia il testo che l’interpretazione, ma lo spettacolo non potè essere replicato a lungo per il disinteresse del pubblico. A fine gennaio Schwartz evase di nuovo dal repertorio yiddish con Alexander Pushkin di Valentino Carrera,9 drammaturgo italiano del Diciannovesimo secolo. Il testo era stato rappresentanto a Torino nel 1865 da Ernesto Rossi ed era diventato immediatamente un successo popolare. Maurice ne era regista e protagonista nei panni del sommo poeta russo ed era affiancato da Anna Appel, Berta Gersten, Henrietta Schnitzer e Anna Teitelbaum. Seguì, in marzo, lo spettacolo conclusivo della stagione, Chassidim americano del vignettista satirico Chone Gottesfeld.
Chassidim americano – Amerikaner khasidim
Chassidim americano è una commedia in tre atti che racconta dei due immigrati ebrei Isaac Green (Jechiel Goldsmith)10 e Bernard Wise (Wolf Goldfaden)11 che nella goldene medine sono diventati ricchissimi immobiliaristi della comunità ebraica. Sono stati soci, ma ora sono nemici giurati e in competizione per ottenere i riconoscimenti pubblici che credono di meritare. Le rispettive mogli, Sarah (Anna Appel) e Fannie (Rebecca Lash),12 sono invece buone amiche, hanno gusti molto mondani e disapprovano l’impegno dei mariti come benefattori di sinagoghe, scuole ebraiche, ospedali ecc. Sono legate anche dall’amore tra Joan (Henrietta Schnitzer), figlia di Fannie, e Milton (Morris Silberkasten),13 figlio di Sarah, la quale è anche favorevole al rapporto amoroso tra la figlia Sadie (Berta Gersten) e un bel giovane di nome Sam (Zvi Scooler). I giovani sono nati in America e incarnano tutte le virtù e i vizi caratteristici della loro (nuova) classe sociale.
I padri hanno altri piani per le figlie. Ora che sono anziani, la loro antica appartenenza al chassidimo è tornata a farsi sentire. Bernard si mette d’accordo con Charlie Flieh (Maurice Schwartz), uno spregiudicato avvocato, per “importare” un giovane tzaddik, un rabbino chassid di nome Reb Dovidel (Lazar Freed), pare dotato di miracolosi poteri, per poterne fare il marito di Joan. L’idea è quella di sistemare i due in un sontuoso palazzo e celebrare così la propria gloria umiliando al tempo stesso Isaac Green. Questi però si rivolge all’avvocato perché faccia arrivare per lui uno tzaddik ancora più carismatico per la propria figlia e si propone di diseredare Milton, il quale sperpera fortune per scommettere sui cavalli.
Charlie e Sarah, in passato vecchie fiamme uno dell’altra, decidono di contrastare il piano del di lei marito. Ne parlano con Milton e Sam e Charlie illustra loro la brillante idea di trasformare Sam, al quale la barba cresce in fretta, nello tzaddik destinato a Sadie. Arriva il vero rabbino Reb Dovidel, suscitando il disgusto dei giovani, e arriva il falso rabbino. Questi, dopo un adeguato addestramento da parte di Charlie, debutta in società e stupisce tutti per i propri modi, oltretutto parlando in perfetto inglese. Con ciò Reb Dovidel è completamente eclissato e Bernard Wise deve prendere atto della sconfitta. Su consiglio di Charlie, Isaac assegna una grande somma al proprio promesso genero, mentre Sadie non si fa una ragione della sparizione di Sam, pensa di essere stata abbandonata e comincia a provare attrazione per Reb Hayimel, con grande gioia del padre.
A questo punto sorgono alcune complicazioni: anche Joan è attratta dal rabbino che parla inglese. Dunque sorgono nuove ostilità tra i diversi partiti e soprattutto tra Isaac e Bernard. L’intrigo si scioglie quando Milton, che incolpa Charlie e Sam per la perdita del proprio patrimonio e dell’amata, confessa la spregiudicata manovra di Charlie, il quale se ne assume la piena responsabilità e dichiara di averlo fatto per salvare Isaac e Bernard dalla propria follia e impedire due matrimoni infelici. Tutti aderiscono infine alla sua invocazione di ritrovare pace e armonia e le due famiglie si riconciliano con soddisfazione degli anziani e dei giovani.
Come si vede, abbiamo qui a che fare con una pseudo-satira dell’ebraismo chassidico di stretta osservanza, realizzata attraverso una trama che è insieme semplicistica e contorta. Gli storici del teatro yiddish confessano di non aver compreso cosa Schwartz si proponesse con questa derisione visto che suo padre Isaac era proprio un ebreo di quel tipo e lui lo considerava l’uomo più giusto e moralmente integro che avesse conosciuto. Comunque sia, la critica espresse severi dubbi sul testo, osservando che Schwartz avrebbe dovuto astenersi dal ridicolizzare la religione. L’aspetto più interessante dello spettacolo era però un altro, ovvero il confronto tra le diverse forme di “americanismo” tanto nel linguaggio quanto nei comportamenti. Schwartz, devoto cultore dello yiddish, riconosceva la decadenza della lingua da lui amata e certo non si rallegrava della dura realtà della vita ebraica in America, ma era comunque logico che i copioni yiddish contemporanei rispecchiassero il linguaggio corrente e ponessero la questione. Già con Il reverendo dottor Silver e Polvere umana Schwartz aveva proposto una visione critica delle nuove e inesorabili radici yankee. Qui di nuovo risolveva il conflitto tra i propri ideali distanti dal senso comune e le esigenze del botteghino, finendo per assecondare il secondo aspetto: obiettivo la sopravvivenza.
Durante l’autunno e l’inverno Schwartz era molto rattristato, sia per la morte di mamma Rose sia per il continuo attrito con Lipshitz e Rovenger. I due reclamavano spettacoli leggeri, con canzoni e danze, senza troppa cura dei contenuti, mentre Maurice, che teneva alla propria reputazione, rimpiangeva di aver ceduto la proprietà del teatro e pensava di lasciare. E lo fece: poco prima del termine ufficiale della stagione ficcò in una valigia le proprie poche cose e uscì dal teatro, attraversò la strada, entro nel Café Royale e si sedette a un tavolo da cui poteva vederlo, pensando che avrebbe preferito recitare in qualunque posto secondo le proprie scelte piuttosto che lo shund in quello splendido edificio.
24Intanto Broadway stava vivendo una delle sue stagioni più ricche: oltre duecentocinquanta produzioni si contendevano il pubblico di New York. Schwartz rifletteva su queste cose mentre beveva caffè su caffè e fumava in continuazione. La sua angoscia tuttavia non durò a lungo: due manager suoi ammiratori lo aiutarono ad assicurarsi una grande sala nella 14th Street, tra la Second e la Third Avenue, un locale che aveva ospitato vaudevillle e un cinema, oltre al teatro. La posizione era perfetta. L’immaginazione di Maurice Schwartz cominciò a correre. La stagione teatrale, ormai, durava trentacinque settimane o meno, ma bisognava impegnarsi per un canone d’affitto annuale e non c’erano più all’orizzonte finanziatori ricchi come quelli con cui aveva avuto a che fare in precedenza. Perciò ebbe l’idea innovativa di rivolgersi direttamente agli spettatori, associandoli all’impresa. Si trattava di qualcosa cui aveva già pensato in precedenza, senza riuscire a realizzarla. Partì con una serie di annunci sulla stampa yiddish proponendo varie forme di sottoscrizione, da un dollaro fino a cento, in cambio di sconti sui futuri biglietti e all’ammissione a tutte le prime. In poche settimane raccolse ben undicimila dollari da parte di migliaia di sottoscrittori, tra i quali centocinquanta onorari con la quota massima. Ciò gli consentì di firmare un contratto d’affitto per dieci anni a partire dal giugno 1928, contratto che prevedeva un graduale aumento del canone. Il proprietario era il famoso e assai esoso produttore cinematografico William Fox.
25Schwartz, che doveva prendere decisioni in grado di riempire la grande sala del City Theatre, annunciò l’allestimento di Santificazione del Nome di Sholem Asch, dramma sulla rivolta di Khmelnytsky (Chmel’nyc’kij) del 1648, uno degli episodi più cruenti della storia, che aveva visto il massacro di oltre centomila ebrei.14
26Con i fondi della sottoscrizione mise insieme una compagnia di alto livello, investendo molto anche in scene e costumi. «Santificazione del Nome doveva essere a ogni costo uno spettacolo grandioso» avrebbe scritto nelle sue memorie. Maurice collaborò con Asch all’adattamento teatrale del racconto e si accollò la direzione del lavoro. Joseph Achron compose le musiche, Sam Ostrowsky era lo scenografo, Charley Adler (figlio di Jacob) il coreografo. Tra gli interpreti vi erano, oltre ai suoi, molti attori da tempo desiderosi di lavorare di nuovo con lui: Goldschmidt, Abramovich, Baratov, Michael Rosenberg, Lisa Silbert, Lazar Freed, Celia Adler e Anatol Vinogradoff. Anna Appel e Berta Gersten mancavano all’appello perché avevano già preso altri impegni per la stagione 1928-1929 ma annunciarono che sarebbero arrivate per la produzione seguente. Lo spettacolo prevedeva una sessantina di attori, di cui una quarantina con ruoli più o meno importanti e gli altri impiegati come figuranti speciali (cosacchi, soldati polacchi, contadini ucraini, nobili, bambini e cantanti del coro). Questi ultimi erano stati “formati” da Schwartz con un corso organizzato per tempo.
Lazar Freed, attore a tutt’orizzonte
Lazar Freed15 era nato bel 1888 a Minsk, il padre era un mercante e per qualche anno era stato direttore di una industria produttrice di sapone. Ricevette la sua educazione dapprima in un cheder, poi in una yeshiva e in pre-ginnasio russo, infine in una scuola yiddish-russa. Per un poco fu anche allievo del Conservatorio di Varsavia. Da giovane cantava nelle sinagoghe come alto-soprano.
Spettatore teatrale per la prima volta all’età di sei anni, dimostrò subito di possedere un buon orecchio e una facilità nell’imitare le voci altrui. Per anni visse nei pressi di un circo, che frequentava a scapito della scuola. Nel 1905 cominciò a recitare come professionista con la nota compagnia di A.G. Kompaneyets16 a Vitebsk e nelle operette daytschmerish, affrontando così i primi problemi della professione, come quello di correggere il proprio accento lituano. Dopo qualche mese seguì l’attore Sam Adler17 a Odessa, cominciando a interpretare ruoli sempre più importanti. Nel 1908 eccolo nella compagnia di Peretz Hirschbeyn. A proposito di questo passaggio il critico Alexander Mukdoyni scrive nelle proprie memorie che «Tra coloro che ci fecero allora una buona impressione vi erano il giovanissimo e timido Jacob Ben Ami e il suo grande amico Lazar Freed».
Dopo lo scioglimento della compagnia Hirschbeyn, Freed recitò come “amante-cantante” in molte operette e si fece notare in particolare all’Elizeum di Varsavia in Eva. Nel 1913 Boris Thomashefsky lo fece arrivare in America, dove debuttò recitando nell’Eterno viandante di Dymov e in La pecorella smarrita di Thomashefsky.
«Durante i suoi primi anni in America – scrive Sholem Perlmutter, il famoso suggeritore – Lazar Freed, che possedeva una calda voce da baritono e da tenore, recitò in molte operette yiddish seducendo con il suo dolce canto il pubblico americano». Diversi anni dopo, a partire dalla stagione 1917-1918, quando Henrietta Schnitzer e Jacob Ben-Ami recitavano al Garden Theatre in un testo di Hirschbeyn, Freed ebbe occasione per la prima volta di misurarsi con un ruolo drammatico, così scoprendo e facendo accettare la propria vocazione più autentica.
Per la stagione 1923-1924 Freed si unì allo Yiddish Art Theatre di Schwartz, dove avrebbe consumato tutto il resto della propria carriera, salvo brevi episodi altrove, condividendone tutte le fortune e le traversie, in America e in Europa. Qui interpretò molto ruoli importanti e da protagonista, ad esempio nel Dibbuk, in Sabbatai Zevi, in Stracci, nel Decimo Comandamento e in Dio, l’uomo e il diavolo, per non parlare dei molti ruoli di primo piano, ad esempio in Stempenyu, L’ebreo Süss, Zio Mosè e È difficile essere ebreo. Comunque la sua interpretazione decisiva, memorabile, fu quella di Yoshe il Tonto. Il mite Simpleton creato da I.J. Singer divenne così popolare da essere associato al suo nome. In quel ruolo girò il mondo con Schwartz come co-protagonista.
A volte, quando lo Yiddish Art Theatre era in tournée senza di lui, Freed recitava con altre compagnie. Ad esempio nella stagione 1931-1932 fu con lo Ensemble Art Theatre, dove, sotto la direzione di Egon Brecher fu il protagonista Maharal nel Golem di Leivick e in Il treno corazzato 14-69 (registi Snegoff e Mestel) di Vsevolod Ivanov (già messo in scena dal Teatro d’Arte di Mosca per celebrare il decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre). Nella stagione 1939-1940 fu ancora un protagonista singeriano in Compagno Nahman, diretto da Ben-Ami e Mestel. Possiamo vedere Freed in diversi film muti e sonori. In Europa recitò con Libert e Regina Kaminska; nel 1924, a Vienna, era in Yizkor; nel 1925 in Salome of the Tenements18 era un poeta-investigatore yiddish. Tra i film sonori in cui appare vi sono il rifacimento sonoro di Yizkor, Overture to Glory, The Great Advisor, Eli Eli, The Jewish Melody e Love and Sacrifice, film dei quali si dice in dettaglio nel secondo volume di questa serie.
Freed fu anche traduttore di Sansone in catene di Leonid Andreev e Mendel Spivack di Semyon Yushkevich, messo in scena allo Yiddish Art Theatre nella stagione 1926-1927.
Sposò Celia Adler, dalle quale ebbe il figlio Selwyn.
Negli anni precedenti la sua morte, Freed, sofferente di una grave tubercolosi, non poté recitare. Dopo essere stato curato a New York, andò in California per essere ricoverato nella City of Hope, sanatorio nel quale morì l’11 marzo 1944. Secondo la sua volontà è sepolto a New York tra familiari e colleghi.
Il suo è dunque il caso di un attore-autore di alto livello, come ce ne sono stati molti nel teatro yiddish, un attore che non fu mai capocomico, drammaturgo o regista, ma sempre collaboratore creativo di tali figure. Lo si incontra in vari passaggi del nostri volumi, in particolare il primo, ma qui vogliamo proporre una serie di annotazioni repertoriate da Zalmen Zylbercweig e ora online sul sito del Museum of Family History.
Sulla sua apparizione a Londra, in scena con Schwartz, il critico e traduttore Morris Meyer19 ricorda: «Un attore che recitava con ricchezza di sfumature era Lazar Freed, soprattutto in Sabbatai Zevi, dove incarnava il mistico profeta che bruciava nella propria estasi interiore, e ne trasmetteva il calore a tutti coloro che lo circondavano. Interpretava con grande intelligenza il ruolo di Shneyerson in È difficile essere ebreo anche se il suo testo era talvolta debole. E lo stesso accadeva con I sette che furono impiccati, persino quando doveva esprimere la filosofia mortale del proprio personaggio. Nei panni di Nahum e poi di Yoshe Kalb la sua recitazione era una vera e propria radianza poetica. Lazar Freed era un attore intelligente e quel ruolo non gli dava la possibilità di esprimere in pieno la propria personalità. Parlava assai poco, era una recitazione silenziosa, la sua. Molto si vedeva sul suo volto e nei suoi occhi. Quante mtushtsh’dikes e quanti farnunft, quanta verità psicologica esprimeva! In ogni ruolo Freed trovava la bellezza della forma che doveva riproporre al pubblico. Ebbe molto successo anche con il personaggio di Hershele Dubrovner in Dio, l’uomo e il diavolo. Aveva estratto dalla profondità il senso della lotta contro il demonio. Nel suo eloquio si percepiva uno spirito poetico e nei suoi movimenti c’era una originale finezza manieristica».
Jacob Mestel ne scriveva in questi termini: «Freed ha avuto una vita dura, ma da artista. Era un artista nel sangue e nei nervi […] Era molto versato nella yiddishkeit e nelle letterature yiddish, russa e inglese. Aveva letto moltissimo, però non affrontava i ruoli con un piglio intellettuale. No, non “creava” i propri personaggi, li realizzava. […] Lo faceva in modo intuitivo, raggiungendo i vertici dell’arte attorica. In effetti recitava sempre un solo ruolo. Tutti abbiamo in mente il tono baritonale della sua voce, i suoi intensi occhi scuri, il ritmo cangiante delle sue azioni e, fino ai suoi ultimi giorni, del suo “giovane” corpo. Anche il suo naso prominente, “adleriano” dava forza alla sua figura scenica. Era particolarmente impressionante quando interpretava il misticismo fanatico, ad esempio nel Dibbuk e in Sabbatai Zevi, ma anche in Dio, l’uomo e il diavolo o nello Zio dell’Ebreo Süss, vetta della follia mistica, dell’estasi religiosa, della sofferenza rancorosa e la devota fiducia con cui ha sempre, come confermano i suoi colleghi e il pubblico, conquistato e baroysht. […] Freed era onesto nello stare in scena. Forse non conosceva molti registi famosi, però provava sempre a restare nel mercato, né al centro né fuori. Nessuno dei suoi colleghi lo ha mai accusato di rubargli la scena. Era onesto al punto di aiutare i propri colleghi, quando poteva. Ad esempio mentre recitava in Green Fields spiegava agli altri con pazienza quali fossero gli aspetti delle scene e delle situazioni a cui poggiarsi per realizzare il ruolo. […] Viveva in un alone di solitudine che caratterizzò ogni aspetto della sua vita, che era il suo tratto identitario. La sua lunga e ricca carriera in scena […] fu sempre ripagata dall’apprezzamento del pubblico e dei colleghi, tutti felici del suo successo. Comunque lui restò sempre una persona triste. […] Era forse troppo modesto e timido per pretendere maggiori ruoli e riconoscimenti. […] Era come un orfano. Socievole, quasi sempre sorridente, con un sorriso triste e talvolta con humour, era comunque un isolato, per scelta. Persino le sue risate erano come un’onda da cui si proteggeva: teneva la mano davanti alla bocca. Aveva qualcosa dell’eremita, c’era in lui un monarca ascetico. La sua vita privata e famigliare costituiva per lui una difficoltà che gli rendeva difficile accettarsi. E quando era stanco dopo quelle notti insonni, cercava conforto nei libri, anche dopo una notte di sofferenza passata al tavolo di un caffè».
Sholem Perlmutter il suggeritore lo ricordava così: «Il più alto riconoscimento per lui era una buona critica che analizzasse la sua recitazione e il suo attaccamento al teatro yiddish. Era uno dei più amati attori del nostro mondo ed era un buon amico per tutti. Si appassionava al compito che gli veniva assegnato e lo coltivava nel suo cuore. E anche quando non capiva o apprezzava appieno ciò che doveva fare risolveva la questione aiutando gli altri. Purtroppo il destino gli fece trascorrere gli ultimi anni di vita in ospedali e sanatori, durante i quali si sentiva abbandonato dall’ambiente teatrale. […] Nel suo repertorio figurano diverse interpretazioni considerate modelli supremi, inarrivabili, che sono nella memoria di tutti gli attori yiddish».
E N. B. Linder: «Lazar Freed era un maestro nel mostrare in scena la sofferenza di personaggi al centro di prove durissime, sempre parlando assai poco, anzi recitando in silenzio come nessun altro». E infine Maurice Schwartz, quando i suoi più fidi attori erano ormai morti: «Lazar Freed, Samuel Goldenburg, Abraham Teitelbaum20 e ora Isidore Cashier! Questi quattro attori erano i pilastri dello Yiddish Art Theatre. Dopo la loro morte ci vorrà molto tempo per trovare i loro equivalenti, tanto nel teatro yiddish che nel teatro mondiale».
A questo punto, libero di realizzare ciò che voleva, Schwartz si concesse la straordinaria innovazione di una scena girevole mossa da un meccanismo elettrico, che consentiva cambi di scenografia pressoché istantanei. Le complesse prove si protraevano dal primo mattino al tramonto e il regista prestava grande attenzione ai dettagli e alla recitazione di ognuno. La prima di Santificazione del Nome il 14 settembre registrò un grande successo. Schwartz si sentiva assolto per l’enorme dispendio dei mezzi impiegati. La recensione di Brooks Atkinson riconosceva che l’integrità artistica dello Jewish Art Theatre era stata preservata nonostante i crescenti ostacoli e poneva il teatro yiddish sullo stesso piano dei migliori allestimenti di Broadway, aggiungendo che anche coloro che non comprendevano la lingua potevano godere «dell’ardore e della poesia espressi in uno spettacolo tra i più pregevoli del genere». Atkinson esprimeva alcune riserve sulle luci, sul trucco e sulla concertazione imprecisa dei molti attori, ma ciò non gli impedì di concludere affermando che «nessuno altro spettacolo proposto da Broadway in questa stagione si avvicina alla grandiosa concezione del dramma epico di Sholem Asch» ( «New York Times», 30 settembre 1928).
27Schwartz aveva pensato inizialmente di replicare lo spettacolo per sei settimane, soprattutto per onorare la promessa fatta ai sottoscrittori di un repertorio variato, ma dati gli alti costi di produzione da ammortizzare decise di prolungare le repliche per altre tre settimane, dopo le quali conservò lo spettacolo per i fine settimana riproponendo Stracci negli altri giorni, senza tuttavia prendervi parte come attore. Per Stracci fece ricorso a Abraham Morevsky, già membro della Vilner,21 affidandogli la regia e il ruolo principale. Poi, all’inizio di novembre, interruppe Santificazione del Nome per proporre un molto amato testo di Sholem Aleichem, 200.000, intitolato anche La grande vincita. Una settimana dopo l’ultima replica del testo di Asch fu la volta di uno spettacolo al quale pensava da anni, nientemeno che Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov, prendendo a pretesto il trentennale dell’allestimento da parte del Teatro d’Arte di Mosca. Previsto per due sole settimane di repliche, il Čechov era diretto dal russo Leo Bulgakov, un collaboratore di Stanislavskij che aveva abbandonato la compagnia durante la tournée americana e che avrebbe poi diretto molti spettacoli a Broadway. Al Giardino seguì Dio, l’uomo e il diavolo, allestito nonostante i timori degli amministratori Leon Hoffman e Joseph Grossman. In questo caso la direzione di Schwartz si basò innanzitutto su una revisione drammaturgica «eliminando i monologhi più noiosi e rinforzandone la drammaticità […]. Decisi di creare un nuovo modo di presentare questo interessante testo; aggiunsi un terzo atto dividendolo in due parti» (LMS, 4 aprile 1945). Sorprendendo tutti, questa versione dell’opera ebbe un esito notevole di critica e di pubblico e fu replicata più a lungo del previsto.
28Non sempre le ciambelle riuscivano con il buco. In gennaio un soddisfatto Schwartz tolse dal cartellone Uomo, dio e diavolo per mettere in scena Otello, scommettendo di vincere l’antipatia dell’intellighenzia yiddish per il creatore di Shylock, considerato una diffamazione dagli ebrei; lo fece oltretutto richiamando come regista quel Boris Glagolin che già aveva diretto il disastroso Cane del giardiniere di Lope de Vega. La traduzione era di Mark Schweid, Charley Adler il coreografo e Alex Chertov lo scenografo. Le musiche utilizzate, questa volta, erano quelle dell’opera di Giuseppe Verdi. Ben-Zvi Baratov era il Moro, mentre Schwartz scelse per sé il difficile ruolo di Iago, anche per contraddire l’opinione corrente secondo la quale lui voleva fare bella figura recitando sempre in parti di eroe. Celia Adler era una convincente e tenera Desdemona. Questa volta Atkinson si dichiarò eccezionalmente sorpreso dall’interpretazione, lodando la traduzione in yiddish per la sua aderenza allo spirito shakespeariano, mentre il «tempo» e il «colore» del dramma, pur estranei all’originale, lo arricchivano. Alcune riserve riguardavano la regia di Glagolin, considerata ridondante, visto che era arrivato a creare un corso d’acqua in scena percorso da una vera gondola ( «New York Times», 4 febbraio 1929). Anche Maurice, che pure aveva già allagato la scena nel 1924 per Il diavolo sa cosa, era perplesso. Rodrigo era Joseph Greenberg (che sarebbe poi diventato il regista e produttore cinematografico Joseph Green) ed era così innervosito nel recitare in gondola da capovolgersi durante una replica. Quindi non fu una sorpresa per nessuno che Schwartz “asciugasse” immediatamente lo spettacolo.
29A metà febbraio fu la volta di Il maggiore Noah di Harry Sackler. Mordechai Samuel Noah22 era stato uno dei personaggi più popolari tra gli ebrei americani. Da autentico visionario – prima di Herzl – Noah sosteneva che bisognasse creare una colonia chiamata Ararat a Grand Island, sul fiume Niagara, vicino a Buffalo, nello stato di New York. La colonia sarebbe stata una prova per i pionieri ebrei che poi si sarebbero stabiliti in Palestina fondando uno stato ebraico. Dunque la storia era affascinante, ma lo spettacolo non funzionò e dopo due sole settimane lo si dovette togliere dal cartellone per sostituirlo con Stempenyu, tratto dal racconto di Sholem Aleichem, questa volta adattato da Schwartz, poiché Isaac Dov Berkowitz nel frattempo si era trasferito in Palestina. Stempenyu il violinista – di cui ci occupiamo nel primo volume – era una calda, romantica commedia sul primo violinista di una formazione girovaga che, infelicemente sposato, si innamora di una bella donna a sua volta scontenta del ricco marito. Lazar Freed era il protagonista, Schwartz il noioso marito. In questo caso la scena girevole fu ampiamente utilizzata per presentare ambienti diversi quasi simultaneamente, ad esempio un modesto matrimonio contrapposto a un’affollata festa ambientata in uno shtetl. Questi effetti, accompagnati da un sapiente gioco di luci, produssero un grande effetto sul pubblico e contribuirono al successo dello spettacolo.
30La stagione volgeva al termine in un clima politico che riconduceva il ristretto ambiente del teatro yiddish agli eventi nazionali. In novembre era stato eletto presidente Herbert Hoover, che completava così il dominio dei repubblicani negli anni Venti. Franklin Delano Roosevelt era il governatore dello stato di New York. Il 24 febbraio, il giorno precedente la prima di Maggiore Noah, sette gangster erano stati freddati da una banda rivale in un garage di Chicago, evento passato alla storia come “Il massacro di San Valentino”. Ma il 1928 è da ricordare anche per la pubblicazione di quattro classici americani come Addio alle armi di Ernst Hemingway, Angelo, guarda il passato di Thomas Wolfe, L’urlo e il furore di William Faulkner e Dodsworth di Sinclair Lewis. Il Premio Pulitzer per il teatro era andato a Eugene O’Neill per Strano interludio messo in scena dalla Theatre Guild; Un americano a Parigi di George Gershwin aveva debuttato alla Carnegie Hall e tra i film più amati dai newyorchesi vi era Il principe consorte di Ernst Lubitch, con Jeanette MacDonald e Maurice Chevalier; anche Topolino fece la sua prima apparizione sugli schermi quell’anno e la grande Fanny Brice debuttò nel cinema con in Il paradiso delle fanciulle cantando My Man.
31Come attore e regista Schwartz era molto soddisfatto della propria stagione al City Theatre. Santificazione del Nome e Stempenyu in particolare erano andati benissimo. Schwartz aveva compreso come raggiungere un pubblico vasto con uno stile intermedio tra la vecchia scuola del teatro yiddish e le novità di cui era portatrice l’avanguardia registica europea. Tuttavia molto critica nei suoi confronti era soprattutto Celia Adler, secondo la quale con Santificazione del Nome aveva ceduto a sostanziali compromessi con gli amministratori.23 In tale contesto, se gli incassi andavano più che bene, i costi erano sempre superiori, dato il carattere di Maurice, che fu costretto di conseguenza a interrompere l’affitto e lasciare il grande e attrezzato City Theatre. Anche senza avere ancora un altro teatro progettava la stagione seguente e nel frattempo, anziché dedicarsi alla solita tournée estiva, andò in California per capire se poteva fare qualcosa nella galoppante industria cinematografica che ora, con l’avvento del sonoro, aveva bisogno di nuove idee e soprattutto di nuovi interpreti. Intraprese il viaggio comunque recitando in varie tappe lungo il percorso. Arrivato a San Francisco con una compagnia a ranghi ridotti propose Santificazione del Nome al pubblico locale di ebrei completamente americanizzati che risposero assai freddamente. Dopo di ciò la compagnia andò a Los Angeles, città «in cui la vita è regolata sui film e la gente corre appresso alla propria ombra senza mai afferrarla» (LMS, 14 aprile 1945). Qui Schwartz debuttò con Tevye il lattivendolo al Mayan Theatre. In sala c’erano tutti i divi cinematografici del momento, i registi, gli sceneggiatori e i produttori più importanti. Molte delle signore non erano ebree e per loro la storia di Chave, considerata apostata dai suoi perché abbraccia il cristianesimo, era difficile da digerire. Dopo Tevye furono proposti altri titoli del repertorio, tutti bene accolti.
32L’euforia generale era destinata a durare poco. Paul Bern,24 produttore della mgm, era stato al Mayan e si era fatto presentare a Schwartz proponendogli poi un contratto di sette anni, ma solo per lui, con un compenso molto alto. Le atmosfere e le offerte californiane esercitavano un grande fascino su Maurice: fantasticava su un futuro nel quale avrebbe potuto occuparsi soltanto di recitare, senza tutti i problemi economici che a New York gli rovinavano la vita, senza più defatiganti trattative con i finanziatori, la paura di Cahan e gli inseguimenti da parte dei proprietari dei teatri, e tutto per finire ogni stagione in passivo. Il corteggiamento di Hollywood lo gratificava e lo induceva a riflettere. Il cinema sonoro stava rivoluzionando il panorama degli attori, che ora, tra l’altro, dovevano essere dotati di una voce all’altezza del mezzo. In questo senso Schwartz si sentiva più che pronto alla sfida. Dunque perché rifiutare un provino davanti alla macchina da presa? Nell’ambiente pettegolo della città, dove niente poteva rimanere segreto, tutto il resto della compagnia sapeva e fremeva di preoccupazione, al che il direttore li riunì e annunciò loro solennemente che non li avrebbe lasciati per diventare un divo del cinema come Paul Muni. Poi si dedicò a tentare di convincere i magnati hollywoodiani a sponsorizzare la sua impresa teatrale. Durante queste imprevedibili trattative gli attori, specie quelli che non erano stati confermati per la stagione seguente, lo accusavano di tradimento. Né mancavano i contrattempi di altro tipo, come una eccezionale ondata di caldo che induceva a frequentare le spiagge più che i teatri, così che il capocomico fu costretto a dimezzare le paghe della compagnia con promessa di saldare il dovuto a New York, città a cui tutti quanti tornarono con un biglietto prepagato di prima classe e niente di più. Gli animi erano esacerbati. Uno degli attori presentò denuncia al sindacato e informò il «Los Angeles Times», che sulla faccenda imbastì una storia accusando Schwartz di tramare con la mgm a scapito dei propri dipendenti. Maurice era mortificato, ora dei suoi problemi economici non si spettegolava più soltanto in ambito yiddish e a Los Angeles non c’era un pubblico che lo fiancheggiasse. I dissidi tra ebrei procuravano oltretutto anche un grave danno d’immagine.
33Schwartz si precipitò da Paul Bern per cercare un rimedio alla situazione. Fu accolto molto freddamente, provando per questo ancora più vergogna, si sentiva impotente, paralizzato e infine scoppiò a piangere. Bern comunque gli comunicò che di un accordo per il momento non era il caso di parlare. All’udienza presso il Los Angeles Commissioner of Labor si presentarono tutti i suoi attori, alcuni con lui da vent’anni, confessando di essere dispiaciuti per ciò che l’etica sindacale li aveva costretti a fare. La presenza di un giornalista accrebbe il disagio del nostro, il quale si chiedeva come avrebbero potuto guardarsi allo specchio dopo quel passaggio. Il giudice sindacale chiese agli attori se avevano il biglietto di ritorno a New York e per quante settimane dell’anno teatrale avessero percepito la paga. Alla risposta che erano stati pagati regolarmente per quarantatré settimane, dichiarò il caso chiuso. Nonostante il provino cinematografico fosse stato positivo, seguito da una ricca proposta di contratto, Maurice partì a sua volta per New York, senza sapere quale programma avrebbe realizzato e in quale teatro. La sua priorità era il lavoro d’attore, il proprio e quello dei colleghi.
Alla prima riunione per la stagione 1929-1930, l’incidente di Los Angeles era già dimenticato e i pensieri andavano al primo spettacolo da allestire. Ma qualche strascico c’era: Maurice doveva prendere i barbiturici per calmarsi e altri medicinali per il comportamento irregolare del suo cuore. Comunque cercava un teatro da comprare, visto che di tornare al City Theatre non se ne parlava, dopo il brusco congedo con il proprietario William Fox. Trovò ciò che faceva al caso suo nel Proctor’s Fifth Avenue Theatre, situato tra Broadway e la Ventottesima. Il primo titolo sarebbe stato L’ebreo Süss di Lion Feuchtwanger, tratto dal racconto che aveva avuto un grande riscontro in Germania e non solo.
Maurice Schwartz sul melting pot
Il 15 dicembre 1929 sul «New York World» usciva un articolo a firma di Maurice Schwartz sul melting pot of the theatre. Il nostro dichiarava finita l’epoca dei Goldfaden e dei Gordin e prendeva atto che «i sentimenti nazionalisti una volta prevalenti in scena sono stati spazzati via. Strani personaggi si vedono ora. Superficiali, che nulla significano per la vita ebraica in America. […] sono i protagonisti dei melodrammi e delle commedie musicali che hanno già avuto successo a Broadway […] gli impresari ebrei seguono supinamente quelli di Uptown». […] «Mentre ci sono diverse organizzazioni nazionali che cercano di insegnare ai bambini ebrei la loro lingua, sulle scene di Downtown si recita sempre più in inglese. Perché non parlano lo yiddish o altre lingue negli spettacoli di Broadway?». Schwartz continua rivendicando di avere «resistito faticosamente per dodici anni con lo Yiddish Art Theatre alla tentazione facile del melting pot, presentando ottantacinque testi di livello mondiale ed evitando «l’infezione di Broadway»: «attiriamo una clientela composta per il trenta per cento di non ebrei. Oggi questa percentuale è ancora più alta con L’ebreo Süss a causa della popolarità del romanzo di Feuchtwanger da cui è tratto» e conclude così: «Gli ebrei americani frequenteranno entrambi i teatri. I produttori americani ed ebrei dovrebbero mettersi bene in testa che la cultura ebraica si sviluppa in America in stretta connessione con la cultura americana; e noi siamo stanchi di vederci deformati e resi caricature sulle scene».
34Dopo essersi sistemato nel Proctor’s Fifth Avenue, Maurice riprese i rapporti d’amicizia con Samuel Goldenburg, attore conosciuto ai tempi di Kessler. Goldenburg aveva, secondo lui, la presenza scenica di Paul Muni e il fascino contagioso di Joseph Buloff. A Sam offrì di interpretare il protagonista di Feuchtwanger e lui si accontentò del ruolo del Duca Karl Alexander. In questo fosco dramma ambientato nel Settecento che tratta di lotte per il potere e intrighi sia tra ebrei che tra cristiani, spicca il personaggio di Joseph Suss Oppenheimer, cortigiano ebreo di Wurttemberg, in scena dall’inizio alla fine, ovvero al momento della sua esecuzione capitale. Oltre a Goldenburg, Schwartz scritturò Mark Schweid, Morris Strassberg, Lazar Freed e le rientranti Anna Appel e Berta Gersten, mentre Stella Adler, sorellastra di Celia, entrava nella compagnia in cui sarebbe rimasta per due anni di un apprendistato decisivo, come avrebbe poi riconosciuto.25
Samuel Goldenburg, stella vagabonda
Era nato nel 1886 a Brest-Litovsk, nella Lituania polacca. La sua era una famiglia chassidica che lo voleva orientare verso gli studi religiosi, da lui seguiti fino all’adolescenza con il nonno, il famoso rabbino Ber Soloveytshik. Quando i suoi genitori si trasferirono a Varsavia la sua formazione cominciò a comprendere soggetti secolari e dopo essersi esibito in una prova di canto dinanzi agli studenti del conservatorio fu invitato a unirsi a loro, cosa che fece, pensando di diventare un direttore d’orchestra militare e mantenendosi dando lezioni private di lingua yiddish e musica. Avendo poi perduto i propri lavoretti a causa della crisi, entrò in una piccola compagnia nella quale cominciò a recitare in russo per una fortunosa sostituzione, diventando così un attore professionista e scavando un solco profondo tra sé e il padre.
Arrivata a Varsavia la compagnia di Sam Adler e Meerson, Goldenburg fece con loro un debutto folgorante interpretando il Karl Moor dei Masnadieri, anche se poi passò a personaggi più anziani. Dopo non molto andò a Londra per evitare la crescente repressione antiebraica polacca e qui fondò una compagnia teatrale di lavoratori, la Dramatishe Kunst, guadagnandosi da vivere come insegnante di piano, finché il grande Sigmund Feinman non lo chiamò a interpretare un importante ruolo in Ascolta, Israele, dopo il quale continuò tornando ai personaggi romantici.
Dopo un paio di stagioni in Sudafrica con Sam Wallerstein tornò a Londra e a Parigi, per poi partire alla volta dell’Argentina e approdare, nel 1917, a New York, dove cominciò con il recitare al National Theatre con Boris Thomashefsky. Negli anni seguenti, sempre come attore, cambiò città e compagnie e infine nel 1925 approdò al National Theatre come attore e regista, rimanendovi fino al 1929, anno in cui Schwartz lo volle con sé e ne fece uno dei suoi principali attori collaboratori.
La stagione aprì relativamente tardi, il 19 ottobre, a causa di una disputa di lavoro: gli impresari teatrali chiedevano di tagliare tutte le paghe del trenta per cento, in modo da proporre i biglietti allo stesso prezzo di quelli del cinema. Dopo varie proteste fu raggiunto un compromesso e lo spettacolo andò in scena. Il «New York Times» scrisse che Schwartz aveva rimesso insieme una compagnia di alto livello e che aveva dato una buona prova di sé come attore e come regista. Samuel Goldenburg aveva corrisposto pienamente alla fiducia del direttore. In questo caso, come altre volte d’altronde, Schwartz cominciò a covare una certa gelosia e si avvalse del proprio potere per eliminare Goldenburg e sostituirlo, nonostante le proteste dell’interessato e dei colleghi. Un altro testo di Chone Gottesfeld fu messo in cartellone in dicembre, mentre L’ebreo Süss riempì la sala nei fine settimana fino a gennaio. Angeli sulla terra era un sollievo dopo le atmosfere cupe del precedente: cominciava in un aldilà molto gradevole e dominato dalla corruzione che man mano si trasformava in Manhattan, vera capitale del peccato, città alla quale erano stati assegnati due angeli per tentare di redimerla. Gli angeli un po’ camp di Schwartz e Goldenburg erano irresistibili nella figurazione dei due attori girovaghi, che infine erano conquistati dallo spirito americano al punto di sposarsi, fare figli e diventare milionari. Atkinson ne parlò come di un assai godibile esempio di Commedia dell’arte.
35In cartellone non poteva mancare Sholem Aleichem e dunque in gennaio si propose una versione teatrale di Stelle vagabonde.26 Schwartz adattò il lungo racconto seriale in tre atti e diciotto scene, comunque trascurando, secondo la maggior parte dei critici, le più roventi scene d’amore e rimanendo a uno stato di assemblaggio frammentario. A ciò seguì, già in febbraio, Catene di H. Leivick.
Catene – Keytn
Con Catene Schwartz e la compagnia registrarono una riuscita totale, con tutti i critici che invitavano anche gli spettatori di lingua inglese a vederlo. La vicenda si svolge nel 1905 in una prigione della Siberia artica, un ambiente che il grande autore conosceva per esperienza diretta. Però capitava sempre più spesso, a partire dagli anni Venti, che il pubblico rifiutasse le riflessioni sul recente e triste passato, e anche in questo caso, nonostante il valore del testo e dell’interpretazione, la regia audace e le ottime recensioni, Catene non funzionò al botteghino e dovette chiudere in fretta. Il dramma in tre atti denuncia le condizioni disumane che il regime zarista riservava agli avversari politici e la loro tendenziale nobiltà d’animo, che si manifesta persino nel cercare di vivere in quella condizione secondo gli ideali socialisti, tentativo però destinato a fallire a causa delle umanissime reazioni cui sono costretti dalla durezza della prigionia. Ognuno dei personaggi qui, rappresenta una tendenza umana e l’insieme mostra le differenti reazioni a un’idea di bene comune che comporta non pochi sacrifici individuali.
Leivick era stato arrestato nel 1906 per cospirazione e dopo avere trascorso i due primi anni in prigione era stato processato e condannato a ulteriori quattro anni di pena, scontati i quali fu mandato in Siberia per un esilio a vita. Dopo un anno, nel 1913, era fuggito ed era arrivato negli Stati Uniti, dove all’inizio sopravvisse facendo il manovale, poi riuscì ad affermarsi come scrittore. La sua opera più celebrata era ed è Il Golem, messo in scena dalla compagnia Habima tre anni prima di Catene, e la più frequentata dalle formazioni yiddish era Stracci.
L’inizio di Catene mostra la cella della prigione nella quale sono rinchiusi undici prigionieri, otto politici e tre comuni. Schwartz interpretava il capo carismatico dei politici. Ma non mancano i problemi di ogni tipo, dalle dispute per i turni nei posti letto, che non bastano per tutti, all’accusa di tradimento verso colui che ha chiesto la grazia. Né mancano i progetti di evasione e uno dei politici riesce nell’impresa, sognando di andare a guidare uno sciopero promosso dai minatori dei dintorni. La vicenda dei personaggi, tutti forti e ben delineati, con una sapienza drammaturgica forse superiore a quella di Nel fondo di Gorkij, si sviluppa poi attraverso diversi episodi.
La fine sconsolante, sul piano politico, è emendata da un’annotazione poetica. Quando il leader dei politici viene portato via per essere fucilato dai carcerieri che hanno inventato un gioco sadico per sterminarli un poco alla volta, uno di loro si rivolge a un compagno che piange dicendogli: «Non piangere. La morte è un sorriso. La morte è un chiarore. Lo sapevo che sarebbe finita così».
Schwartz reagì con orgoglio allestendo nientemeno che lo sconsolato Spettri di Ibsen e Hinkemann di Ernst Toller e poi chiuse il teatro, dopo sole ventiquattro settimane, per non accumulare passivo. Era molto triste, anzi disperato. Fu costretto a tagliare i salari e per evitare che il sindacato gli proibisse di aprire la stagione seguente e firmò un accordo con Guskin che compensava questo taglio con una diversa gestione della tournée estiva, secondo il quale lui avrebbe ricevuto la stessa paga degli altri e gli incassi sarebbero stati destinati a regolarizzare la situazione; un bilancio con meno viaggi e ridotte spese di pubblicità avrebbe aiutato a raggiungere l’obiettivo; e se la tournée non si fosse realizzata Schwartz sarebbe stato comunque responsabile del debito fino alla sua estinzione.
36In effetti la tournée non si fece, per causa maggiore. L’ottobre precedente aveva visto il crollo di Wall Street e l’inizio di una delle più terribili crisi sociali degli Stati Uniti. Un quarto della forza lavoro era inattivo. Andava male per tutti. Maurice aveva chiuso il teatro con un grande debito nei confronti dei dipendenti e non poteva iniziare una nuova stagione senza prima saldarlo. La situazione era molto dura per gli attori e le loro famiglie. Per risolvere il problema si convinse a fare qualcosa che contravveniva ai propositi più solenni del passato: Broadway e un vaudeville! Un vaudeville basato sul Mercante di Venezia, tre frammenti con Shylock protagonista, dunque uno “Shylock on Broadway”. Non era un’idea originale per gli artisti yiddish: Jacob Adler aveva rappresentato il testo nel 1901, al People’s Theatre sulla Bowery, e due anni dopo aveva ripreso il ruolo Uptown in yiddish, con gli altri attori che recitavano in inglese. Maurice prese accordi con la potente rko (Radio-Keith Orpheum Pictures), grande casa di produzione e distribuzione) per replicare il vaudeville nel loro circuito, compreso il Palace Theatre, dove si esibivano divi come i Barrymore, William Gillette e l’allora famoso Otis Skinner che proponeva i propri “riassunti” dei classici. Con le spalle al muro, l’attore chiese tremilacinquecento dollari la settimana di compenso, la stessa cifra percepita dalla sua rivale Molly Picon al Loews Theatres. Con altri mille dollari avrebbe anche pagato i sei attori che recitavano con lui e le spese, mentre Guskin avrebbe incassato il resto. Dunque l’aprile del 1930 fu un mese molto intenso per Maurice, a partire dal 12, nel teatro rko Franklin nel Bronx per poi proseguire in altre piazze. Schwartz si piegò fino al punto di recitare al Palace in uno spettacolo di trenta minuti composto di tre frammenti del Mercante di Venezia (la scena di apertura, quella di Jessica che abbandona la casa paterna e quella che segna l’apice drammatico dell’opera, quando l’ebreo reclama la propria libbra di carne). Nella stesse serate si esibivano con lui Horace Heidt e la sua orchestra, il tenore radiofonico Peter Higgins, la cantante e ballerina Nina Olivette, e sei altri artisti di varietà. Nel complesso il suo Shylock fu un successo: il personaggio non era il noto usuraio ebreo assetato di sangue, ma un onesto mercante che affrontava le durezze dell’esilio e della discriminazione. La stampa di lingua inglese lodò l’interpretazione. Dopo il Palace, Schwartz si spostò al rko Coliseum, sulla Ottantunesima, poi allo Albee di Brooklyn. Vista la risposta entusiasta di un pubblico così vasto ed eterogeneo, l’attore incaricò il proprio agente di vendere lo spettacolo altrove, ma la tournée non si fece perché per la provincia la novità era troppo audace. Un impresario di Buenos Aires gli propose un contratto come guest star in Argentina, una vera miniera per molti attori yiddish nordamericani. «Buenos Aires era nota come la miglior piazza del mondo per il teatro yiddish […] Lì, gli ebrei vanno a teatro volentieri, mostrando gratitudine e affetto per gli attori. Ci vanno famiglie intere, con i figli e i nipoti. Le madri ci vanno con i bambini in fasce che subito si appassionano a quelle atmosfere» dichiarò anni dopo (LMS 9 maggio 1945). Anche questo aumentava la sua delusione per il debole riscontro negli Stati Uniti. L’Argentina riservò un’accoglienza calorosa soprattutto a lui e Anna Appel, che non avevano ancora conosciuto il carattere latino, caldo e generoso. La capitale argentina somigliava secondo lui più a Parigi che a Los Angeles. E inoltre in nessun altro paese al mondo aveva visto tanti giovani a teatro.
37Cominciò con il proporre Tevye il lattivendolo, testo che era appena stato messo in scena dalla star yiddish locale, l’attore Rudolph Zaslowski, cosa che eccitava il desiderio di Schwartz di oscurarlo, pensando al tempo favoloso in cui Adler, Thomashevsky e Kessler interpretavano lo stesso ruolo per sfidarsi di fronte al pubblico. Ma se gli spettatori argentini erano caldi nell’accoglienza, i loro teatri erano gelidi e il nostro si prese un forte raffreddore con febbre alta. Dopo alcune prove dovette mettersi a letto, riuscendo fortunosamente a rimettersi per la prima e riscuotere un successo che lo ripagava abbondantemente, anche con espressioni di rumoroso entusiasmo alternate a momenti di intenso e partecipato silenzio.
38Schwartz e i suoi si esibirono anche in altre città come Rosario, Cordova e Santa Fe, sempre con lo stesso esito. Uno degli effetti di questo entusiasmo contagioso fu il sogno di un teatro d’arte yiddish internazionale, in grado di visitare le più diverse comunità ebraiche sparse per il mondo. Era l’immaginazione, che poi si sarebbe rivelata irrealistica a causa degli eventi storici e sociali, di un possibile futuro per il teatro yiddish, che a New York mostrava invece vistosi segni di declino.
Notes de bas de page
1 Snegoff era di origine russa e in America, oltre alla lunga militanza nel teatro yiddish, prese parte a moltissimi film, tra i quali vi è quello tratto dal Cuori infranti.
2 Michael Rosenberg fu un altro dei pilastri dello Yiddish Art Theatre ma nel secondo dopoguerra era tra i protagonista della famosa serie in the television series “The Goldbergs” e alla sua morte, avvenuta nel 1972, tutti lo ricordavano per questa. Originario di Varsavia, nel quarto di secolo trascorso con Schwartz, gli furono spesso assegnati ruoli importanti, per esempio in Yoshe Kalb e nei Fratelli Ashkenazi. Per quanto riguarda il cinema, oltre ai film yiddish come Mirele Efros e The Cantor’s Son, Rosenberg prese parte a due importati film israeliani come Uncle Sam in Israel e Highway Robbery. La sua ultima aparizione in scena fu nel successo di Broadway Borscht Capades, del 1968.
3 Cfr. l’articolo Louis N. Jaffe Art Theatre nel sito Mapping Yiddish New York: <https://myny.ccnmtl.columbia.edu/content/louis-n-jaffe-art-theatre>.
4 Sugli Schnitzer, marito e moglie cfr. l’articolo a firma Chana Pollack, apparso sul «Forward» del 26 marzo 2015 (<https://forward.com/sisterhood/217545/thedrama-of-henrietta-schnitzer/>), nel quale si riferisce dell’ostilità sollevata dalla coppia tra i colleghi che li consideravano «dilettanti».
5 Eva Le Gallienne, di origine inglese, aveva iniziato una splendida carriera a New York in giovanissima età, ma dall’età di ventun’anni aveva fondato e si era dedicata al Civic Repertory Theater, un teatro non commerciale che costituì il caposaldo del movimento Off-Broadway. Attrice, capocomica, regista, drammaturga e traduttrice, Le Galliene ha segnato la storia del teatro statunitense, ben oltre lo scandalo suscitato dal suo lesbismo. Oltre a Jacob Ben-Ami il Civic Repertory Theater diede spazio a molti delle migliori attrici e dei migliori attori del tempo, come Burgess Meredith, John Garfield, J. Edward Bromberg, Paul Leyssac, Florida Freybus, David Manners e Leona Roberts. Cfr. Wikipedia, ad vocem.
6 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
7 Cfr. Museum of Family History, ad vocem: <http://www.museumoffamilyhistory.com/yw-lyt-vilna-troupe-01.htm>; sulla coppia Buloff-Kadison e la loro esperienza con la Vilner Trupe si veda l’articolo di Julia Pascal apparso su «The Guardian» del 19 maggio 2006.
8 Cfr. Museum of Family History, ad vocem. Di Luba Kadison si veda anche la bella intervista realizzata da Martin Boris per il Museum of the Yiddish Theatre diretto da Steven Lasky. L’attrice è morta nel 2006 e in quell’occasione sono usciti diversi articoli commemorativi sulla stampa americana, con titolazioni che la indicavano come l’ultima testimone della civiltà teatrale yiddish.
9 Valentino Carrera (1834-1895), commediografo italiano, sognava di dare vita a un teatro popolare, per il quale scrisse alcuni copioni tra cui Il lotto, 1859, sua commedia d’esordio, e La quaderna di Nanni, 1870, la sua commedia più fortunata.
10 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
11 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
12 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
13 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
14 Sotto il comando di Bohdan Chmel’nyc’kij, i cosacchi Zaropoghi, alleati con i tatari della Crimea e i contadini locali, combatterono contro gli eserciti e le forze paramilitari della Confederazione polacco-lituana. L’insurrezione fu accompagnata da atrocità di massa commesse dai cosacchi contro la popolazione civile, in particolare contro gli ebrei e il clero cattolico romano.
15 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
16 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
17 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
18 Salome of the Tenements racconta la storia di Sonya Mendel (chiamata Salomè per via della cintura di scalpi che esibiva), la figlia di un povero immigrato ebreo del Lower East Side. Intelligente e bella, Sonya lavorava come reporter ed era innamorata di John Manning, un filantropo non-ebreo che si era messo a capo di una campagna anticorruzione nel Lower East Side. I due si erano sposati, ma Sonya non gli aveva rivelato che doveva una grossa somma di denaro proprio agli strozzini ed estersori che John combatteva. Il romanzo da cui era tratto il copione era di Anzia Yezierska, che si era ispirata alla vicenda di un personaggio realmente esistito, tale Rose Pastor Stokes.
19 Cfr. Museum of Family History, ad vocem.
20 Dopo essere stato corista, Abraham Teitelbaum iniziò a lavorare in teatro come suggeritore nel 1907 e l’anno seguente era in scena come attore. Negli anni seguenti fu con diverse compagnie in tournée a Parigi, Londra e Buenos Aires. Alla fine della Prima guerra mondiale diventò regista di un’associazione teatrale intitolata a Peretz e successivamente della compagnia yiddish di Minsk. Nel 1919 arrivò in America e si stabilì a Chicago, dove recitò per diverse stagioni. Poi fu reclutato dallo Yiddish Art Theater, e al tempo stesso insegnava nello Frayhayt Dramatic Studio, precursore dell’Artef. Dopo un intervallo di un paio d’anni in Polonia, nel 1930 era di nuovo a New York e prese parte anche ad alcuni film yiddish come Two Sisters, con Jennie Goldstein, e The Wandering Jew. Teitelbaum fu molto attivo anche come critico, fino alla morte, pubblicando in giornali yiddish di vari paesi. Ha anche pubblicato un libro di memorie intitolato Varshever heyf (Cortili di Varsavia) a Buenos Aires nel 1947. Cfr. Yiddishkeit, ad vocem.
21 Ad Abraham Morevsky sono dedicati alcune pagine nel primo volume di questa serie.
22 Cfr. Wikipedia, ad vocem.
23 Cfr. David S. Lifson, The Yiddish Theatre in America cit., p. 358.
24 Paul Bern sposò l’attrice Jean Harlow nel luglio del 1932. Tre mesi dopo morì in circostanze misterose nella propria camera da letto.
25 Cfr. Giulia Randone, Recitare per diventare esseri umani – Stella Adler, in Actoris Studium – Album # 2, Eredità di Stanislavskij e attori del secolo grottesco, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2012, pp. 161-196.
26 Di Stelle vagabonde, il lungo romanzo di Sholem Aleichem, e delle sue riduzioni teatrali si parla nel primo volume di questa serie. Ma cfr. Sholem Aleichem, Wandering Stars, Translated from the Yiddish by Aliza Shevrin, Foreword by Tony Kushner, Afterword by Dan Miron, Penguin Books, London & New York 2010.
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