III. Muter Kuraj un ire kinder
p. 227-309
Texte intégral
1. Il Berliner Ensemble arriva in Polonia
1La seconda creazione di Ida Kaminska che prendiamo in esame si inserisce nel filone del Teatro Statale Yiddish che attinge a testi contemporanei e internazionali. Come abbiamo visto l’attrice e regista si era sempre opposta all’idea di un teatro dal repertorio circoscritto e specializzato nell’allestimento di drammi tradizionali a tematica ebraica e aveva dedicato molte energie alla traduzione in yiddish delle opere più rilevanti della drammaturgia mondiale. A metà degli anni Cinquanta, Ida aveva ribadito pubblicamente la volontà di non essere associata a un solo filone tematico e quella replica polemica lasciava trapelare la sua costante preoccupazione: convincere il regime comunista della necessità di mantenere in vita un teatro stabile e statale in lingua yiddish. Tale urgenza la spingeva a riservare una fetta del repertorio a drammi che esprimevano una corretta ideologia di classe, senza tuttavia mai togliere posto a opere nel cui valore artistico credeva profondamente.
2È questo il caso di Madre Courage di Bertolt Brecht, che Ida portò in scena in lingua yiddish a Varsavia nel luglio del 1957, dimostrando di volere tenere il passo delle scene europee e di essere in grado di precorrere quello dei teatri polacchi. Lo spettacolo del Teatro Statale Yiddish aprì infatti la strada ad altre compagnie polacche nell’allestimento di questo celebre dramma e si dimostrò una scelta audace, come sottolineò perfino Andrzej Wirth,1 uno dei critici più severi nel giudicare l’approccio di Kaminska al teatro brechtiano.
Il Teatro Yiddish, primo tra tutti i teatri polacchi, ha avuto il coraggio di mettere in scena Madre Courage di Brecht. In questa affermazione si esaurisce tutto il valore della nobile iniziativa della regista. Ida Kaminska ha proposto uno spettacolo che, con coerenza, prende le distanze dalla poetica teatrale di Brecht. Nel suo allestimento Brecht è recitato contro Brecht, il testo brechtiano contro l’estetica teatrale brechtiana.2
Che Ida Kaminska abbia diretto l’opera contro le intenzioni del drammaturgo e regista è indubbio. Questo capitolo si propone di svolgere un ragionamento su come l’artista abbia effettivamente tradito la poetica di Brecht, da molti giudicata inscindibile dal testo brechtiano, e sulle motivazioni di questo consapevole gesto d’attrice e regista. Occorre precisare che Ida non conosceva Couragemodell 1949, il libro-modello che Brecht avrebbe composto per mettere in luce «il gesto fondamentale di un’opera»3 e che sarebbe stato pubblicato solo un anno dopo la messa in scena della compagnia yiddish, ma con ogni probabilità aveva assistito allo spettacolo del Berliner Ensemble, in Polonia o in Germania, e non poteva ignorare i cardini della poetica brechtiana, da qualche anno al centro di un vivace dibattito anche nella Polonia Popolare.
3Alla fine degli anni Quaranta alcuni critici polacchi avevano visitato Berlino ed erano tornati in patria testimoniando l’entusiasmo ma anche i dissensi che circolavano attorno ai primi spettacoli del Berliner Ensemble. Dopo avere offerto al regista le migliori strutture e condizioni di lavoro, il governo della Repubblica Democratica Tedesca aveva infatti messo in campo contro quello stesso teatro una poderosa caccia alle streghe, nella quale aveva voluto coinvolgere anche la critica straniera. Così per esempio Jan Alfred Szczepański, redattore del quotidiano «Trybuna Ludu» (La tribuna del popolo), organo ufficiale del Comitato Centrale del Partito Operaio Unificato Polacco, aveva elogiato Brecht come grande scrittore tedesco, ma ne aveva criticato la pronuncia ideologica, a suo avviso indebolita da tendenze anarco-intellettualistiche e da una visione pessimista dell’uomo. Al pari di altri commentatori,4 Szczepański aveva rimproverato al drammaturgo e regista tedesco l’assenza di un programma, come si diceva all’epoca, “positivo”: «come Mosè, anche Brecht sa condurre fuori dalla terra della prigionia, ma al pari di Mosè non è granché capace di guidare verso la terra della libertà».5
4In generale, il teatro di Brecht creava ai governi socialisti non pochi problemi: da una parte egli era indubbiamente un autore marxista, che dava voce agli ideali del comunismo; dall’altra, però, proponeva un teatro etico che – attraverso mezzi espressivi antitetici a quelli proposti dal realismo socialista – suscitava numerosi interrogativi senza cedere alla tentazione di fornire risposte uniformi. Si poneva, cioè, in netto contrasto con la politica del nuovo regime, che si era proposto di riparare alle ferite della guerra ripristinando la fiducia in una rappresentazione della realtà come insieme logico e coerente. Il nuovo indirizzo era stato esplicitato in occasione dell’inaugurazione della radiostazione di Wrocław (16 novembre 1947), quando il primo presidente della Repubblica Polacca Bolesław Bierut aveva pronunciato un discorso Sulla diffusione della cultura in cui chiedeva agli artisti di presentare la tematica bellica in una luce eroica e costruttiva, condannando invece quelle opere che «esaltano la depressione, mentre la nazione vuole vivere e agire».6
5Acconsentire alla messa in scena dei drammi brechtiani e alla loro riflessione etica, articolata in una precisa convenzionalità scenica, illuminata da accenti espressionisti e grotteschi e da una recitazione antinaturalistica, dal punto di vista delle autorità significava autorizzare una critica del sistema, ancora più destabilizzante in quanto maturata all’interno del sistema stesso. Jan Kott, uno dei più noti critici polacchi e internazionalmente celebre grazie al saggio intitolato Shakespeare nostro contemporaneo,7 ha sintetizzato con efficacia la novità rappresentata per lui da Brecht in un’intervista rilasciata poco prima della morte:
It was a new thing, Brecht – his was a theatre that was to some extent socialist, or leftist, or political, but in opposition to the ossified Soviet theatres that repeated the Soviet experience – it had a completely different form. It was theatrically innovative, theatrically violent, theatrically new. Politically, it was close to communism, but at the same time, in its theatrical form, its subject matter, its acting, it was completely different from that which had existed before, from everything considered socialist realism.8
Nel febbraio del 1952 Brecht era stato invitato dal Comitato di collaborazione con l’estero a visitare la Polonia Popolare. Accompagnato da Helene Weigel9 e Hans Marchwitz, il drammaturgo di Augusta aveva incontrato alcuni membri dello spatif, l’Associazione degli artisti teatrali e cinematografici polacchi di cui faceva parte anche Ida; a meno che l’attrice, reduce dal suo primo e contestato adattamento di un classico del teatro polacco, Il signor Jowialski di Fredro, non fosse stata trattenuta a Łódź, è assai probabile che in quell’occasione i due artisti si siano conosciuti. La visita dei rappresentanti del Berliner Ensemble fu seguita con grande attenzione dalla stampa comunista, che fece eco al desiderio espresso da Brecht di mettere in scena un dramma della letteratura polacca e al suo biasimo nei confronti dell’imponente macchina teatrale americana, votata unicamente al guadagno.10 L’incontro preparò il terreno per la prima tournée della compagnia tedesca in Polonia, che ebbe luogo dal cinque al ventinove dicembre dello stesso anno.
6Nel frattempo, a luglio, era stata varata una nuova costituzione, che definiva la Polonia come uno stato socialista e sanciva ufficialmente l’egemonia del Partito Operaio Unificato Polacco, al cui vertice sedeva Bolesław Bierut. Con questa costituzione, ispirata a quella staliniana del 1936, veniva di fatto annullata la separazione dei poteri e quindi la capacità di manovra del governo come organo distinto dal partito: tutte le decisioni dell’apparato statale venivano subordinate alle direttive del partito, la cui osservanza era garantita da decine di migliaia di funzionari sparsi su tutto il territorio. In teatro, i postulati del realismo socialista si erano già tradotti in un’estetica di stampo verista, una pessima volgarizzazione del presunto Sistema di Stanislavskij, e ogni proposta alternativa veniva condannata dalla critica come deviazione dalle norme estetiche promosse da Andrej Aleksandrovič Zdanov, alle quali bisognava adeguarsi senza esitazione.
7Il Berliner Ensemble giunse dunque nella Repubblica Popolare Polacca (il cui nome era stato uniformato a quello di altre “democrazie popolari”) in un periodo in cui il dogmatismo aveva raggiunto l’apice e il paese sembrava avviato a trasformarsi in uno stato totalitario. Le opere scelte per la trasferta polacca furono Madre Courage, La madre e La brocca rotta. La compagnia iniziò la tournée a Cracovia, affiancando agli spettacoli incontri con la popolazione e gli operai di Nowa Huta, il complesso siderurgico immaginato da Stalin come modello ideale di città socialista; poi proseguì il suo viaggio verso le città di Łódź e Varsavia, fermandosi a visitare il campo di concentramento di Auschwitz Birkenau. Dal 18 dicembre il Berliner Ensemble fu ospite del Teatr Narodowy della capitale, impegnato in un fitto cartellone di repliche e di rappresentazioni pomeridiane rivolte specificatamente ad artisti e a operatori culturali.11 L’arrivo di Brecht e della compagnia era circondato da una grande attesa e i biglietti furono presto esauriti: si era diffusa infatti la convinzione che i suoi spettacoli, e in particolare Madre Courage, offrissero una delle più forti esperienze artistiche del dopoguerra; il 21 dicembre assistettero alla replica di Madre Courage i principali rappresentanti del governo, incluso il nuovo Presidente del Consiglio di Stato polacco Aleksander Zawadzki.
8Accogliendo il Berliner Ensemble il governo comunista polacco non si proponeva di celebrare la compagnia, bensì di approfittare dell’occasione per proporre una critica severa al teatro brechtiano, allontanatosi dalla sua originaria ispirazione proletaria. Difficile ricostruire con precisione come accadde, ma queste implicite direttive furono disattese e la stampa si riempì di reazioni perlopiù entusiaste. In generale, in Polonia gli spettacoli di Brecht furono accolti come un soffio ristoratore, come opere d’arte in grado di stimolare discussioni e progetti politici senza tradire la propria natura di evento teatrale. Dei tre spettacoli proposti dal Berliner Ensemble fu senza dubbio Madre Courage a suscitare le reazioni più vive negli spettatori e i commenti più appassionati tra la critica.12
9Madre Courage e i suoi figli era stata composta in Svezia nell’autunno del 1939, nell’arco di poche settimane. Al tempo, regimi nazifascisti e autoritari avevano già preso il potere in Germania, Italia, Spagna e Giappone, mentre l’Unione Sovietica era appena passata attraverso un decennio di terrore che, con le purghe staliniane, aveva portato alla morte di migliaia di membri del partito. Il 19 aprile 1941, mentre Brecht si trovava a Helsinki in attesa dei documenti che avrebbero concesso a lui e ai membri della compagnia di espatriare negli Stati Uniti, a Zurigo vide la luce la prima messa in scena dell’opera, interpretata da Therese Giehse. Dieci anni più tardi, la stessa Giehse tornò a incarnare la protagonista nella versione diretta da Brecht e Ruth Berlau al Kammerspiele di Monaco. La versione di Madre Courage che sarebbe divenuta canonica ebbe però per protagonista Helene Weigel, moglie del drammaturgo, e debuttò l’11 gennaio del 1949 al Deutsches Theater, situato nel settore sovietico di Berlino, in una città già divisa sul piano politico-amministrativo, ingombra di rovine ed edifici fatiscenti e oppressa dalla fame e dalla miseria. Nell’autunno del 1948 Brecht e Weigel erano infatti tornati in Europa dagli Stati Uniti e, con l’accordo del partito comunista, si erano insediati a Berlino Est. Madre Courage, co-diretta da Brecht e da Erich Engel, fu montata in sole otto settimane di prove insieme a un gruppo di attori fidati. Riallestita con maggiore ufficialità nel 1951, sarebbe rimasta in repertorio per i successivi dieci anni, totalizzando oltre quattrocento rappresentazioni in molti paesi d’Europa e passando alla storia come lo spettacolo emblematico del teatro brechtiano e una delle pietre miliari del teatro occidentale del Novecento.
10Ripercorriamo a grandi linee la trama. La vivandiera Anna Fierling, soprannominata Madre Courage, attraversa l’Europa dilaniata dalla Guerra dei Trent’anni trascinando con sé un carro carico di mercanzie e tentando, a seconda dell’opportunità del momento, di fare affari con l’esercito cattolico o con quello protestante. La guerra, dalla quale la protagonista è convinta di trarre profitto, le porterà via uno dopo l’altro i suoi tre figli. L’onesto Schweizerkas sarà fucilato per essersi rifiutato di cedere la cassa del reggimento all’esercito avversario; durante una breve parentesi di pace l’attaccabrighe Eilif sarà giustiziato per quello stesso misfatto che, in guerra, gli era valso onori e riconoscimenti; infine Kattrin, la figliola muta, sacrificherà la propria vita per avvertire gli abitanti della città di Halle dell’imminente assalto del nemico. Dopo avere condiviso il proprio cammino con i figli, con un cuoco e un cappellano, Madre Courage resterà dunque sola e in miseria e – incapace di operare una scelta diversa – si riattaccherà alle stanghe del carro, riprendendo la propria peregrinazione in cerca di nuovi affari.
11Per il noto drammaturgo e critico Herbert Jhering13 Madre Courage e i suoi figli segnava il trionfo del teatro epico, una prassi teatrale che concepisce le scene come quadri a sé stanti, introdotti da titoli-didascalie e accompagnati da commenti e canzoni al fine di interrompere l’illusione scenica e stimolare nello spettatore la riflessione attraverso un effetto di distanziamento critico rispetto a quanto avviene sul palcoscenico. Una distanza che, a giudizio di Brecht, è elemento chiave della relazione dialettica tra spettatori e attori poiché pone i primi nella condizione di giudicare quanto vedono e quindi immaginare un cambiamento. La sostanza epica caratterizzerebbe anche la protagonista del dramma, determinandone l’immobilismo e la fissità psicologica, in contrasto con una scena su cui si succedono gli accadimenti storici. Tuttavia, secondo alcuni, al momento dell’allestimento di Madre Courage il procedimento epico auspicato dall’autore non avrebbe trovato piena attuazione a causa dell’intima ambiguità del testo, incline a rinnegarsi sulla scena: «per il côté dell’azione, [Madre Courage] tende a trasformarsi in una pièce a stazioni, sulla falsariga del teatro di Piscator; mentre per il côté dei personaggi, tende al dramma sentimentale».14 Questa tensione verso il dramma sentimentale, che Helene Weigel arginò con un lavoro critico e di distanziamento dal personaggio, fu invece intercettata e approfondita da Ida Kaminska, la quale forzò la dialettica su cui si costruiva la problematica identità della protagonista per accentuarne i tratti materni e la condizione storica di vittima della guerra.
12Nell’idea di Brecht, invece, la protagonista doveva rimanere fino alla fine una contraddizione insoluta: una donna egoista ma capace di brusca tenerezza, un’astuta madre-trafficante che col progredire degli eventi viene sfigurata e deformata dalla propria contrastante natura, al punto da diventare irriconoscibile.15 Irriconoscibile, ma intimamente immutata. Anna Fierling passa attraverso le peggiori sventure senza per questo diventare più saggia: il finale testimonierebbe infatti che essa è stata incapace di trarre dalle proprie disgrazie qualsiasi insegnamento.16 Per anni l’autore difese la decisione di negare alla protagonista un risveglio della coscienza e una maturazione psicologica, motivando la propria scelta con l’evidenza del passato più recente, che aveva permesso la deflagrazione di due conflitti mondiali a breve distanza l’uno dall’altro. Contro le intenzioni di Brecht, invece, la maggioranza degli spettatori non giudicò negativamente la vivandiera e la accolse con simpatia.17
13In Polonia, lo spettacolo del Berliner Ensemble suscitò gli entusiasmi del pubblico, che apprezzò l’attualità della tematica e interpretò la condanna della guerra e della cecità di ampie fasce della popolazione tedesca come un monito per le nuove generazioni. La critica, invece, si mostrò concorde nel lodare la qualità del lavoro dell’ensemble, incomparabile rispetto a quella di molte produzioni locali, ma si divise nel giudizio sulla postura ideologico-estetica del teatro brechtiano. Se Roman Szydłowski lo considerò un teatro impegnato a chiarire il carattere e i processi della lotta di classe, nel passato come nel presente,18 Edward Csatò ritenne invece che l’imposizione di un medesimo stile teatrale a contenuti differenti allontanasse Brecht dai principi del realismo socialista.19 A distanza di anni il traduttore delle opere di Brecht in polacco, Zbigniew Krawczykowski, ricordò che quanti dubitavano che il realismo socialista fosse l’unica via per lo sviluppo del teatro avevano accolto Madre Courage come l’espressione autentica di un teatro moderno e socialista, capace di «trascinare lo spettatore grazie alla temperatura ideologica, al profondo umanesimo, alla sincera qualità popolare e, soprattutto, alla sua artisticità»,20 e di fare breccia nel muro compatto di quadri scenici naturalistici con il quale il pubblico era stato nutrito forzosamente per anni.
14La reazione critica più comune fu comunque schizofrenica. Senza che all’epoca apparisse contraddittorio, molti di coloro che corsero a ringraziare Helene Weigel e i colleghi dietro le quinte, accusarono poi lo spettacolo di formalismo, espressionismo (per esempio nell’uso della luce) e pretenziosità. Allo stesso modo, la critica degli assunti teorici di Brecht, non concordi con il metodo stanislavskiano e giudicati dannosi per la rappresentazione realistica dei personaggi, convisse con l’elogio della magistrale interpretazione dell’ensemble e, ovviamente, nessuno si sognò di rinfacciare alla creazione di Weigel mancanza di realismo.
15Come abbiamo anticipato, le voci contro Madre Courage si erano levate già diversi anni prima della tournée polacca. Secondo il critico Szczepański l’opera tradiva una pericolosa tendenza alla ribellione anarchica, all’individualismo sconfinato tipico dell’intellighenzia e al pacifismo.
La condanna della guerra è espressa in quest’opera in maniera appassionata, ma non con il linguaggio e il punto di vista del proletariato rivoluzionario e degli interessi di classe, bensì secondo categorie di pacifismo assoluto e criteri di completa negazione della guerra, a prescindere dal suo contenuto, dal carattere e dall’espressione sociale. Per la borghesia tedesca, appena uscita dal bagno di sangue di due guerre imperialistiche, questa immersione nella filosofia della storia dell’idealismo antibellico ha il sapore dell’espiazione. Ma non si tratta di un concetto per il proletariato tedesco, che al fianco dell’Unione Sovietica e di tutti i paesi amanti della pace, per mantenere quella stessa pace deve combattere, distinguendo con acutezza di classe la guerra d’invasione dalla guerra nazionale di liberazione e dalla guerra in difesa della patria socialista.21
Il commento di Szczepański manifesta la caratteristica concezione del cittadino-suddito dello stato totalitario socialista: in Germania come in Polonia, la visione del mondo espressa da Madre Courage suscita disagio e viene giudicata falsa perché aliena alla nuova ideologia. L’attribuzione di questo genere di etichette ostacolò l’introduzione delle opere brechtiane sulla scena teatrale polacca ma, a differenza di quanto avvenne per altri autori messi al bando dal regime, la sua idea di teatro non fu messa a tacere e restò al centro della discussione culturale.
16A ben vedere, Madre Courage è un’opera fondata sulle contraddizioni e anche il suo presunto messaggio antibellico si rivela sfaccettato: se è indubbio che l’autore esprima una visione negativa della guerra, il suo obiettivo primario è in realtà quello di mostrarne le implicazioni economiche e le diverse ripercussioni a seconda del ceto sociale di chi ne è coinvolto. Va ricordato, inoltre, che la vicenda raggiunge un climax nel momento in cui Kattrin, la figlia muta della protagonista, risveglia a colpi di tamburo la città di Halle immersa nel sonno, per avvertirla del pericolo di un imminente assedio e spingerla al contrattacco. Il suo gesto eroico e il suo sacrificio non esprimono un rifiuto a combattere, bensì una coraggiosa chiamata alle armi.22
17Immersa nell’ideologia del realismo socialista, la critica polacca si scopriva disorientata perché faticava a identificare il drammaturgo tedesco come un rappresentante di quella stessa corrente di pensiero: in generale, preferì evitare dichiarazioni esplicite a sostegno dell’anti-borghesità del teatro di Brecht e si limitò a manifestare una generica speranza che l’autore vincesse le proprie debolezze ideologiche. Gran parte della critica fu poi disposta a ricondurre l’atteggiamento pacifista di Brecht alla sua immaturità al tempo della stesura del dramma, quando lo scrittore non aveva ancora elaborato una coerente posizione rivoluzionaria e pertanto si era lasciato sopraffare dalla convinzione che alla guerra non vi fosse via d’uscita. Ciò che invece restava più difficile accettare era il finale pessimista dell’opera: gli anni di indottrinamento, operato anche attraverso la somministrazione di finali invariabilmente ottimisti, rendevano infatti arduo accogliere le spiegazioni di Brecht sulla precisa motivazione didattica del tragico epilogo di Madre Courage.23
18Nonostante le iniziali difficoltà della stampa, che irrigidita in un sistema di severe prescrizioni faticava ad accogliere la novità dell’arte brechtiana, gli spettacoli del Berliner Ensemble scatenarono una feconda riflessione sulla genesi, l’essenza e la collocazione del teatro di Brecht all’interno della cultura promossa da Mosca. Pochi mesi dopo la tournée, la morte di Stalin (5 marzo 1953) diede avvio a un clima di maggiore distensione politica che consentì di incrinare il monopolio del pensiero di regime attraverso un confronto aperto tra i rappresentanti dell’ortodossia realsocialista e coloro che ne riconoscevano i limiti. Tra gli effetti di questa timida eppure vitale apertura, vi fu l’introduzione sulle scene polacche della drammaturgia brechtiana, di cui cominciarono a circolare anche alcune traduzioni.
19In precedenza, l’unica opera di Brecht allestita in Polonia era stata L’opera da tre soldi diretta da Leon Schiller nel 1929, un anno dopo il debutto tedesco, e andata in scena tra molti scandali politici in un periodo in cui si stavano affermando visioni sociopolitiche di estrema destra. La drammaturgia brechtiana sarebbe riapparsa nei teatri polacchi soltanto venticinque anni più tardi, nel 1954, con l’allestimento al Teatr Rozmaitości di Varsavia dei Fucili di Madre Carrar per opera degli allievi della Scuola Statale Superiore di Teatro guidati dai giovani colleghi Konrad Swinarski e Przemysław Zieliński e, alcune settimane più tardi, con il debutto del Cerchio di gesso del Caucaso diretto da Irena Babel al Teatr Słowacki di Cracovia, spettacolo che avrebbe avuto grande risonanza in tutto il paese. A metà degli anni Cinquanta, i tempi erano finalmente maturi perché un critico potesse riconoscere che «dopo avere correttamente sostenuto la tesi che il realismo socialista è un metodo di creazione che non determina un unico stile, siamo giunti ad applicare questo principio nella pratica teatrale».24
20Anche se nessun teatro della Repubblica Popolare Polacca accolse integralmente il modello proposto da Brecht, l’estetica brechtiana e in particolare la poetica del teatro epico divennero una fonte costante d’ispirazione per gli artisti polacchi. In particolare, essi fecero proprio l’invito del drammaturgo a cercare forme inedite per esprimere contenuti nuovi e rivoluzionari. Nel 1955 il Teatr Wybrzeże di Danzica allestì Il signor Puntila e il suo servo Matti e nel febbraio del 1956 il Teatr Domu Wojska Polskiego di Varsavia un’eccellente versione de L’anima buona del Sezuan per la regia di Ludwik René e la splendida creazione dell’attrice Halina Mikołajska.25 Tra il 1955 e il 1979 si sarebbero avvicendati sulle scene polacche oltre cento allestimenti di diciannove opere del drammaturgo tedesco (tra le più rappresentate L’opera da tre soldi e Madre Courage), che avrebbero reso Brecht l’autore straniero più rappresentato in Polonia e avrebbero contribuito a promuovere una revisione del teatro socialista.
21Se la visita del Berliner Ensemble ebbe l’effetto di innovare il repertorio polacco e precorrere il “disgelo” culturale del paese, ebbe però anche una ricaduta positiva sulla compagnia tedesca, che di ritorno in patria commentò con entusiasmo l’accoglienza ricevuta. Per il Berliner Ensemble si trattava della prima tournée in un paese della democrazia popolare e del primo confronto con un pubblico che parlava una lingua diversa dal tedesco. La risposta degli spettatori polacchi era stata appassionata: a Łódź essi avevano dapprima contestato il pacifismo di Madre Courage ma, dopo averne discusso con gli artisti, avevano riconsiderato le proprie impressioni e riconosciuto che si trattava di un’opera che accordava all’uomo la dignità di autore della propria storia. Brecht stesso dichiarò più tardi di avere seguito le recensioni polacche e di averne tenuto conto per ripensare diverse soluzioni sceniche. Come risultato, la versione dell’opera che andò in scena nel giugno del 1954 al primo Festival International d’Art Dramatique di Parigi e che consacrò la fama di Brecht come regista oltre che come drammaturgo e teorico (vesti nelle quali era celebre già da decenni) presso il pubblico occidentale, fu sensibilmente diversa da quella varsaviana. In ogni caso i rimaneggiamenti di Brecht, una costante nel suo lavoro di regista, non modificarono il principio ideologico e artistico dell’opera, che mai assunse l’epilogo ottimista proposto, per esempio, dal Teatro Nazionale di Varsavia una decina d’anni più tardi.
22L’ensemble berlinese tornò in Polonia in due occasioni: quando, alcuni anni dopo la morte di Brecht, la compagnia visitò le città di Poznań, Łódź, Cracovia e Varsavia, dove fu accolta con rinnovato entusiasmo; e un’ultima volta nel 1970.
2. Due registi e un’attrice sotto il segno di Brecht
23Gli abitanti della Repubblica Popolare Polacca che nel 1952 avevano assistito alla Madre Courage del Berliner Ensemble, già l’anno successivo avevano potuto acquistarne l’edizione tradotta in polacco,26 ma per le compagnie teatrali la messa in scena del dramma restava impensabile. L’ostracismo nei confronti dell’artista tedesco stava però per concludersi: nel 1954 il conferimento a Brecht del premio Stalin per la pace favorì infatti la “riabilitazione” del drammaturgo e la reintroduzione delle sue opere nei paesi socialisti. Con il sopraggiungere del 1956, anno della morte di Brecht e del «disgelo» che introdusse importanti cambiamenti nella società polacca, fu possibile un primo, decisivo, distacco da un’interpretazione dogmatica del realismo socialista e dei suoi postulati sull’arte. Il teatro polacco si ribellò alle limitazioni imposte al repertorio, all’amministrazione burocratica della cultura e all’impossibilità per l’artista di sperimentare e cercare i mezzi espressivi più adatti alla propria ricerca. Si manifestò una nuova apertura su ogni fronte: drammaturgico, scenografico, registico e attoriale.
24In nessun altro periodo come allora la letteratura drammatica, sia polacca che straniera, influenzò in maniera così profonda il lavoro degli artisti di teatro.27 Dopo anni di esclusione, la drammaturgia straniera contemporanea cominciò a farsi spazio sulle scene polacche e il confronto con i testi, per esempio di Brecht e Ionesco, rese ancora più inammissibile l’imposizione di un’unica convenzione verista o socio-realista. Nel 1957 furono allestiti per la prima volta in Polonia tre nuovi drammi brechtiani: a Varsavia Schweyk nella seconda guerra mondiale, addirittura in prima assoluta, a Wrocław L’opera da tre soldi del regista Jakub Rotbaum (proposta l’anno successivo anche da Konrad Swinarski) e al Teatro Statale Yiddish Madre Courage e i suoi figli diretta e interpretata da Ida Kaminska.
25Prima di analizzare la versione di Kaminska è utile una breve digressione sulle creazioni brechtiane dei registi Rotbaum e Swinarski, perché i loro percorsi artisti incrociarono in maniera significativa quello dell’attrice yiddish, anche sotto il segno (e il pretesto) di un comune interesse per Brecht.
26Nel primo capitolo abbiamo incontrato spesso il pittore e regista Jakub Rotbaum, alla ricerca di nuovi orizzonti per il teatro yiddish in Russia, in Francia, negli Stati Uniti e poi, dopo vent’anni di assenza, di nuovo in Polonia. Dopo avere ricoperto la carica di direttore artistico del Teatro Yiddish della Bassa Slesia ed essersi concentrato sull’allestimento di opere di Sholem Aleichem, all’inizio degli anni Cinquanta Rotbaum aveva ricevuto la proposta di dirigere il Teatr Polski di Wrocław28 e di firmare la regia dell’Uomo con il fucile, la popolare agiografia leniniana scritta da Nikolaj Pogodin.29 Rotbaum ricorda così le circostanze in cui si svolse quell’inusuale proposta: «nel vedere la mia faccia il ministro Sokorski mi chiese se mi spaventasse l’idea, mi spiegò che si trattava di una promozione importante e del riconoscimento che il mio lavoro era meritevole: sarei stato il primo regista ebreo a dirigere una scena polacca. Lasciai così il teatro yiddish per quello polacco».30
27L’uomo con il fucile riscosse successo per l’ «ardore rivoluzionario»,31 il respiro epico e l’accurato dinamismo delle scene di massa. A quell’opera di propaganda ne seguirono altre ma anche, appena fu possibile, drammi precedentemente messi al bando come Le nozze di Wyspiański (1956) e, per la prima volta nel dopoguerra, L’opera da tre soldi di Brecht. «Quando si solleva il sipario prima ancora di Brecht riconosciamo Rotbaum»,32 commentò Andrzej Wirth. Secondo il giudizio unanime della critica, infatti, Rotbaum aveva rinvenuto nel testo brechtiano il seme adatto a fare germogliare la propria visione scenica, profondamente radicata nel teatro yiddish. L’eredità della formazione teatrale yiddish traspare in questa versione in cui il regista, ottenuto da Weigel il permesso di modificare il testo,33 si concentra sulla composizione gestuale e coreutica, rinunciando ad alcune soluzioni brechtiane come i cartelli. Lo spettacolo si mantiene in bilico tra un realismo immune da pedanteria e una poesia di scena che aveva trovato piena maturazione nel capolavoro registico di Rotbaum: Sogno su Goldfaden.
28In questo celebre allestimento, che aveva incantato il pubblico polacco al pari di quello ebraico, Rotbaum aveva giocato d’astuzia facendo concessioni alle semplificazioni marxiste del tempo – ad esempio modificando alcuni personaggi in modo che si adattassero al tema della lotta di classe – ma conservando la forza del teatro yiddish a livello compositivo. Sogno su Goldfaden era sostenuto dalla precisa simultaneità dei quadri scenici, dal dialogo armonioso di movimenti, colori e suoni, e da un «colorito da fiera», un’atmosfera sgargiante e incline alla paccottiglia del tutto eccentrica rispetto alla maggioranza delle produzioni del tempo, vincolate agli standard del realismo socialista.34 Questa “differenza” acquistava in quei tempi un sapore rivoluzionario e se ne rese conto il critico Andrzej Wróblewski quando, parlando con un giovane che aveva formato il proprio gusto teatrale sui grigi allestimenti pseudorealistici degli anni 1949-1953, lo sentì affermare che era sufficiente andare a vedere questo spettacolo per trovare risposta alla domanda che cosa fosse il teatro.35
29La versione di Rotbaum dell’Opera da tre soldi era stata accolta con entusiasmo dal pubblico e giudicata interessante dalla critica, che ne aveva segnalato le intime incoerenze documentando la distanza delle soluzioni del regista dalle idee di Brecht.36
30Pur attenendosi ad alcune indicazioni brechtiane, generalmente Rotbaum si discosta dalla severità del drammaturgo tedesco, mostrandosi più incline alla commedia musicale leggera e alla farsa. Così i song che in Brecht spezzano l’illusione scenica diventano arie da operetta, viene inserito un prologo in forma di balletto-pantomima per introdurre la vicenda e ricalcato il debole contorno psicologico dei personaggi per approfondirne l’individualità: Rotbaum manifesta in tal modo la propria avversione per i personaggi-marionetta anche laddove, come in questo caso, costituiscono un elemento sostanziale della poetica. Spostando l’accento sulla singolarità dei personaggi, Rotbaum di fatto attenua la tensione satirica dell’opera e ne disperde il potenziale parodistico.
31Il regista attinge a piene mani dal testo di Brecht e dalla musica di Kurt Weill, ma con l’intento di avvicinare il dramma alle convenzioni sceniche a lui più congeniali: il monumentalismo e lo psicologismo.37 La prima è una modalità compositiva molto distante dalle scelte registiche di Ida Kaminska, ma il libero prelievo del materiale brechtiano operato da Rotbaum è affine al rapporto che anche la direttrice del Teatro Statale Yiddish avrà con Madre Courage.
32Del tutto diversa è l’operazione condotta da Konrad Swinarski38 sull’Opera da tre soldi (di cui realizza due versioni in un anno). All’indomani del debutto i giornali elogiano la comprensione della drammaturgia e del teatro brechtiano da parte di questo giovane, che sarebbe diventato uno dei più grandi registi del teatro polacco e il cui percorso artistico sarebbe stato interrotto da una morte prematura.39 La passione di Swinarski per Brecht era nata nel 1949, quando aveva letto Il racconto da tre soldi e d’impulso aveva scritto all’artista tedesco: Brecht non solo aveva risposto, ma aveva anche inviato al collega polacco il testo di Madre Courage con la preghiera di comunicargli se gli fosse piaciuto o meno. In occasione della tournée del Berliner Ensemble in Polonia, Swinarski aveva poi conosciuto di persona il drammaturgo e regista ed era rimasto folgorato dal lavoro della compagnia. Così, dopo avere curato la regia del primo spettacolo brechtiano del dopoguerra polacco, I fucili di Madre Carrar, all’età di ventisei anni era partito per Berlino per studiare con quello che considerava il proprio maestro. Durante l’apprendistato al Berliner, Swinarski assistette Brecht nelle prove di Vita di Galileo e, alla morte dell’artista, portò a termine insieme ad altri collaboratori l’allestimento di Terrore e miseria del Terzo Reich.
33Al momento di fare ritorno in Polonia, Swinarski era ormai considerato un esperto del teatro di Brecht. Tra il 1957 e il 1960 portò in scena cinque drammi dell’artista tedesco, tra cui L’opera da tre soldi al Teatr Współczesny di Varsavia che, nella sua versione, diventa «una palese beffa del principio stesso di convenzionalizzazione del dramma, un’arma a doppio taglio, con una lama puntata verso l’opera come genere e l’altra rivolta al proprio stesso spettacolo».40 Grazie a questo approccio lo spettacolo acquista leggerezza, ironia e indipendenza autoriale. In tutte le regie di opere brechtiane, infatti, Swinarski non imita lo stile scenico di Brecht, né forza l’introduzione dei suoi postulati teorici, ma ricerca i modi concreti in cui produrre nello spettatore gli stessi effetti a cui mirava l’artista tedesco, per creare un corrispettivo polacco allo stile epico. La sua osservanza dello stile brechtiano non è mai cieca riproposizione di un’estetica, ma fiducia nella concezione del mondo espressa da Brecht. Dopo qualche anno Swinarski perderà interesse per una drammaturgia che giudicherà troppo condizionata dal punto di vista storico e nei propositi sociali e volgerà la propria ricerca altrove, mettendo a frutto l’esperienza brechtiana per sviluppare una nuova visione di messinscena del dramma romantico polacco.41
34Prima però, il giovane si trovò a lavorare a un dramma brechtiano insieme a Ida Kaminska, in qualità di “regista ospite” del Teatro Statale Yiddish, una circostanza all’epoca del tutto eccezionale. Ad avvicinare i due artisti potrebbe essere stata una comune percezione della realtà polacca come familiare e al contempo estranea e forse, come suggerisce Joanna Krakowska, un complesso legato all’impressione di sentirsi rifiutati. Se Swinarski, di origine tedesca, si sentì sempre intimamente straniero e forse anche per questo maturò uno sguardo artistico così acuto, Kaminska, che in Polonia si sentiva a casa propria, dovette spesso fare fronte alla sensazione che la propria appartenenza non fosse pienamente accettata. Kaminska e Swinarski si conobbero negli anni Cinquanta e rimasero in contatto grazie a due comuni conoscenti: Krystyna Żywulska, autrice del romanzo Sono sopravvissuta ad Auschwitz e Thomas Harlan, figlio del regista di Süss l’ebreo, noto film di propaganda antisemita realizzato nel 1940 con la supervisione di Joseph Goebbels. A guerra finita Thomas Harlan aveva rotto ogni relazione con il padre e il suo ignominioso passato e nei primi anni Sessanta si era trasferito in Polonia – dove era stato ospite di Ida e Meir Melman – per condurre indagini sui crimini di guerra nazisti e sul ghetto di Varsavia.
35Nel 1960 Ida Kaminska invitò il trentunenne Konrad Swinarski a dirigere la compagnia del Teatro Statale Yiddish in Terrore e miseria del Terzo Reich, spettacolo che debuttò in luglio con il titolo Shrek un elent fun Dritn Reich. Composto tra il 1932 e il 1939 a partire dai racconti di testimoni oculari e da citazioni dei giornali dell’epoca, il dramma presenta spaccati di vita quotidiana nella Germania che assiste all’ascesa al potere dei nazisti. Swinarski selezionò dieci scene,42 rispetto alle ventiquattro che compongono l’opera originale, e le integrò con un prologo e un epilogo tratti dal dramma di Thomas Harlan Io, me stesso e nessun angelo. Cronaca dal ghetto di Varsavia43 e affidati ad Avrom Morevski, uno degli ultimi grandi interpreti del teatro yiddish di inizio Novecento. Il testo originario fu inoltre arricchito da citazioni di documenti d’ufficio nazisti, che il regista reputò necessari per «mostrare il nazionalsocialismo in azione […] affinché questo esempio di sterminio organizzato di un intero popolo sia per tutti un costante avvertimento».44 Un’ulteriore innovazione interessava i cambi scena, durante i quali venivano proiettati filmati che documentavano la barbarie nazista, con scene girate nel ghetto di Łódź e nei campi di sterminio: l’effetto finale fu di uno spettacolo che sconfinava nel documento storico. Anni dopo la moglie del regista, Barbara Witek-Swinarska, raccontò che Ida sarebbe svenuta durante la visione delle tre ore di filmato: non è da escludere che vedesse per la prima volta immagini che ritraevano così esplicitamente la Shoah.
36A ogni cambio scena il sipario si apre su un interno ammobiliato realisticamente, percorso da individui di differente estrazione sociale e sovrastato dalla bandiera con il simbolo della svastica. Motivo conduttore di questi spaccati di vita quotidiana è la paura, che abbrutisce l’individuo rendendolo meschino e capace di qualsiasi azione pur di non mettere a repentaglio la propria esistenza. Ida appare in tre scene, incarnando ruoli differenti ma giudicati tutti «piccoli capolavori di maestria attoriale» .45 Il personaggio che più si impresse nella memoria degli spettatori fu quello della moglie ebrea, nell’omonima scena scritta dal drammaturgo tedesco per Helene Weigel. È la storia del sacrificio di Judith Keith, giovane moglie ebrea di un medico in carriera che si condanna a un esilio volontario – una scelta che la accomuna a Mirele Efros – per non compromettere l’ascesa professionale del marito (interpretato da Meir Melman). La scena mostra i lenti e penosi preparativi della donna alla partenza, mentre riempie le valigie, ripete ad alta voce il discorso da fare al marito e telefona ad alcuni amici per dire loro addio. La critica applaudì l’interpretazione di Kaminska, «come sempre interessante, raccolta, colma di intimo ardore e disperazione»46 e contraddistinta da una raffinata economia espressiva: «lo sguardo che rivolge alla lista dei nomi degli amici, in fiamme e ormai inutile, e l’attesa inquieta, nella speranza di una protesta da parte del marito, valgono più di molte parole e gesti».47
37Parole di apprezzamento furono rivolte anche al lavoro di altri membri della compagnia, e in particolare all’apporto di interpreti come Szymon Szurmiej, che ritraeva la progressiva degenerazione di un uomo in una canaglia, e Karol Latowicz, che con grande perizia svelava il risvolto ridicolo anche nella tragedia. Inoltre fu messo in luce l’effetto di straniamento ottenuto dagli attori, che nell’interpretare criminali nazisti, cioè assassini del proprio popolo, lasciavano trapelare l’avversione nei confronti dei personaggi: un riuscito effetto di distanziamento critico che si sposava con le intenzioni del drammaturgo. Non mancò, tuttavia, il caratteristico rimprovero che accomunava quasi ogni spettacolo yiddish del dopoguerra: in questo caso sarebbe stato Melman a peccare di esuberanza espressiva, recitando un po’ sopra le righe rispetto all’interpretazione sobria e controllata auspicata da Brecht.48
38L’allestimento di Swinarski avrebbe dovuto suscitare interesse sia per il tema trattato sia per la sua innovativa forma multimediale; ricevette invece una tiepida accoglienza e conobbe poche repliche,49 nonostante all’epoca la sala di Varsavia fosse già dotata del sistema di traduzione in cuffia. È possibile che l’insuccesso presso il pubblico fosse causato dalla volontà del governo di sfruttare l’opera a fini di propaganda. La critica pose infatti l’accento sull’attualità dello spettacolo in riferimento al neomilitarismo della Repubblica Federale Tedesca e all’atmosfera della guerra fredda: Andrzej Wróblewski, per esempio, ne sottolineò la valenza sociale e le pericolose analogie con la politica coeva della Germania dell’Ovest richiamandosi al caso di Hans Globke, nominato direttore della Cancelleria della Repubblica Federale Tedesca pur essendo stato in precedenza coautore delle leggi razziali.50 Altri giornalisti percorsero la stessa linea interpretativo-ideologica e alcuni si spinsero a dire che il valore dello spettacolo coincideva con quello di una manifestazione politica, che sopravanzava ogni attributo artistico.51
39In una lunga recensione in yiddish pubblicata sul settimanale «Folks-Shtime», il principale giornale della comunità ebraica polacca del dopoguerra, Solomon Belis-Legis52 apprezzò il coraggioso tentativo del Teatro Statale Yiddish di cercare nuove strade, ma stroncò il risultato finale: le innovazioni extra-drammatiche introdotte da Swinarski avrebbero infatti trasformato lo spettacolo in una «lezione illustrata». In particolare non lo convinsero gli inserti audiovisivi, che a suo avviso presentavano tre difetti: non dialogavano in maniera efficace con le scene brechtiane, testimoniavano esclusivamente le sofferenze patite dagli ebrei sotto il giogo nazista, che ebbe però vasta ripercussione su tutta l’Europa, e infine, se dovevano servire a ricordare al pubblico ebraico il proprio sterminio, risultavano inutili perché «non lo dimenticheremo mai. È una questione troppo dolorosa e intima».53 In queste osservazioni di Belis-Legis convivevano la tendenza all’universalizzazione della violenza nazista tipica del pensiero comunista, fede in cui l’autore si riconosceva, e una ferma rivendicazione della singolarità del destino della comunità ebraica.
40Tra gli interpreti di Terrore e miseria del Terzo Reich figurava anche il giovane Henryk Grynberg, il quale racconta che Konrad Swinarski aveva le idee chiare sullo spettacolo, ma volle lasciare uno spazio di improvvisazione agli attori e non si oppose al fatto che in quell’opera, profondamente tedesca, apparisse qua e là «il nostro rapporto tutto ebraico con la realtà».54 Nel ricordo di Grynberg lo spettacolo suscitò interesse soprattutto tra il pubblico polacco per via del cortocircuito prodotto dalla visione di attori ebrei nei panni di criminali nazisti, ma la sua personale interpretazione fu guidata da un’esperienza di vita di tutt’altro orientamento politico: «Ho interpretato senza difficoltà il fanatico in pantaloncini corti dell’Hitlerjugend perché appena dieci anni prima ero stato qualcosa di simile nel zmp [Unione della Gioventù Polacca], cioè nel Komsomol polacco».55
41Kaminska e Swinarski tornarono a lavorare insieme nel 1962, quando il regista invitò l’attrice a prendere parte al dramma di Friedrich Dürrenmatt Franco Quinto. Commedia di una banca56 nel ruolo di Ottilia, moglie del protagonista. I coniugi Franco sono eredi di una dinastia di banchieri, che ha costruito il proprio impero finanziario sulla corruzione e l’illegalità. Per salvarsi dal tracollo economico la coppia senza scrupoli mette in campo le peggiori nefandezze, giungendo perfino a macchiarsi di omicidio. Soltanto verso i propri figli questi cinici capofamiglia si concedono un atteggiamento meno mostruoso, ma gli eredi hanno introiettato gli insegnamenti dei genitori e nel finale dell’opera saranno proprio loro gli artefici della truffa suprema.
42Per Ida lo spettacolo che debutta nel prestigioso Teatr Dramatyczny di Varsavia rappresenta una duplice novità: per la prima volta l’attrice va in scena recitando in lingua polacca, ospite di un teatro diverso dal proprio, e per la prima volta dalla fine della guerra si trova a incarnare un personaggio negativo. In realtà, e in perfetta sintonia con la scrittura dürrenmattiana, il personaggio creato da Kaminska combina in sé demonismo e comicità e si rivela «spaventoso tanto nei sorrisi e nella mitezza, quanto in ogni aggrottamento delle sopracciglia o smorfia di dolore».57 Nell’Ottilia di Kaminska convivevano una direttrice di banca spietata e una tragica madre di famiglia. A giudizio di alcuni, però, questo secondo carattere predominava sul primo, con il risultato di soffocare la natura grottesca del dramma.
43In Dürrenmatt come in Brecht la matrice grottesca è messa in rilievo dal canto, ma le modalità con cui ciò avviene sono differenti: nell’opera del drammaturgo svizzero il canto sottolinea l’ambiguità del testo e della fabula, in Brecht, invece, serve a illuminare la verità e in tal modo a portare il dramma nella direzione del grottesco. Nell’allestimento varsaviano questa dimensione grottesca si disperdeva fin dalla scenografia che, sfarzosa e funzionale, alludeva esplicitamente alla realtà contemporanea dei paesi capitalisti e avrebbe potuto svolgere una funzione parodica solo se supportata dalla recitazione degli attori, che tuttavia peccava di incoerenza.
Ottilia è il motore di ogni azione della banca e, di tanto in tanto, giudice e carnefice nei regolamenti di conti interni. […] Ottilia è pericolosa ma anche comica, le sue battute sono scritte nello stesso tono di quelle di Franco Quinto, Richard Egli e gli altri. La drammaticità del song della madre ingannata si allenta durante lo svolgimento del suo pensiero: «Figlia mia. Figli miei. Voi che siete stati nutriti dal mio stesso sangue. E da quello altrui. Mio tesoro. Mia meraviglia […]». L’Ottilia di Ida Kamińska è a tratti una madre tragica. L’attrice scava nelle profondità del personaggio, alla ricerca di motivazioni reali, psicologiche, del suo comportamento. Le parole «Abbiamo dei figli, signor Boeckmann» in bocca a lei sono un argomento incontrovertibile. Le pronuncia dall’intimo, con la profonda convinzione di avere avuto ragione a compiere qualsiasi crimine per il bene di due esseri innocenti. Eppure in Dürrenmatt quei figli e l’idillio familiare sono l’ennesimo mito da rovesciare. La scelta di rendere Ottilia, dalla quale dipende così tanto, un personaggio da dramma borghese realistico, pesa significativamente sullo spettacolo, che viene in tal modo deviato su binari del tutto differenti. All’istante si smarrisce la comica efferatezza che era nelle intenzioni dell’autore e il suo grottesco contrasto con lo sfondo lugubre.58
Il rimprovero che viene mosso all’Ottilia di Kaminska è lo stesso indirizzato ad altre sue creazioni, in primis Madre Courage. Dalla critica di regime, lo spirito materno e tragico che l’attrice insuffla nei personaggi viene scambiato per una predisposizione ai ruoli realistici, all’introspezione psicologica e per un’imperdonabile inclinazione verso il dramma borghese. Come vedremo a breve analizzando nel dettaglio proprio il ruolo di Madre Courage, a Ida non interessava affatto riprodurre frammenti di vita quotidiana, bensì porre sotto la luce dei riflettori un archetipo di madre e donna tragica, incarnato in uno stile recitativo svincolato da pregiudizi ideologici e alieno alle mode del tempo. Franco Quinto dimostra ancora una volta l’estraneità dell’attrice al processo di distanziamento critico dal personaggio e ancor più all’utilizzo strumentale di questo tipo di recitazione per additare i vizi della classe borghese e del sistema capitalista. In scena, Kaminska portava con sé lo spirito di un’altra epoca, oltreché la memoria di un popolo che era stato sterminato o assorbito nel nuovo sistema.
44L’attore Ignacy Gogolewski, che quando prese parte a Franco Quinto era poco più che trentenne, ricorda che al tempo in teatro vigeva una ferrea gerarchia e che la distanza tra la generazione di artisti che aveva debuttato dopo il 1945 e quella del periodo tra le due guerre era enorme. Era inimmaginabile, pertanto, che gli attori giovani rivolgessero per primi la parola a un’autorità teatrale del calibro di Kaminska e infatti Gogolewski non ebbe mai un dialogo privato con l’artista, pur interpretandone il figlio sul palco. Tuttavia, nella memoria di questo attore oggi ottantenne né la formalità dei rapporti personali né la predilezione di Ida Kaminska o del collega Jan Świderski per trucchi e accessori il cui uso già cominciava a essere fuori moda,59 attenuò minimamente la forza e la generosità delle loro creazioni sceniche.
45Una generosità colta da Jan Kłossowicz, critico che non conosceva Ida prima dello spettacolo di Swinarski, ma che ebbe la fortuna di seguire il processo di creazione di Franco Quinto fin dalla lettura a tavolino del copione:
Ricordo Kamińska in sala prove come una donna minuta dalla capigliatura bianca e dagli occhi immensi, o forse solo incredibilmente luminosi, dal volto bello e severo, che si trasformava del tutto quando si illuminava in un sorriso. Subito dopo mi ha sorpreso la sua voce. Kamińska leggeva in modo diverso dagli altri attori […]. […] all’improvviso ho visto tutto ciò che rende così originale l’arte di Kamińska: la sua incredibile energia interiore, che si esplicava attraverso espressioni perfette, un’emissione di voce non uniformata alla moda di oggi e uno sguardo che si illuminava in una maniera comune soltanto a pochi attori. […] Già all’epoca Swinarski non temeva gli spettacoli dai tratti marcati e radicali ed esigeva dagli attori una recitazione decisa, che talvolta puntava alla semplicità e si teneva sempre lontana dallo psicologismo minuzioso. Eppure Ottilia era completamente diversa da tutti gli altri personaggi. […]
La singolarità [dell’attrice], così evidente nello spettacolo, non è da attribuire soltanto all’utilizzo consapevole della sua personalità psicofisica. [..] è qualcosa di più del banale “recitare se stessi”. È uno stile unico e irripetibile. Uno stile che si differenzia nettamente da quelli correnti. Non ha nulla in comune con il “risparmio”, tanto celebrato e ormai abusato, con quella recitazione che sembra noncurante, con quella noia apparente che punta a sorprendere lo spettatore con un improvviso innalzamento […] della voce o con un gesto che si distacca dall’ostentata monotonia dei mezzi espressivi. Da questo punto di vista Kamińska è antitetica rispetto alla maggior parte degli attori contemporanei. L’architettura del suo ruolo ricorda piuttosto […] certi esempi d’attore del teatro romantico. […] dal momento in cui appare in scena recita sempre, senza mai fare finta. […] Recita con forza, con passione, con forza interiore e tenacia, ma soprattutto con orgoglio.60
A lasciare perplessa la critica era però l’allestimento nella sua interezza. Alcuni attribuirono la debolezza dello spettacolo al dramma stesso di Dürrenmatt – giudicato meno riuscito di altri e meno “esportabile” poiché in paesi non capitalisti avrebbe perso il suo effetto di shock e conservato soltanto gli eccessi macabri61 – altri, invece, accusarono Swinarski di dirigere un lavoro di tre ore e mezza, con un ritmo allentato e appesantito da orpelli scenici,62 e di avere soffocato una farsa collocandola in una cornice da teatro epico musicale di ispirazione brechtiana.63 L’evidente dipendenza del dramma e della regia di Swinarski dal modello brechtiano fu, al contempo, oggetto di lodi e di biasimo. A proposito del canto in scena, un recensore rilevò l’eterogeneità degli inserti: in accordo con l’insegnamento di Brecht alcuni song avrebbero avuto il compito di commentare dall’esterno l’azione, mentre altri si sarebbero inseriti nel solco della vicenda drammatica, come in una commedia musicale, dando vita a una «tragedia musicale».64
46È probabile che proprio l’importanza accordata alla musica e al canto abbia contribuito ad avvicinare ulteriormente due artisti dai percorsi così differenti come Kaminska e Swinarski. Dopo avere lavorato all’Opera da tre soldi, Swinarski aveva infatti compreso che la musica non era soltanto un abbellimento o un espediente meccanico per trasmettere un’idea, ma deteneva un ricco potenziale ermeneutico e, a seconda delle circostanze, poteva spingere l’uomo ad abbracciare una riflessione o ad abbandonarla. Da quel momento aveva perciò deciso di introdurre la musica anche in drammi che inizialmente non la prevedevano: una prassi tipica del teatro yiddish di ogni tempo. L’attenzione a un fare teatrale consapevole della propria origine e natura musicale non rappresentava certo una novità per Ida Kaminska. L’attrice, che era cresciuta circondata dalla musica e aveva compiuto il proprio apprendistato nell’operetta, conservò infatti per tutta la vita una sensibilità nei confronti della musicalità inscritta nelle parole o, come in questo caso, del canto vero e proprio. Questa sensibilità le era riconosciuta dalla critica che, oltre a constatare con gioia che Kaminska aveva finalmente la possibilità di calcare le scene polacche, aveva elogiato all’unanimità la potenza della sua interpretazione, in grado di integrare canto e recitato.65
Swinarski ha dimostrato un grande intuito nel distribuire le parti tra gli attori. Invitare Ida Kamińska, poi, è stata un’idea coraggiosa e magnifica. Difficile immaginarsi, qui in Polonia, una migliore Ottilia. Kamińska sa cantare e sa interpretare un personaggio che canta. Il song della madre disillusa, che canta nella scena finale, è sicuramente il migliore song d’attore che ci sia capitato di sentire nel teatro polacco. Kamińska […] è insieme un personaggio da commedia e da romanzo criminale; nell’ultima scena dovrebbe anche essere – ma purtroppo così non è – un personaggio della moralità.66
Come dimostra questa recensione di Andrzej Wirth, a imprimersi nella memoria dello spettatore è soprattutto il canto finale di Ottilia, attraverso il quale la donna svela definitivamente il proprio volto di madre ingannata e sconfitta. L’appunto finale del critico lascia intendere, invece, che Ida non sia riuscita a spogliare il personaggio da caratteristiche individuali e a trasformarlo in una allegoria contemporanea. Se si confrontano le osservazioni sulla recitazione di Ida Kaminska si ricava l’impressione che la critica fosse un po’ frastornata: da una parte continuava a rimproverare all’attrice di restare indifferente sia alle proposte di rinnovamento che giungevano dai riformatori del teatro sia alle suggestioni estetiche indicate dalla politica vigente; dall’altra, però, non lesinava apprezzamenti per la bellezza e la singolarità delle sue creazioni. Purtroppo, nonostante i numerosi giudizi positivi sulla creazione dell’attrice yiddish al Teatr Dramatyczny, a quell’invito non fecero seguito altre proposte da parte dei teatri polacchi.
3. Al lavoro su Madre Courage
47Le collaborazioni dell’attrice in Terrore e miseria del Terzo Reich (1960) e Franco Quinto (1962) si collocano nel periodo che separa il primo allestimento (1957) dalla ripresa (1967) di Muter Kuraj un ire kinder, la versione yiddish del celebre dramma brechtiano creata da Ida Kaminska.
48Quale fu la genesi di questo spettacolo? In campo artistico una delle conseguenze del processo di destalinizzazione, culminato in Polonia nell’ottobre del 1956 con l’elezione di Władysław Gomułka e la promessa di un nuovo “socialismo polacco”, era stata l’apertura delle frontiere alle compagnie teatrali affinché effettuassero tournée anche all’estero. Già nel mese di settembre l’ensemble del Teatro Statale Yiddish aveva avuto occasione di visitare la Francia e il Belgio e nei mesi di marzo e aprile del 1957 si era recato in tournée in Gran Bretagna e Olanda con gli spettacoli Meir Ezofowicz e Mirele Efros, diretti da Kaminska, e Tevye il lattivendolo, per la regia di Chevel Buzgan. In quello stesso periodo Ida lavorava intensamente alla traduzione in yiddish e all’elaborazione di Madre Courage, di cui aveva da poco ottenuto i diritti d’autore. In una delle ultime interviste, l’attrice raccontò di avere incontrato Brecht e Weigel a Parigi alcuni anni dopo la guerra (forse nel 1955) e che lo scrittore avrebbe espresso gratitudine e curiosità per la sua idea di portare in scena Madre Courage in un allestimento diverso da quello del Berliner Ensemble.67 Rifiutando la proposta di Ida di assistere alle prove del Teatro Statale Yiddish, Brecht le avrebbe dato appuntamento al debutto: un impegno che, tuttavia, non sarebbe riuscito a onorare a causa della morte, sopraggiunta nell’estate del 1956 in seguito a un attacco cardiaco.
49Ida si mise dunque al lavoro sulla pièce brechtiana, sicuramente più attratta dal tema e dalla sottile sensibilità del drammaturgo per i personaggi femminili,68 che non dalla sua idea di teatro. Se nelle memorie americane dell’attrice Brecht è nominato solo di sfuggita – forse anche perché, come vedremo, la critica statunitense non era rimasta soddisfatta dalla sua Madre Courage – nelle interviste rilasciate in Polonia negli anni Sessanta Kaminska citò più volte l’artista tedesco, dichiarandosi distante dalle sue teorie e in particolare da quelle che informavano l’arte attoriale. Rispondendo a un’inchiesta sui problemi del lavoro dell’attore, Ida affermò che l’interprete contemporaneo rispetto al passato aveva un rapporto diverso con il personaggio, che esigeva un coinvolgimento personale ben più profondo.
Siamo passati attraverso troppe cose perché adesso ci sia concesso rimanere insensibili. Ci manca l’equilibrio dell’animo, in noi c’è troppa passione, attorno a noi accadono troppe cose, perché si possa ponderare a lungo e freddamente una questione. Tutto ciò influenza la nostra creazione. Nutro una profonda ammirazione per l’opera di Bertolt Brecht, ma non posso concordare con la sua idea di teatro, con la sua teoria del «dimostrare» e della distanza dell’attore dal personaggio creato. Dirò di più: ritengo che un’opera fredda sia corruttrice. L’arte non può solo mostrare, dimostrare; se un’opera d’arte non commuove colui al quale è destinata a mio avviso non adempie a una delle sue più importanti funzioni. Certo, l’arte deve agire anche sull’intelletto, muovere al pensiero, ma il solo pensiero non è sufficiente, se allo stesso tempo lo spettatore non ne è commosso.69
Viene da domandarsi se Ida utilizzi un termine così forte come «corruttrice» per mostrare di essere allineata (almeno in apparenza) ai dettami del regime o se lo ritenga indispensabile per sancire la propria lontananza da un approccio cerebrale alla recitazione. È probabile che concorrano entrambe le motivazioni. Di certo si trattava di rimarcare una precisa poetica, che nasceva dall’esigenza istintiva di condividere con altri un’emozione, ritrovandosi – attori e spettatori – attorno a un comune nucleo di passione, più che attorno a un problema da sviscerare e rispetto al quale prendere, ciascuno per sé, posizione. In tutte le dichiarazioni di Kaminska alla stampa, che oggi ci appaiono generiche e poco approfondite, traspaiono con evidenza la fiducia dell’artista nella capacità del teatro di abbracciare le singole individualità in una comune commozione, ma anche l’affanno della direttrice nel legittimare il diritto all’esistenza di un teatro che, al confronto con le avanguardie coeve, rischiava di apparire antiquato.
50Come abbiamo già avuto modo di segnalare, Ida non è mai stata una regista innovativa. Nel 1966, a un’intervistatrice che le domandava quali fossero i suoi drammaturghi contemporanei preferiti, rispondeva citando programmaticamente per primo Brecht, seguito da Ionesco, Beckett e dai polacchi Sławomir Mroż ek e Tadeusz Różewicz, ma subito dopo si affrettava ad aggiungere di essere convinta che il realismo sarebbe sopravvissuto a ogni innovazione, sia in campo drammaturgico sia scenografico. Infine, asseriva di apprezzare ben poco le idee avanguardistiche di regia applicate a drammi tradizionali.70 Un paio di anni più tardi, dagli Stati Uniti, Harold Clurman stigmatizzerà l’approccio anacronistico alla messa in scena di Madre Courage da parte di Ida:
In Madre Courage di Brecht, un’opera difficile per qualsiasi compagnia che non sia il Berliner Ensemble, il Teatro Statale Yiddish della Polonia si trova fuori dal proprio elemento. Lo stile e la qualità dell’opera, a eccezione della sua tematica antibellica, sono totalmente estranei agli attori della Kaminska. Nella loro interpretazione Madre Coraggio è più sentimentale che dura. Diventa unicamente la storia di una madre che soffre da molto tempo ma resta sempre capace di sopportazione e per quanto ciò possa essere commovente riduce l’originalità del dramma. L’approccio di Brecht alla scena era classico in senso modernista; il Teatro Statale Yiddish della Polonia è il prodotto e l’erede della tradizione teatrale yiddish del diciannovesimo secolo.71
L’attribuzione della debolezza di Madre Courage alla natura del teatro yiddish ottocentesco non è però del tutto fondata: nella sua tagliente conclusione Clurman sembra imputare l’incapacità degli attori del Teatro Statale Yiddish di cogliere lo stile di Brecht alla dipendenza da quella tradizione e non riconosce invece che Kaminska ha operato una personale – e quindi anche criticabile – selezione del variegato patrimonio ereditato da generazioni di attori, registi, scenografi e musicisti yiddish. A infastidire il critico deve essere stato il modo in cui la regista ha sfacciatamente disatteso ogni indicazione brechtiana, archiviando anni di fertili discussioni e creazioni originate dalle novità teoriche e formali proposte dall’artista tedesco, per scegliere (almeno apparentemente) la via più sicura del dramma familiare, per quanto articolato in una trama inusuale. Dopo avere assistito a Mirele Efros, Clurman deve avere pensato che la Madre Courage di Kaminska si avvicinasse troppo al dramma gordiniano e non si può dire che avesse tutti i torti dal momento che a guidare entrambe le creazioni è la medesima tensione poetica.
51Poco incline a sperimentazioni che insidino la struttura fabulare dello spettacolo, Ida Kaminska ama le storie e difende l’idea di un teatro che nella narrazione riconosce un atto supremo di pietas. Per l’artista yiddish, erede della lezione chassidica e della sua eccezionale forza favolistica, «la pietas del narrare consiste nel custodire [il] passato. Il custodire è ormai possibile soltanto attraverso e nel narrare»,72 ma Ida non si fa illusioni sulla possibilità di fare rivivere il passato e questa lucidità preserverà sempre il suo teatro dalla retorica monumentale. Se è vero che solo una minima parte degli spettacoli del Teatro Statale Yiddish tratta esplicitamente del genocidio perpetrato dai nazisti, è vero anche che tutte le storie allestite dall’attrice dopo lo sterminio riverberano quel vuoto e testimoniano il disorientamento di una società frantumata e asservita. Esaminando l’opera di Ida Kaminska risulta evidente che il suo è un teatro in cui
il narrare stesso trascolora in ciò che custodisce: narrare e Heimat (quel crocevia di possibili che sanno ancora resistere alla loro reductio ad unum, ma che pure vivono, consapevolmente, la loro ultima giornata) si confondono: il narrare stesso diviene l’unica patria possibile. Il narrare narra se stesso: ciò che, alla fine, conta non è più il suo oggetto, ma il fatto stesso della sua esistenza.73
Si narra sempre un’assenza e per l’attrice yiddish del dopoguerra questo narrare diventa l’unica patria possibile, il sostituto della comunità che è stata disintegrata. Almeno fino al 1968, quando il suo progetto teatrale sarà definitivamente sovvertito. L’insufficienza di fonti rende difficile stabilire se un procedimento analogo abbia interessato il teatro di Ida Kaminska anche prima della Seconda guerra mondiale, ma la visione di film come Il voto e Senza una casa lascia supporre che già allora l’attrice affidasse alla narrazione teatrale il compito di fronteggiare lo spaesamento e il vuoto prodotti dallo sgretolamento del mondo ebraico tradizionale nell’impatto con la modernità. Ecco perché la forza delle più belle creazioni del teatro yiddish polacco del dopoguerra non va ricercata in una messa in scena innovativa, ma nella capacità di un attore-autore di raccogliersi insieme agli spettatori attorno a un passato condiviso e – facendone memoria insieme – affrontare con esperienza il presente.
52Una lezione che il teatro yiddish derivava dalle origini stesse della cultura ebraica che, a partire dal 70 d.C. e dalla distruzione del Secondo Tempio, il più importante di tutti i luoghi ebraici della memoria, si era costruita interamente sull’assenza. Come mette in rilievo Yosef Hayim Yerushalmi, «soltanto presso Israele, e non altrove, l’ingiunzione a ricordare è sentita come comandamento religioso per un intero popolo»74 e la prassi della memoria si esercita attraverso due canali: quello del rito e quello della recitazione. L’evoluzione dell’ebraismo ripercorsa dallo studioso nel fondamentale saggio Zakhor: storia ebraica e memoria ebraica dimostrerebbe come sia possibile vivere dentro alla storia, fino a patirne le più estreme conseguenze, senza però identificarsi interamente con essa, ma fondando la propria identità più profonda su un sapere narrativo, che trova espressione nella fede o in un mito metastorico, di cui il romanzo potrebbe temporaneamente fare le veci.75 E se il surrogato del mito che permane oltre i mutamenti storici fosse invece il teatro?
53Come abbiamo visto il teatro yiddish nasce tardi rispetto alle altre esperienze europee, in epoca moderna, periodo in cui si assiste anche al declino della memoria collettiva e all’apparizione della prima storiografia ebraica avulsa da essa: gli artisti del teatro yiddish si trovarono pertanto ad agire in questa fase di transizione e a incarnarne le sfide. Margarita Turkow, figlia di Jonas Turkow e Diana Blumenfeld e nipote di Ida, racconta che la famiglia non era religiosa in senso tradizionale, perché i genitori provenivano da famiglie ortodosse e si erano ribellati a quelle che consideravano pure superstizioni; eppure, nel sintetizzare la loro identità dichiara con fermezza:
They were modern, but their heart was religious. They were totally committed to their art. They believed in humanity, in being humane, in people. They did not believe in God, but in human. To them, Jewishness meant the language, the culture. […] It was yiddishkheyt that meant to them, being Jewish rather than kosher and Shabbat. It was more cultural.76
Armati della fede nella yiddishkheyt, gli artisti yiddish fondarono un teatro con spirito moderno e cuore religioso, convinti della sua natura intimamente metastorica (e non, come parve a molti critici, anacronistica) e del sapere narrativo in esso connaturato. Visto in questa luce, il teatro creato da Ida Kaminska nella Polonia socialista può ricordare l’opera del cantastorie evocato da Franco Fortini.77 In un mondo sferzato da una guerra millenaria, l’artista cantastorie è divenuto superfluo e sgradito alla comunità: «Nel circondario di Liling non è più consentito/di girare per le case per esaltare la primavera e gli spiriti/e di cantare canzoni con accompagnamento di nacchere/chiedendo l’elemosina. La lega contadina/ha arrestato tre mendicanti. Li ha obbligati/a trasportare argilla e a cuocere mattoni./Ma è bello esaltare la primavera, cantare i poveri morti./Che male fanno i cantastorie alla comunità?».78 Il cantastorie di Fortini è il poeta che esalta la dimensione sensuale dell’oggi, dal canto pericoloso e creatore di disordine, ma è anche il cantore dei morti e il custode della loro memoria: «I poveri morti ci ricordano di starci aspettando./La primavera è così bella da essere inumana./ Il canto del cantastorie riporta il passato irrecuperabile./E tutto questo fa dolce la vecchia vita./La fa santa e sopportabile./Non lo vogliamo più».79
54Muter Kuraj è l’esempio di una regia che fa un passo indietro rispetto alle innovazioni introdotte da Brecht per lasciare spazio all’esercizio di ri-memorazione collettiva e pietosa del teatro. Brecht e Weigel volevano indurre lo spettatore a vedere le implicazioni economiche della guerra, in modo da fargli analizzare e mettere in discussione un mondo regolato dagli affari. Per questo, per esempio, Weigel introdusse l’abitudine di Madre Courage di chiudere di scatto il portamonete e portarlo sulla coscia destra al termine di ogni compravendita, per evidenziare come la dimensione del commercio e del profitto restasse sempre centrale nella mentalità della protagonista. Non è per miopia che Ida si disinteressa alle proposte di Brecht ma perché, dal suo punto di vista, costituiscono una distrazione.
55Nella sua mise en scène Kaminska sposta il fuoco sulle sofferenze di una donna che perde tutto ciò che possiede di più caro e sulle contraddizioni della natura umana, nei risvolti tragici e ridicoli, nelle aspirazioni più nobili e negli istinti più meschini. A giudizio del critico Jan Paweł Gawlik, nell’opera brechtiana Kaminska si fa obbediente alla quotidianità che spinge l’uomo alla lotta non in nome dell’escatologia ma delle piccole necessità della vita. La sua interpretazione è meno severa e monumentale di quella offerta da Helene Weigel: essa difende le verità della vita quotidiana con la stessa efficacia con cui la grande attrice tedesca sosteneva quelle della filosofia della storia e della filosofia del dramma. Gawlik accosta l’interpretazione di Ida a quella dell’attrice francese Germaine Montero, protagonista della versione diretta da Jean Vilar al Théâtre National Populaire di Suresnes nel 1951;80 spettacolo che avrebbe ispirato a Bernard Dort, uno dei più importanti studiosi di Brecht, riflessioni analoghe a quelle espresse, anni dopo, da Clurman.81 Restituire la complessità e l’umanità di Madre Courage è una sfida alla quale Ida si dedica a lungo, confessando che il lavoro sul personaggio le è costato la salute, ma dichiarando anche che tra tutti i ruoli interpretati nel corso della sua lunga carriera è stato tra quelli che le hanno regalato maggiori soddisfazioni artistiche.82 Per questo, e anche per il desiderio di continuare a lavorare su un personaggio che non aveva ancora del tutto esplorato,83 sentirà la necessità di tornare a quell’opera dieci anni dopo la prima messa in scena.
56Muter Kuraj un ire kinder debutta al Teatro Statale Yiddish di Varsavia l’11 luglio del 1957, ma questa prima versione non verrà mai scelta da Kaminska per essere mostrata al pubblico al di fuori della Polonia. Quando, nell’ottobre dello stesso anno, la compagnia visita la Repubblica Democratica Tedesca decide infatti di allestire non lo spettacolo più recente ma il già consolidato Glikl di Hameln. A quello stesso periodo risale presumibilmente un telegramma firmato da Helene Weigel recante il messaggio «Wir freuen uns sehr» (Siamo molto soddisfatti):84 nonostante il personale del Teatro Yiddish di Varsavia lo abbia archiviato insieme ai materiali concernenti Madre Courage sembra più probabile che faccia riferimento proprio allo spettacolo di Baumann, andato in scena durante la tournée autunnale che toccò Berlino e Lipsia.
57Madre Courage torna sulle scene del Teatro Statale Yiddish a distanza di dieci anni, il 22 luglio 1967, in concomitanza con il settantesimo anniversario della nascita di Brecht. Successivamente l’opera verrà scelta da Ida – insieme a Mirele Efros – per essere rappresentata in due circostanze importanti: a Varsavia in occasione dei festeggiamenti per il cinquantenario della carriera teatrale e nel corso della tournée americana dell’autunno 1967.85 Negli anni dell’emigrazione l’attrice tornerà spesso a Madre Courage, allestendola a più riprese sia negli Stati Uniti sia in Israele, paese in cui, peraltro, l’opera godrà sempre di grande popolarità anche grazie all’interpretazione di Hanna Rovina. Universalmente nota per avere interpretato Leah nel Dibbuk diretto da Vachtangov (1922), al pari di Ida Rovina creò un’affascinante galleria di personaggi che – come abbiamo visto nel caso di Mirele Efros – incarnavano però una nuova figura di madre ebrea, espressione dello spirito della nuova patria: Israele.86
58La volontà di Ida di distaccarsi dalla poetica brechtiana è evidente fin dal programma di sala, che al di là dei mutamenti del cast non subisce variazioni nel passaggio dal primo al secondo allestimento. Il pieghevole che lo spettatore poteva acquistare all’ingresso del teatro è composto da una copertina in polacco e da una quarta di copertina in yiddish in cui sono indicate le informazioni principali sullo spettacolo: il nome del drammaturgo, il titolo dell’opera, la ripartizione del dramma, il responsabile della traduzione e dell’allestimento (Ida Kaminska), l’autore delle musiche (Paul Dessau) e lo scenografo (Zenobiusz Strzelecki), la data e il luogo del debutto. Le prime pagine ospitano una fotografia e una concisa nota biografica sull’artista tedesco, in cui si evidenzia il suo apporto in campo letterario e teatrale e si rinvia lo spettatore interessato all’opera di Brecht alle pubblicazioni più recenti, suggerendogli in particolare di consultare l’introduzione di Jan Alfred Szczepański ai Tre drammi.87 L’impressione è che Ida sfrutti il rimando a questo testo per non lasciare alcuno spazio nella presentazione dello spettacolo alla polemica sulla scarsa aderenza del teatro brechtiano all’ideologia socialista. La posizione critica di Szczepański nei confronti dell’espressionismo di Brecht, che «indebolisce la possibilità di esprimere la lotta di classe attraverso l’arte, deforma la realtà, rimuove il contenuto sociale [di Madre Courage] e ne intorbidisce la comprensione per lo spettatore»,88 era nota. Rinviando a un punto di vista accreditato dal regime, la direttrice si metteva al riparo dalle contestazioni della censura, senza però siglare il foglio di sala con alcuna distorsione ideologica o giudizio politico sull’autore. Se si confronta, per esempio, questo programma con la pubblicazione approntata in occasione della prima di Madre Courage in lingua polacca, di poco successiva, si nota che il testo del Teatr Ziemi Mazowieckiej, pur sobrio, non può fare a meno di presentare Brecht come «il poeta della saggezza popolare».89 Il testo anonimo presente nel foglio di sala di Muter Kuraj si conclude invece con un’affermazione prudente e generica: «il Teatro Statale Yiddish E.R. Kamińska rende omaggio a un grande scrittore, che per tutta la vita ha lottato per il diritto alla felicità e al rispetto per gli uomini di ogni nazione».90 Il libricino prosegue poi con una sintesi in polacco dell’opera divisa per scene,91 con l’elenco degli interpreti in ordine di apparizione (in lingua yiddish e polacca) e con alcune fotografie dello spettacolo.
59Dieci anni più tardi il programma di sala viene aggiornato unicamente nella sezione relativa alla composizione dell’ensemble.92 I ruoli principali sono rimasti immutati: Ida Kaminska interpreta Madre Courage, Karol Latowicz il figlio maggiore Eilif, Juliusz Berger il minore Schweizerkas, Ruth Kaminska la figlia Kattrin, Meir Melman il cappellano. Nella versione del 1967, tuttavia, sono presenti alcuni importanti cambiamenti: il personaggio del cuoco non è più interpretato da Chewel Buzgan ma da Seweryn Dalecki; manca un’attrice di talento come Sara Rotbaum, che nella prima versione interpretava la contadina che cerca di distogliere Kattrin dalla sua azione coraggiosa; e sono comparse nuove leve come Henryk Grynberg (il giovane artigiano) e Szymon Szurmiej (il comandante), attore che qualche anno più tardi diventerà il nuovo direttore del teatro. Lo spettacolo che va in scena nel 1967, inoltre, può già contare sul sistema di traduzione in cuffia: a leggere il testo in polacco nella cabina installata in fondo alla sala è il giovane figlio di Ida e Meir Melman, Wiktor.
60La carenza di fonti documentarie non ci consente di operare un confronto tra la prima versione della Madre Courage yiddish e quella che fece seguito dieci anni più tardi. Per questo motivo presenteremo i materiali indicando a quale delle due versioni si riferiscono, ma non ci concentreremo su un’analisi comparata che comunque, vista la sostanziale uniformità delle due versioni, sarebbe poco significativa.
61Lo spettacolo si compone di undici quadri (uno in meno rispetto al dramma originale) ed è diviso in due parti: la pausa era prevista alla fine del terzo quadro, che si chiude con la scelta di Madre Courage di disconoscere il cadavere del figlio Schweizerkas, condannandolo così a una sepoltura poco onorevole. Ida Kaminska cura la traduzione e la messa in scena, operando alcuni tagli che contribuiscono a rendere la pièce più concentrata e più scorrevole dal punto di vista drammaturgico, con l’effetto però, secondo alcuni, di semplificarne la struttura polisemica, che all’intreccio sovrapponeva un piano poetico-metaforico e filosofico.93
62Per ricostruire l’allestimento del Teatro Statale Yiddish abbiamo a disposizione il programma di sala, alcune fotografie, la registrazione di un brevissimo frammento dello spettacolo e – a differenza delle altre opere presentate nel documentario Il suo teatro – alcuni minuti di prova della scena xi, in cui Kattrin (Ruth Kaminska) suona il tamburo per risvegliare la città di Halle. L’interesse di questa registrazione non è tanto da reperire nelle indicazioni registiche di Ida, quanto nella possibilità di intravedere le dinamiche interne al lavoro della compagnia in un periodo in cui diversi componenti avevano dovuto imparare lo yiddish oppure non lo conoscevano affatto. La regista osserva le prove seduta in platea, con in mano una penna e un foglio per gli appunti; a un certo punto interrompe gli attori, li raggiunge sul palco e chiede loro in yiddish di rivedere il ritmo delle battute e le reazioni collettive. Poi si rivolge in polacco alla signora Kazimiera Wołczedska (fuori campo), che nel programma figura come direttore musicale e che presumibilmente non conosceva la lingua yiddish, indicandole l’esatta battuta dell’attore Abraham Rozenbaum in coincidenza della quale dovrà produrre il suono del colpo d’archibugio che ucciderà Kattrin.
63Nonostante il volume ridotto dei materiali siamo convinti che, intrecciandoli con le recensioni e gli sguardi degli spettatori del tempo, si rivelino documenti preziosi per ricostruire la Madre Courage portata in scena da Ida e i moventi delle sue scelte compositive.
64Anzitutto, è essenziale tenere a mente che Madre Courage è un caso unico tra i drammi moderni in cui il testo è strettamente identificato con una messa in scena, com’è noto quella del Berliner Ensemble: testo e regia costituiscono le due facce indivisibili della medesima scrittura scenica. Una correlazione accentuata sia dalle rivendicazioni del libro-modello dedicato a Madre Courage, una sorta di prontuario per la riproduzione dello spettacolo in altri teatri, sia dalla lunga vita della rappresentazione con Helene Weigel come protagonista, che la rese un’opera iconica.94 Per questa ragione è inevitabile che tutti i recensori si confrontino con lo spettacolo originario – per sondare l’aderenza della versione kaminskiana al modello brechtiano – riportando talvolta giudizi contraddittori. In verità, sono pochi coloro che descrivono lo spettacolo di Ida Kaminska come brechtiano e perlopiù si tratta di recensioni superficiali, che non si addentrano in un’approfondita disamina critica.
65A titolo d’esempio si può citare l’articolo di Karolina Beylin, uscito sul quotidiano polacco «Express Wieczorny» nel 1967. Dopo avere sottolineato di essere stata spettatrice di numerose versioni dell’opera (da Vilar ai teatri americani, dalla versione di Weigel a quella di Irena Eichlerówna), l’autrice plaude all’interpretazione di Kaminska, la quale, in maniera commovente e aderente alle intenzioni dell’autore, restituirebbe tutti i volti di questo controverso personaggio: una commerciante avida e astuta, un tiranno che domina sulle persone che le stanno intorno, ma anche una donna intrepida e una madre che ama i figli al di sopra della propria vita. O, almeno, questa è la visione che Beylin ha del personaggio. A suo avviso, Ida canta i song brechtiani in modo incantevole e quasi civettuolo, lasciando emergere il massimo dell’emotività e della satira che vi è nascosta e dando vita a un’indimenticabile interpretazione, in particolare delle canzoni sulla fraternizzazione (scena iii), sul commercio (scena vii?) e su Salomone (scena ix). A dispetto di quanto si sarebbe potuto immaginare, la sua creazione non offusca le altre, che per la gran parte sono ottime: memorabili sono soprattutto Ruth Kaminska nella commovente scena finale, Meir Melman e Seweryn Dalecki (in particolare quando intona la Canzone di Salomone insieme a Kaminska), mentre Karol Latowicz e Juliusz Berger ritraggono efficacemente le differenze caratteriali dei due figli di Madre Courage. Nel complesso, il lavoro della compagnia condurrebbe a uno spettacolo «in perfetto stile brechtiano».95
66La maggioranza dei critici polacchi e stranieri, al contrario, è concorde nel mettere in luce l’anti-brechtianità del Teatro Statale Yiddish ed è interessante che la stessa Beylin, assistendo alla prima versione di Muter Kuraj nel 1957, avesse messo in rilievo la grande distanza tra l’interpretazione dell’attrice tedesca e quella della collega yiddish. Rispetto alla Weigel, Kaminska aveva creato una Madre Courage meno grottesca e assai più tragica e «impostato il suo ruolo sul pathos, un pathos nobile, che non diverte ma sconvolge».96 Nel prossimo paragrafo prenderemo in esame il punto di vista di altri recensori per meglio comprendere la qualità sentimentale e profondamente patetica della Madre Courage di Ida. Per il momento, invece, soffermiamoci sugli altri elementi che compongono lo spettacolo: la scenografia e i costumi, verificabili attraverso le fotografie, ma anche le luci, la partitura musicale e vocale.
67La libertà della regista nel “tradire” le indicazioni di Brecht non è emulata da Zenobiusz Strzelecki,97 autore dell’impianto scenografico. Il prolifico artista, che collabora con il Teatro Statale Yiddish solo in occasione di questo spettacolo, rinuncia come Ida ad alcune soluzioni atte a evidenziare la natura artificiale della vicenda, anzitutto il celebre fondale bianco non significante che tanto aveva colpito Roland Barthes,98 ma non si allinea del tutto all’impostazione illusionistica e psicologica percorsa dalla regista. Non tenendo sufficientemente in conto i limiti del piccolo palco all’italiana del teatro di via Królewska, lo scenografo tenta di conferire allo spazio maggiore respiro e profondità con l’ausilio di fondali di tela colorata, per restituire l’impressione che l’azione abbia luogo su una scena aperta. L’effetto finale, a giudizio di molti, non è felice. Sulle pagine del «Przegląd Kulturalny», fino al 1956 organo ufficiale del Consiglio per la Cultura e l’Arte, Stefan Treugutt annota che
Strzelecki è riuscito con grande abilità a tirare fuori dalla piccola scena lo spazio per le peregrinazioni belliche della Madre, ma ha chiuso i lontani fondali con una pittura che voleva richiamare un’atmosfera di incendi, fumo e distruzione. C’è sul palco lo stesso carro della vivandiera, che fa parte della convenzione della scenografia frammentaria. Ma diverso è il cammino della protagonista. Ha perso molto della sua simbolica universalità: non è tanto un esempio crudele del destino umano, quanto il racconto per immagini del destino di una donna che ha vissuto grazie alla guerra, che in guerra ha perso due figli e una figlia, che soffre e rimane da sola.99
Il modello ideato da Teo Otto per la rappresentazione di Mutter Courage a Zurigo durante la guerra, poi ripreso e variato per l’allestimento berlinese, prevedeva una cornice fissa di schermi di grandi dimensioni, costruita con materiali riconducibili a un accampamento militare del xvii secolo, quali teloni, travi e cordami. La casa parrocchiale e la cascina, invece, erano «inserite plasticamente, realistiche in quanto a stile e materiali, ma artisticamente allusive».100 Alcuni oggetti erano veri, altri – come gli utensili o le stoviglie – «riprodotti con cura amorosa »101 in modo da avere il peso, la sostanza e il disegno di oggetti reali. Lo stesso valeva per i costumi, che dovevano essere scrupolosamente curati nei dettagli e negli accessori e «recare impronte individuali come quelli delle diverse classi».102 Nella versione zurighese, il fondale circolare era animato da proiezioni colorate, che furono successivamente eliminate nella versione berlinese e sostituite con grandi lettere nere appese sulle scene e assemblate in modo da indicare i luoghi visitati da Madre Courage con il suo carro. Nel prologo, nella breve scena vii e in quella finale il palcoscenico rimaneva invece completamente vuoto e, anche grazie al fondale panoramico, creava l’impressione di un paesaggio pianeggiante sotto il cielo aperto o di uno sconfinato deserto. Nelle intenzioni di Brecht la scena vuota serviva anche a smascherare fin dal principio ogni finzione scenica e a far partecipare lo spettatore al processo degli attori, che «hanno preso conoscenza dei fatti narrati dalla cronaca rappresentandoli, e li hanno rappresentati, giudicandoli».103 Ogni scena era introdotta dal titolo, proiettato su una leggera tenda di lino sollevata a metà. L’illuminazione si conservava per tutto lo spettacolo uniforme e incolore, monotona, per eliminare «anche l’ultimo residuo di quell’ “atmosfera” che romanticizza sempre un po’ gli eventi scenici».104
68Entrando nella sala del Teatro Statale Yiddish per assistere a Muter Kuraj un ire kinder, lo spettatore trovava ad accoglierlo un sipario sul quale era dipinta l’immagine di uno scheletro a cavallo che sventola una bandiera. Il tema iconografico del trionfo della morte, tipico del tardo Medioevo, introduceva lo spettatore agli effetti della vicenda di cui da lì a poco sarebbe stato testimone e si ergeva a macabro controcanto della colomba picassiana che Brecht aveva voluto collocare sul sipario come auspicio di pace. A destra e a sinistra del palco di via Królewska, in proscenio, erano ammassati gli strumenti della guerra e della morte: alabarde, picche e cannoni.
69Nell’allestimento diretto da Ida Kaminska le scene non sono più introdotte da cartelli e l’apparizione del carro è giustificata attraverso espedienti “illusori” ritenuti da alcuni critici non necessari. La scenografia di Strzelecki si compone di diversi elementi lignei; lo spazio è modellato in orizzontale da tronchi d’albero e pezzi di steccato; in verticale, invece, da alcuni segnavia, tra i quali spicca la scritta Lützen, città della Sassonia nella quale nel 1632 ebbe luogo una delle battaglie decisive della Guerra dei Trent’anni, e un’alta impalcatura che ricorda una torre di avvistamento. Andrzej Wirth prende l’esempio di questa struttura per condannare il prelievo acritico operato dallo scenografo nei confronti di alcuni elementi del modello tedesco, che male si adattano a una scena di piccole dimensioni: la torre su cui si arrampica Kattrin nella penultima scena finirebbe così per “morire” da qualche parte sotto al soffitto insieme alla figlia muta di Madre Courage.105 L’adozione di altre soluzioni scenografiche ispirate alla rappresentazione del Berliner Ensemble si rivela più riuscita: è il caso della piattaforma girevole destinata alle scene in movimento e in particolare al viaggio della protagonista, che funzionerebbe anche nella versione varsaviana.106 Dalle fotografie è possibile inoltre verificare che viene riprodotto almeno un ambiente interno, quello della tenda del comandante svedese in cui Eilif viene premiato per il suo valore – ossia per quegli stessi misfatti per cui, in seguito, verrà giustiziato – e rincontra la madre (ii scena).
70Purtroppo, né le fotografie né la breve ripresa video consentono di stabilire quale fosse l’illuminazione scelta da Kaminska.
71Per quanto riguarda i costumi, Brecht si raccomandava che non sembrassero quelli di una festa in maschera e che fossero coerenti con l’appartenenza sociale e le condizioni di vita di chi li indossava. Nel caso del maresciallo e del reclutatore che appaiono nella prima scena per convincere i figli di Madre Courage ad arruolarsi, l’effetto travestimento non è però del tutto scongiurato: a detta di Wirth il loro abbigliamento ricorda quello di Alì Babà e dei quaranta ladroni e sottrae serietà storica all’opera.107 In generale, tuttavia, i costumi del Teatro Statale Yiddish si ispirano a quelli utilizzati dal Berliner Ensemble, pur con alcune varianti (per esempio Ida non porta appeso sul petto il cucchiaio). Sono, forse, solo un po’ meno laceri e ingombranti e – soprattutto quelli di Madre Courage e di Kattrin – hanno tinte più chiare; caratteristiche, queste, che contribuiscono ad attenuare l’impressione sconcertante di bestialità suscitata invece dai personaggi della versione berlinese. Fa eccezione soltanto Juliusz Berger, che per caratterizzare Schweizerkas, il figlio minore di Madre Courage che muore vittima della propria onesta ottusità, indossa una parrucca e una protesi per modificare la forma del naso e renderla simile al grugno del maiale. Wirth elogia l’interpretazione di Berger giudicandola l’unica creazione autenticamente brechtiana dello spettacolo e spingendosi al punto da ritenerlo migliore di Hein Schubert, l’attore che interpretava Schweizerkas al Berliner Ensemble: «Se fossi un regista, darei il mio regno per lui. È l’unico attore in Polonia che sarebbe in grado di interpretare il Woyzeck di Büchner, il capolavoro della drammaturgia tedesca che qui cerca ancora, invano, un regista».108 Anche Karol Latowicz si guadagna gli apprezzamenti del critico per la sua interpretazione vitalistica.
72Né Ida né Ruth Kaminska ricordano i personaggi bestiali creati da Helene Weigel e Angelika Hurwicz: madre e figlia danno vita a figure tragicamente luminose, piegate dalla miseria, ma mai disumanizzate. I costumi rispecchiano una scelta precisa da parte della regista nel presentare questo consesso umano:
La propensione di questa versione lirica di Madre Courage a una resa realistica dell’opera è evidente non solo nel personaggio principale. I soldati che uccidono Kattrin sono in imbarazzo nel compiere quest’azione, non sono una marmaglia che agisce meccanicamente. Kattrin, interpretata da Ruth Kamińska, non ha i tratti biologici dell’infermità, ma la tristezza di una creatura umiliata e offesa. Mette in allarme gli abitanti della città di Halle e li difende dal massacro per bontà d’animo, non perché in lei si sia improvvisamente risvegliato qualcosa che ha imposto a una creatura muta una morte eroica. Quando Eilif – interpretato in maniera suggestiva da Karol Latowicz – racconta il successo del suo stratagemma, si compiace di uno scherzo ben riuscito, non è totalmente posseduto, come nella scena di Brecht, dal fascino della vita da soldato e dalla libertà nell’esercitare la violenza.109
Come abbiamo visto, la critica principale mossa alla versione yiddish di Madre Courage si appuntava sull’approccio antiquato della regista alla pièce, la cui materia drammaturgica sarebbe stata trattata secondo un metodo pre-brechtiano. Gli effetti di questa regia tradizionale avrebbero condotto a una ricezione errata del contenuto stesso dell’opera, considerata la profonda e organica connessione tra il metodo di messa in scena di Brecht e la struttura dei suoi drammi. A giudizio di Wirth Ida Kaminska «appronta il testo in modo illusionistico perché costringe lo spettatore a credere di essere lei stessa una madre sofferente, psicologico perché si immedesima con il personaggio che rappresenta e “culinario” perché serve i song come arie da operetta».110
73Brecht, all’opposto, descriveva la musica composta da Paul Dessau come «prevalentemente non orecchiabile»,111 ancora una volta allo scopo di attivare lo spettatore e indurlo a mettere insieme da sé le voci e il motivo melodico. Nella prima versione di Madre Courage realizzata dal Berliner Ensemble (1949) ogni canzone era preceduta dalla calata dall’alto di un «emblema musicale»,112 una trovata giocosa ma anche un elemento antirealistico che serviva a «rendere visibile la trasposizione a un altro piano estetico […] e a non dare l’impressione errata che le canzoni “scaturissero dall’azione”, bensì quella giusta: che fossero, cioè, degli inserti».113 Nell’esecuzione al Deutsches Theater l’autonomia degli inserti musicali era rafforzata anche dalla collocazione degli strumentisti su un palco in proscenio, in uno spazio distinto da quello degli attori: una soluzione che conferiva ai loro interventi il carattere di piccoli concerti autonomi.
74Nulla di tutto ciò si è conservato nella versione yiddish dello spettacolo. Per quel che si può evincere dalle fotografie e dalle recensioni, in scena non era presente alcuna orchestra né si faceva uso di espedienti per disgiungere il canto dall’azione drammatica; è probabile, anzi, che la musica fosse registrata.
La musica di Paul Dessau è scabra, provocatoria, collega i quadri della “Cronaca della Guerra dei Trent’anni” con una serie di canti, ognuno dei quali lega dal punto di vista della composizione lo spettacolo e allo stesso tempo strappa lo spettatore alla finzione storica, ricordando il ventesimo secolo e le tesi didattiche dell’autore. Nello spettacolo di Kaminska, in corrispondenza di ogni canto non veniva calato dal soffitto sopra il palcoscenico un simbolico tamburo, ma i canti venivano incorporati man mano nei quadri e, per quanto possibile, giustificati dall’andamento della vicenda. Perciò il loro significato è minore: sono soltanto degli ornamenti, peraltro non sempre coerenti con la logica che sovrintende lo sviluppo dell’azione.114
Pur conservando le musiche originali di Dessau, Ida ne tradisce la natura cercando di giustificarle realisticamente e, in tal modo, sopprimendo le differenze tra song e dialogo, nonché tra evento e metafora. Lo sforzo compiuto dalla regista per eliminare il gioco delle contraddizioni, la discontinuità e la disorganicità che costituiscono il fondamento dell’opera brechtiana si riflette non solo sul piano musicale, ma investe la lingua nel suo complesso.
Cosa strana, perfino Dessau qui è più delicato, la sua musica perde il valore di elemento compositivo e semplicemente fa da accompagnamento alla triste ballata di una madre a cui sono stati uccisi i figli in guerra. Anche il testo in lingua yiddish è come se perdesse in incisività, il che è un’incongruenza dal punto di vista della suggestione fonetica perché la lingua parlata trecento anni fa dalla soldataglia internazionale di quella grande guerra ricordava certamente più da vicino la lingua odierna degli ebrei polacchi che non il tedesco contemporaneo. Eppure l’insieme ha un che di casalingo; d’altronde è difficile leggere questa opera ad esempio in polacco, quando ho avuto in mano la traduzione francese il testo mi è sembrato completamente diverso. Un’illusione, ovviamente, perché non esiste una letteratura intraducibile, eppure Mutter Courage è strettamente legata al valore fonetico della lingua tedesca. Appunto “Mutter” e non “Madre”, “Mutter” con la doppia “t”, breve e sorda, la “r” ringhiante e l’intonazione germanica del soprannome “Courage”.115
L’unico documento che abbiamo a disposizione per verificare la partitura sonora della Madre Courage yiddish è un brevissimo filmato (circa 30’’) tratto dalla scena iv, in cui Ida canta la Canzone della Grande Capitolazione.116 Lo confronteremo con la ripresa filmica dello spettacolo del Berliner Ensemble, realizzata nel 1961.117
75Nella scena precedente, la iii, Anna Fierling aveva perduto il figlio Schweizerkas, rimasto vittima della propria onestà e dell’incapacità della madre di riscattarlo senza badare a contenere le perdite. Per raccogliere la somma destinata alla liberazione del figlio, la vivandiera aveva infatti dato in pegno il proprio carro alla prostituta Yvette, ma aveva poi perso tempo a trattare sul prezzo della corruzione. Impazienti, i mercenari che tenevano in custodia Schweizerkas lo avevano consegnato ai propri superiori. Fuori scena era risuonato un rullo di tamburi, poi la salva. Nell’udire lo sparo Helene Weigel, che al rumore dei tamburi aveva barcollato e si era messa a sedere, rovesciava il capo all’indietro e spalancava la bocca in un grido muto di dolore. Un’azione divenuta presto celebre, che l’attrice tedesca aveva creato a partire dalla fotografia di una madre che piangeva la morte del figlio dopo un attacco giapponese a Singapore e che presumibilmente Ida non ripropose.
76L’unica documentazione che abbiamo della scena in cui Kaminska/Courage si trova di fronte al corpo del figlio – che Treugutt descrive come una delle più intense dello spettacolo – si riferisce alla situazione immediatamente successiva, quando due lanzichenecchi portano su una barella il cadavere di Schweizerkas chiedendo alla donna di riconoscerlo. La donna si avvicina al figlio morto e, per non tradirsi, lo rinnega, condannando il corpo del ragazzo a essere trasportato allo scorticatoio. Brecht commenta così in un appunto l’atteggiamento della Courage di fronte a questa poco onorevole sepoltura: «Tra l’altro non è un’Antigone».118 Nel filmato, Weigel si approssima al cadavere con un’espressione dura e ostinata, lo guarda, scuote la testa e torna a sedersi vicino a Kattrin, prendendole la mano; a occhi chiusi scuote la testa ancora una volta e, appena i soldati escono di scena pronunciando le parole «Non ha nessuno che lo conosce», scivola dal sedile e crolla a terra. In una fotografia di scena, invece, Kaminska è ritratta al centro della composizione, di fronte alla barella sollevata su cui giace il figlio. In piedi alle sue spalle, Kattrin serra gli occhi per l’angoscia, mentre in primo piano sulla sinistra si staglia il profilo di uno dei soldati che la interrogano sull’identità del morto. La Courage di Kaminska ha una postura composta, quasi elegante, sul volto un’espressione dolente ma determinata a mascherare il proprio dolore, lo sguardo fermo è rivolto lontano (si nota anche il lieve strabismo dell’attrice). Possiamo immaginare che dopo qualche istante di silenzio sul palco calasse il buio e la scena venisse celata dal sipario: al termine del iii quadro, infatti, si riaccendevano le luci nella sala del Teatro Statale Yiddish e aveva luogo l’intervallo.
77La scena iv segnava l’inizio del secondo tempo. Madre Courage è seduta davanti alla tenda del capitano di cavalleria dell’esercito cattolico per presentare un reclamo: il suo carro è stato infatti danneggiato dai soldati nel tentativo di scovare la cassa conservata da Schweizerkas ed è stata costretta a pagare una multa. Sopraggiungono due soldati: il più giovane è in preda all’ira per non avere ricevuto una ricompensa dopo avere compiuto un’azione coraggiosa salvando il cavallo del colonnello e il compagno riesce a stento a trattenerlo dal penetrare nella tenda del superiore. Madre Courage dissuade il giovane dal realizzare i propri propositi di vendetta spiegandogli che la rabbia che lo anima è di breve durata e suggerendo che gli conviene sopportare un’ingiustizia piuttosto che rischiare di essere messo in ceppi. Subito dopo, la donna intona l’amaro canto della Grande Capitolazione. Attraverso questo aspro riassunto della propria vita il risentimento iniziale si converte in scoramento e alla fine della scena non solo il giovane soldato rinuncerà ai propri intenti ma la stessa Madre Courage, come ammaestrata dal proprio insegnamento, se ne andrà senza presentare alcun reclamo. In questa rinuncia alla lotta contro forze superiori Brecht individuava un riprovevole vizio di classe, del quale la protagonista si mostra corresponsabile:
La cattiveria di Courage in nessuna scena è maggiore che in questa, dove insegna al giovane la capitolazione davanti ai superiori per poterla attuare essa stessa. E tuttavia il volto della Weigel mostra, in ciò, una parvenza di saggezza, addirittura di nobiltà, e questo è bene. Non si tratta tanto della cattiveria della sua persona, quanto di quella della sua classe, ed essa almeno si alza di un gradino, mostrando di conoscere queste debolezze e di esserne sdegnata.119
Per sottolineare questa ambivalente condizione di artefice della propria capitolazione e vittima della stessa, Brecht si raccomandava che la protagonista recitasse in modo brusco, tagliente, così da mettere in luce la propria corruzione morale più che le giuste motivazioni della rabbia. Si spingeva fino al punto di dire che tale scena «è socialmente nefasta se l’interprete invita il pubblico, con una recitazione ipnotica, ad immedesimarsi in lei»120 perché così facendo lo spettatore «rafforzerà soltanto le proprie tendenze alla rassegnazione e alla capitolazione […] e la bellezza e la forza di attrazione di un problema sociale, non riuscirà a sentirle».121
78L’interpretazione di Ida, immortalata in un breve frammento video, ci conferma la totale disattesa di ogni convenzione straniante. Dalla sua recitazione melodica, che ad alcuni critici appariva troppo legata all’operetta,122 traspare una forma di saggezza antica: il sorriso che accompagna il canto è di segno opposto rispetto al sorriso che dispiega al culmine degli affari e che per Roland Barthes era espressione della sua innocenza, cioè della sua ignoranza.123 Nella riflessione di Kaminska-Courage, invece, partitura melodica e recitata si intersecano con fluidità, svelando una sapienza colma di disillusione, che non sconfina tuttavia mai nel cinismo. È la stessa, drammatica, disillusione di Ottilia Franco, che rompe gli argini della parola e si libera nel canto.
79L’interpretazione dell’attrice yiddish diverge radicalmente da quella di Weigel dal punto di vista della postura, della mimica e dell’uso della voce. La performance austera di Weigel/Courage si costruisce su una recitazione frontale, che si rivolge direttamente allo spettatore e solo in sporadiche occasioni coinvolge il soldato che le è accanto. Le parole che escono dalla bocca dell’attrice tedesca sono raffiche sonore, sferzanti e offerte all’ascolto senza un eccessivo indugio espressivo: si susseguono, secche ed energiche, come un programma ineluttabile. L’attrice tedesca conserva per quasi tutta la durata del canto una posizione fissa – dapprima con le mani serrate e appoggiate sul grembo, poi con i pugni piantati nelle cosce – e la scioglie soltanto in tre o quattro occasioni per evidenziare un particolare concetto con un gesto deciso.
80Ida mantiene per tutta la durata della ripresa una postura raccolta ma più morbida e si abbandona a una gestualità più naturalistica. L’atteggiamento è confidenziale, affabulatorio, teso ad avvincere gli astanti con la propria narrazione. Kaminska/Courage è seduta su un masso, in compagnia di un soldato che la ascolta con attenzione e di un altro militare che la raggiungerà dopo poco. Con un sorriso velato di tristezza intona «di menshn zikh farmesn/Shpaltn himlen/un iberdreyen di velt» (Gli uomini si fanno concorrenza/fanno a pezzi i cieli/e mettono a soqquadro il mondo); prosegue con un inserto recitativo dal ritmo serrato: «a mentsh mit a shtark viln/kon zikh durshlogn a vegn/un vil/vel fun zikh arupwarfn dem jokh» (un uomo dalla forte volontà/può spuntarla/E liberarsi del giogo); per poi tornare a constatare con un sorriso doloroso, che contrasta con la voce lieve e melodica: «doch vel [… tayn?] gezen/az es volt gevezn am bestn lozn alts azoy vi s’iz lang shojn ajngeshtelt» ( […] vedrà (?)/ Che sarebbe stato meglio lasciare tutto così come, da tempo, era sistemato) e infine concludere come richiamando a sé lo sguardo spintosi troppo lontano e mormorando a occhi socchiusi: «men darf zikh konen tsupasn tsu lebn» (bisogna sapersi adattare alla vita).
81È curioso constatare che il testo yiddish non corrisponde ad alcuna delle strofe dell’originale tedesco, pur condividendo con il modello originario un linguaggio intricato e ricco di idiomi. Ciò lascia presupporre che Ida Kaminska abbia tradotto Madre Courage, o perlomeno i suoi inserti canori, con grande libertà, ma l’assenza del copione yiddish negli archivi del teatro rende impossibile ogni ulteriore ricognizione testuale.
4. Da iena a mater dolorosa
82È vero, come dimostra Wirth nella sua approfondita disamina, che lo spettacolo di Ida rinnega la poetica brechtiana senza proporne un superamento, ma lo stesso critico che stronca la regia perché poggia su una concezione falsata e banalizzante, ammette che l’attrice yiddish ha una personalità sufficientemente forte per contrapporsi al modello di Helene Weigel. La recitazione della Weigel combinava un esame critico e minuzioso del personaggio con un ritratto simpatetico di questa donna affascinante: con magistrale senso della proporzione, non mostrava mai il carisma di Madre Courage senza rivelarne anche gli aspetti ripugnanti, né metteva in luce il comportamento scorretto o repellente senza lasciare intravedere anche un barlume di intelligenza e spirito umoristico.
83La creazione attoriale di Ida opera su un piano del tutto originale, distinguendosi per «inventiva e tatto artistico» :124 a giudizio del critico questa Madre Courage «è molto ebrea, saccente, sentimentale e chiassosa, costruita su una mobilità impetuosa che Weigel [intenzionalmente] evita».125 Da una parte dunque l’attrice tedesca e la sua performance compiutamente brechtiana, straniante e «terrigna» ;126 dall’altra il lirismo e l’urgenza empatica dell’attrice yiddish. Il contrasto, si badi bene, non è soltanto tra un metodo di straniamento e uno di totale immedesimazione, né tra un approccio razionale al personaggio e uno impulsivo. Anche nell’interpretazione kaminskiana convivono pulsioni differenti, al punto che un critico come Roman Szydłowski giunge a rimproverare a Kaminska un certo intellettualismo.127
84Wirth non è l’unico a giudicare severamente le scelte registiche di Ida e al contempo a rimanere colpito dalle creazioni di questa Madre Courage “molto ebraica”. Per capire cosa si nasconda dietro a questa espressione ermetica e dal sapore pregiudiziale è opportuno archiviare la questione dell’anti-brechtianità e soffermarci di più sulla trasformazione di Anna Fierling da «iena dei campi di battaglia»128 in mater dolorosa. Per cogliere la differenza della compagnia yiddish è utile un rapido confronto con gli allestimenti polacchi di Madre Courage coevi a quelli del Teatro Statale Yiddish.129
85Dal debutto, in yiddish, di Madre Courage e i suoi figli, in tutto il territorio della Repubblica Popolare Polacca si susseguono versioni dell’opera nella traduzione in lingua polacca di Stanisław Jerzy Lec.130 Nell’ottobre del 1958 debutta al Teatr Ziemi Mazowieckiej di Varsavia la prima Madre Courage in lingua polacca, per la regia di Krystyna Berwińska e la scenografia di Józef Szajna; nel gennaio del 1962 allo Stary Teatr di Cracovia (Teatr Kameralny) la versione diretta e interpretata da Lidia Zamkow, poi ripresa nel dicembre del 1963 al Teatr Śląski di Katowice; un mese dopo il debutto di Cracovia va in scena al Teatr Narodowy di Varsavia la celebre Irena Eichlerówna, diretta da Zbigniew Sawan; nel novembre del 1965 un ulteriore allestimento al Teatr Wybrzeże di Danzica per la regia di Jerzy Goliński. Due anni più tardi, nel marzo del 1967, Jadwiga Hodorska interpreta Madre Courage al Teatr im. Aleksandra Fredry di Gniezno, per la regia di Jan Perz; pochi mesi più tardi il Teatro Statale Yiddish propone il suo riallestimento e nel gennaio 1968 Kazimierz Braun dirige la propria versione al Teatro Juliusz Osterwa di Lublino con protagonista Sidonia Błasińska. Questo per limitarci al periodo in cui Ida Kaminska rimane in patria. Dopo gli anni Sessanta la popolarità di Bertolt Brecht in Polonia, come nel resto del mondo, si riduce drasticamente: l’ultimo allestimento brechtiano a suscitare una viva risonanza nel paese risale al 1962 (La resistibile ascesa di Arturo Ui diretta da Erwin Axer e interpretata da Tadeusz Łomnicki), mentre dal 1968 a oggi Madre Courage è riapparsa soltanto in nove rappresentazioni teatrali, l’ultima delle quali nel 2016, e in tre versioni per il Teatro della televisione (1974, 1983, 1997).
86Leggendo i resoconti degli storici salta subito agli occhi che lo spettacolo del Teatro Statale Yiddish non veniva riconosciuto come un debutto polacco, ma come un evento a sé stante.131 Anche una studiosa attenta alla cultura teatrale ebraica come Eleonora Udalska, negli anni Settanta ripercorre la storia degli allestimenti di Madre Courage attribuendo al Teatr Ziemi Mazowieckiej il primato della messa in scena e rapportandola alla grande impressione suscitata dalla tournée del Berliner Ensemble.132 Il programma di sala della compagnia polacca era ben più esplicito di quello del Teatro Statale Yiddish nel rivendicare la necessità della presenza dell’autore tedesco nel proprio repertorio: indirizzandosi direttamente agli spettatori, si sottolineava che Brecht, insieme a Shakespeare, era il poeta che esprimeva in maniera più compiuta la vocazione a un teatro «popolare, antiborghese, umanitario, con un grande carico di poesia […], non “scolastico”, ma vivo e combattente».133 Nel libretto seguiva, a questo punto, uno scritto elogiativo su Brecht, poeta della saggezza del popolo.
87La regista Krystyna Berwińska riprendeva fedelmente dal modello berlinese la composizione di alcune scene, ma sostituiva le didascalie (che in una versione brechtiana erano scritte sui siparietti) con un prologo recitato da un narratore in divisa militare polacca. Nelle intenzioni della regista lo spettacolo doveva universalizzare e attualizzare la tragedia bellica: la protagonista interpretata da Irena Skwierczyńska ricordava infatti una venditrice ambulante della Varsavia ai tempi dell’occupazione, una donna semplice e spavalda, capace di ogni astuzia pur di sopravvivere, ma lontana dalla freddezza e dall’ottusità mostrate dalla Weigel.134 Costumi e scenografie erano progettati dall’innovativo scenografo Józef Szajna:135 a qualche metro di altezza sopra al palco era appesa un’accozzaglia di oggetti, tra cui si distinguevano i pezzi di stufa con cui, di lì a pochi anni, i morti di Auschwitz avrebbero costruito il proprio crematorio in Akropolis, rinomato spettacolo del Teatr Laboratorium diretto da Jerzy Grotowski.
88Andrzej Władysław Kral propone un interessante raffronto tra i due debutti, yiddish e polacco, individuando la forza del primo nelle creazioni attoriali e del secondo nella regia:
A prima vista si nota una differenza basilare: il pregio fondamentale dello spettacolo di Kamińska è racchiuso in alcuni ottimi ruoli, primo tra tutti la memorabile creazione della protagonista; nel caso del Teatr Ziemi Mazowieckiej, invece, un valore analogo è dato dalla messa in scena. Non credo ciò avvenga solo perché le forze attoriali della nostra scena itinerante sono più modeste (perlomeno il problema non riguarda tutti i personaggi). Personalmente intravedo qui alcune caratteristiche più universali. Mi sembra infatti che lo sviluppo di un’arte della regia consapevole del proprio significato sia un tratto spiccato del teatro polacco contemporaneo, facile da individuare nel confronto con le esperienze di altri paesi e del resto messo spesso in rilievo dagli stranieri […]. Sia l’allestimento yiddish di Madre Courage sia quello polacco hanno fatto ricorso in maniera diretta alla commozione, che Brecht ha programmaticamente evitato in tutti i suoi lavori, e perfino a una certa rappresentazione di genere; entrambi hanno interpretato i song integrandoli nell’azione, senza farne dei proclami indipendenti ed ex cathedra, come invece accade negli spettacoli di Brecht.136
Kral prosegue riconducendo le caratteristiche dell’allestimento del Teatr Ziemi Mazowieckiej a un differente «temperamento» dell’attore polacco e alla funzione sociale di questo teatro itinerante, che per tutti gli anni Cinquanta si spostò su una chiatta lungo i fiumi per raggiungere i villaggi della regione della Masovia.
La messa in scena di Brecht al Teatr Ziemi Mazowieckiej è stata adattata sia al temperamento decisamente più tranquillo dell’attore polacco, sia ai compiti del teatro che l’ha realizzata. Ha una forma forse ancora più “epica”, ancora più didascalica che in Brecht stesso. […] Berwińska ha soltanto cercato di avvicinare i quadri brechtiani all’attualità e al pubblico polacco. […] Tutta la popolazione della Polonia vedrà questa Madre Courage. Le lettere che la compagnia riceve dagli spettatori, sinceramente commossi dallo spettacolo, indignati per motivi religiosi (ce ne sono stati) o sorpresi da questo tipo di arte, dimostrano che tale debutto era necessario. […] Il livello e il carattere della messa in scena la autorizzano pienamente ad assumersi il ruolo di attivo rappresentante del teatro popolare contemporaneo.137
L’annotazione misteriosa circa il temperamento più tranquillo dell’attore polacco è parzialmente chiarita dalla descrizione che il critico fa della recitazione della compagnia yiddish:
Lo spettacolo di Kamińska si distingueva per la recitazione dall’espressività marcata, vicina allo stile tedesco. Così recitavano Chewel Buzgan, Marian Melman, Karol Latowicz e Juliusz Berger. Su questo sfondo spiccava il personaggio di Ida Kamińska. La sua Madre Courage è interpretata con mirabile lirismo, “dolcemente”, con una gran dose di femminilità, quasi con malinconia; ha sconvolto gli spettatori con il suo singolare destino di povera madre ebrea travolta dalle orribili esperienze dell’ultima guerra. Nella sconfitta di Madre Courage, man mano che perde tutti i suoi figli, nel fallimento dei suoi “affari”, ritroviamo qualcosa della tragedia straziante di un’intera nazione. Nel ruolo di Kamińska è racchiusa l’eccezionale forza espressiva di quest’opera, allestita proprio in questo teatro. Una forza espressiva sconvolgente.138
Nelle versioni polacche successive, Madre Courage si allontana sempre più dal prototipo dell’interpretazione di Helene Weigel e dalle teorie del teatro epico, sempre più conformandosi a una tendenza universalizzante comune a molte esperienze teatrali dell’epoca. Nel 1962, a distanza di poche settimane, debuttano a Cracovia e a Varsavia due allestimenti. Al Teatr Stary Lidia Zamkow dirige e interpreta una Madre Courage che si distacca da ogni riferimento storico per proporsi sempre più come una metafora, una lettura rafforzata anche da scenografie e costumi. L’attrice si sforza di estrarre dal personaggio manifestazioni di saggezza e umanità e con il procedere delle scene la sua recitazione si silenzia, diventando più intima e delicata. In palese disaccordo con i postulati brechtiani, la Madre Courage della Zamkow matura grazie alle peregrinazioni e all’infelicità: avendo compreso i meccanismi della guerra, cresce in lei la ribellione e la volontà di opporsi alle sue forze distruttrici. Nella scena conclusiva la donna è paralizzata dal dubbio se proseguire o meno il proprio cammino; si è riattaccata al carro, ma al posto di sollevare i finimenti e rincorrere ciecamente la guerra, si ferma impotente al centro della scena.
89A Varsavia, invece, Irena Eichlerówna dà vita a un personaggio che, scoprendosi vinto, si impegna a difendere la dignità dell’uomo e della sua sofferenza. Nell’ultima scena agisce con decisione e inaspettata energia: dopo avere sistemato la sepoltura della figlia, si getta addosso i finimenti del carro e si rimette dignitosamente in cammino. Nella sua interpretazione, Madre Courage si eleva a simbolo dell’inesauribile forza dell’essere umano, mostrandosi capace di un amaro ottimismo e di una «consapevolezza che non è quella della iena da guerra, ma della rappresentante di una nazione che è sopravvissuta all’occupazione nazista».139
90All’opposto, nella rappresentazione di Danzica del 1965 la Madre Courage di Bogusława Czosnowska cessa di essere una vittima della guerra e diventa «un prodotto, una seguace e infine una vittima della civiltà del denaro» ;140 lo spettacolo assume un carattere analitico, illustrando tesi con cui si propone di convincere lo spettatore e non di certo commuoverlo. Nello stesso anno in cui Ida porta in scena la seconda edizione di Muter Kuraj al Teatro Statale Yiddish, al teatro di Gniezno Jadwiga Hodorska incarna una lettura del tutto diversa del carattere della protagonista, che mette in relazione il suo vitalismo al desiderio di non invecchiare. Questa Madre Courage non vuole rinunciare alla guerra perché essa le offre la possibilità di una vita dinamica e mutevole e soltanto nella scena finale la donna acquisterà consapevolezza della propria condizione definitiva di solitudine e vecchiaia.141
91Per limitarci al periodo che ci interessa, la rivoluzione copernicana attorno a Madre Courage si completa nel 1968, anno in cui il regista Kazimierz Braun trasforma la protagonista in una eroina stracciona, che ha perduto tutto unicamente per colpa della Storia.142
92Questa sintetica panoramica delle differenti interpretazioni di Madre Courage e i suoi figli in Polonia ci persuade che il desiderio di Ida Kaminska di appropriarsi della storia della vivandiera ignorando consapevolmente le indicazioni dell’autore non fosse una scelta isolata. Lasciando da parte le possibili letture sociali e politiche, Ida sceglie di ritrarre la sofferenza di una madre in tutte le sue articolazioni, dal dolore acuto della perdita al progressivo radicarsi di una disperazione che, tuttavia, non si tradurrà mai in inazione. Una madre – quella incarnata da Kaminska – che va ben al di là di Anna Fierling, risalendo alla mitologia greca e attraversando tutta la storia umana fino al più recente eccidio nazista: un archetipo che sempre rinnova la propria attualità. Più di un critico vide in Ida una moderna Niobe, la mitica figlia di Tantalo che, fiera della numerosa prole, fu punita dalla dea Latona con lo sterminio dei figli ma che, pur tramutata in pietra, conservò sempre vivo il proprio dolore e non cessò mai di piangerli. Si trattava di un fraintendimento antico, che risaliva all’allestimento zurighese di Madre Courage dell’aprile del 1941 diretto da Leopold Lindtberg con Therese Giehse come protagonista, e che rimase ben radicato a dispetto del volere di Brecht, il quale in Theaterarbeit aveva citato la Niobe proprio come esempio di ciò che non si doveva fare.
L’anziana donna ha perduto tutto e tutti, le è rimasto il carro in rovina, con un misero avanzo di beni: un simbolo di disgrazia più che un sostegno per la vita. In un giorno muto, sordo e cieco, si mette in cammino per l’ultima volta, sola ed errante, destinata a non fermarsi più finché avrà vita. […] È tragica al pari di re Edipo, appoggiato al bastone sulla strada cieca verso la fine. Madre Courage ha vissuto della guerra, questo è vero, e ha tirato sul prezzo della vita del figlio così a lungo che a un certo punto è stato troppo tardi, ma il mondo della guerra le si è imposto come una condizione innata e ha rinnegato il figlio per salvare la figlia, e sempre per la figlia ha rinunciato a un rifugio tranquillo. La Madre Courage di Ida Kamińska è una donna anziana e stremata, non è e forse non è mai stata “una iena appostata per aggredire la preda”, ma alla fine della vita diventa una tragica Niobe, che piange l’ultimo figlio ucciso. Forse non è molto brechtiano, ma è immensamente umano. E vero.143
Un critico più di altri è riuscito a eternare nella scrittura la memoria della Madre Courage interpretata da Ida Kaminska e la resa veritiera della finzione in cui si tradusse la sincerità del suo lavoro. Jan Kott conosceva l’attrice fin dall’infanzia, perché nel ventennio tra le due guerre avevano abitato nello stesso palazzo, in via Oboźna 11 a Varsavia. A quel tempo Kott era un bambino nato in una famiglia ebraica polonizzata, era stato battezzato e non conosceva lo yiddish. Non poteva perciò capire una parola di ciò che gli recitava quella giovane donna alle cui cure veniva talvolta affidato, ma il ricordo di quelle serate in cui Ida gli faceva da baby-sitter si impresse a fondo nella memoria del futuro critico. A distanza di decenni, riferirà infatti di sentire ancora il profumo di muschio emanato dai guanti dell’attrice e si domanderà se la fascinazione per il teatro non sia nata proprio a quel tempo.144
For me, Ida was an especially important person because my parents and the Kamińskis lived in the same house. Only a wall separated their apartment from that of my parents. At a certain point in my childhood, I hacked a hole into that wall leading to the Kamiński apartment. Then, later, when my parents would go to the theatre, Ida stayed as my babysitter. She would put on a scarf and play various roles. I did not understand much of it, but I was amazed. In my theatrical experience and in my quasi-theatrical experience, my theatrical-literary and, simultaneously, in my life-theatrical experience, Ida Kamińska is a person who played a tremendous role.145
Nell’intervista citata all’inizio del capitolo, Kott ripercorre la propria vita raccontando la fascinazione giovanile per il marxismo, il periodo trascorso a Parigi e l’incontro con i poeti surrealisti, la nascita delle riflessioni su Shakespeare, la collaborazione con Peter Brook e la profonda influenza esercitata su di lui da Brecht.
Brecht also influenced my theatrical vision very much. I saw Brecht in London, a magnificent performance, Mother Courage with Helene Weigel in one of her great roles. I was amazed by Brecht in performance. In Mother Courage I remember that scene when, after losing her last daughter she wants to cry, but does not have any tears. She was a great actress, with whom Brecht was in conflict. Brecht was in favour of a different kind of acting, in which the actor stands next to his character – he acts while standing beside it at the same time. Helene Weigel was the opposite of that in that greatest of her roles. In her Mother Courage she showed us some human truth. So Brecht was also, to a large extent, a watershed, or a step in my theatrical experience. Later I went to a number of Brechtian performances in Berlin.146
Dopo avere richiamato alla memoria il lavoro di Helene Weigel, Kott dichiara di avere ancora di fronte agli occhi un’altra Madre Courage, quella interpretata da Ida Kaminska:
I saw that performance in the final period of the Jewish Theatre in Warsaw. The Jewish Theatre has a unique history in Poland. First there were full houses, but gradually, when most Jews left Poland after the events of March 1968, the Jewish Theatre was almost empty, and then Poles started coming on their own to these performances in Yiddish. Ida Kamińska’s Mother Courage was completely different. She pulled that wagon of hers until the end: she lost her sons, her daughter – and she remained, as that symbol of steadfastness.147
All’epilogo di Madre Courage (e alla lunga agonia del teatro yiddish) Jan Kott aveva dedicato nel 1957 un bellissimo articolo in cui, come era solito fare, misurava la qualità dello spettacolo in rapporto alle emozioni suscitate in lui e nel pubblico. Vale la pena ripercorrerlo integralmente.
Ida Kamińska fa ritorno dalla città. Forse è riuscita a incassare qualcosa, forse ha soltanto elemosinato un pezzo di pane. C’è un campo enorme, deserto, e una famiglia contadina sconosciuta, ferma vicino a un cadavere. Le spiegano qualcosa, le dicono qualcosa. Lei non li sente. Non grida. Da tempo ormai ha gridato tutto. Non piange. Da tempo ormai non ha più lacrime. Strofina soltanto con le dita asciutte, come se raspasse via la terra. Si inginocchia vicino alla figlia. Da tempo ormai ha pronunciato ogni parola di disperazione. Le è rimasta nella memoria soltanto una ninnananna infantile, ridicola, insensata e tragica. La canta con voce afona, esangue. La madre ebrea dice addio al suo ultimo figlio. Di fretta, in un campo deserto, di fronte a persone estranee. Non è neppure persa nella propria infelicità. È prosciugata. È allo stesso tempo cosciente e incosciente. Torna al carro, cerca qualcosa, estrae un vecchio telo e copre la morta. Non può fare nulla di più se non ciò che si può fare. Tira fuori qualche moneta per seppellire la figlia. Sa bene che non può restare. Non può che guardare, guardare, guardare mentre la portano via. Poi si ritrae nella profondità della scena vuota, qualche passo in una direzione, poi nell’altra. Un movimento della mano verso il cielo. Impotente, sorpreso, rassegnato. Quindi tutti devono morire. La madre ebrea ha smesso di ribellarsi. Tace Dio e tacciono gli uomini. Si attacca al carro, indossa i finimenti e lo trascina. Sa che deve tirare il carro e che non potrà farlo ancora a lungo. Il carro è quasi vuoto ma comunque troppo pesante per una donna anziana. Però cos’altro resta da fare, se non tirarlo?148
Quanto è distante questa “donna di dolori” dal personaggio sentimentale e chiassoso dipinto da Andrzej Wirth! Se pure Ida ha impostato una Madre Courage più frivola rispetto alla durezza di Weigel è evidente come – con l’approssimarsi della fine – anche il suo personaggio perda ogni esuberanza sentimentale per chiudersi in un dolore senza lacrime né lamenti. Madre ebrea senza più voce, non riuscirà neppure a intonare un kaddish sul corpo della figlia perché dalle sue labbra uscirà soltanto una ninnananna sconclusionata.
93Dopo avere ripercorso gli ultimi atti di questa donna annientata dal dolore e condannata a un’eterna erranza, Kott prosegue chiarendo che il dramma di Madre Courage non era rappresentato dagli attori del Teatro Statale Yiddish, bensì incorporato nelle loro biografie. La tragedia era portata alla luce dalla “messa in atto” di quelle stesse biografie, resa possibile anche dalla partecipazione degli spettatori riunitisi nella sala di via Królewska: un incontro che rendeva la tragedia «molto più contemporanea».
Ida Kamińska ha recitato una grande tragedia. Ma non era la tragedia di una vivandiera all’epoca della Guerra dei Trent’anni, che aveva confidato nella guerra, dalla guerra aveva tratto sostentamento e dalla guerra era stata, infine, raggirata. Era una tragedia del tutto diversa e molto più contemporanea.
Quel lunedì il teatro di via Królewska era per metà vuoto. La sala era colma della voce argentina di Kamińska, ma la voce si perdeva in lei e veniva come assorbita nella sabbia. C’è qualcosa di straziante nel recitare di fronte a una sala sorda. Quasi nessuno degli spettatori capiva lo yiddish. Qualcuno in un angolo sussurrava al vicino la traduzione. Forse per questo la tragedia di Madre Courage, recitata di fronte a quel centinaio di persone in una lingua a loro incomprensibile, al contempo lontana e familiare, si è rivestita di altri argomenti, è diventata un’altra opera. Mi correggo, la tragedia di Madre Courage non veniva recitata, ma accadeva sulla scena. E non soltanto in scena. Gli spettatori creano il teatro tanto quanto gli attori.
Ho incontrato Ida Kamińska molte volte nella mia vita. Ho visto gli spettacoli del teatro yiddish in diverse città: a Leopoli, Łódź, Cracovia e Wrocław. Ho incontrato quel teatro nei momenti di grande gioia e di grande tristezza: all’inizio, quando dopo la guerra tutto ricominciava, poi quando il teatro era prossimo allo scioglimento e in seguito, in occasione dei grandi debutti. Il teatro era sempre pieno. Aveva i suoi spettatori, polacchi ed ebrei, anziani e giovani, rumorosi e bilingui, affezionati al proprio teatro. E soltanto in quest’ultimo lunedì, nella sala di via Królewska, ho visto un teatro senza i suoi spettatori.
Ho visto un teatro che è rimasto solo. In questi ultimi dodici anni molti attori hanno lasciato Ida Kamińska. Al loro posto ne sono giunti di nuovi. Questa donna minuta e anziana, dalla voce argentina che pare un campanello, dotata di una bellezza che il tempo non cancella e di un’energia inesauribile, è riuscita a trovare nuovi attori, sempre e ovunque. Sui mezzi di trasporto che giungevano [in Polonia] e nei paesini; tra gli artigiani, i tessitori e i contabili. Li contagiava con la sua passione e con la sua arte incantata, in due settimane insegnava loro la dizione, i gesti e i movimenti e ne faceva degli attori. Alcuni se ne andavano, altri arrivavano al loro posto. Insieme a Ida Kamińska hanno continuato a tirare il carro. Fino a quando, a poco a poco, hanno cominciato a diradarsi gli spettatori.149
Il critico conclude l’appassionata testimonianza su quella che considera una delle più grandi attrici tragiche contemporanee osservando che la Madre Courage di Ida Kaminska, più che l’opera brechtiana, ricorda un personaggio romantico nato dalla penna di Joseph Conrad:
Madre Courage trascina ancora il suo carro. Non è una vivandiera che vive della guerra. Da tempo ormai non ha più illusioni. Nell’interpretazione di Ida Kamińska non è neppure ingannata dalla guerra. Accetta il mondo con tutta la sua crudeltà, ma sa bene che non resta altro da fare che continuare a tirare il carro. Contro tutta la logica del mondo, contro ogni evidenza. In questa rappresentazione Madre Courage è più conradiana che brechtiana. Guardando Ida Kamińska che per l’ultima volta si attacca al carro e lo trascina in salita, mormorando parole incomprensibili, mi è tornata improvvisamente alla mente quella strana frase del Lord Jim di Conrad, pronunciata dal protagonista in tre lingue: «seguire il sogno, e ancora seguire il sogno, e così via, ewig, usque ad finem».
Ida Kamińska è una delle più grandi attrici tragiche del nostro tempo. Questa volta, però, non ha dovuto imparare la parte. Era ed è l’ebrea Madre Courage. I miei omaggi, signora Ida.
Come il protagonista della citazione conradiana, Ida vive la propria quête teatrale a cavallo tra le lingue e come l’eroina brechtiana si rimetterà sempre in viaggio, fino a quando non sopraggiungerà la fine.
5. Ombre dall’epoca dei forni
94Quando Jan Kott descrive la contemporaneità della Madre Courage yiddish e la platea decimata dalle emigrazioni evita ogni esplicito riferimento alla Shoah, ma la memoria dello sterminio riaffiora in ogni gesto e parola dell’attrice, da lui così accuratamente tratteggiati. In questo paragrafo mi concentrerò su alcuni importanti affioramenti che, senza mai essere apertamente dichiarati da Ida Kaminska, furono di certo da lei custoditi e riconosciuti dai suoi spettatori. Un rischio di cui tenere conto quando si procede con un’operazione di questo genere, a distanza di tempo e senza avere avuto la possibilità di osservare lo spettacolo dal vivo, è quello di forzare l’interpretazione dei segni. Un esempio può essere offerto dalle costruzioni verticali che compongono la scenografia di Madre Courage: guardandole nelle fotografie di scena richiamano alla mente le torri di vedetta che presidiavano i campi di sterminio, ma in mancanza di qualunque rilievo da parte degli osservatori del tempo è impossibile verificare se questa impressione fosse condivisa. Ci sono casi, tuttavia, in cui un segno è talmente lampante da autorizzare l’analogia anche in assenza di ulteriori conferme: il riferimento è alle scene in cui è più evidente la disumanizzazione e riduzione dell’uomo ad animale da fatica. Il dramma di Brecht si apre e si chiude sull’immagine di esseri umani utilizzati come bestie da soma – in principio il carro è tirato da Eilif e Schweizerkas, in ultimo dalla sola protagonista –, che agli spettatori del Teatro Statale Yiddish non potevano non ricordare le testimonianze dei sopravvissuti ai campi di sterminio, costretti a lavorare fino allo sfinimento, chini sotto ogni genere di peso.
95La presenza problematica della Shoah nel teatro polacco è stata di recente oggetto di analisi da parte di Grzegorz Niziołek, che ha pubblicato sul tema un corposo studio. Il teatro polacco dell’Olocausto si compone di due sezioni: nella prima l’autore analizza il teatro polacco del dopoguerra alla luce dell’esperienza della società polacca, divenuta spettatrice della particolare violenza verso i conterranei di origine ebraica e dell’altrettanto diffuso processo di rimozione di questa esperienza. La riflessione di Niziołek si fonda sulla distinzione freudiana tra rappresentazione e ripetizione e sul concetto di rimozione, quel processo inconscio che consente di escludere dalla coscienza determinate rappresentazioni – pensieri, immagini e ricordi di oggetti-eventi del passato inassimilabili – mentre il portato affettivo a esse connesso viene spostato o soppresso. In conseguenza del processo di rimozione, le tracce mnestiche prive di un carico affettivo tornano alla coscienza come rappresentazioni neutrali, senza suscitare vive reazioni emotive. Secondo Niziołek il teatro in Polonia avrebbe giocato un ruolo privilegiato sia nel preservare uno stato di rimozione, sia nel tentare di scardinarlo. Il teatro sarebbe diventato inoltre il luogo della ripetizione: a essere costantemente richiamati non sarebbero stati gli eventi rimossi, che avrebbero richiesto una rappresentazione diretta e leggibile per gli spettatori, ma la rimozione stessa.150
96La seconda sezione del libro prende invece in esame numerosi esempi tratti dalla produzione teatrale che va dall’immediato dopoguerra ai giorni nostri, analizzando le opere dei principali artisti polacchi del Novecento e dei primi anni Duemila: Leon Schiller, Józef Szajna, Jerzy Grotowski, Tadeusz Kantor, Konrad Swinarski, Andrzej Wajda, Krystian Lupa, Krzysztof Warlikowski, per citare solo i più noti. Autori che, in modo molto diverso, hanno fatto i conti con il discorso pubblico legato all’Olocausto e con un contesto storico che mirava a incanalare le energie della società verso la ricostruzione del paese, a scapito della riflessione sul recente passato.
97Occorre sempre tenere presente che il teatro polacco del secondo Novecento si forma in uno spazio sociale e geografico che è stato epicentro dello sterminio e in cui le tracce materiali, affettive ed etiche dell’omicidio di massa perpetrato dai nazisti si sono iscritte nella memoria delle persone, nella lingua, nei testi artistici e nella realtà materiale. Tracce la cui individualizzazione o il cui occultamento sono divenute pratiche sociali quotidiane.151 Tuttavia, proprio l’eccessiva visibilità della Shoah avrebbe reso la cultura polacca un luogo dal quale essa «si vede male».152 Lo studio di Niziołek analizza le modalità attraverso cui questa cattiva visione ha preso forma nel teatro: su questo fenomeno di ambliopia avrebbero gravato da una parte il paradigma romantico e martirologico del teatro polacco, che impediva di vedere la sofferenza specificatamente “ebraica”, e dall’altra la tendenza generale a un’interpretazione universalizzante e metaforica suggerita dal pensiero internazionalistico comunista e spesso sintetizzata dalla frase «gli uomini hanno approntato questo destino per altri uomini».153 Con queste prospettive distorte sono stati letti anche gli spettacoli di Kantor e Grotowski: in Akropolis (1962) e nella Classe morta (1975), ad esempio, il riferimento al genocidio ebraico era terribilmente visibile, eppure alcuni osservatori furono indotti a non vederlo, a generalizzare le immagini concentrazionarie e a sottovalutare i motivi ebraici. C’era da parte del regime – ma a giudizio di Niziołek anche della società stessa – una resistenza nei confronti della rimemorazione dell’Olocausto, che ha prodotto la repressione di quella memoria e di un trauma con il quale il teatro polacco ha ripreso a confrontarsi soltanto negli ultimi anni (peraltro con un senso di grande urgenza).
98Viene spontaneo domandarsi se il teatro yiddish fosse avvinto in questo sistema o se, anche grazie alla sua alterità linguistica, abbia in qualche modo saputo resistere alla rimozione e all’universalizzazione. È credibile che la lingua yiddish lo abbia reso un luogo da cui era possibile vedere ciò che nella lingua polacca restava in ombra? È pensabile che la predilezione di Ida Kaminska per ruoli di madri sofferenti, e in generale per personaggi positivi, avesse anche lo scopo di risvegliare nello spettatore l’empatia per la specifica condizione ebraica, che anni di guerra e di successiva omogeneizzazione ideologica avevano soffocato? L’ipotesi che si vuole proporre è che la figura materna ritratta da Ida abbia contribuito ad avvicinare, tramite un dolore che certo molti in sala condividevano, l’esperienza ebraica e polacca, mentre la lingua e la recitazione degli attori yiddish, sempre percepita come esotica e “vistosa”, abbiano invece permesso di rimettere a fuoco la presenza ebraica nella sua irriducibile alterità identitaria e culturale.
99Nell’immediato dopoguerra circolavano diversi spettacoli imperniati sulla tematica bellica e con personaggi di nazionalità ebraica; l’unico a porli al centro di un’opera teatrale fu però Leon Schiller, che nell’ottobre del 1946 allestì Pasqua, opera di Stefan Otwinowski che affronta la convivenza di ebrei e polacchi in un villaggio. Lo spettacolo suggeriva che la comune lotta contro i tedeschi avrebbe potuto inaugurare una nuova relazione tra la popolazione ebraica e quella polacca: si trattava di un messaggio di speranza che assumeva un particolare rilievo visto che solo qualche mese prima aveva avuto luogo il pogrom di Kielce, di cui si è parlato nel primo capitolo. Negli anni successivi, per ragioni sia psicologiche che politiche, gli ebrei sarebbero spariti dal discorso pubblico e dalle scene teatrali. Anche quando l’esperienza ebraica veniva evocata, in letteratura o in teatro, la rappresentazione della diversità era oggetto di rigorose negoziazioni e restrizioni. Soltanto a partire dagli anni Sessanta il teatro avrebbe cominciato a occuparsi dello sterminio nazista, che fino a quel momento aveva perlopiù evitato, con spettacoli che talvolta affrontavano il tema in maniera diretta, talvolta lo ponevano al confine del visibile e del dicibile, a volte ancora lo esponevano apertamente ma perdendone i riferimenti concreti.154
100Un pericolo, quest’ultimo, che il Teatro Statale Yiddish non corse mai. Alcuni testimoni dell’epoca ci assicurano che in Madre Courage di Kaminska il richiamo alla condizione ebraica e alla Shoah fu evidente fin dalla prima versione, anche in assenza di riferimenti attualizzanti come quelli scelti dal Teatr Ziemi Mazowieckiej. Bisogna infatti considerare che non solo molti degli artisti ma anche una buona parte dei critici attivi nelle prime decadi del dopoguerra erano scampati per poco allo sterminio: era questo il caso, ad esempio, di Kott, Szydłowski e Wróblewski, il quale scrisse apertamente che «attraverso Madre Coraggio si rivolge a noi la Niobe dell’epoca dei forni».155
101Una collocazione storico-etnica ripresa alla lettera dallo scrittore-moralista Jerzy Zawieyski,156 per il quale la creazione di Ida richiamava espressamente l’ «epoca dei forni» (espressione che era stata inventata da Adolf Rudnicki) e il tempo del disprezzo.157 In occasione del cinquantenario della carriera teatrale dell’attrice, Zawieyski scrisse un ricordo da spettatore riconoscente, confessando di non avere visto molte sue creazioni, forse di essersi perso le più importanti, ma di sentire vicino il suo lavoro. Lo scrittore aveva conosciuto meglio Ida negli anni Quaranta, ma aveva sentito parlare di lei fin dai tempi in cui era membro di Reduta, nel biennio 1926-1928. In una delle riunioni, infatti, Mieczysław Limanowski aveva parlato con calore di Ester Rokhl Kaminska, una straordinaria attrice del teatro ebraico da poco scomparsa.158 Anche Juliusz Osterwa aveva più volte attirato l’attenzione degli allievi-attori sul teatro ebraico che si trovava a Vilnius e li aveva incoraggiati a osservare il lavoro dei colleghi, in particolare quello di Ida. Il giovane Zawieyski aveva visto l’attrice nel melodramma L’orfana Chasia (e forse, lui stesso non ne è sicuro, in una versione del Dibbuk), e da quel momento non si era perso nessuno dei suoi spettacoli. Nel dopoguerra, poi, l’aveva ammirata in due ruoli che giudicò «geniali»: quello di Ottilia nel Franco Quinto, ma ancor più quello di Madre Courage. Nella sua interpretazione il personaggio brechtiano «assurgeva alle dimensioni di un simbolo, di un gesto eroico da tragedia antica»,159 ma custodiva un referente ben preciso perché incarnava «la madre della nazione che nel nostro tempo e di fronte ai nostri occhi ha vissuto la più immane delle tragedie».160
Nel ruolo [di Madre Courage] Ida Kamińska ha detto molto più di quanto fosse contenuto nelle battute e nella trama dell’opera. Da grande artista qual è, ha oltrepassato le contingenze reali di un’epoca distante […] non per seguire un’idea immaginaria, ma per incarnarsi nella vita concreta di una donna-madre, in un periodo storico concreto, contemporaneo, che era ben noto sia a lei sia agli spettatori. Per come l’ho intesa io, Kamińska ha offerto la più perfetta testimonianza della tragedia degli ebrei, una tragedia impossibile da comprendere tanto con l’immaginazione quanto con la ragione. […] Il ruolo dell’attrice era più che un ruolo […] era un’opera artistica e sociale.161
Zawieyski precisa di non conoscere la lingua yiddish, ma di avere sempre avuto l’impressione di comprendere tutto perché l’attrice era capace di trasmettere i contenuti dell’opera «con i segni della sua arte attoriale, che esprimevano qualcosa in più della sola parola».162 Un’arte “sincera” che lo scrittore avrebbe ritrovato, in seguito, nell’attrice francese Maria Casarès.163 Artista e drammaturgo, Zawieyski era un osservatore sensibile e forse poco conta che stando ai suoi diari, pubblicati di recente, sembrerebbe avere scritto questo ricordo più per volontà di prendere posizione contro la propaganda antisemita che per reale trasporto nei confronti dell’arte di Ida.164
102Interrogato da chi scrive a proposito delle considerazioni di Zawieyski, lo scrittore Henryk Grynberg – che, lo ricordiamo, aveva compiuto l’apprendistato da attore nella compagnia di Ida – ha risposto:
Penso che le più grandi creazioni di Ida Kaminska siano state Madre Courage e la madre-nonna in Gli alberi muoiono in piedi, un melodramma argentino senza alcuna pretesa al quale ha conferito qualità simboliche, distaccandosi dalle interpretazioni di celebrità quali Hanna Rovina e Mieczysława Ćwiklińska. In Madre Courage, Kaminska ha trovato il giusto equilibrio tra l’univoco espressionismo antibellico (e anti-capitalistico!) di Brecht e il proprio tradizionale realismo ebraico e questa duplice visione ha offerto agli spettatori molti più stimoli intellettuali ed emozioni. Ne sono stato testimone oculare, perché ho visto il Berliner Ensemble e Helene Weigel nelle repliche in Polonia.
Sono d’accordo con Jerzy Zawieyski nel ritenere che in questa tragedia universale Ida Kaminska abbia messo in luce la condizione ebraica, alla quale ascrivo il commercio della vita, a prezzo della vita, e la volontà di sopravvivere a dispetto di tutto e a ogni costo, e per questa scoperta merita un plauso. Non mi stupisco che critici americani come Harold Clurman non lo abbiano capito. Del resto in America non hanno colto neppure gli aspetti ebraici nella versione teatrale del Diario di Anna Frank.
In Madre Courage Kaminska mi ha affidato due piccoli ruoli, grazie ai quali posso scrivere nel mio curriculum che da metà ottobre a metà dicembre del 1967 ho recitato a Broadway e – a dispetto di quanto sostengono alcuni recensori americani – di fronte a una sala piena.165
Grynberg conferma l’impressione di Zawieyski che la versione kaminskiana di Madre Courage provocasse sulla scena una liberazione di senso legata alla peculiare condizione ebraica e un approfondimento dell’intima comunicazione tra attori e spettatori. Un livello ermeneutico con connessioni e strutture significanti che non tutti gli osservatori, però, seppero o vollero cogliere.
103A tale proposito, è utile riprendere l’esempio portato da Grynberg in merito alla “cattiva visione” statunitense nella trasposizione scenica del Diario di Anna Frank (1955) e confrontarlo con la ricezione polacca della stessa opera. La versione creata dagli sceneggiatori cinematografici Frances Goodrich e Albert Hackett per il pubblico di Broadway fu concepita come un atto di rielaborazione del trauma bellico e come un sostegno all’ideologia dell’ottimismo americano. Due anni più tardi la stessa opera andò in scena al Teatr Dramatyczny di Varsavia, costruito dopo la guerra sul confine del ghetto ebraico, suscitando negli spettatori l’impressione sconvolgente di assistere al ritorno dei morti. L’identità ebraica dei protagonisti del Diario di Anna Frank, che gli autori newyorchesi avevano volontariamente occultato per universalizzare il significato dell’opera, era invece estremamente visibile per il pubblico varsaviano, memore della Shoah e spettatore in quegli anni di disgelo di nuove manifestazioni antisemite.166
104Allo stesso modo, il pubblico riunito nella sala del Teatro Statale Yiddish non poteva non scorgere tra le righe dell’avventura della vivandiera Fierling la vita di una Madre Courage ebrea che attraversa la storia e parla alla contemporaneità, incarnando un’esperienza di sradicamento allo stesso tempo collettiva e individuale, privata e nazionale. Una recensione in lingua yiddish pubblicata nel 1967 ci descrive l’epilogo del dramma, in cui la protagonista, nonostante la resistenza e l’inflessibilità, assiste impotente alla distruzione della propria famiglia e viene sopraffatta da un «definitif churbn».167 Negli anni Sessanta il termine churbn non era ancora stato scelto per designare specificatamente la Shoah ma, richiamandosi alla distruzione del tempio di Gerusalemme, veniva utilizzato per indicare tutte le catastrofi subite dal popolo ebraico da quel tragico momento in avanti. Il recensore che associa il destino di Madre Courage all’churbn fa perciò riferimento tanto allo sterminio nazista, quanto ai numerosi altri anelli nella catena di persecuzioni che contraddistingue l’esperienza ebraica.
105Più in generale nello spettacolo, a fianco del tema della Shoah, emerge con decisione il motivo della diaspora, già ampiamente esplorato nella letteratura ebraico-polacca del ventennio tra le due guerre. Nell’erranza di Madre Courage è possibile allora riconoscere la peregrinazione cui è condannato l’ebreo fin dalla cattività babilonese: privo di radici, costantemente minacciato e perseguitato, solo in mezzo a nazioni estranee. In letteratura, la diaspora ebraica non traduceva soltanto una dimensione storica espressione di un destino collettivo, ma anche un’esperienza individuale di sradicamento, di attraversamento di una terra che non è più (o non è mai stata) casa. In una lirica degli anni Trenta della poetessa (e attrice amatoriale) Irma Kanfer, questo destino di esilio era personificato proprio dall’attore ebreo: «Na nostalgię chorzy, /ciągną, ciągną/Dniem, nocą – Żydzi – tułacze – aktorzy» (Malati di nostalgia, /tirano avanti, tirano avanti/Giorno e notte – gli ebrei – gli erranti – gli attori).168
106E così, nella scena finale di Madre Courage più volte rievocata dagli osservatori, a «tirare avanti» è ancora una donna ebrea, un’attrice, alla vigilia di un nuovo esilio dalla propria patria, rivelatasi soltanto una tappa provvisoria. Lo sfondo bianco in cui si immerge l’ebrea Madre Courage rappresenta allora anche il fallimento di ogni sforzo di radicamento, reale e simbolico, nel paesaggio polacco, un paesaggio che tanta parte aveva avuto nel descrivere la complessa identità ebraico-polacca nel ventennio. L’illusione di appartenere a una doppia patria, geografica e spirituale (la Polonia e Eretz Israel), in relazione alla quale costruire la propria cangiante identità, è qui definitivamente svanita. Sul palco resta una donna dal volto spaventato, un’attrice senza più un teatro, un’ombra proiettata su uno sfondo incolore.
Notes de bas de page
1 Andrzej Wirth (1927): studioso di teatro, critico letterario e teatrale, traduttore. Compì gli studi in filosofia con Władysław Tatarkiewicz e Tadeusz Kotarbiński, scrisse una tesi di dottorato sull’opera di Brecht e fu invitato dal Berliner Ensemble a trascorrere gli anni tra il 1956 e il 1958 a Berlino. Ha tradotto opere di Brecht, Dürrenmatt e Weiss. Nel 1966 lasciò la Polonia per gli Stati Uniti, dove divenne professore presso la Stanford University e in seguito la City University di New York. All’estero, promosse l’opera letteraria di Bruno Schulz e Tadeusz Borowski, la drammaturgia di Stanisław Ignacy Witkiewicz, Witold Gombrowicz, Tadeusz Różewicz e Sławomir Mrożek e le ricerche teatrali di Jerzy Grotowski e Tadeusz Kantor. Fondatore dell’Istituto di Teatrologia Applicata (Angewandte Theaterwissenschaft) presso l’Università di Gießen (1982-1992), oggi è professore emerito al Wissenschaftskolleg di Berlino.
2 Andrzej Wirth, Babcia Courage, «Polityka», 22, 1957, poi pubblicato in Id., Siedem prób. Szkice krytyczne, Czytelnik, Warszawa 1962, p. 96.
3 Theaterarbeit. Fare teatro di B. Brecht. Sei allestimenti del Berliner Ensemble [1952/1961], Il Saggiatore, Milano 1969, pp. 275-279.
4 Ryszard Matuszewski, Berliński listopad, «Kuźnica», 1, 1950, p. 3.
5 Jan Alfred Szczepański, Od Berlina do Weimaru, cz. III: Dzień piąty, «Dziennik Literacki», 6, 1950.
6 O upowszechnienie kultury. Przemówienie Prezydenta Rzeczypospolitej Bolesława Bieruta na otwarciu radiostacji we Wrocławiu 16 listopada 1947, Radiowy Instytut Wydawniczy, Warszawa-Kraków 1948, cit. in Grzegorz Niziołek, Polski teatr Zagłady, Instytut Teatralny im. Zbigniewa Raszewskiego, Krytyka Polityczna, Warszawa 2013, pp. 188- 189.
7 In realtà il titolo dell’edizione originale è Szkice o Szekspirze, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, Warszawa 1961, ma l’anno successivo l’opera fu tradotta in lingua francese con il titolo Shakespeare notre contemporain (trad. Anna Posner, Julliard, Paris 1962), da cui prese ispirazione anche l’edizione italiana: Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, trad. Vera Petrelli, Feltrinelli, Milano 2006.
8 Jan Kott, Raised and Written in Contradictions: the Final Interview, a cura di Allen J. Kuharski, «New Theatre Quarterly», 18, 2, maggio 2002, p. 111.
9 Helene Weigel (1900-1971): attrice e direttrice del Berliner Ensemble, celebre interprete delle opere brechtiane. Figlia di genitori ebrei, membri dell’alta borghesia viennese, si distaccò ufficialmente dalla comunità ebraica di Berlino il 26 settembre 1928 e non si riavvicinò alle proprie origini neppure in seguito alla perdita di numerosi parenti nel campo di concentramento di Auschwitz. Dopo avere frequentato una scuola progressista, nel 1917 cominciò a prendere lezioni di recitazione e a lavorare presso alcuni teatri di Francoforte. Nel 1929 sposò Bertolt Brecht, l’anno successivo divenne membro del Partito comunista. Nel 1933 scappò dalla Germania e si rifugiò in Danimarca. Nel 1937 recitò a Parigi, insieme a un gruppo di esiliati tedeschi, il ruolo della madre ne I fucili di Madre Carrar e l’anno successivo prese parte a diversi quadri di Terrore e miseria del Terzo Reich, tra cui quello intitolato La moglie ebrea. Tra il 1941 e il 1947 si trasferì negli Stati Uniti insieme al marito, mettendo temporaneamente da parte il lavoro sulla scena per sostenere Brecht e occuparsi dell’allevamento dei figli. Di ritorno in Germania, nel 1948 Weigel prese parte al debutto di Madre Courage e alla fondazione del Berliner Ensemble, di cui curò anche la sezione amministrativa e i costumi. Alla morte di Brecht, affiancò al lavoro sulla scena un’intensa attività di tutela e archiviazione dell’opera del marito.
10 Brecht avrebbe voluto mettere in scena qualche grande dramma della letteratura polacca: in un primo momento il drammaturgo e la Weigel si mostrarono interessati ad assistere a un allestimento di Dziady (Gli avi) di Adam Mickiewicz e di Nie-boska komedia (La non-divina commedia) di Zygmunt Krasiński; mentre in occasione del successivo soggiorno in Polonia Brecht dichiarò che avrebbe voluto portare in scena qualche opera di Stefan Żeromski, di cui però mancavano le traduzioni in tedesco. Sulle pagine della rivista «Teatr», l’artista criticò la vita teatrale in America, sostenendo che la realtà più interessante fosse quella afroamericana, che operava ai margini, mentre le riviste musicali, il genere più diffuso, erano prive di qualsiasi valore intellettuale e morale, pur possedendo un alto livello tecnico. Il mondo di Broadway lo colpì per l’artificiosità e il patetismo della recitazione, mentre riconobbe il fiorire di un teatro progressista americano nelle figure di Clifford Odets e Arthur Miller.
11 Il 7 gennaio 1953 la Polska Kronika Filmowa mandò in onda un video prodotto dalla Wytwórnia Filmów Dokumentalnych i Fabularnych che documentava il soggiorno del Berliner Ensemble a Varsavia in occasione della settimana della cultura tedesca progressista. Le riprese mostrano Helene Weigel nell’atto di conversare con i colleghi polacchi e alcune scene dello spettacolo, tra cui l’ingresso di Madre Courage, che intona il “canto degli affari” mentre Kattrin suona l’armonica a bocca e i figli maschi trascinano il carro. Il breve reportage si chiude sull’immagine della protagonista che, rimasta sola e in miseria, si attacca al carro su un palcoscenico deserto. Il commento, scritto da Karol Małcużyński e letto con voce enfatica dal giovane attore Andrzej Łapicki, ricorda che l’opera era stata scritta da Brecht per mettere in guardia i propri connazionali dal destino toccato alla protagonista e che oggi «smascherando la minaccia della guerra, serve la causa della pace». Archivio Digitale della Filmoteca Nazionale, 30 ottobre 2016: <http://www.repozytorium.fn.org.pl/?q=pl/node/7249>.
12 Konrad Gajek, Bertolt Brecht na scenach polskich (1929-1969), Prace Wrocławskiego Towarzystwa Naukowego, Zakład Narodowy im. Ossolińskich, Wrocław 1974, p. 84.
13 Herbert Jhering (1888-1977): tra i maggiori critici teatrali e cinematografici tedeschi della Repubblica di Weimar. I suoi articoli furono pubblicati su giornali e riviste come «Sinn und Form», «Berliner Tageblatt» e «Berliner Börsencourier», periodico in cui nel 1933 prese il posto del collega e rivale Alfred Kerr quando questi emigrò. Per anni fu studioso e divulgatore dell’arte teatrale d’avanguardia incarnata da Brecht – di cui contribuì a consolidare il successo anche sostenendo la sua candidatura al premio letterario Heinrich von Kleist (1922) – Ernst Toller e Erwin Piscator; lavorando anche in qualità di drammaturgo e regista. Nonostante la sua posizione progressista e di sinistra, rimase attivo anche durante il Terzo Reich. Dal 1945 al 1954 fu direttore letterario presso il Deutsches Theater di Berlino Est. Alla fine del 1945 riallacciò i rapporti con Brecht e promosse la fondazione del Berliner Ensemble.
14 Claudio Meldolesi, Laura Olivi, Brecht regista: memorie del Berliner Ensemble, il Mulino, Bologna 1989 (nuova edizione: Cue Press, Imola 2013), p. 37.
15 Bertolt Brecht, Due diverse interpretazioni di «Madre Courage» (1951), in Id., Scritti teatrali, Einaudi, Torino 1962, p. 156. Sulla complessa natura dei personaggi brechtiani si consideri quanto osservato da Bernard Dort: «A l’intérieur des personnages eux-mêmes, il n’y a, à proprement parler, ni unité ni conflits de sentiments. En fait, le personnage brechtien n’est pas un. Il se compose de comportements contradictoires entre eux. Il est fait d’une succession d’actions et de paroles décalées les unes par rapport aux autres. Jamais il ne prend une forme définitive. Plus exactement, il ne cesse de se révéler à nous plus divers, plus complexe que nous ne pouvions l’imaginer; il ne cesse de changer sous nos yeux selon la situation dans laquelle il se trouve». Bernard Dort, Le personnage chez Brecht, in Id., Lecture de Brecht, Éditions du Seuil, Paris 1960, p. 195.
16 «In questo lavoro […] si mostra come […] la Courage non impari nulla dalle catastrofi che la colpiscono. Il lavoro fu scritto nel 1938, quando l’autore prevedeva lo scoppio d’una grande guerra. Egli non era affatto convinto che gli uomini “di per se stessi” avrebbero imparato qualcosa dalle sciagure che […] li avrebbero colpiti. […] l’autore è stato realista. Tuttavia, se la Courage continua a non imparare nulla, il pubblico, osservandola, dovrebbe, secondo me, imparare qualcosa». Bertolt Brecht, Problemi formali del teatro sorti dai nuovi contenuti (1949), in Id., Scritti teatrali III. Note ai drammi e alle regie, Einaudi, Torino 1975, p. 199. «La Courage – e ciò sia detto per recare un contributo utile alla rappresentazione teatrale – vede, come del resto i suoi amici, i suoi ospiti e quasi tutti gli altri, l’aspetto puramente commerciale della guerra. Ed è appunto ciò che la attrae. Ella crederà nella guerra fino alla fine. Non le passa neppure per la mente che occorre avere una forbice assai grande per tagliare la propria fetta di utile dalla guerra. Gli spettatori d’una catastrofe si attendono – ben a torto – che i colpiti ne traggano qualche ammaestramento. Fintantoché le masse saranno oggetto della politica non potranno mai vedere, negli avvenimenti che le toccano, un esperimento ma soltanto una fatalità. […] All’autore non importa di aprire gli occhi alla Courage, alla fine della vicenda; ella vede qualcosa verso la metà del dramma (alla fine della scena vi) ma poi perde di nuovo la vista. All’autore importa che veda lo spettatore», B. Brecht, [La Courage non impara nulla], ivi, p. 203.
17 «Del fatto che non impari nulla dalla propria miseria, che non comprenda nemmeno alla fine, si parlò molto. Pochi comprendevano che proprio questo era il più amaro e fatale insegnamento del lavoro. […] Gli spettatori del 1949 e degli anni seguenti non videro le colpe della Courage, il suo collaborare alla guerra, il suo volerne trarre profitto; videro soltanto il suo fallimento e le sue pene. Allo stesso modo avevano visto e collaborato alla guerra hitleriana», B. Brecht, [La sventura, da sola, è una cattiva maestra], ivi, pp. 200-201.
18 Roman Szydłowski, Przyjaciołom Pokoju i Polski, «Teatr», 22, 1952, p. 3.
19 Edward Csatò, Nieporozumienia dyskusyjne, «Teatr», 3, 1953, pp. 8-9.
20 Zbigniew Krawczykowski, Spojrzenie wstecz, «Teatr», 22, 1956, cit. in K. Gajek, Bertolt Brecht na scenach polskich cit., p. 85.
21 Con questa annotazione polemica su Madre Courage Szczepański si sentì in dovere di integrare il primo compendio dell’opera brechtiana, intitolato Bertolt Brecht e il suo teatro e uscito sulla rivista «Teatr» nel 1950 per la penna di Wilhelm Szewczyk. Il critico avrebbe ripreso queste stesse osservazioni nell’introduzione ai drammi brechtiani pubblicati nel 1953, di cui tratteremo più avanti. Jaszcz [J. A. Szczepański], Jeszcze o teatrze Bertolta Brechta, «Teatr», 7, 1950, p. 6.
22 Lo rileva anche il pluripremiato drammaturgo Tony Kushner, che nel 2006 ha curato una nuova traduzione in inglese di Madre Courage. Nel suo lavoro Kushner prende le distanze dalla storica traduzione di Eric Bentley – primo traduttore di Brecht in inglese e suo sostenitore – e, pur mantenendosi fedele al testo originale, propone un linguaggio colloquiale che mette in luce l’umorismo brechtiano. La traduzione è stata commissionata dal Public Theatre di New York per uno spettacolo che ha debuttato nell’estate del 2006 al Public’s Delacorte Theater di Central Park per la regia di George C. Wolfe; il ruolo della protagonista è stato affidato a Meryl Streep. Nel settembre del 2009, al National Theatre di Londra, Fiona Shaw è stata invece diretta da Deborah Warner nel debutto britannico di questa traduzione: <http://www.theguardian.com/stage/2009/sep/08/tony-kushner-mother-courage>, 20 ottobre 2016.
23 Ad esempio Julian Stryjkowski: «A una tale sfiducia nei confronti del valore dell’uomo si può giungere se si rimane fissi su posizioni meccanicistiche e su una visione senza prospettive di un certo frammento della storia. Difficile concordare con questa posizione, pur comprendendo che questo specifico frammento storico sia stata la notte hitleriana piombata sulla patria di Brecht», J. Stryjkowski, Matka Courage i jej dzieci, «Przegląd Kulturalny», 3, 1953, p. 3, cit. p. 89.
24 Andrzej Wirth, Próba kredowego koła, «Teatr», 1955, 5, cit. in Joanna Krakowska, Mikołajska. Teatr i PRL, w.a.b, Warszawa 2011, p. 179.
25 Per approfondire cfr. Joanna Krakowska, Mikołajska cit., pp. 177-183.
26 Bertolt Brecht, Trzy dramaty. Matka Courage i jej dzieci, Pan Puntila i jego sługa Matti, Kaukaskie koło kredowe, trad. Stanisław Jerzy Lec, Zbigniew Krawczykowski, Włodzimierz Lewik, intr. Jan Alfred Szczepański, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1953.
27 Marta Fik, Trzydzieści pięć sezonów. Teatry dramatyczne w Polsce w latach 1944-1979, Wydawnictwa Artystyczne i Filmowe, Warszawa 1981, p. 147.
28 Ingaggiato in qualità di “regista principale”, Rotbaum ricoprirà anche l’incarico di direttore artistico dal 1° ottobre 1952 al termine della stagione 1963/1964; poi soltanto più il ruolo di regista fino al 31 agosto 1969.
29 Massimo Lenzi mette in rilievo che l’opera aveva anche la funzione di giustificare il nuovo corso antistalinista. La pièce di Pogodin «inaugurava un genere che ha assunto una cospicua rilevanza nella storia dello spettacolo russo novecentesco, teatrale e tecnologico: quello della cosiddetta Leniniana o “Leniniade”. Germinato dall’ormai esausto (e politicamente non più opportuno) dramma “eroicorivoluzionario”, il nuovo filone tematico era dedicato alla rappresentazione drammatica, scenica o filmica, di scorci della biografia di Lenin […]. Va da sé che gran parte di tali lavori, come le loro relative produzioni, sarebbero risultate affette da toni agiografici spesso debordanti il limite del grottesco involontario; né tuttavia mancarono […] lavori di sicuro pregio e interesse sul piano strutturale ed emotivo, talora per virtù intrinseche, più sovente per il trattamento loro riservato sulla scena o sul set». Massimo Lenzi, Obrazy. 2. Ruben Nikolaevič Simonov: dall’aurora al mezzodì. Profili di registi della seconda generazione russa, «Mimesis Journal», 1, 2, 2012, p. 48.
30 Intervista a Jakub Rotbaum realizzata dalla Televisione Polacca:
<http://www.teatrpubliczny.pl/PRL/szukaj?phrase=rotbaum>.
31 Jan Kott, Teatr wielkich konfliktów, «Teatr», 9, 1 giugno 1952, […].
32 Andrzej Wirth, Panowie, po co puszczać w oczy dym? (1957), poi pubblicato in Id., Siedem prób. Szkice krytyczne, Czytelnik, Warszawa 1962, p. 91.
33 Jakub Rotbaum, czyli dwa teatry. Cz. ii — teatr polski, intervista a cura di Anna Hannowa, «Teatr», 49, 9, 1994, p. 45.
34 A. Wirth, Panowie, po co puszczać w oczy dym? cit., p. 91. Si consideri anche il giudizio di Jan Kott sulla novità della messa in scena, che coniugava valori sociali e uno stile all’altezza delle più mirabili fantasie shakespeariane: «Rotbaum […] ha composto un’opera nuova a partire da personaggi antichi. Grazie a ciò, conservando le squisite qualità dei tipi goldfadeniani, così come le scene e le canzoni più amate, ha salvato tutto il gusto e il fascino del vecchio teatro yiddish e ha creato uno spettacolo assolutamente moderno, che affronta una precisa e attuale problematica ideologica, e al contempo un’opera fresca dal punto di vista artistico e sinceramente divertente. Sono uscito dal teatro incantato!», J. Kott, «Gazeta Robotnicza», 15 marzo 1950, cit. in A. Hannowa, Ku upaństwowieniu Teatru Żydowskiego — na Dolnym Śląsku, in Teatralna Jerozolima cit., p. 95.
35 Andrzej Wróblewski, Granice osamotnienia, «Teatr», 18, 1956, p. 6.
36 Edward Csató, Przedstawienie nie po brechtowsku, «Teatr i film», 3, 1 luglio 1957.
37 Jan Paweł Gawlik, Spór o Brechta, «Nowa Kultura», 48, 1958, cit. in Krytycy o Swinarskim: wybór recenzji ze spektakli Konrada Swinarskiego, a cura di Maria Katarzyna Gliwa, Muzeum Historii Katowic, Katowice 2001, p. 18.
38 Konrad Swinarski (1929-1975): regista e scenografo tra i più importanti della seconda metà del Novecento polacco. Studiò pittura e fu fortemente influenzato dal pittore avanguardista Władysław Strzemiński; in seguito frequentò il corso di regia – senza mai concluderlo – presso la Scuola Statale d’Arte Drammatica di Varsavia. Debuttò come scenografo nel 1954 e l’anno successivo come regista. Nello stesso periodo si trasferì a Berlino per lavorare con Brecht e il Berliner Ensemble. Fece ritorno in Polonia nel 1956 e si impose come figura di punta della scena teatrale con una serie di spettacoli ispirati agli insegnamenti brechtiani. Riscosse un grande successo anche la sua prima mondiale del Marat/Sade di Peter Weiss, andata in scena al Teatro Schiller di Berlino nel 1964 e considerata la migliore produzione tedesca dell’anno. Dal 1965 lavorò presso il Teatr Stary di Cracovia, dove creò i suoi spettacoli più importanti: allestimenti originali dei classici del Romanticismo polacco che suscitarono grande scalpore come La non-divina commedia di Zygmunt Krasiński (1965), Fantazy di Juliusz Słowacki (1967), I giudici e La maledizione di Stanisław Wyspiański (1968), messe in scena di drammi shakespeariani come Sogno di una notte di mezza estate (1970) e Tutto è bene quel che finisce bene (1971) e di opere contemporanee come Le serve di Jean Genet (1966) e Addio, Giuda di Ireneusz Iredyński (1971). Il coronamento del lavoro registico di Swinarski furono le leggendarie versioni de Gli avi di Adam Mickiewicz (1973) e di Liberazione di Stanisław Wyspiański (1974), che si contrapponevano alla visione stereotipata della tradizione romantica, proponendosi di smantellare i cliché, alla ricerca delle ambiguità e dei significati più nascosti dei testi canonici. La parabola artistica di Swinarski fu tragicamente interrotta dalla morte prematura in un disastro aereo.
39 Cfr. August Grodzicki, Autentyczny Brecht, 23 ottobre 1958: <http://www.eteatr.pl/pl/artykuly/53211.html?josso_assertion_id=F0D5AFFF749B3EFA> e Roman Szydłowski, Brecht autentyczny, 23 ottobre 1958: <http://www.e-teatr.pl/pl/artykuly/53205.html?josso_assertion_id=2267081B7817BDEA>.
40 Jan Paweł Gawlik, Spór o Brechta cit., p. 20.
41 Jan Kott lo considerava «il più contemporaneo, il più istintivo, il più interessante tra i registi polacchi. […] Il grande Swinarski, per me, era quello del dramma romantico polacco, della Non-divina commedia di Krasiński, soprattutto, e degli Avi di Mickiewicz. La grandezza di Swinarski consisteva nell’attingere a tecniche teatrali moderne, innovative, a una nuova visione teatrale, ispirata principalmente a Brecht, ma non solo, e adottata per la prima volta per il dramma romantico polacco. Una nuova visione del grande teatro romantico polacco per mezzo di un’esperienza teatrale differente. Era veramente un regista eccezionale. La sua morte prematura in un incidente aereo è stata una delle più gravi perdite per la cultura e il teatro polacchi». J. Kott, «Gazeta Robotnicza» cit., p. 111.
42 Terrore e miseria del Terzo Reich. Traduzione: Ida Kaminska. Allestimento scenico e regia: Konrad Swinarski. Scenografia: Marian Stańczak. Direzione tecnica e assistente alla scenografia: J. Pasmanik. Scene selezionate e rispettivi interpreti: Referendum popolare (con Rywa Szyler, Jakub Chasz-Grodner, Michał Rajski), Legalità (con Marian Melman, Samuel Rettig, Szymon Szurmiej, Karol Latowicz, Ruth Taru-Kowalska, Jakub Chasz-Grodner), L’ora dell’operaio (con Michał Rajski, Chaim Nysencwajg, Zofia Skrzeszewska, Bruno Fink, Kazimierz Treger, Henryk Grynberg, M. Bram), Il vecchio militante (con Bruno Fink, Ruth Kaminska, Henryk Grynberg, Julia Flaum, Rywa Szyler, Gita Szachmejster), La moglie ebrea (con Ida Kaminska, Marian Melman), La croce bianca (con Ruth Kaminska, Szymon Szurmiej, Gita Szachmejster, Chaim Nysencwajg, Karol Latowicz), Aiuto invernale (con Michał Rajski, Kazimierz Treger, Ida Kaminska, Zofia Skrzeszewska), I fisici (con Samuel Retting, Marian Melman), La spia (con Karol Latowicz, Ruth Taru-Kowalska, Ruth Kaminska), Abbiamo un lavoro (con Julia Flaum, Chaim Nysencwajg, Ida Kaminska). Direzione tecnica e assistente alla scenografia: J. Pasmanik.
43 Spettacolo che Konrad Swinarski aveva messo in scena nel 1958 al Junges Ensemble-Theater in der Kongresshalle di Berlino Ovest.
44 Introduzione di Konrad Swinarski contenuta nel programma di sala, Cart. Terrore e miseria del Terzo Reich (1960), Archiwum Teatru Żydowskiego im. Estery Rachel i Idy Kamińskich, Varsavia.
45 Karolina Beylin, Kronika zbrodni, «Express Wieczorny», 20 luglio 1960, <http://www.e-teatr.pl/pl/artykuly/98853.html?josso_assertion_id=49A62CFCF91244CC>.
46 Ibid.
47 Ibid.
48 Roman Szydłowski, Strach i nędza III Rzeszy, «Trybuna Ludu», 200, 20 luglio 1960, <http://www.e-teatr.pl/pl/artykuly/98856.html>.
49 Lo spettacolo ebbe circa undici rappresentazioni a Varsavia e quindici in tournée per città polacche come Wrocław, Łódź, Cracovia e Zielona Góra.
50 Andrzej Wróblewski, Wieczór publicystyki, «Teatr», 16, 1960, p. 25.
51 s.n., Manifestacje, «Kurier Polski», 26 luglio 1960.
52 Solomon Belis-Legis (1907-1995): poeta, saggista, critico letterario, tra gli ultimi rappresentanti della letteratura yiddish in Polonia. Fu uno dei fondatori del gruppo letterario Jung Vilne. Debuttò nel 1924 sulla rivista «Klangen» (Suoni), di cui era redattore. A partire dal 1931 collaborò con diverse riviste ebraiche in Lituania. Nel 1942 si arruolò volontario nell’Armata Rossa, restando ferito sul fronte. Al termine del conflitto si stabilì a Vilnius e pubblicò tre raccolte di reportage. Nel 1959 si trasferì in Polonia, dove per undici anni diresse la rubrica letteraria e artistica del settimanale «Folks-Shtime», interessandosi di letteratura del mondo e curando alcune pubblicazioni di classici della letteratura ebraica in polacco. Nell’ultimo periodo di vita pubblicò in yiddish esclusivamente sul trimestrale israeliano «Di Goldene Kejt». Nel 1987, in Israele, fu insignito del prestigioso premio I. Manger per la produzione letteraria. Janusz Solarz, Salomon Belis-Legis, Polski Słownik Judaistyczny, 20 ottobre 2016: <http://www.jhi.pl/psj/Belis-Legis_Salomon>.
53 Solomon Belis-Legis, Kritishe bamerkungen tsu a viktikn padmest tsu der neier premiere in Yidishe Melukhe Teater, «Folks-Shtime», 1960, trad. e cit. in Krytycy o Swinarskim cit., p. 49.
54 Intervista dell’autrice a Henryk Grynberg, cit.
55 Ibid.
56 Franco Quinto. Opera di una banca privata di Friedrich Dürrenmatt. Debutto: 6 maggio 1962, Teatr Dramatyczny di Varsavia. Regia: Konrad Swinarski. Traduzione: Irena Krzywicka, Joanna Kulmowa. Scenografia: Ewa Starowieyska, Konrad Swinarski. Musica: Paul Burhard. Direzione musicale: Janusz Jędrzejczak. Interpreti: Czesław Kalinowski (Franco Quinto), Ida Kaminska (Ottilia), Ignacy Gogolewski (Herbert), Barbara Klimkiewicz (Franciszka), Józef Para (Boeckmann), Edmund Fetting (Richard Egli), Halina Dobrowolska (Frieda Furst), Jarosław Skulski (Haeberlin), Wojciech Pokora (Schmalz), Mieczysław Stoor (Kappeler), Wiesław Gołas/Józef Nowak (Pauli Neukomm), Gustaw Lutkiewicz (Heini Zurmuhl), Stefan Wroncki (Guillaume), Feliks Chmurkowski (Ernest Schlumph), Stanisław Gawlik (Piaget), Karolina Borchardt (Apolonia Streuli), Jan Świderski (Traugott von Friedman).
57 August Grodzicki, Makabra finansowa, «Życie Warszawy», 110, 10 maggio 1962: <http://www.e-teatr.pl/pl/artykuly/52912.html>.
58 Elżbieta Wysińska, Konfrontacje. Dürrenmatt z wariacjami, «Dialog», 8, 1 agosto 1962, <http://www.e-teatr.pl/pl/artykuly/200042,druk.html>.
59 Intervista dell’autrice a Ignacy Gogolewski, 27 aprile 2015, Club degli Artisti delle Scene Polacche, Varsavia.
60 Jan Kłossowicz, Szkic do portretu aktorki, «Teatr», 21, 1-15 novembre 1967, pp. 12- 13.
61 «Possiamo immaginare l’effetto traumatico prodotto da Franco Quinto negli spettatori svizzeri o di altri paesi capitalisti caratterizzati da grande benessere. Rivela in qualche modo l’altra faccia e l’origine di questo benessere. Tra gli spettatori del Teatr Dramatyczny di Varsavia non ho visto nessun banchiere, perciò l’opera da questo punto di vista non ha scioccato nessuno. Se lo ha fatto, è stato per via del suo carattere macabro», A. Grodzicki, Makabra finansowa cit. Una posizione che sembra avvallata dallo stesso regista, il quale in un’intervista dichiarò che l’opera lanciava un avvertimento alla società in cui viveva Dürrenmatt, un avvertimento che nell’epilogo dello spettacolo si imprimeva nello spettatore attraverso la musica, ma che per stessa ammissione del drammaturgo poteva toccare il pubblico polacco solo in parte, dal momento che esso non poteva certo considerarsi corresponsabile della degenerazione capitalista.
62 Jerzy Zagórski, Spodziewaliśmy się więcej, «Kurier Polski», 111, 10 maggio 1962: <http://www.encyklopediateatru.pl/artykuly/52862/spodziewalismy-sie-wiecej>.
63 E. Wysińska, Konfrontacje cit.
64 A. Grodzicki, Makabra finansowa cit. Molto critico nei confronti della musica di Paul Buckard fu anche Jerzy Sito, che la giudicava infantile e pomposa: J. S. Sito, Ciężkie dziedzictwo, «Teatr», 14, 1962:
<http://www.encyklopediateatru.pl/artykuly/53048/ciezkie-dziedzictwo>.
65 A. Grodzicki, Makabra finansowa cit.
66 Andrzej Wirth, Od Brechta do Durrenmatta, «Nowa Kultura», 20, 20 maggio 1962:
<http://www.e-teatr.pl/pl/artykuly/52958,druk.html>.
67 Jakob Weitzner, Ja wszystko pamiętam, «Słowo Żydowskie», 18/19, 2007, p. 9.
68 Dopo gli spettacoli inaugurali, al Berliner Brecht si occupò quasi sempre di testi con protagoniste femminili come La madre, la ripresa di Madre Courage, Pelliccia di castoro e galletto rosso, Il processo di Giovanna d’Arco, Il cerchio di gesso, assegnando i ruoli ad attrici dai talenti variegati e spesso contrapposti come Helene Weigel, Therese Giehse, Käthe Reichel e Angelika Hurwicz.
69 Aktualne problemy polskiej sztuki aktorskiej, questionario, «Teatr», 20, 1961, p. 13.
70 Najstarszy w świecie, intervista a cura di Krystyna Nastulanka, «Polityka», 28 maggio 1966.
71 Harold Clurman, Ida Kaminska and the Yiddish Theatre, «Mindstream», 14, 1968, p. 524.
72 Massimo Cacciari, La stella della narrazione, in Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, Adelphi, Milano 2005, p. 232.
73 Ibid.
74 Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor: storia ebraica e memoria ebraica, intr. di Harold Bloom, Giuntina, Firenze 2011, p. 44.
75 Ivi, p. 130.
76 Intervista n. 24385, Margarita Turkow (Warszawa 1933), […], Stati Uniti, usc Shoah Foundation-The Institute for Visual History and Education, University of Southern California.
77 Ai fini della nostra riflessione è interessante ricordare che Franco Fortini tradusse insieme alla moglie Ruth Leiser numerose opere di Bertolt Brecht, il cui pensiero influenzò profondamente l’opera del poeta, che secondo Pier Vincenzo Mengaldo ne sarebbe stato il più diretto erede in Italia. È poi rilevante annotare che Fortini, probabilmente anche in virtù delle proprie radici ebraiche, si interessò alla cultura ebraico-polacca e negli anni Cinquanta raccolse alcuni «preziosi versi» in lingua yiddish risalenti al periodo interbellico e all’occupazione, con l’obiettivo di inserirli in un’antologia di poesia mondiale. Cfr. Giovanna Tomassucci, Polska ‘czereśnia’ w koszyczku„ Złodzieja czereśni”? Przekłady wyimaginowane i przekłady rzeczywiste w twórczości Franco Fortiniego, in Inna komparatystyka, a cura di Giovanna Brogi Bercoff, Marina Ciccarini e Mikołaj Sokołowski, Instytut Badań Literackich Polskiej Akademii Nauk, Warszawa 2017.
78 Franco Fortini, Editto contro i cantastorie, in Id., Paesaggio con serpente. Versi 1973- 1983, Einaudi, Torino 1984, p. 27.
79 Ibid.
80 Jan Paweł Gawlik, Twarze teatru, Ossolineum, Wrocław 1963, p. 124.
81 Bernard Dort ricorda che la versione di Vilar fu accolta negativamente dalla critica, che elogiò però all’unisono l’interpretazione di Germaine Montero, caratterizzata da «patetismo e splendore». Per Dort, invece, «la recitazione dell’attrice principale acquisiva la libertà, l’indipendenza che Brecht nega ad Anna Fierling: Germaine Montero non recitava in maniera falsa […] ma recitava troppo, in modo troppo continuo, rispetto al resto dello spettacolo che non le fa più da contrappeso. La profonda contraddizione del suo personaggio non risultava più evidente, né la sua partecipazione obiettiva a una guerra che soggettivamente rifiuta, né la sua mescolanza di lucidità e accecamento. E lo spettatore era portato a giustificarla […]». In generale, Dort sintetizza così l’errata ricezione francese dell’opera di Brecht: «Nelle rappresentazioni di Madre Coraggio e del Cerchio di gesso del Caucaso, il pathos aveva la meglio sul constat: in esse più che un’azione ci veniva mostrata una sofferenza. Così era ridotta la molteplicità dei piani dell’opera: alla struttura a scene separate, attraverso elementi montati insieme ma indipendenti l’uno dall’altro, a questa struttura propria del teatro epico, si sostituiva un movimento più omogeneo, una dissolvenza, per cui forse lo spettacolo se ne avvantaggiava in efficacia immediata a scapito però della sua portata critica. So benissimo che, a questo punto, gli uomini di teatro si scontrano con una difficoltà effettiva: il difetto di formazione degli attori francesi, particolarmente nel canto», Bernard Dort, Teatro pubblico, Marsilio, Padova 1967, pp. 235; 244-246.
82 Scena była zawsze moją namiętnością, a cura di I. Kubicka, «Gazeta Zielonogórska», 26 ottobre 1960.
83 «Sono interessata a quei ruoli che non sono ancora riuscita a conquistare. Anche solo Madre Courage. Devo ancora tornarci», D. Paw., Ida z wielkiego rodu, «Echo Krakowa», 136, 11-12 giugno 1966. Anni dopo, l’attrice avrebbe dichiarato: «Qual è il personaggio più bello? Mi hanno fatto questa domanda milioni di volte e ho sempre risposto: “Il prossimo”, ma oggi confesso che il ruolo a cui mi sono più affezionata, non soltanto come attrice e regista, ma come essere umano, è stato quello di Madre Courage. […] In quest’opera Brecht ha espresso tutte le possibili sfumature dei sentimenti umani. Ho lavorato a lungo su questo personaggio e ogni volta vi ho scoperto qualcosa di nuovo. È un’opera sovranazionale e universale. Helene Weigel, compagna di vita di Brecht, mi ha visto interpretare questo ruolo […] e ne è rimasta entusiasta». Popołudnie u Idy Kamińskiej, a cura di Anna Ćwiakowska, «Nowiny Kurier», 13 giugno 1975.
84 Cart. Madre Courage, Archiwum Teatru Żydowskiego im. Estery Rachel i Idy Kamińskich, Varsavia.
85 Il programma della tournée statunitense era così articolato: dal 19 ottobre al 17 dicembre andò in scena Mirele Efros e dal 16 novembre al 17 dicembre Madre Courage (cfr. anche l’archivio Internet Broadway Database <http://ibdb.com/person.php?id=9557>). È possibile, inoltre, seguire la tournée del Teatro Statale Yiddish scorrendo diverse riviste americane e canadesi: negli archivi yivo sono conservati articoli tratti da «Toledo Blade» (settembre 1967), «Gettysburg Times» (luglio 1967), «The Montreal Gazette» (settembre 1967) e «The Pittsburgh Press» (novembre 1967). Collezione rg 994, Ida Kaminska and Meir Melman Papers, 1960-1980, scat. 1, Yidisher Visnshaftlekher Institut – yivo, New York.
86 «The height of her expression of motherhood was reached in the two plays which marked the peaks of her artistic career: The Mother by Capek, and Mother Courage by Berthold Brecht. […] although here she was not the same innocent mother. Fate ordained that she be harsh with herself from the moment she stepped on to the stage. […] Indeed, watching Rovina’s acting you feel more than once some hidden inner conflict between the mother’s superhuman endurance and the amazement of the woman portraying Mother Courage at that endurance. It is no wonder that from this wretched, ragged and suffering woman emanated the air of nobility described by S. Halkin in his poem on Hanna Rovina: “And noble happiness is hidden in your very suffering, /Shines forth in your cry, in that which pours from your being./You are the white candle of the Day of Atonement in which pain is sanctified!/You are the soul of pain, whose innocence is its sole reward”». Israel Gur, Actors in the Hebrew Theatre, Jerusalem Post Press, Jerusalem 1958, pp. 27, 29. In Israele Madre Courage è stata messa in scena per la prima volta dall’Habima nel 1951 e dal Teatro Municipale di Haifa nel 1964, e da allora è stata continuamente ripresa.
87 Si trattava della prima edizione polacca di alcuni drammi brechtiani ed era preceduta da una ricca introduzione a cura del critico Jan Alfred Szczepański, secondo il quale Madre Courage era un’opera di alto livello artistico che difettava tuttavia di una chiara visione di classe: l’autore, infatti, non sarebbe stato in grado di sconfiggere completamente l’esponente dell’intellighenzia borghese che era in lui e avrebbe composto un dramma viziato dalla paura della guerra e da un pacifismo assoluto e piccolo-borghese, che avrebbe inquinato la chiara visione marxista delle cause e degli effetti, nonché la distinzione tra guerre imperialistiche e guerre “giuste”, di rivoluzione. Szczepański concludeva affermando che Brecht non era sicuramente uno scrittore realista “purosangue”, né tantomeno un portavoce del realismo socialista, ma che il realismo della sua poesia, il contenuto progressista e sociale dei suoi drammi e l’imperativo alla lotta che emanava dalle sue opere lo collocavano senza dubbio «dal nostro lato della barricata […] dalla parte dell’arte combattente». Jan Alfred Szczepański, Bertolt Brecht i jego teatr, in B. Brecht, Trzy dramaty cit., pp. 5-24.
88 Ivi, p. 21.
89 Programma di sala di Madre Courage del Państwowy Teatr Ziemi Mazowieckiej, p. 3. Regia: Krystyna Berwińska. Scenografie: Józef Szajna. Debutto: Varsavia 1958.
90 Programma di sala di Muter Kuraj un ire kinder del Państwowy Teatr Żydowski, Warszawa 1957, p. 4.
91 Nell’adattamento proposto da Ida Kaminska si notano alcune variazioni rispetto alla suddivisione del testo drammaturgico. Nella scena v dello spettacolo, per esempio, si condensano anche gli eventi che, nel dramma di Brecht, accadono nella scena successiva: il funerale di Tilly, il ritorno di Kattrin assalita e ferita all’occhio, la differenza nella valutazione tra ciò che il cappellano considera un momento storico (il funerale del maresciallo) e ciò che è momento storico per Madre Courage (la figlia ferita e quindi condannata a non trovare mai un marito). La scena vi dello spettacolo, invece, coincide con la scena vii del dramma, in cui si osserva la protagonista all’apice della carriera.
92 Muter Kuraj un ire kinder (Madre Courage e i suoi figli). Messa in scena e traduzione: Ida Kaminska. Musica: Paul Dessau. Scenografia: Zenobiusz Strzelecki. Interpreti del primo allestimento (debutto: 11 luglio 1957): Arnold Paluszak (il maresciallo, lo scrivano), Michał Szwejlich (il reclutatore, il colonnello), Ida Kaminska (Madre Courage), Karol Latowicz (Eilif), Juliusz Berger (Schweizerkas), Ruth Kaminska (Kattrin), Chevel Buzgan (il cuoco), Rubin Oguz (il comandante, primo soldato), Marian Melman (il cappellano), Herman Lercher (il capo dell’armeria, un soldato più anziano), Julia Flaum (Yvette Pottier), Abraham Rozenbaum (un soldato, l’alfiere), Józef Retik (il soldato con l’occhio bendato, il figlio dei contadini), Mojżesz Lancman (il sergente di cavalleria), Andrzej Lubieniecki (un giovane soldato), Ino Toper (un soldato ubriaco, un giovane artigiano), Estera Kowalska (la madre del giovane artigiano), Mieczysław Bramski (un soldato di scorta), Pejsach Podrabinek (secondo soldato), Izrael Białkowicz (un contadino), Sara Rotbaum (una contadina). Responsabile coordinamento: Pejsach Podrabinek. Direzione tecnica: Józef Pasmanik. Luci: A. Czarka. Interpreti del secondo allestimento (debutto: 22 luglio 1967): Samuel Rettig (il maresciallo), Michał Szwejlich (il reclutatore, il colonnello), Ida Kaminska (Madre Courage), Karol Latowicz (Eilif), Juliusz Berger (Schweizerkas), Ruth Kaminska (Kattrin), Seweryn Dalecki (il cuoco), Szymon Szurmiej (il comandante, il primo soldato), Marian Melman (il cappellano), Marian Rudeński (il capo dell’armeria, un giovane soldato), Dina Fijałkowska (Yvette Pottier), Abraham Rozenbaum (un soldato, l’alfiere), Józef Retik (il soldato con l’occhio bendato, il figlio dei contadini), Herman Lercher (il sergente di cavalleria, un soldato più anziano, il secondo soldato), Izaak Dogim (lo scrivano, un contadino), Samuel Rettig (un soldato ubriaco), Henryk Grynberg (un giovane artigiano), Estera Kowalska (la madre del giovane artigiano), Mieczysław Bram (un soldato di scorta), Maria Frydman (una contadina). Direzione musicale: Kazimiera Wołczedska. Direzione tecnica: Józef Pasmanik. Responsabile tecnico: Mieczysław Bram. Luci: Adam Czarka, Bronisław Raczyński. Costumi: Aleksander Szkoda, Eugenia Okołotowicz.
93 A. Wirth, Babcia Courage cit., p. 97.
94 In breve tempo la pièce assume la statura del classico: nel 1950 il carro di Madre Coraggio compare per le strade di Berlino Est nella processione del primo maggio con la figlia diciannovenne del drammaturgo, Barbara, seduta a sventolare la bandiera rossa. In seguito, l’oggetto diventerà un pezzo da museo.
95 Karolina Beylin, Na drogach ogarniętych wojną, «Express Wieczorny», 1 agosto 1967, p. 4.
96 Karolina Beylin, Znakomita Ida Kamińska jako Matka Courage, «Express Wieczorny», 223, 28 settembre 1957.
97 Zenobiusz Strzelecki (1915- 1987) si forma a Varsavia, ma debutta come scenografo al Théâtre Odeon di Parigi nel 1945. Al ritorno in Polonia, prosegue l’attività in campo teatrale e operistico collaborando con i teatri di tutto il paese e creando opere in stile differente: sintetico, metaforico, architettonico e pittorico. Strzelecki considerava il proprio lavoro prossimo al neorealismo e sottolineava come alla base di ogni creazione si trovasse «una sintetica espressione del tempo e del luogo dell’azione, che poggia sulla realtà. Una composizione limitata al campo della scena, una fattura che segnala l’autenticità del materiale» (Kierunki scenografii współczesnej, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, Warszawa 1970). Docente e curatore di mostre dedicate alla scenografia, è anche autore della prima monografia sulla scenografia pubblicata in Polonia (Polska plastyka teatralna, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1963). Marta Fik, Trzydzieści pięć sezonów. Teatry dramatyczne w Polsce w latach 1944-1979, Wydawnictwa Artystyczne i Filmowe, Warszawa 1981, pp. 278; 454.
98 Il fondale bianco era stato ideato da Teo Otto, allievo di Neher. Cfr. anche Roland Barthes, Sept photo-modeles de Mère Courage, «Théatre Populaire», 35, 1959 (tr. it, Sette fotografie-modello di Madre Coraggio, in Id., Sul teatro, a cura di Marco Consolini, Meltemi, Roma 2002, pp. 225-239).
99 Stefan Treugutt, Matka zabitych dzieci, «Przegląd Kulturalny», 11 luglio 1957: <http://www.e-teatr.pl/pl/artykuly/183426,druk.html>.
100 Bertolt Brecht, Scritti teatrali III. Note ai drammi e alle regie, Einaudi, Torino 1975, p. 191.
101 Ivi, p. 192.
102 Ibid.
103 Ibid.
104 Ivi, p. 191.
105 A. Wirth, Babcia Courage cit., p. 99.
106 A proposito di questo importante elemento scenografico non è stato possibile dirimere un dubbio: alcune fonti parlano di una pedana girevole, ma nelle fotografie che ritraggono l’inizio e la fine dello spettacolo si nota che il carro viene spinto su una pedana. Il critico Wirth parlò in generale di una soluzione molto ingegnosa per rendere l’erranza della protagonista. In scena c’era dunque la piattaforma o questa pedana? È possibile che la scenografia dipendesse dalla dotazione tecnica del teatro in cui veniva rappresentato lo spettacolo, a Varsavia e in tournée.
107 A. Wirth, Babcia Courage cit., p. 98.
108 Ivi, p. 99.
109 S. Treugutt, Matka zabitych dzieci cit.
110 A. Wirth, Babcia Courage cit., p. 96.
111 B. Brecht, «Madre Courage e i suoi figli». Note sulla rappresentazione del 1949, in Id., Scritti teatrali III. Note ai drammi e alle regie, Einaudi, Torino 1975, p. 190.
112 Ibid.
113 Ibid.
114 S. Treugutt, Matka zabitych dzieci cit.
115 Ibid.
116 Il suo teatro.
117 Mutter Courage und ihre Kinder (Deutsche Demokratische Republik, 1961).
Regia: Peter Palitzsch e Manfred Wekwerth. Produzione: Berliner Ensemble e Deutsche Film (DEFA). Durata: 151’:
<http://www.veoh.com/watch/v41159893XXQ5tHe6>, 9 novembre 2016.
118 Bertolt Brecht, Madre Courage e i suoi figli, trad. Ruth Leiser e Franco Fortini, Einaudi, Torino 2000, p. 95.
119 Bertolt Brecht, «Materialen» su Madre Coraggio, in Brecht e Courage, Edizioni del Teatro Stabile di Genova, Genova 1970, p. 64.
120 Ivi, p. 65.
121 Ibid.
122 È il caso, ad esempio, di Roman Szydłowski, cit. in Państwowy Teatr Żydowski im. Ester Rachel Kamińskiej. Przeszłość i teraźniejszość, a cura di Szczepan Gąssowski, pwn, Warszawa 1995, p. 155.
123 R. Barthes, Sept photo-modeles de Mère Courage cit., in Id., Sul teatro, a cura di Marco Consolini, Meltemi, Roma 2002, p. 230.
124 A. Wirth, Babcia Courage cit., p. 99.
125 Ibid.
126 Nel 1961, Kenneth Tynan rievocò la quattrocentesima apparizione di Helene Weigel descrivendola con queste parole: «this piece of acting is earthy […] but Frau Weigel earthiness is light and springlike, even skipping and so utterly devoid of personal assertiveness that the life of the character appears to derive from the wares she handles and the trade she plies», cit. in David Richard Jones, Great Directors at Work: Stanislavsky, Brecht, Kazan, Brook, University of California Press, Berkeley/Los Angeles 1986, p. 115.
127 Roman Szydłowski, cit. in Państwowy Teatr Żydowski cit., p. 155.
128 B. Brecht, Madre Courage e i suoi figli cit., p. 145.
129 Per un elenco degli allestimenti di Madre Courage e i suoi figli realizzati in Polonia dal 1957 a oggi cfr. <http://www.e-teatr.pl/pl/realizacje/514,sztuka.html>.
130 Stanisław Jerzy Lec, in realtà de Tusch-Letz, cognome che significa giullare/ buffone in ebraico (1909-1966): aforista, poeta e scrittore. Nato in una famiglia ebraica polonizzata composta da proprietari terrieri e banchieri, studiò letteratura polacca e legge a Cracovia. Debuttò come scrittore alla fine degli anni Venti, pubblicando le prime liriche su riviste satiriche di sinistra, e fondò un cabaret letterario a Varsavia. Nel 1935 contribuì a creare «Szpilki» (Spilli), il più noto giornale satirico polacco. Arrestato dai nazisti nel 1941, fuggì dal ghetto e dal campo di Tarnopol e si unì ai combattenti polacchi della clandestinità. Nel 1946 fu addetto stampa presso la sede del governo polacco a Vienna. Nel 1950 si trasferì in Israele ma, non riuscendo ad adattarsi alla nuova realtà, nel 1952 fece ritorno in Polonia. Nei primi anni Lec si dedicò alla poesia, per poi concentrarsi sulla produzione di aforismi ed epigrammi. Nella sua opera poetica, lo scrittore guarda alla realtà con ironia e malinconia; mentre i suoi aforismi affrontano profonde questioni filosofiche con il gusto del paradosso e del gioco, svelando l’influenza, oltre che della cultura tedesca, francese e dell’Antica Grecia, delle tradizioni bibliche e talmudiche e dei proverbi ebraici. La raccolta più nota degli aforismi, Myśli nieuczesane (1957), è stata pubblicata anche in italiano con il titolo Pensieri spettinati, trad. Riccardo Landau e Pietro Marchesani, Bompiani, Milano 1984. Magda Opalski, Stanisław Lec, yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europa: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Lec_Stanis%C5%82aw>.
131 In generale le vicende del teatro ebraico, prima e dopo la guerra, non sono incluse nelle storie del teatro polacco. Si veda ad esempio Zbigniew Raszewski, Krótka historia teatru polskiego, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1977 (terza edizione 1990), opera che traccia una breve storia del teatro polacco dalle origini al 1939 senza menzionare neanche di sfuggita l’attività di compagnie ebraiche, e Edward Csató, Polski teatr współczesny pierwszej połowy XX wieku, Polonia, Warszawa 1967, in cui si tratta esclusivamente di Jakub Rotbaum (pp. 61-63), accennando al fatto che collaborò con il Teatro Yiddish e che negli ultimi anni, con molte sue eccellenti creazioni, si conquistò il riconoscimento del pubblico non solo ebraico ma anche polacco.
132 Eleonora Udalska, Oblicza Matki Courage, «Odgłosy», 29 novembre 1973, <www.e-teatr.pl/pl/artykuly/129702.html>. La studiosa ha poi ripubblicato l’articolo in una recente raccolta di studi, modificando il titolo: Polskie oblicze Matki Courage (1958-1968), in E. Udalska, Teatr — Aktor — Dramat. Szkice z różnych lat, Śląsk, Katowice 2001.
133 Programma di Madre Courage e i suoi figli del Państwowy Teatr Ziemi Mazowieckiej (1958): <http://www.e-teatr.pl/pl/realizacje/15422,szczegoly.html>.
134 E. Udalska, Oblicza Matki Courage cit.
135 Józef Szajna (1922-2008): pittore, scenografo e regista teatrale. Durante la Seconda guerra mondiale fu imprigionato nei campi di sterminio di Auschwitz e Buchenwald, un’esperienza che influenzò profondamente la sua vita e la sua arte. Conclusi gli studi di grafica e scenografia all’Accademia di Belle Arti di Cracovia, Szajna cominciò a collaborare con il Teatr Ziemi Opolskiej e, dal 1955, con il Teatr Ludowy di Nowa Huta, al tempo una delle più importanti scene teatrali in Polonia. A capo degli Amici del Teatro delle Tredici File (1960) di Opole, nel 1962 fu co-creatore – insieme a Jerzy Grotowski – dello spettacolo Akropolis. Tra il 1963 e il 1966 fu direttore artistico del Teatr Ludowy, dove continuò i propri esperimenti in campo scenografico e registico, culminati nello spettacolo Campi deserti. Dal 1966 lavorò come scenografo per il Teatr Stary di Cracovia, proseguendo le collaborazioni con altri teatri del paese. Nel 1972 divenne direttore artistico del Teatr Studio di Varsavia, carica che conservò fino al 1982. Fu su questa scena che Szajna creò le sue più importanti opere di “teatro plastico”: Replica (1973), Witkacy (1972), Dante (1974) e Cervantes (1975). Richiamandosi tanto ai movimenti dell’avanguardia quanto alle performance di arte contemporanea, queste produzioni davano vita a immagini che alludevano alle esperienze traumatiche dell’epoca bellica.
136 Andrzej Władysław Kral, Zapiski o„ Matce Courage”, «Teatr», 3, 1 febbraio 1959: <http://www.e-teatr.pl/pl/artykuly/183428.html>.
137 Ibid.
138 Ibid.
139 E. Udalska, Oblicza Matki Courage cit.
140 Ibid.
141 Ibid.
142 Ibid.
143 Jan Alfred Szczepański, Symbol żywych wartości, in Ida Kamińska. 50 lat pracy artystycznej cit., pp. 54-55.
144 Ida Kamińska, Moje życie, mój teatr, trad. Joanna Krakowska-Narożniak, intr. Jan Kott, Krąg, Warszawa 1995, pp. viii-ix.
145 J. Kott, Raised and Written in Contradictions cit., p. 111.
146 Ibid.
147 Ibid.
148 Jan Kott, Mutter Courage, «Przegląd Kulturalny», 46, 1957, poi raccolto in Id., Miarka za miarkę, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1962, pp. 61-62.
149 Ivi, pp. 62-63.
150 Grzegorz Niziołek, Polski teatr Zagłady, Instytut Teatralny im. Zbigniewa Raszewskiego, Krytyka Polityczna, Warszawa 2013, p. 33.
151 Ivi, p. 84.
152 Aleksandra Ubertowska, Świadectwo — trauma — głos. Literackie reprezentacje Holokaustu, Universitas, Kraków 2007, pp. 22-23.
153 Sono le parole poste a esergo del libro Medaglioni, composto da Zofia Nałkowska nel 1945, pubblicato l’anno seguente e divenuto presto un classico della letteratura polacca. Il volume riunisce sette testimonianze di vittime e spettatori del genocidio nazista, raccolte dalla scrittrice durante il lavoro presso la Commissione centrale d’inchiesta sui crimini tedeschi in Polonia. In italiano l’opera è stata pubblicata negli anni Cinquanta e ripubblicata di recente nella stessa traduzione: Zofia Nałkowska, Senza dimenticare nulla, trad. Bruno Meriggi, a cura di Giulia De Biase, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2006.
154 G. Niziołek, Polski teatr Zagłady cit., p. 61.
155 Andrzej Wróblewski, Niobe, in Ida Kamińska. 50 lat pracy artystycznej cit., p. 45.
156 Jerzy Zawieyski (1902-1969, pseudonimo di Henryk Nowicki): drammaturgo e saggista, attivista politico, deputato alla Dieta e membro del Consiglio di Stato (1957-1968). Negli anni precedenti la Prima guerra mondiale membro della sinistra del movimento popolare, studiò arte drammatica a Cracovia ed entrò a fare parte di Reduta. Pur avendo rinunciato alla carriera d’attore continuò a intrattenere legami con il mondo del teatro come critico e drammaturgo. Nel 1933 conobbe Stanisław Trębaczkiewicz, futuro professore all’Università Cattolica di Lublino e suo compagno per tutta la vita. Durante la Seconda guerra mondiale prese parte alla resistenza. Nel 1942 si riavvicinò al cattolicesimo, che da quel momento in avanti avrebbe informato la sua scrittura. Nel dopoguerra fu attivo come pubblicista, legato alle riviste «Tygodnik Powszechny» e «Znak», dal 1949 al 1955 il governo gli impedì di pubblicare a causa delle sue relazioni con il Club dell’Intellighenzia Cattolica e con le gerarchie ecclesiastiche. Nel 1965 fu eletto alla Dieta per la lista del Fronte di Unità Nazionale. Dopo il marzo 1968 si espresse in difesa degli studenti universitari che erano stati picchiati durante le proteste e tale posizione gli costò la carica nel Consiglio Nazionale e l’accusa di essere un elemento reazionario. Fu uno dei simboli della sinistra cattolica e insieme il simbolo della resistenza allo stalinismo in ambito culturale. Ricoverato in clinica in seguito a un’emorragia cerebrale, morì dopo essere caduto da una finestra: ufficialmente si parlò di suicidio, anche se alcuni avanzarono il dubbio che si fosse trattato di un omicidio politico.
157 Jerzy Zawieyski, Na jubileusz Idy Kamińskiej, in Ida Kamińska. 50 lat pracy artystycznej cit., p. 29.
158 Ivi, p. 28.
159 Ivi, p. 29.
160 Ibid.
161 Ibid.
162 Ivi, p. 30.
163 María Victoria Casares Pérez (1922-1996): attrice di cinema e teatro di origine spagnola. Considerata tra le più grandi attrici drammatiche francesi, in teatro collaborò, tra gli altri, con Jean Vilar e Albert Camus. Interprete di classici del cinema degli anni Quaranta e Cinquanta come Les Enfants du paradis, nel 1947 prese parte alla creazione radiofonica di Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu.
164 Il 17 luglio del 1967 Zawieyski appunta sul suo diario che Andrzej Wróblewski, redattore del bisettimanale «Teatr», gli ha fatto visita chiedendogli di scrivere un articolo da inserire nel libretto del giubileo composto in onore dell’attrice yiddish. Lo scrittore annota che «a causa della sfavorevole situazione per gli ebrei ho acconsentito a scrivere qualcosa» e, dopo cinque giorni, «finalmente ho scritto un articoletto per il libro del giubileo dedicato a Ida Kamińska». Il 18 settembre, giorno in cui telefona a Władysław Gomułka per chiedergli un appuntamento per intercedere e fare ottenere il passaporto al cardinale Stefan Wyszyński, scrive: «In serata al giubileo di Ida Kamińska, per rendere manifesta la mia partecipazione. Dopo il primo atto sono uscito. Come dimostrazione era sufficiente. In serata, lavoro al mio dramma». Jerzy Zawieyski, Dzienniki 1960-1969, vol. ii, Ośrodek karta, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2012, pp. 674-675; p. 688.
165 Intervista dell’autrice a Henryk Grynberg, cit.
166 G. Niziołek, Polski teatr Zagłady cit., pp. 84-85.
167 Daniel Ginzberg, Banajung fun„ Muter Kuraj” in Idishn Meluche-Teater in Varshe, «Folks-Shtime», 8 agosto 1967.
168 Irma Kanfer, Żydowscy aktorzy (Gli attori ebrei), in Dwa akordy, Kraków 1936, cit. in Eugenia Prokop-Janiec, Międzywojenna literatura polsko-żydowska, Universitas, Kraków 1992, p. 189.
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Da Odessa a New York
Una Grande Aquila, un re dello shund e altre stelle vagabonde
Antonio Attisani
2016
Cercatori di felicità
Luci, ombre e voci dello schermo yiddish
Antonio Attisani et Alessandro Cappabianca (dir.)
2018