I. Lo spazio del teatro
p. 3-147
Texte intégral
1. Educazione teatrale
1La storia della famiglia Kaminski è eccezionale perché abbraccia lo sforzo che più generazioni hanno compiuto attraverso quasi un secolo e tre continenti per mantenere vivo il teatro yiddish, e perché Ida, esponente luminosa della seconda discendenza, è stata tra i pochi artisti a fare da ponte tra la prima e la seconda metà del xx secolo, lottando per ricostruire la cultura teatrale yiddish dopo il suo feroce sradicamento. Per comprendere appieno l’operato di Ida Kaminska è indispensabile inquadrare anche il lavoro dei genitori, di cui essa raccolse la vocazione formativa e l’aspirazione a un’arte orgogliosamente ebraica ma innervata da interrogativi universali. Pionieri della scena yiddish, Ester Rokhl Halpern e Avrom Kaminski unirono i propri sogni e le proprie vite dando principio a una dinastia femminile che, se è vero che ospitò al suo interno anche uomini di talento, trovò soprattutto nelle donne le testimoni più coerenti di una ricerca teatrale rigorosa e popolare. Il percorso intrapreso da queste donne e uomini del teatro alla fine del xix secolo nella Polonia zarista si concluse a New York negli anni Ottanta, quando Ruth, figlia di Ida e ultima rappresentante della stirpe, dopo avere trascorso gran parte della vita recitando al fianco della madre, abbandonò la lunga tradizione familiare. Con la morte di Ida nel 1980 e l’esaurirsi degli sforzi di Ruth poco dopo si estinse una delle dinastie più importanti nella storia del teatro yiddish, in Polonia e nel mondo.
1.1. I primi passi
2La madre di Ida, Ester Rokhl Halpern, era nata nel febbraio del 18701 a Porozovo, un piccolissimo shtetl nel territorio del Granducato, al tempo occupato dall’Impero Russo e oggi situato al confine tra Bielorussia e Polonia. La famiglia Halpern era numerosa, povera e devota: secondo alcune fonti il padre Haim Yohanan era un cantore, secondo altre un shohet (macellaio rituale) in pensione;2 la madre, di cui non è stato tramandato il nome, era occupata ad allevare i sette figli. Ester Rokhl, la minore, aveva ricevuto un’educazione sommaria, limitata a qualche lezione impartita dalla moglie del rabbino e a un breve passaggio nella scuola elementare del fratellastro, ma perlopiù – come del resto avvenne per molti altri artisti del teatro yiddish – si era formata da autodidatta. Trascorse l’infanzia circondata dalla musica, tra le melodie liturgiche intonate dal padre, i canti chassidici interpretati dagli allievi della yeshiva vicino a casa e le canzoni dei contadini che la sera tornavano a casa dal lavoro nei campi. Dotata di una buona voce e di un orecchio sensibile, la giovane amava cantare e fu proprio attraverso il canto che incrociò il teatro.
3In seguito alla costruzione di una linea ferroviaria che escludeva il villaggio, l’economia di Porozovo cominciò a declinare e i figli Halpern furono costretti a cercare fortuna altrove; la prima a lasciare la casa paterna fu la figlia maggiore, che si trasferì a Varsavia, dove mise su famiglia e invitò i fratelli a raggiungerla. All’età di tredici anni, Ester Rokhl fu l’ultima a separarsi dai genitori i quali, profondamente radicati nella quotidianità dello shtetl, vi rimasero fino alla morte. Ospite a casa delle sorelle, la giovane accudiva i nipoti e per mantenersi aveva trovato impiego presso diverse fabbriche. Una sera del 1885, alcuni amici la condussero a teatro ed Ester Rokhl ne rimase a tal punto affascinata da proporsi come attrice sostituta ad Avrom Goldfaden,3 che in quel periodo era di stanza a Varsavia con la propria compagnia: secondo alcune fonti il direttore non la assunse perché per i ruoli infantili era già troppo sviluppata; secondo altre, invece, propose all’adolescente un ingaggio, ma la famiglia Halpern si oppose, ingiungendole di tornare a casa. Qualunque sia stata la ragione, Ester Rokhl debuttò sulle scene soltanto sette anni più tardi, probabilmente in seguito alla morte dei genitori. Pur costretta ad accantonare temporaneamente le proprie aspirazioni, la ragazza continuò ad abitare nella città che si era trasformata nel cuore pulsante del nuovo teatro yiddish: fin dagli anni Sessanta Varshe, com’era chiamata la metropoli dagli abitanti dello Yiddishland, ospitava un teatro nel quale venivano proposti spettacoli in lingua yiddish e si esibivano i primi precursori del genere, i Cantanti di Broder,4 il «padre del teatro yiddish» Avrom Goldfaden, e molti altri autori di copioni, capocomici, attrici e attori. A imprimere un forte impulso allo sviluppo della vita teatrale yiddish in Polonia furono soprattutto le operette di Goldfaden, tra cui La strega, che attirò anche molti spettatori non ebrei e nel 1889 fu allestita all’Eldorado in una versione in lingua polacca.
4Nel 1892, all’età di ventidue anni, Ester Rokhl entrò a fare parte del coro del teatro Eldorado5 di via Długa 23, ottenendo una serie di ruoli importanti proprio nelle opere di Goldfaden: Mirele ne La strega, Dina in Bar Kochba e l’omonima protagonista in Shulamis.6 Dalle sue memorie, pubblicate postume con il titolo Derner un blumen (Spine e fiori), apprendiamo che visse le prime repliche con un sentimento di grande eccitazione per il contatto con novità prima proibite come il trucco, l’acconciatura e l’utilizzo di costumi maschili. In questo periodo conobbe anche Avrom Yitskhok Kaminski, un attore impegnato in ruoli secondari nella stessa compagnia.
5Nato nel quartiere Wola di Varsavia nel 1867 in seno a una famiglia ortodossa, alla morte del padre Avrom era stato mandato a bottega da un fabbricante di ghette perché provvedesse al mantenimento della famiglia: aveva undici anni e aveva appena terminato la scuola Talmud Torah.7 Affascinato dal mondo degli attori, nelle ore libere dal lavoro in fabbrica aveva trovato occupazione come comparsa presso la compagnia di Goldfaden:
Ogni sera andavo all’albergo di Piazza Krasiński e aspettavo ore fino a quando madame [Berta] Tanzman (nata Berlin) mi sporgeva un pacco di indumenti da portare al teatro Eldorado, dove recitava la compagnia yiddish. In cambio, ottenevo il permesso di assistere allo spettacolo. Per via del mio “ufficio” ho conseguito l’onore di portare i pacchi anche per altri artisti e di prendere parte alle opere storiche di Goldfaden come Bar Kochba, in cui recitavo la parte del leone, e Shulamis, dove facevo la donnola selvatica.8
Queste incursioni nell’ambiente teatrale risvegliarono nel giovane un grande entusiasmo, al punto che si mise a tradurre e adattare in yiddish l’opera ebraica Il re promesso sposo, che il patrigno diede alle fiamme giudicandola impura, e a organizzare una compagnia amatoriale itinerante. La passione per la scena non si interruppe neppure durante gli anni di servizio militare obbligatorio presso l’esercito zarista (1885- 1887), nel corso del quale continuò ad allestire spettacoli in lingua yiddish e russa. Al ritorno a Varsavia, il giovane si unì al teatro yiddish dell’Eldorado, dove conobbe Ester Rokhl, restò colpito dalle sue doti artistiche e nel 1893 ne divenne il marito.
6Come la moglie, anche Avrom proveniva da una famiglia di origini modeste e, con l’eccezione degli anni trascorsi nel cheder, si era formato da autodidatta: lettore appassionato, aveva studiato il tedesco e il francese e, oltre allo yiddish, parlava alla perfezione sia il polacco sia il russo. Probabilmente consapevole di essere un attore di talento mediocre, scelse di dedicarsi alla traduzione in yiddish di testi per la scena e alla composizione di nuovi drammi, con l’obiettivo di accrescere il repertorio della compagnia: tra i suoi maggiori successi figurano L’ebreo polacco e Le peregrinazioni degli attori ebrei.9 Riconosciuto immediatamente il talento di Ester Rokhl, creò una compagnia di cui essa divenne una delle attrici di punta, in grado di conquistare gli spettatori grazie alla presenza magnetica e alla corposa voce da soprano, che veniva valorizzata nelle commedie musicali di Goldfaden. Nonostante la giovane coppia aspirasse a un teatro di più elevata qualità culturale, negli anni Novanta il repertorio della compagnia ruotava ancora attorno ai successi di vent’anni prima: in particolare farse che deridevano l’arretratezza della società ebraica e melodrammi ambientati nell’antichità ebraica, basati sui testi di Goldfaden e sui rifacimenti di Kaminski delle opere di Shomer,10 popolare drammaturgo considerato emblema del genere “spazzatura” (shund).
7Il termine shund era stato coniato dagli intellettuali ebrei per indicare in maniera sprezzante gli spettacoli yiddish “leggeri”, che mescolavano in modo anarchico i generi mettendo in primo piano canzoni e balli, a scapito di qualsiasi coerenza drammaturgica e strutturale. Questi spettacoli prossimi al varietà, eterogenei e spesso di qualità scadente, presentavano forti contaminazioni con le tradizioni popolari rumene, russe, polacche e con le forme spettacolari americane, a contatto con le quali erano nati. I personaggi erano cuciti addosso agli attori protagonisti, considerati veri e propri divi, e non presentavano caratteristiche a tutto tondo; spesso si esprimevano in uno yiddish maccheronico, in daytshmerish (un ibrido tra lo yiddish e il tedesco) o in yinglish (miscela di yiddish e inglese). Lo shund proponeva anche ambientazioni esotiche come l’antica Palestina o la Spagna del xvi secolo, in cui i personaggi dialogavano in maniera enfatica e con un lessico stilizzato sul modello biblico. Gli spettatori comuni apprezzavano questo passatempo e ne ricavavano l’impressione che nobilitasse la loro parlata yiddish, mentre gli intellettuali e gli artisti più esigenti continuavano a stigmatizzare quelle che consideravano espressioni artistiche degradate. A loro avviso si trattava di una piaga che metteva in pericolo la crescita della cultura yiddish perché la collettività ebraica, che spesso (ma non sempre) conosceva la lingua del paese in cui viveva, cercava nei teatri locali opere ambiziose e guardava al teatro ebraico come a un intrattenimento triviale. A dispetto delle critiche, lo shund rimase il genere dominante sulla scena teatrale a cavallo tra i due secoli, pur coabitando con felici eccezioni come il teatro stabile yiddish fondato da Yankev Ber Gimpel a Leopoli, dove, oltre a riviste e operette, trovarono posto i più grandi drammi europei: Giulio Cesare e Il mercante di Venezia di Shakespeare, I masnadieri di Schiller, Il revisore di Gogol’ e il “nuovo classico” yiddish Uriel Acosta di Karl Gutzkow.
8Il 7 agosto 1883 un decreto zarista emanato in risposta all’assassinio di Alessandro ii aveva proibito l’allestimento di spettacoli in lingua yiddish in tutto l’impero russo, ma questo provvedimento non riuscì a frenare gli artisti itineranti del teatro yiddish. Se molti scelsero di emigrare nel Nuovo Mondo, soprattutto a New York, i Kaminski decisero invece di rimanere in Europa, continuando a spostarsi tra diversi territori con una compagnia che aveva assunto l’appellativo di «Teatro tedesco dell’opera, dei drammi e delle commedie». Furono anni molto duri per la giovane coppia e i loro compagni, costretti da una parte a ingannare i censori russi fingendo di recitare in tedesco e a portare in scena un miscuglio linguistico (camuffamento in cui sembra che Kaminski eccellesse) e dall’altra parte a difendersi dai rappresentanti dell’ortodossia ebraica, che consideravano il teatro una profanazione.
9Anni contraddistinti da uno stile di vita nomade e sempre sulle soglie della miseria, che si ripercosse duramente soprattutto su Ester Rokhl, costretta a fronteggiare numerose gravidanze, malattie e aborti in condizioni estremamente precarie, aggravate peraltro dai tradimenti del marito. Nel corso di dodici anni di tournée per la Russia e il Regno del Congresso, la donna diede alla luce sette figli, ma soltanto tre di essi sopravvissero: Regina (1894), Ida, nata nel 1899 durante una fortunata tournée a Odessa nel pensionato Teatralnaja Gostnica, e Yosef (1903). Per oltre un decennio Ester Rokhl fu sempre una donna in attesa o intenta ad accudire i figli, senza mai cessare di essere anche un’attrice e un punto di riferimento artistico e umano per i membri della sua troupe.11 Prima ancora di passare alla storia come «la madre del teatro yiddish», Ester Rokhl era infatti già identificata con l’epiteto di madre da molti spettatori e da tutti i membri della compagnia, compreso il marito:
Mio padre la chiamava sempre Mame. Non l’ha mai chiamata con il suo nome. I fratelli e le sorelle la chiamavano Rachel o, quando le si rivolgevano in russo, Ester Yefimovna (al che mia madre rispondeva: «Guai se mio padre Haim Yohanan sapesse di essere chiamato Yefim!»). Ma tutti gli altri la chiamavano Ester Rokhl. […] Tutti questi nomi le si addicevano […]. Mame, però, era quello più appropriato. Purtroppo, nel teatro yiddish il termine Mame è inestricabilmente connesso a un teatro di livello mediocre, spesso al melodramma di bassa lega. Ma questa caratteristica non aveva nulla a che fare con Ester Rokhl. Essa era Mame non solo in virtù della sua sensibilità, ma anche nel comportamento e in tutta la sua persona.12
La scelta dell’appellativo Mame era dunque qualcosa in più di una semplice espressione d’affetto o di una convenzione linguistica: la presenza stessa di Ester Rokhl evocava un sentimento di «calore umano e familiarità»13 che trovava una precisa corrispondenza scenica in una recitazione «intima e penetrante» ,14 lontana dalle pose e dai patetismi così diffusi all’epoca. La stretta relazione tra la dimensione familiare e l’esperienza performativa si impresse profondamente nel carattere di Ida Kaminska, che considerò sempre la madre il primo e più importante modello artistico e il teatro «una faccenda di famiglia», dal momento che «la famiglia e l’arte erano concetti pressoché coincidenti» .15 Avremo modo di approfondire questo tema, di capitale importanza, nelle prossime pagine. Va tenuto conto però che la composizione familiare delle compagnie era una caratteristica comune nel panorama teatrale europeo a cavallo tra xix e xx secolo e che la solidarietà tra membri della stessa famiglia consentiva agli artisti di contrastare le difficoltà economiche e la precarietà della vita nomade.
10Paradossalmente, il ventennio di interdizione zarista impresse un’accelerazione allo sviluppo della cultura yiddish moderna sul versante letterario, soprattutto grazie al contributo di Mendele Moykher Sforim, Sholem Aleichem e Yitskhok Leybush Peretz, che crearono e diffusero una lingua yiddish “alta”. Dal punto di vista del repertorio teatrale, si trattò invece di un periodo di stallo e regressione, dominato dallo shund di stampo americano. La rivoluzione russa del 1905 inaugurò una nuova epoca per il teatro yiddish, che da quel momento riacquistò il diritto alla propria lingua e trovò un nuovo partner culturale: la stampa. Da un giorno all’altro, Varsavia divenne la capitale della cultura yiddish moderna. In città si diffusero ben cinque quotidiani in lingua yiddish con una tiratura di centomila copie (destinata in breve a raddoppiare), che seguivano e commentavano regolarmente la vita teatrale, e aprirono case editrici yiddish, che iniziarono a pubblicare e rendere disponibili su vasta scala i drammi provenienti dagli Stati Uniti.
11Avrom Kaminski fece ritorno in città per approfittare della mutata atmosfera e per primo riuscì a strappare alle autorità russe il permesso di allestire spettacoli in lingua yiddish. Dal maggio del 1905 si stabilì con la propria troupe16 al Jardin d’Hiver di via Chmielna, uno dei molti teatri all’aperto della città, poi al teatro Bagatela nella via omonima e in seguito al teatro Elizeum di via Karowa 18, che poteva ospitare circa cinquecento spettatori. Per Ester Rokhl era l’occasione di coronare il sogno di un luogo di lavoro stabile, in cui elaborare progetti più duraturi, vicino al quale vivere e in seno al quale consolidare una compagnia permanente a base familiare. All’ensemble si unirono due sorelle – Rivka, che divenne responsabile della cura dei figli durante le frequenti tournée di Ester Rokhl (e per questo occupa un posto di rilievo nelle memorie di Ida) e Keyle, addetta all’amministrazione teatrale e ai costumi – mentre andarono a infoltire le schiere degli attori due nipoti e il marito di una di esse, la figlia maggiore della coppia, Regina, all’epoca undicenne, e la piccola Ida.
12La quotidianità della vita di troupe nella quale crescevano i figli degli artisti prevedeva che durante gli spettacoli i bambini stessero pazientemente nascosti dietro alle quinte fino a quando non raggiungevano l’età in cui potevano fare il loro ingresso sulla scena. Per Ida il debutto al fianco della madre avvenne all’età di cinque anni: l’opera era La madre di Dovid Pinski17 e la bambina impersonava il nipotino Siomke, ruolo che fino a poco prima era stato della sorella. Da quel momento Ida interpretò tutti i personaggi infantili del repertorio dei genitori, lavorando anche come suggeritrice, siparista e addetta alle luci e appassionandosi progressivamente alla cura di ogni aspetto legato alla messa in scena. Qualche tempo dopo, sempre all’età di cinque anni, anche il più piccolo dei fratelli Kaminski compì il suo debutto artistico come violinista.
1.2. La scelta dello yiddish
13Nel periodo in cui Ida si affacciava sulle scene, il drammaturgo e attivista culturale Yitskhok Leybush Peretz18 si faceva capofila di una polemica centrale per lo sviluppo della cultura teatrale yiddish della prima metà del Novecento. Peretz si scagliò contro gli artisti del teatro yiddish professionale, accusandoli di produrre spettacoli triviali e di cattivo gusto, incatenati alla tradizione del purimshpil, incapaci di riflettere le aspirazioni estetiche e morali della collettività ebraica e di tenere il passo con le coeve esperienze del teatro europeo, ad esempio quella di Stanislavskij in Russia o di Witkiewicz in Polonia. La sua lotta a favore di un teatro più nobile e letterario, in grado di incarnare anche le aspirazioni nazionalistiche del popolo ebraico, mobilitò un gruppo di giovani intellettuali, tra cui Alexander Mukdoyni e Noah Pryłucki, a formarsi come critici teatrali e ne spinse altri a creare compagnie teatrali amatoriali.
14Anche la compagnia dei Kaminski rispose all’invito di Peretz a rinnovare le proprie ambizioni per un teatro yiddish moderno, raffinato e cosmopolita, con un’attenzione fino a quel momento inedita per la drammaturgia. In società con Mark Arnshteyn, artista di cui si tratterà diffusamente nel prossimo capitolo, i coniugi Kaminski cominciarono a portare sulle scene le opere dei padri della letteratura yiddish, Sholem Aleichem e Peretz, ma anche di autori stranieri come Gorkij, Ibsen e il drammaturgo simbolista Stanisław Przybyszewski. Arnshteyn, insieme ad Avrom Kaminski o secondo altre fonti in maniera indipendente, aveva fondato anche una Literarishe Trupe – esperimento analogo a quello condotto a Odessa, negli stessi anni, dal drammaturgo Peretz Hirshbein e dall’attore Jacob Ben-Ami – ma l’ambizioso progetto si era inabissato per la concorrenza con operette di minore caratura artistica e maggiore attrattiva. La compagnia dei Kaminski, invece, riuscì a sopravvivere perché Avrom si rivelò un impresario e organizzatore astuto e non ripudiò mai del tutto le commedie leggere e le operette che gli garantivano l’affetto del pubblico e un sicuro introito.
15Queste scelte gli costarono la disapprovazione di coloro che aspiravano a nobilitare la produzione artistica yiddish e che si trovarono, paradossalmente, a unire la propria voce a quella di coloro che osteggiavano tout court la lingua yiddish. Un redattore del settimanale «Izraelita», organo d’informazione degli ebrei assimilati, giudicò ad esempio affascinanti le musiche di Shulamis, figlia di Gerusalemme, della compagnia Kaminski, ma tacciò il libretto di ingenuità nei contenuti e povertà linguistica, aggiungendo di disapprovare la scelta di «nobilitare la lingua yiddish condendola con il sugo annacquato del tedesco» .19 Da questa recensione si evince che il fenomeno di pasticciare la lingua yiddish (dotata di un lessico limitato) non si limitò al periodo in cui era necessario camuffare la recitazione per evitare la censura, ma rimase per qualche tempo un’abitudine degli attori, che attingevano al tedesco quando volevano declamare una battuta particolarmente aulica o sentimentale. Se dal punto di vista della drammaturgia e del repertorio c’era ancora chi, a ragione, catalogava le proposte di Avrom Kaminski come espressione dello shund, accadeva però di frequente che gli stessi detrattori restassero soggiogati dalla qualità attoriale di membri della compagnia come Libert, Wajsman e, naturalmente, Ester Rokhl.
Mark Arnshteyn, alfiere del dialogo
Noto con lo pseudonimo Andrzej Marek, Mark Arnshteyn20 era un drammaturgo e regista attivo sia nell’ambiente culturale polacco sia in quello yiddish. Dopo essersi formato presso le scuole ebraiche e polacche, prendendo a modello lo stile del poeta modernista Stanisław Przybyszewski si impegnò nella scrittura di due drammi in polacco a tema ebraico: La favola eterna (1901), incentrato sulla vita della classe lavoratrice, e il più celebre I cantanti (1903), dedicato a un celebre cantore della Vilnius del xix secolo, che avrebbe conosciuto il successo sulle scene dell’opera di Varsavia per poi andare incontro a un triste destino. L’autore tradusse poi entrambe le opere in yiddish ed esse entrarono a fare parte del repertorio di molte compagnie. Ispirato dalla riforma proposta da Y. L. Peretz, collaborò con diversi ensemble – tra cui, come si è visto, quello di Ester Rokhl e Avrom Kaminski – alla ricerca di nuove strade per il teatro yiddish, estendendo la propria ricerca registica anche al campo cinematografico. Tra il 1912 e il 1924 fu attivo in Russia, Inghilterra e in America. Al ritorno in Polonia, si concentrò sulla traduzione e sull’allestimento di drammi yiddish per la scena polacca. Prigioniero del ghetto di Varsavia durante la Seconda guerra mondiale, proseguì la propria opera culturale anche tentando (invano) di fondare un teatro per bambini. Sopravvissuto all’Insurrezione del ghetto, fu ucciso poco dopo. Amico dei Kaminski, Mark Arnshteyn fu l’artista teatrale che più si spese per animare il dialogo tra la cultura polacca e quella ebraica, ad esempio attraverso la traduzione di alcuni drammi yiddish in polacco. In generale, durante l’epoca di interdizione zarista, si era diffuso l’uso di tradurre le opere yiddish e inserirle nel repertorio dei teatri polacchi, a Varsavia come nelle cittadine della provincia. In un periodo in cui si andava rafforzando il processo di assimilazione della minoranza ebraica (attestato dal fatto che sempre più bambini ebrei frequentavano le scuole polacche), questi spettacoli riscuotevano un notevole successo. Il fenomeno era a tal punto esteso da indurre lo studioso Michael Steinlauf a osservare che «se il teatro yiddish non fosse stato rilegalizzato nel 1905 di sicuro sarebbe nato un teatro yiddish in lingua polacca».21
Dal punto di vista della lingua, le strade percorse da Arnshteyn e dalla famiglia Kaminski divergevano profondamente. Nonostante la vita quotidiana si svolgesse in una condizione di plurilinguismo – in un’intervista Ida ricorda infatti di avere frequentato il ginnasio russo, di avere appreso il polacco soltanto dopo l’indipendenza e di avere sempre parlato yiddish in casa, su esortazione dei genitori22 – i Kaminski non presentarono mai spettacoli in una lingua diversa dallo yiddish, perché erano convinti che avrebbe significato tradire la natura stessa del teatro, indissolubilmente legato a quella lingua e alla sua qualità ibrida e magmatica. Da una parte, infatti, lo yiddish era il collante principale di quei tre milioni di individui che in Polonia avevano creato «un proprio mondo, unico sotto il profilo delle tradizioni, della spiritualità e della filosofia […] verso il quale erano diretti gli occhi degli ebrei di tutto il mondo […] e anche dei non-ebrei»23 e sanciva così l’appartenenza a un corpo comune; dall’altra rimaneva una lingua meticcia (contemporaneamente europea e semitica), impura, in aperta rivalità con l’altra lingua identitaria, l’ebraico, e oggetto di rifiuto da parte di chi la considerava simbolo della miseria del ghetto. Nel rapporto con l’esterno, ciò si traduceva in una condizione di marginalità e apertura che ebbe esiti linguistici e culturali di grande interesse: la lingua yiddish tracciava innegabilmente un confine, ma al contempo rappresentava «un punto di passaggio – non di fusione – fra due culture».24 Come osservò acutamente Franz Kafka, si tratta di un idioma che «non trova pace»,25 dalle forme nervose e musicali, il cui principio non è rinvenibile nell’ordine e nell’individuazione, ma nel movimento e nella metamorfosi.26 La struttura grammaticale instabile e la vocazione della lingua yiddish a trascendere le forme per aprirsi a una comunicazione più vasta dava vita a «una curiosa dialettica linguistica, grazie alla quale la chiusura si trasformava in apertura, il carattere nazionale in carattere internazionale, l’arcaicità in modernità».27
16I Kaminski e gli artisti che, come loro, si dedicarono esclusivamente al teatro yiddish, non avrebbero potuto rinunciare al confronto dialogico con l’alterità inscritto in questa lingua e alla sua forza agglutinante perché ciò avrebbe comportato rinunciare a uno spazio immateriale eppure essenziale per il popolo ebraico della diaspora: quello di un territorio che, come dice Hannah Arendt, «non si riferisce tanto a un pezzo di terra, quanto allo spazio che c’è tra individui che formano un gruppo, individui legati uno all’altro (ma allo stesso tempo separati e protetti) da molte cose che hanno in comune: lingua, religione, storia, usanze, leggi».28 Come avvenne per altre manifestazioni teatrali espressioni di un’identità collettiva minoritaria o avversata, quale ad esempio quella polacca all’epoca delle spartizioni, e come accadde a teatri dialettali come quello napoletano (al quale non a caso è stato paragonato), anche il teatro yiddish generò uno straordinario coinvolgimento tra attori e spettatori, che si sentivano uniti da un profondo legame comunitario e compartecipi di uno spazio di confronto. Tale spazio era modellato da una lingua incomprensibile o comunque inaccessibile a chi proveniva dall’esterno – recita un motto che un non ebreo che parla yiddish è un controsenso come una gallina che canta29 – e da personaggi per mezzo dei quali prendeva forma un’esperienza collettiva, che a più di un osservatore ricordava la dimensione religiosa e ritualistica del teatro antico, smarritasi con l’avvento del teatro borghese.30 Nello spazio creato dal teatro yiddish i problemi della moderna comunità ebraica – conflitti generazionali, sradicamento e, soprattutto, allontanamento dall’ortodossia – divenivano materiali sui quali lavorare insieme e liberamente, accogliendo spinte differenti come il sublime e il terragno, il realismo e il grottesco. Viceversa, da tale messa in discussione dell’uniformità della “famiglia” ebraica e dal confronto con altre entità culturali trasse nutrimento il lavoro degli artisti di teatro, per i quali questa lingua ibrida e «intrisa di carnevalesco »31 non fu solo il veicolo delle battute di un personaggio, ma il principio informatore dell’itinerario di conoscenza di se stessi attraverso l’altro che costituisce l’essenza del lavoro dell’attore. A breve sottoporremo a verifica quanto esposto finora osservando i membri della famiglia Kaminski all’opera grazie ad alcuni, imprescindibili, documenti audiovisivi.
1.3. Il Teatr Kaminski
17Prima, però, torniamo alla Fareynikte trupe (La troupe unita),32 l’ensemble guidato da Avrom Kaminski che – a differenza di altre celebri compagnie come quella dei Kompaneyets e dei Fishzon – attorno al 1906 aveva trovato una certa stabilità a Varsavia e si avviava a diventare un punto di riferimento per il movimento culturale yiddishista. A casa Kaminski, infatti, venivano spesso ospitate serate di discussione con scrittori e intellettuali yiddish del calibro di Peretz, Sholem Asch,33 Yankev Dinezon,34 David Frischman35 e Mordkhe Spector;36 e proprio in occasione di uno di questi incontri serali fu letto un dramma di Jacob Gordin, autore che avrebbe impresso una svolta decisiva al percorso della compagnia e in modo particolare alla carriera di Ester Rokhl. L’attrice rimase colpita dalla scrittura di Gordin, a posteriori considerato il primo drammaturgo yiddish realista, e da quel momento decise di misurarsi prevalentemente con il suo repertorio: nel 1908 portò in tournée a San Pietroburgo una selezione di opere gordiniane, tra cui Il macello e Sonata a Kreutzer, che furono molto apprezzate sia dagli spettatori sia dalla critica. Questa felice tournée attestò definitivamente la reputazione di Ester Rokhl Kaminska, che da quel momento in avanti venne sempre più spesso paragonata a Eleonora Duse o invocata con reverenza come la «madre del teatro yiddish». L’attrice attribuì per tutta la vita a Gordin il merito di averla risollevata dalla polvere delle opere di scarsa qualità e di averla elevata al rango di artista, consentendole di confrontarsi con personaggi più ambiziosi e complessi. Dalla passione per Gordin – che Ester Rokhl condivideva con Ida – nascerà una delle più belle creazioni del teatro yiddish: Mirele Efros, la matrona orgogliosa dal cuore materno in cui eccelleranno due generazioni di Kaminski e che la terza generazione tenterà, invano, di riportare in vita nell’America degli anni Ottanta. Come dimostreremo nel prossimo capitolo, tanto per Ester Rokhl quanto per Ida, Mirele Efros fu qualcosa di più di un ruolo ben scritto: divenne un imprescindibile riferimento artistico e un solido punto di contatto con gli spettatori.
18Alla lunga tournée pietroburghese di Ester Rokhl aveva preso parte anche Ida, che all’epoca aveva nove anni, e il successo ottenuto l’aveva convinta a scegliere di dedicarsi esclusivamente al teatro, rinunciando a proseguire in modo regolare il percorso scolastico (che comunque riprenderà in seguito). Non bisogna tuttavia credere che la scelta di Ida fosse stata bene accolta dai genitori: sostenitori dei principi di emancipazione promossi dall’Haskalah (l’Illuminismo ebraico) e consapevoli della scarsa educazione che avevano ricevuto, Avrom e Ester Rokhl conferivano allo studio una grandissima importanza. Alcuni decenni più tardi, Ida ricorderà infatti che a casa i genitori, e in particolare il padre «assetato di conoscenza»,37 studiavano in continuazione e che insistevano perché i figli frequentassero la scuola e integrassero la formazione con lezioni private di inglese, francese, ebraico e di pianoforte.38
19Con il passare degli anni, però, nella vita della giovane Ida si faceva sempre più spazio un percorso educativo parallelo, quello teatrale maturato in seno alla famiglia. Una leggenda narra che lo stesso Peretz l’avesse notata mentre recitava da bambina e che avesse osservato che sembrava essere «nata sulla scena».39 A un intervistatore che, all’inizio degli anni Settanta, le domandava se avesse ricevuto un’educazione ebraica formale, Ida rispose di no, che per lei l’educazione era sempre stata legata al teatro yiddish: a un processo di autoformazione (e poi di formazione altrui) nato dall’osservazione e dall’imitazione di ciò che la circondava, anzitutto la madre. Ester Rokhl era una delle prime attrici yiddish «a proporre una recitazione realistica e introspettiva»,40 che si traduceva in una radicale estraneità alla finzione e all’utilizzo di facili espedienti scenici. Secondo Ida, era sufficiente confrontare le fotografie della madre con quelle di altri attori del tempo per rendersi conto di come essa fosse «naturale e semplice, perché lontana dal patetismo e dalle pose».41
20La libertà della famiglia Kaminski nell’accostarsi alle pratiche religiose non minava tuttavia in alcun modo la percezione di un’identità, anche spirituale, ebraica: «I miei genitori erano ebrei zelanti, rispettavano le feste del Seder e dello Yom Kippur. Anche se mio padre non pregava, sapevamo perfettamente di essere ebrei: lo sentivamo e lo sapevamo».42 Quando lo stesso intervistatore le domandò se andassero in scena di sabato e nei giorni festivi, l’attrice rispose con un’altra domanda: «Che cosa significa festa?»; e proseguì ribadendo che non andavano in scena durante il Seder (che segna l’inizio della Pasqua ebraica), ma nelle feste settimanali (venerdì sera e shabes) sì, sempre. Ida ricordò inoltre che l’atteggiamento degli ebrei ortodossi nei confronti degli artisti era molto negativo: pur non disturbando gli spettacoli in corso, attraverso le predicazioni in sinagoga esortavano i fedeli a boicottare il teatro, che consideravano particolarmente indecoroso anche per via della partecipazione femminile.43
21A dispetto delle opposizioni del rabbinato, sul territorio polacco il teatro yiddish conquistava sempre maggiore popolarità. A Varsavia, tuttavia, mancava ancora una scena teatrale stabile e, con lo spirito d’intraprendenza che lo contraddistingueva, Avrom Kaminski decise di lanciarsi per primo nell’impresa. Grazie ai proventi della moglie – che sulla scia del successo riscosso a San Pietroburgo era stata due volte in tournée negli Stati Uniti (nel 1908 e nel 1909) – l’appassionato impresario poté impegnarsi nella restaurazione della Rotunda na Dynasach di via Oboźna 1/3. Si trattava di un edificio a pianta circolare costruito nel 1896 per ospitare un enorme dipinto, il Panorama dei monti Tatra, poi divenuto spazio sportivo e sede dell’Associazione dei Ciclisti di Varsavia e infine, nel 1909, trasformato in una sala teatrale a pianta dodecagonale, con pareti decorate in stile eclettico e un soffitto a cupola coronato da un lampadario. All’interno la struttura ospitava una biglietteria, un guardaroba, un buffet e un imponente foyer che dava accesso alla platea e alle balconate, che insieme potevano accogliere fino a milleduecento persone.44 Questo ambiente sfarzoso presentava però due importanti difetti: la scena all’italiana era dotata di una limitata attrezzatura tecnica e la sala presentava un’acustica insoddisfacente.45 Attratto dall’imponenza dell’edificio e in particolare dalla sua ubicazione nell’elegante centro della città, dove abitavano ricche famiglie ebraiche assimilate, Kaminski lo acquistò insieme al cognato Pulman46 e lo sottopose a importanti lavori di ammodernamento. Kaminski prese la decisione di non creare il proprio teatro nel quartiere ebraico contro i suggerimenti degli amici ma con il preciso intento di staccarsi dall’idea di un teatro del ghetto e di offrire «anche agli ebrei con i cappotti e i riccioli laterali un teatro elegante nel cuore della città».47 Non si trattava dell’unico esperimento di questo tipo, dal momento che altre compagnie ebraiche nello stesso periodo recitavano in sedi centrali come i già citati Jardin d’Hiver, Bagatela e Elizeum, ma l’edificio che prese il nome di Teatr Kaminski divenne il più grande teatro di Varsavia e un punto di riferimento per il mondo teatrale ebraico. Nonostante gli sforzi economici profusi, il Kaminski rimase tuttavia una struttura inadatta ad accogliere spettacoli teatrali a causa della visibilità dalla platea non sempre ottimale e della pessima acustica, che costringeva gli attori a sforzare la voce per farsi sentire.
22Nel 1913 il Teatr Kaminski fu inaugurato da Mirele Efros, a cui presero parte sia Ester Rokhl sia Ida, e il dramma rimase in cartellone per i successivi due anni, un evento del tutto eccezionale per l’epoca. Pur costituendo il maggiore richiamo del teatro, Ester Rokhl era tuttavia spesso impegnata in tournée che la portavano lontano da Varsavia e la rendevano quasi un’ospite in casa propria;48 per riempire la sala e non fare fallire la propria impresa privata, Avrom si trovò perciò costretto ad accogliere altri artisti in voga e a sostituire i drammi con le più popolari operette, sacrificando progetti artistici a necessità di tipo economico. Nonostante tutte queste difficoltà fu in buona misura grazie a lui che in quegli anni il teatro yiddish divenne, insieme alla stampa, il più importante organismo della cultura ebraica orientale.
23Nello stesso anno in cui Avrom Kaminski fondava il suo teatro yiddish nel cuore della capitale, un altro imprenditore ebreo – il trentunenne galiziano Arnold Szyfman (in origine Schiffman) – portava a compimento l’ambizioso disegno di creare un teatro polacco nazionale e moderno dal punto di vista del repertorio, della regia, della recitazione e dell’apparato scenotecnico.49 A distanza di poche vie dalla Rotonda di Kaminski fu eretto il Teatr Polski, la prima scena nazionale polacca sotto l’occupazione russa e il più grande e innovativo teatro di Varsavia, in grado di competere con i migliori d’Europa. Per realizzare il proprio progetto Szyfman si era convertito al cattolicesimo e aveva avviato una raccolta fondi senza precedenti, radunando attorno a sé l’élite della società polacca, composta da aristocratici, nobili di campagna, industriali e letterati; Kaminski, nel frattempo, andava accumulando una serie di debiti e quando, allo scoppio della Prima guerra mondiale, i russi impedirono nuovamente le rappresentazioni in lingua yiddish (oltreché polacca), si trovò costretto a dare in affitto il teatro a una compagnia russa.
24Oltre a segnare un momento importante nella storia del teatro yiddish in Polonia, il 1913 fu anche l’anno in cui la famiglia Kaminski fu scossa dalla tragedia della morte di Regina, la figlia diciannovenne di Avrom e Ester Rokhl. Promettente attrice, da poco sposatasi con Herman Wajsman, un attore della compagnia dell’età del padre, a settembre la sorella maggiore di Ida morì a causa di una malattia al fegato, lasciando il resto della famiglia in uno stato di profonda prostrazione. Della carriera di Regina non ci rimangono molte testimonianze ma sappiamo che prese parte, insieme agli altri membri della famiglia Kaminski, alle prime fasi della cinematografia ebraica in Polonia.
Alla sera sul palco, al mattino sul “set”
La vicenda del cinema yiddish è oggetto del secondo volume di questa serie, al quale si rimanda per informazioni più dettagliate sulle singole pellicole citate. Poiché si tratta di un argomento poco noto mi sembra tuttavia utile offrire al lettore qualche dato, in relazione con il contesto polacco e con la storia della famiglia Kaminski. Anzitutto si deve considerare la difficoltà a definire con precisione il cinema ebraico o yiddish degli esordi: all’inizio del secolo, in Polonia, era infatti impossibile separare nettamente cinema ebraico e polacco perché l’industria cinematografica si trovava quasi interamente nelle mani di produttori ebrei e gran parte dei registi, attori e operatori era di origine ebraica. È sintomatico, ad esempio, che il più antico reperto cinematografico polacco conservatosi sia un frammento della pellicola Meir Ezofowicz50 e ancora più significativo forse che il primissimo film di finzione, La cultura prussiana (1908), sia stato prodotto dall’ebreo di origini russe Mordka Towbin.51 Questa massiccia presenza della minoranza ebraica nel settore cinematografico potrebbe spiegare come mai, nel ventennio tra le due guerre mondiali, in Polonia non fu prodotto alcun film antisemita.52
Negli anni Dieci Varsavia era diventata un importante centro di produzione cinematografica e anche la geografia della città si stava adattando alla rivoluzione portata dalla settima arte; attorno al 1913 la città contava circa ottocentocinquantamila abitanti e possedeva numerosi teatri, ma la popolarità del cinema cresceva rapidamente: se nel 1908 Varsavia poteva contare su circa venti-trenta sale cinematografiche, tre anni più tardi avevano già superato la sessantina.53 Una delle ragioni per cui gli artisti yiddish europei si dedicarono con tanto entusiasmo alle sperimentazioni cinematografiche fu che, nel 1910, il teatro yiddish era stato di nuovo bandito: anche se il divieto veniva perlopiù ignorato nelle grandi città, favorì la ricerca di nuove strade per esprimere la performatività yiddish.54
Le informazioni relative ai film di questo periodo sono frammentarie e contraddittorie perché ogni materiale dell’epoca è andato disperso, ma è certo che tra i protagonisti delle prime produzioni cinematografiche vi furono Mark Arnshteyn, nei panni di sceneggiatore e regista, e Avrom Kaminski, in quelli di regista e attore. Tutti i film a cui presero parte erano prodotti dalla Siła,55 a cominciare da Il padre crudele, una versione filmata da Arnshteyn e interpretata da Ester Rokhl del melodramma che in quel periodo andava in scena al Teatr Kaminski e che fu realizzata collocando semplicemente una macchina da presa in platea per riprendere l’azione che si svolgeva sul palco; cui seguirono Il misero assassino/L’idiota, diretto da Avrom su un soggetto di Gordin; Mirele Efros, interpretato da tutti i membri della famiglia Kaminski (ad eccezione del piccolo Yosef); I diseredati e il faustiano Dio, l’uomo e il diavolo diretti da Avrom nel 1912, anno in cui prese parte anche a una delle due versioni cinematografiche del popolarissimo dramma L’orfana Chasie, un appuntamento fisso anche nel repertorio dei Kaminski. Dopo il fallimento della Siła, le pellicole successive furono prodotte dalla Kosmofilm,56 che proseguì la politica del predecessore producendo film ispirati ai drammi che andavano in scena a teatro. Si trattava perlopiù di storie familiari di stampo melodrammatico, ambientate in Russia o negli Stati Uniti, che avevano per protagoniste donne che agivano in qualche modo fuori dal perimetro convenzionale cui solitamente erano destinate e che per amore diventavano adultere, prostitute e perfino assassine. Le scene mute erano collegate tra loro da brevi riassunti, e poiché questi film riscuotevano molto successo tra il pubblico, i testi furono tradotti anche in polacco in modo da risultare comprensibili anche per gli spettatori che non capivano la lingua yiddish. Grazie a questo successo, le pellicole si diffusero in tutte le comunità ebraiche sparse per il mondo. Tra i film che coinvolsero a vario titolo i Kaminski figurano: Hertsele Meyukhes (noto anche con il titolo polacco La maledizione fatale); La bigamista; Il castigo di Dio, Lo sconosciuto e La figlia del cantore – tre film del 1913 con protagonista Regina; Il macello; La matrigna; La figlia diseredata; La famiglia Cwi, e una nuova versione della Bigamista, che aveva per protagonista Ida Kaminska.
La corrispondenza tra soggetti teatrali e cinematografici e la trasposizione sul set di pratiche prettamente teatrali rimasero a lungo una caratteristica saliente del cinema yiddish. Secondo la testimonianza dell’attore Izrael Arko, gli spettacoli proposti la sera in teatro venivano riallestiti il mattino seguente sul palco in modo da essere filmati, mentre le scene all’aperto venivano girate in tutta fretta per sfruttare al meglio la luce naturale; un regista come Mark Arnshteyn esigeva poi che, sebbene il film fosse muto, gli attori recitassero comunque ad alta voce le battute del dramma, per conferire ulteriore realismo alla recitazione. A prima vista stupisce che una mole così imponente di film trovi scarso riscontro nelle memorie di Ida, ma la spiegazione risiede nel fatto che queste prime esperienze cinematografiche non venivano percepite come un lavoro differente da quello svolto sul palcoscenico: a essere precisi si trattava, in effetti, di trasposizioni in pellicola di spettacoli teatrali.
2. Il debutto di Ida
25Allo scoppio della Prima guerra mondiale l’Impero russo aveva messo nuovamente al bando gli spettacoli in lingua yiddish. La notizia raggiunse Ester Rokhl mentre si trovava in tournée a Odessa con la figlia ma, nonostante le numerose riserve personali e l’opposizione di un’eminenza della cultura yiddish come Mendele Moykher Sforim,57 la madre del teatro yiddish si convinse a fare un’eccezione e a portare in scena una lingua differente per arginare la grave situazione economica in cui versava la famiglia.
26Fin dai primi giorni del conflitto la Polonia divenne il principale teatro delle operazioni belliche: sul suo territorio si scontrarono gli eserciti delle tre potenze che un secolo prima si erano spartite la Repubblica polacca e i polacchi si trovarono arruolati negli eserciti di Germania, Austria e Russia, costretti a combattere gli uni contro gli altri e coinvolti in un conflitto che era loro del tutto estraneo. Quando l’esercito tedesco entrò a Varsavia costringendo i russi a ritirarsi nei quartieri oltre la Vistola, per gli artisti yiddish si profilò uno scenario inaspettatamente favorevole. Nella città occupata i teatri rifiorirono, trovando nei soldati tedeschi – che amavano il teatro e avevano le risorse per pagarsi il biglietto, ma non capivano la lingua polacca – un nuovo pubblico.
27Nel 1916 Ida compì il suo debutto adulto da attrice interpretando il ruolo di Isacco nell’operetta di Goldfaden Il sacrificio di Isacco, scelta dal padre per la riapertura del teatro di famiglia.58 Il successo ottenuto con la commedia musicale la spinse a seguire, per un breve periodo, questa strada, interpretando ragazzi e ragazze chassidici e americani in banali produzioni di puro intrattenimento farcite di canzonette prive di senso. Per avere successo erano sufficienti una bella presenza, una voce chiara e versata nel canto: la giovane Ida aveva tutte queste qualità e in breve divenne assai popolare. Del resto la musica era sempre riecheggiata in casa Kaminski e aveva naturalmente integrato l’educazione teatrale di Ida. La madre, poi, l’aveva da sempre spinta a studiare canto e pianoforte per non dover dipendere unicamente dal mestiere d’attrice e Ida aveva preso l’abitudine di accompagnare il fratello, violinista e autentico bambino prodigio, al pianoforte e con il canto. La mancanza di un’adeguata preparazione vocale e la necessità di sforzare la voce per supplire alla scarsa acustica della sala teatrale del padre l’avrebbero tuttavia portata, nel tempo, a rovinarsi le corde vocali.
2.1. In cerca della propria strada
28Ben presto però Ida si accorse che il repertorio operettistico non le offriva alcuna possibilità di maturazione artistica e decise di abbandonare il genere per cercare la propria strada nel teatro. In quel periodo il padre stava allestendo uno spettacolo tratto dall’Uriel Acosta, con Ester Rokhl en travestie e Ida a interpretare il principale ruolo femminile: «il personaggio di Yehudis fu un punto di svolta nella mia vita. Fu allora che decisi di smettere di lavorare nell’operetta».59 Questa esperienza spinse Ida a individuare che cosa non funzionasse nel vecchio teatro yiddish: da principio si dedicò alla revisione dei testi, nel tentativo di epurarli da incongruenze ed elementi di scarso valore artistico, ma in breve giunse a consigliare e dirigere gli attori più anziani, compresi i propri genitori. Incoraggiata da Avrom e Ester Rokhl, si mise al lavoro per tradurre dal francese e portare in scena La vergine folle di Henry Bataille e – da quel momento in avanti nella duplice veste di regista e attrice – entrò a fare parte a pieno titolo del rinnovato ensemble della madre. Alla nuova compagnia di Ester Rokhl, ormai svincolata dai progetti del marito, si erano uniti artisti giovani e con maggiore istruzione: tra essi spiccava per talento Zygmunt Turkow, che nell’arco di pochi anni sarebbe entrato a fare parte a pieno titolo della famiglia Kaminski.
29Tra il 1916 e il 1917 la compagnia guidata da Ester Rokhl e Ida Kaminska fu impegnata in una lunga tournée per i territori polacchi occupati dalla Russia, che comprendevano centri con importanti comunità ebraiche come Vilnius, Białystok, Lublino e Rovno, nelle quali gli artisti potevano fermarsi e proporre gli spettacoli per diverse settimane. In questa fase il repertorio della compagnia includeva quasi tutti i drammi di Gordin – nella maggior parte dei quali Ida recitava il ruolo della rivale della madre – ma anche drammi non ebraici come I giorni della nostra vita di Leonid Andreev, Spettri e Casa di bambola di Henrik Ibsen. Nel maggio del 1917 la compagnia delle Kaminski giunse a Lublino, dove nell’arco di una settimana presentò almeno quattro spettacoli – Il macello, Mirele Efros, L’orfana Chasie e Nora – tutti accolti con grande entusiasmo. Il settimanale «Myśl Żydowska» (Pensiero ebraico) dedicò al lavoro dell’ensemble ampi articoli e recensioni, che fanno intendere con quale attenzione l’intellighenzia ebraica seguisse gli sviluppi del teatro yiddish.60 In merito all’allestimento di Nora, andato in scena al Teatro Panteon, il critico Józef Dunkelblum prese in esame sia la traduzione del dramma ibseniano, sia il lavoro degli attori, concentrandosi in particolare su quello della giovane Ida, che interpretava la protagonista. A giudizio del recensore, dal punto di vista linguistico l’adattamento yiddish non affondava appieno nel nucleo del dramma, anche a causa dell’utilizzo eccessivo di espressioni tedesche in luogo di termini yiddish ben più pregnanti, ma questi difetti perdevano consistenza in virtù del dettato di Ester Rokhl: «Quando ascoltiamo il fluire del suo jargon scenico ci diventano più cari i suoni di quel mame-loshn che rinneghiamo e del quale, purtroppo, ci vergogniamo». Il critico passava poi a commentare l’interpretazione di Ida, fornendoci così la prima descrizione del suo lavoro di attrice:
Ida Kamińska ha talento. Nonostante la creazione di un personaggio così complesso richieda una competenza non comune, una conoscenza scrupolosa dei recessi più profondi della scena, un’intelligenza e un’intuizione artistica straordinarie, si può affermare con sicurezza che ha superato con successo questa prova, portando il carico sulle sue giovani spalle senza soccombere sotto tale zavorra. In verità sono mancate al suo personaggio, soprattutto nelle prime scene, la pura innocenza e la bontà d’animo della bambola, e a tratti dava l’impressione di una donna subdola, cattiva e corrotta, eppure ha avuto molti momenti ottimi. Soprattutto nella scena frivola e capricciosa del gioco con i propri bambini si è rivelata un’artista a tutto tondo. Nell’atto secondo, poi, è stata eccellente. Con profondo gusto artistico ed eccezionale finezza ha reso la sua lotta interiore, al contempo così esteriore, la schiacciante insicurezza, lo smarrirsi nelle congetture, il dibattersi dell’anima tra diritto e responsabilità.61
Dunkelblum proseguiva poi analizzando le imperfezioni vocali di Ida e lanciando un appello affinché la giovane continuasse a lavorare su se stessa non soltanto da autodidatta, ma affidandosi allo sguardo esterno di uno scrupoloso artista-pedagogo.
L’organo un po’ debole della sua voce, privo di una coloritura metallica nell’ultimo atto, quando la bambolina si trasforma in una donna che annuncia parole d’emancipazione, in realtà non funzionava. […] Del talento di Ida Kamińska dovrebbe prendersi cura lo sguardo attento di un regista. La sua recitazione, che si regge su un talento innato, soffre l’assenza di alcuni indispensabili suggerimenti da parte di un artista-pedagogo e di una scuola, in molti casi davvero auspicabile. È un peccato spingere quel talento in acque impetuose, senza un’adeguata preparazione. Lo sguardo vigile della sua grande madre non è sufficiente. Ida Kamińska ha in sé la scintilla del talento concesso dalla grazia divina. Non permettete che questa piccola scintilla resti sotto la cenere. Datele la possibilità di lavorare su di sé affinché da questa scintilla divampi un fuoco, che un giorno illuminerà con un bagliore dorato […] un periodo felice per lo sviluppo del teatro yiddish.62
Nello stesso anno, proprio per approfondire la formazione al di fuori dell’ambiente familiare, Ida decise di trasferirsi temporaneamente a Vienna, dove confidava di maturare qualche esperienza lavorativa in ambito teatrale e cinematografico. La capitale dell’Impero austro-ungarico, ricca di teatri e gallerie d’arte, esercitò un grande fascino sulla giovane attrice; non altrettanto si può dire per il teatro yiddish del quartiere ebraico che, paragonato agli altri teatri di Vienna e Varsavia, produsse in lei un’impressione desolante:
C’era una hall sporca, senza alcuna separazione tra la sala teatrale e il ristorante, dove la gente sedeva e chiacchierava a voce alta durante lo spettacolo. Si sentiva in continuazione la soda spruzzare dai sifoni. Il palco era piccolo e dietro il sipario si intravedeva il suggeritore che, poveraccio, sovrastava con la voce gli attori. Mi avevano riferito che nel gruppo c’erano persone di talento, tra cui Lea Weintraub, ma chi avrebbe mai potuto notarla in una simile cerchia? Feci ritorno a casa dal teatro yiddish in uno stato d’animo cupo.63
Nel 1918, Ida fu raggiunta dalla notizia che il padre si era gravemente ammalato e in tutta fretta si mise in viaggio per tornare a casa senza, purtroppo, riuscire a giungere per tempo: Avrom Kaminski morì in seguito a un attacco asmatico lontano dalla famiglia, a Łomża, una cittadina presso la quale si era fermato in tournée, e lì fu sepolto con molti onori dalla comunità ebraica locale.64
30Tornata definitivamente in Polonia, il sedici giugno del 1918, all’età di diciannove anni, Ida sposò il compagno di scena Zygmunt (Shloyme Zalmen) Turkow. Il giovane proveniva da una famiglia benestante della borghesia ebraica e in lui convivevano un’educazione religiosa di stampo tradizionale e un grande amore per la cultura polacca: «lasciò la casa con l’eredità della yiddishkheyt, ma al contempo amando i poeti nazionali polacchi Adam Mickiewicz, Stanisław Wyspiański e Juliusz Słowacki. Suo padre non voleva che diventasse un attore […] ma [alla fine] non ebbe altra scelta che acconsentire».65 A differenza di molti attori yiddish dell’epoca, Turkow si era formato presso importanti istituzioni artistiche polacche come i Teatri Governativi di Varsavia, l’Associazione Musicale Polacca e a contatto con insegnanti come Wojciech Brydziński e Aleksander Zelwerowicz. Nel 1915, aveva mosso i primi passi sulla scena polacca al Teatr Polski di Szyfman e nel centro guidato dal regista Konstanty Tatarkiewicz.66 Parallelamente, coltivava però la passione per la letteratura yiddish: aveva iniziato a scrivere e a tradurre e si era poi unito a compagnie amatoriali che recitavano in yiddish – sotto l’egida dell’associazione culturale Hazomir, fondata da Peretz – e in ebraico, insieme a Nahum Tsemakh, futuro fondatore della compagnia Habima. Nel 1916 era stato tra gli organizzatori dell’Artistishe Vinkele (Angolo artistico), una compagnia yiddish amatoriale con un selezionato repertorio letterario di atti unici; l’anno seguente si era unito alla troupe Kaminski, alla quale sarebbe rimasto legato per oltre un decennio.
31Nonostante le iniziali opposizioni del padre, non solo il primogenito Zygmunt scelse di dedicare la propria vita al teatro, ma seguirono le sue orme anche i due fratelli minori Jonas e Yitskhok Ber (noto anche con lo pseudonimo Grudberg), mentre il quarto fratello Mark, dopo una formazione teatrale e cinematografica, intraprese la carriera di giornalista. Della famiglia facevano parte anche un fratello di nome Khevrl, morto di tifo negli anni della Prima guerra mondiale, e due sorelle gemelle, Rokhl e Leah, che moriranno nel campo di sterminio di Treblinka. Ida ricorda inoltre la figura della madre Turkow, «luce splendente della famiglia […] paradigma meraviglioso della maternità ebraica. Morì nel 1928 e continuammo a fare visita e a decorare la sua tomba, posta accanto a quella di mia madre, fino a quando rimanemmo a Varsavia».67
I fratelli Turkow
Tutti e quattro i fratelli Turkow si distinsero come importanti attivisti culturali yiddish, dapprima in Europa e successivamente in Israele, negli Stati Uniti e in America Latina.
Zygmunt Turkow, nato a Varsavia nel 1896 e morto (probabilmente) a Tel Aviv nel 1970, fu uno tra i migliori artisti della scena yiddish in Polonia. Dopo avere ricevuto un’educazione ebraica tradizionale, si formò presso scuole laiche e circoli drammatici russi e polacchi, rivelando talento anche per la pittura e la scultura. Dal 1917 cominciò a lavorare con la compagnia Kaminski, condividendo con la famiglia la missione di non confinarsi nella idishe gas (la strada ebraica), ma di portare agli spettatori ebrei tutto il mondo sulla scena. Artista di grande sensibilità, partecipò anche a diversi film yiddish: Il voto (1924), poi ripreso nel 1937, Poveri gioiosi (1937) e L’attore di Purim (1937). Nel 1940 emigrò in Argentina e poi in Brasile, dove partecipò alla fondazione del teatro nazionale. Nel 1952 si stabilì in Israele: qui fondò e diresse la compagnia teatrale ebraica Zuta, fino alla sua dissoluzione nel 1967. Traduttore di drammi dal polacco, dal russo e dal tedesco, coeditore delle pubblicazioni del Sindacato degli attori yiddish in Polonia (Yidisher Artistn-Fareyn in Poyln) e autore di articoli per la stampa yiddish, pubblica anche una collezione di saggi teatrali e tre volumi di memorie: nel primo, intitolato Fragmentn fun mayn lebn. Zikhroynes (Frammenti della mia vita. Memorie, Buenos Aires 1951), ripercorre l’epoca dell’infanzia, gli anni della scuola e le prime esperienze teatrali; nel secondo, Teater-zikhroynes fun a shturmisher tsayt (Memorie teatrali di un tempo turbolento, Buenos Aires 1956), ricostruisce il debutto come attore professionista e i primi anni di lavoro fino al 1920; infine nel terzo, Di ibergerisene tkufe (L’epoca interrotta, Buenos Aires 1961), descrive il periodo tra le due guerre mondiali e il trasferimento in Israele. Jonas Turkow (1898-1988), dopo avere ricevuto una formazione teatrale in Moravia, nel 1915 si unì a una compagnia amatoriale yiddish di Varsavia e poi all’Artistishe Vinkele guidato dal fratello Zygmunt. Successivamente lavorò con Dovid Herman al Teatr Elizeum, poi in un teatro di lingua tedesca e tra il 1917 e il 1920 con la compagnia Kaminski, dove fu responsabile anche dell’organizzazione della tournée nei territori orientali occupati dalla Germania. In seguito organizzò due ensemble itineranti, Dos Baveglekhe Dramatishe Teater (La compagnia teatrale mobile) e Di Yunge Bine (La giovane scena), in cui fu attivo come attore e regista. Dal 1923 al 1925 lavorò con il fratello maggiore al Tsentral Teater. Nel 1926 fu invitato a fare parte del neonato Krokever Yidish Teater (Teatro Yiddish di Cracovia), in cui propose un repertorio di opere yiddish classiche e contemporanee, ma anche drammi europei come Volpone di Ben Jonson (1927), mai recitato prima in yiddish, e due opere del drammaturgo polacco Stanisław Wyspiański, Daniel e I giudici, oltre a pièce espressioniste tedesche di Ernst Toller e Georg Kaiser. Nel 1929 mise in piedi la compagnia Varshever Nayer Yidisher Teater (Nuovo Teatro Yiddish di Varsavia, vnyt), ma senza più contare su alcun sostegno economico. Dal 1932 al 1933 diresse il nuovo Vilner Yidisher Teater (Teatro Yiddish di Vilnius) e la scuola di teatro annessa. Prese parte a produzioni cinematografiche, sia yiddish che polacche: Il voto (1924), Uno dei trentasei Giusti (1925), diresse Nei boschi polacchi (1928). Durante la Seconda guerra mondiale fu fatto prigioniero, insieme alla moglie e attrice Diana Blumenfeld, nel ghetto di Varsavia, dove organizzò spettacoli teatrali e collaborò con la resistenza clandestina. Dopo l’insurrezione si nascose dalla parte “ariana” della città. Nell’ottobre del 1944 fu autore, insieme alla moglie, del primo spettacolo-concerto in lingua yiddish del dopoguerra, intitolato Il canto si è salvato e andato in scena al Teatr Miejski di Lublino. Nel periodo postbellico fu attivo in diverse organizzazioni ebraiche e, tra il 1946 e il 1947, portò gli spettacoli yiddish in giro per i molti campi profughi. Nel 1947 si trasferì a New York, dove lavorò come archivista nel settore teatrale dello yivo. Nel 1966 emigrò in Israele: qui scrisse per la stampa yiddish e fu autore di pubblicazioni sul cinema e sul teatro. Ci ha lasciato una biografia in due volumi sugli artisti del teatro yiddish uccisi durante l’Olocausto e diversi libri di memorie: Yidisher teater in Eyrope tsvishn beyde velt-milkhomes, vol. 1, Poyln (Il teatro yiddish in Europa tra le due guerre mondiali. La Polonia, New York 1968); Vegvayzer far dramatishe krayzn (Guida per i circoli drammatici, Varsavia 1924); Azoy iz es geven: Khurbn Varshe (Così era: la distruzione di Varsavia, Buenos Aires 1948); In kamf farn lebn (Lottando per la vita, Buenos Aires 1949); Farloshene shtern (Stelle spente, Buenos Aires 1953); Nokh der bafrayung (Dopo la liberazione, Buenos Aires 1959).
Yitskhok Turkow (1906-1970), attore, autore di drammi yiddish e traduttore, fu noto con lo pseudonimo Grudberg. Inizialmente studiò agricoltura e lavorò in una fattoria della gioventù socialista in Polonia. Negli anni Venti fece parte di diversi ensemble yiddish come la Vilner Trupe, il vykt, le compagnie del fratello Jonas e il teatrino Azazel. Prese parte al rifacimento sonoro del Voto nel 1937 e al film Una letterina per la mamma (1938). Dopo la Seconda guerra mondiale lavorò presso alcune compagnie yiddish in Polonia fino al 1957, anno in cui decise di emigrare in Israele: qui divenne direttore del Teatro Sholem Asch di Bat Yam. Fu autore di numerose pubblicazioni sul teatro yiddish, molte delle quali edite dalla casa editrice Idish Buch di Varsavia: Yidish Teater in Poyln (Il teatro yiddish in Polonia, 1951), Di mame Ester Rohl (La mamma Ester Rokhl, 1953), Varshe — dos vigele fun yidishn teater (Varsavia, culla del teatro yiddish) e Varshever purim-shpiler (I purim shpiler di Varsavia) del 1956; oltre a monografie su Peretz, Asch, Goldfaden, Gordin, e ai libri di memorie Ojf majn veg (Sulla mia strada, 1964) e Geven a yidish teater (C’era una volta un teatro yiddish, 1968).
Mark (1904-1983), invece, dopo avere studiato teatro e cinema, si dedicò alla carriera giornalistica. Dal 1922 al 1939 lavorò per il quotidiano yiddish di Varsavia «Der moment», collaborando anche con riviste teatrali yiddish e giornali polacchi. In quegli anni curò anche l’edizione delle lettere di Ester Rokhl Kaminska (Briv, Farlag fun B. Kletskin, Vilne 1927). Nel 1939 si trasferì a Buenos Aires, dove ricoprì gli incarichi di direttore dell’hias (Hebrew Immigrant Aid Society) per il Sud America, rappresentante argentino al World Jewish Congress, vicepresidente della World Federation of Polish Jews. Fu inoltre cofondatore ed editore della casa editrice Dos Poylishe Yidntum (Gli ebrei polacchi), e autore della raccolta di memorie Di lecte fun grojser dor (L’ultimo di una grande generazione, 1954).
2.2. Con Zygmunt Turkow, una lunga tournée
32Pochi giorni dopo le nozze, Ida e Zygmunt intrapresero una tournée nelle zone sotto l’occupazione austriaca, spostandosi nelle province della Volinia, abbandonate dagli eserciti tedeschi e austriaci e riconquistate dai nazionalisti ucraini, poi a Odessa e infine a Char’kov. Nella città galiziana divenuta capitale della Repubblica Socialista Sovietica, la compagnia si trattenne più a lungo perché, pur non potendo contare su un teatro yiddish locale di qualità, per Zygmunt si era presentata l’occasione di collaborare con il teatro d’avanguardia dell’attore e regista russo Boris Glagolin.68 Dopo qualche mese di lavoro, però, Ida e Zygmunt lessero su un giornale la notizia che a Kiev, capitale della Repubblica Popolare Ucraina e luogo di grande fermento per la cultura yiddish grazie alla creazione della Kultur-lige,69 stava nascendo un teatro ebraico ispirato ai principi dello yiddishismo e che gli artisti locali avrebbero voluto che Ester Rokhl, Ida e Zygmunt ne facessero parte. In breve, la coppia si trasferì a Kiev, dove il 20 luglio 1919 venne al mondo la figlia Ruth.
33In quel periodo l’intera area centro-orientale si trovava in uno stato di anarchia armata e di scontro tra le autorità polacche, che volevano consolidare le proprie frontiere a est, e i gruppi nazionalisti ucraini, in conflitto inoltre con il potere sovietico che la Russia rivoluzionaria – che con l’Armata Rossa stava marciando verso occidente – aveva già imposto nelle regioni lituane e bielorusse. L’Ucraina, in particolare, viveva una situazione complessa di guerra, rivoluzione, insurrezioni contadine e nazionalismi contrapposti tra le due repubbliche; inizialmente l’Ucraina di Kiev, guidata dall’atamano Semën Petljura, aveva promesso alla minoranza ebraica pari diritti, ma non fu in grado di garantirle neppure una basilare sicurezza: bande criminali diedero avvio a una lunga serie di pogrom, che costarono la vita a oltre cinquantamila ebrei. Nel timore degli eccessi antisemiti, pochi mesi dopo la nascita della figlia, Ida e Zygmunt, insieme a Ester Rokhl e ai colleghi della compagnia, si misero nuovamente in viaggio attraverso la Bielorussia diretti verso Mosca, dove vigeva un clima di guerra. Durante la permanenza in città, la giovane coppia si recò con grande emozione al Teatro d’Arte per assistere alla leggendaria rappresentazione dei Bassifondi di Gor’kij diretta da Stanislavskij: a dispetto delle grandi aspettative, rivolte soprattutto alle interpretazioni di Vasilij Kačalov e Ivan Moskvin, Ida ricorda con enorme frustrazione di essere stata costretta a cedere al sonno, indotto dall’estrema stanchezza dovuta alle dure condizioni di vita e alla necessità di coniugare il lavoro con l’accudimento della figlia.
34Nonostante in quel periodo l’Unione Sovietica fosse l’unico paese in cui la cultura ebraica beneficiava di una sovvenzione statale, dopo avere trascorso due anni turbolenti lontano da Varsavia la compagnia Kaminski desiderava soltanto fare ritorno in quella che considerava la propria casa. Ancora una volta gli artisti ripresero il cammino verso il confine polacco. L’anno 1920 coincise con il raggiungimento di un accordo tra Polonia e Ucraina – che prevedeva il riconoscimento dell’indipendenza della seconda in cambio della sua rinuncia alle pretese sulla Volinia e sulla Galizia orientale – e con la ripresa delle ostilità contro la Russia bolscevica. Lungo la strada gli artisti si fermarono per una stagione a Vitebsk, dove proposero alla popolazione, atterrita dalle sommosse e dai pogrom, opere del vecchio repertorio come Mirele Efros e nuovi drammi come Una donna senza importanza di Oscar Wilde; successivamente sostarono nella cittadina di Polotsk, continuamente attraversata dagli scontri a fuoco tra l’Armata Rossa e l’esercito polacco; poi ancora a Nevel’, dove furono raggiunti da Jonas Turkow, che aveva lasciato l’Armata Rossa in cui era stato precettato tempo prima, e dove si trattennero per qualche tempo allestendo spettacoli in cambio di viveri, traducendo nuovi drammi e recitando sporadicamente anche in lingua russa. Tra i tumulti della rivoluzione, anche Ida e i compagni maturarono la convinzione che Lenin, Trockij e le loro promesse di libertà, uguaglianza e fratellanza in un mondo senza sfruttamento rappresentassero la concreta speranza in un futuro migliore.70
35Le ultime tappe del lungo viaggio verso casa inclusero Minsk – dove nella vetrina di un negozio trovarono la fotografia di Yosef Kaminski, che avevano perso di vista all’inizio del conflitto e che scoprirono avere tenuto un concerto nella città quando ancora era in mano ai polacchi – e Vilnius, dove la comunità ebraica accolse con calore Ester Rokhl, «i suoi figli e la sua troupe».71 Per qualche tempo la compagnia riprese con successo il lavoro sulla scena, adattandosi a recitare nelle ore diurne per non sfidare il coprifuoco, ma con l’occupazione della città da parte delle truppe del generale Żeligowski l’atmosfera si inasprì. Il sogno del capo di Stato polacco Józef Piłsudski di creare una confederazione di paesi indipendenti dell’Europa Orientale era sfumato e questi aveva comandato al suo generale di occupare la Lituania centrale per annetterla alla nuova repubblica polacca. La guerra sovietico-polacca, avviata nel febbraio del 1919, si era conclusa: a metà agosto la controffensiva polacca aveva costretto l’Armata Rossa, giunta alle porte di Varsavia, a ritirarsi e nel mese di ottobre russi e polacchi avevano stipulato un armistizio sulla linea presidiata in quel momento dagli eserciti. In risposta, la Repubblica Lituana aveva trasferito la capitale a Kaunas e dichiarato guerra alla Polonia ma, a causa della sproporzione delle forze, il conflitto non fu mai realmente combattuto, pur restando aperto fino al 1938. La controversa Pace di Riga (18 marzo 1921) aveva posto fine alla guerra e consolidato le frontiere della Seconda Repubblica Polacca, che dal novembre del 1918 aveva riconquistato l’indipendenza dopo centoventitre anni di dominazione straniera.
36La nuova Polonia si estendeva su una superficie di 388.600 km2, che corrispondeva a meno della metà del territorio dell’antica Repubblica, ma la collocava al sesto posto in Europa per ordine di grandezza. Il nuovo Stato era in realtà costituito da tre Polonie distinte e disomogenee quanto a sistema di governo, strutture istituzionali, economiche e composizione di forze sociali e politiche, ed era a tutti gli effetti un paese multinazionale, multiculturale e multiconfessionale. Dei ventisette milioni di cittadini censiti in Polonia nel 1921 soltanto due terzi erano polacchi, i rimanenti appartenevano a diverse minoranze nazionali: ucraina (oltre il 14 %), bielorussa (circa il 5 %), tedesca (3,7 %) ed ebraica (quasi l’8 %). La minoranza ebraica era composta da circa due milioni di abitanti, concentrati nelle piccole e medie città, dove spesso rappresentavano oltre la metà della popolazione, talvolta la grande maggioranza.72 Se i rapporti tra le autorità polacche e le minoranze ucraine e bielorusse erano percorsi da antiche ostilità e reciproci pregiudizi nazionalistici, la comunità ebraica era invece «tradizionalmente la più integrata […] con la storia della Repubblica di cui aveva fatto attivamente parte per oltre cinque secoli, svolgendo un ruolo fondamentale quanto peculiare nel sistema economico nazionale e locale».73 Nonostante l’impegno degli antisemiti per avvelenare i rapporti tra concittadini ebrei e cristiani, restava pertanto «la più incline a rinnovare il patto di integrazione nel nuovo stato».74
3. Varshever Yidisher Kunst-teater
37Alla fine del 1920 Ester Rokhl, Ida, Zygmunt e la piccola Ruth riuscirono a fare ritorno a Varsavia, dove si sistemarono in grande fretta e ripresero a lavorare, alternando spettacoli nella capitale a tournée nelle province. Al Teatr Kaminski portarono in scena qualche operetta, accogliendo anche artisti provenienti dagli Stati Uniti, mentre Ida collaborava con la Vilner Trupe, ma fu al Tsentral Teater di via Leszno 1, di cui Turkow era divenuto direttore, che videro la luce le proposte più ambiziose. Nelle stagioni 1921/1922 e 1922/1923, oltre al consolidato repertorio materno, la giovane coppia propose molti allestimenti firmati da Zygmunt; tra quelli di maggiore successo Serkele di Shloime Ettinger (con protagonista Ester Rokhl),75 L’avaro di Molière e I sette impiccati di Leonid Andreev. Il dramma di Andreev raccontava il martirio di un gruppo di rivoluzionari russi che avevano tentato di assassinare un ministro zarista prima del 1905, ma Turkow optò per un’ambientazione non realistica: nelle scene di gruppo gli attori emergevano dall’oscurità come in un tableaux, per poi rituffarsi nell’ombra prima della chiusura del sipario. Lo straordinario successo riscosso da questo spettacolo attirò l’attenzione di esponenti del mondo culturale polacco come Arnold Szyfman e Zygmunt ricevette perfino l’offerta di dirigere l’opera in un teatro polacco, proposta che tuttavia declinò.76
3.1. La fondazione
38Questi primi esperimenti convinsero Ida e Zygmunt che i tempi erano finalmente maturi per portare a compimento il progetto di un bessern teater: un teatro d’arte in lingua yiddish in dialogo con le più interessanti sperimentazioni europee. La decisione fu presa in un periodo tutt’altro che facile dal punto di vista economico, ma segnato da una grande effervescenza culturale e dalla fiducia nel pieno riconoscimento di una cultura yiddish.77 Nel ventennio tra le due guerre mondiali la società polacca, che attraversava un periodo di forte instabilità politica e crisi economica, si trovava alle prese con la necessità di definire se stessa anche in rapporto alla collettività ebraica. Pur fra molte contraddizioni, la lingua yiddish divenne il terreno fertile per esperimenti coraggiosi in campo letterario e teatrale. Sia Ida sia Zygmunt seguivano e partecipavano con interesse agli sviluppi delle avanguardie letterarie yiddish, e avevano stretto amicizia con poeti del calibro di Moyshe Broderzon,78 fondatore del primo gruppo d’avanguardia yiddish, lo Yung-yidish di Łódź. Il centro nevralgico della ricerca teatrale era la città di Varsavia, che attraeva gli artisti grazie alle numerose sale teatrali. In questo periodo si formarono molte compagnie yiddish, ma pochissime si dimostrarono capaci di resistere alla prova del tempo e della miseria.
39Nel 1924 Ida e Zygmunt Turkow fondarono il Varshever Yidisher Kunst-teater (Teatro d’Arte Yiddish di Varsavia, noto anche con l’acronimo vykt), una compagnia che – a dispetto delle difficoltà – fu attiva in maniera intermittente negli anni 1924-1925, 1926-1929 e, ormai con la sola direzione di Zygmunt, per un’ultima stagione nel 1938-1939. Nato su base familiare e gestito in forma collettiva, in origine l’ensemble comprendeva Ester Rokhl, Jonas Turkow con la moglie Diana Blumenfeld, Sonia Altboym, Adam Domb, Władysław Godik, Shmuel Landau, Yankev Mandelblit e il fratello di Ida, Yosef, autore di musiche per la scena. A essi si sarebbero aggiunti più tardi Yitskhok Grudberg, il minore dei fratelli Turkow, Dina Halpern, Zalmen Hirshfeld, Natalia e Moishe Lipman, Meir Melman, Klara Segalowicz e altri.
40Ida e Zygmunt facevano parte di quella generazione di artisti e intellettuali che accoglieva l’eredità spirituale di Yitskhok Leybush Peretz arricchendola di contatti con le avanguardie teatrali di Vienna, Mosca e Berlino79 e del confronto con le innovazioni proposte dai colleghi polacchi. Al pari di altri ambiziosi ensemble teatrali coevi – come la Vilner Trupe, lo Yung Teater o i cabaret letterari Azazel e Ararat80 – anche il Varshever Yidisher Kunst-teater attribuiva alla forma drammatica l’ufficio morale di garantire la sopravvivenza della società e della cultura ebraica in Polonia, realizzando l’alleanza, anelata anni prima da Peretz, tra Arte e Nazione, tra un’arte idealizzata e un nuovo tipo di identità ebraica.81 Questo “nuovo” teatro yiddish interbellico non sarebbe mai diventato appannaggio di una fazione politica o di una classe sociale, ma sarebbe sempre rimasto un patrimonio comune, a disposizione di qualsiasi membro della variegata collettività ebraica, di cui rifletteva l’identità «fluida»82 e moderna, orgogliosa della propria differenza e resistente a ogni tentativo di acculturazione.
41Jakub Appenszlak, critico del quotidiano sionista «Nasz Przegląd» (La nostra rassegna) e testimone attento del lavoro del vykt, commentando uno degli esperimenti più rischiosi (l’allestimento del Sig. Chew, peccatore, ambientato in Cina), sintetizzava così le aspirazioni del regista del gruppo:
Per il sig. Zygmunt Turkow l’obiettivo più importante è dimostrare che il teatro yiddish è in grado di ricreare ogni stile e genere artistico, che nulla gli è impossibile. Proprio come un pilota che supera i primati di altezza, resistenza, velocità e complicate manovre in aria, così il sig. Turkow con la propria compagnia teatrale sta battendo continuamente ogni record. Ciò lo distingue dal sig. D [ovid] Herman, che sta lottando per creare un teatro dallo stile ebraico e dal repertorio nazionale. Il repertorio del sig. Turkow è internazionale, multicolore e talvolta perfino sgargiante. I suoi esperimenti meritano il massimo rispetto. Hanno allargato l’orizzonte della scena yiddish e costituiscono una prova visibile e certa dell’infondatezza dell’assunto secondo il quale lo yiddish come lingua letteraria sarebbe privo di maturità e al teatro yiddish si confarebbe soltanto un repertorio specifico e molto ristretto.83
A differenza della Vilner Trupe diretta da Herman, la ricerca del vykt era animata dal desiderio di creare un teatro europeo in lingua yiddish,84 in grado di coniugare spirito ebraico ed europeo, cioè di «non sottrarsi ad alcun confronto con la realtà».85 La qualità “europea” della missione teatrale di Ida e Zygmunt si esplicava nel rinnovamento del repertorio e nella mutata organizzazione del lavoro sulla scena. Guardando al modello offerto dal Teatro d’Arte di Stanislavskij, gli attori ridefinirono i protocolli della propria ricerca: la messa in scena era ora preceduta da sedute di studio del testo e coinvolgeva nella stessa misura l’intero ensemble, senza lasciare campo al divismo in voga nei decenni precedenti; a coordinare il lavoro del gruppo era il regista, il quale non si limitava a fornire generiche indicazioni di movimento, ma era responsabile della coerenza e organicità di tutto lo spettacolo. Il repertorio fu ampliato e vi trovarono posto sia i classici della drammaturgia yiddish (Goldfaden, An-ski, Gordin), allestiti però in forma innovativa,86 sia drammi contemporanei di autori ebraici, polacchi e internazionali, scelti privilegiando temi sociali e politici (l’orientamento del gruppo era genericamente di sinistra) e tradotti in yiddish.
42Al primo nucleo del repertorio sono riconducibili spettacoli come La recluta (25 dicembre 1923), che l’autore S.Y. Abramovitsh aveva concepito come una commedia da lettura e che Turkow trasformò in un purimshpil il cui narratore (aynshrayrer, lett. colui che piange) ricordava i personaggi della Commedia dell’Arte, e I due Kuni-Leml (20 aprile 1924) di Goldfaden, un ulteriore passo avanti di Zygmunt nella modernizzazione dei classici yiddish sotto l’influenza dei movimenti avanguardisti e il trionfo di un teatro che metteva in gioco, spudoratamente, la tradizione:
In yiddish è chiamato uno shpil [corrispettivo dell’inglese play]. E infatti qui c’è solo gioco. Le parole giocano, organi sterili giocano in maniera viva e gli attori girano come marionette. Giocare per amore del gioco, non alla ricerca di qualche profondo “sentimento” o per risolvere un problema serio. Un teatro che gioca. Il teatro come una forma di gioco, gioioso intrattenimento per attori e spettatori. Nelle intenzioni del sig. Turkow non c’era altro. Questo regista talentuoso, intelligente ed eccezionalmente creativo, ama i giocattoli teatrali. Incoraggiato dal suo esperimento di stilizzazione in Serkele ha deciso di stilizzare Goldfaden. Ha ridotto tutto ai tratti semplici e naïf di un giocattolo. […] Ha messo il teatro nel baule dei giochi. […] Qui nulla accade in maniera improvvisata; l’immaginazione del regista si manifesta ovunque: in ogni scena, nella composizione del gruppo, nelle danze e nei canti, nell’accordo ritmico dello spettacolo, nella stilizzazione dei costumi, nei dettagli della coreografia. Questo magnifico giocattolo ha richiesto molti sforzi, un’elevata ricercatezza da parte del regista e il gusto per lo stile.87
Nel luglio dello stesso anno il vykt portò lo spettacolo a Cracovia, dove fu apprezzato per l’intensa teatralità della recitazione e percepito come un evento che inaugurava la nuova fase di modernizzazione e adattamento delle opere di Goldfaden, fase che negli anni successivi sarebbe stata seguita dagli esperimenti di Michal Weichert (La compagnia Tanentsap, 1933) e di Jakub Rotbaum (La strega, 1937).88
43Nel gruppo delle produzioni veltlekh (cosmopolite) si possono ascrivere invece Sabbatai Zevi (gennaio 1924), tratto dal dramma di Jerzy Żuławski La fine del Messia, e Il campanaro di Notre Dame (maggio 1925) di Hugo, uno spettacolo monumentale che prevedeva una struttura a più piani di ispirazione costruttivista e la compresenza di più palchi su cui agivano un centinaio di attori. Nonostante le aspettative, il dramma polacco su Sabbatai Zevi, autoproclamatosi Messia a metà del xvii secolo, fu accolto con freddezza: un insuccesso che Turkow attribuì alle caratteristiche del protagonista che, rappresentato nella sua debolezza e sconfitta, aveva deluso il pubblico ebraico, favorevole all’esaltazione degli eroi della propria tradizione.
44Il pubblico spesso ripagava gli sforzi di Ida e Zygmunt, ma per riuscire a mantenersi la compagnia era costretta a condurre un’esistenza nomade e a mettere in scena anche drammi di facile presa. A dispetto delle comuni ambizioni, infatti, il teatro yiddish restava un passo indietro rispetto agli altri teatri europei a causa dell’estrema precarietà a cui era esposto il lavoro degli artisti, obbligati a continui cambi di sede, ad attendere le concessioni dello starosta (responsabile dell’amministrazione) locale e a sobbarcarsi i costi di affitto e restauro di spazi teatrali assai primitivi. A differenza dei teatri statali, che di solito potevano contare su finanziamenti governativi, il teatro yiddish in Polonia non riceveva sostegno né dalle istituzioni ufficiali polacche, né (fatta salva qualche eccezione) dalle associazioni ebraiche: le kahal89 lo avversavano per ragioni morali, mentre la ricca borghesia lo snobbava considerandolo un passatempo per la plebe e gli preferiva il teatro polacco, che infatti contava su un grandissimo seguito tra i membri dell’intellighenzia assimilata. Oltre a soffrire la rivalità con il teatro polacco, il teatro yiddish doveva poi misurarsi, seppure in misura minore, anche con il neonato teatro in lingua ebraica, sostenuto da quanti caldeggiavano la causa sionista. Una compagnia come il vykt poteva perciò contare su un pubblico composto in gran parte da operai, artigiani, piccoli commercianti e impiegati, talvolta da sottoproletari. L’appartenenza degli spettatori a classi sociali economicamente più svantaggiate si riverberava inevitabilmente sull’attività teatrale da un punto di vista economico – non potendo, gli spettatori, proporsi come mecenati e dovendo, gli artisti, offrire biglietti a un costo dimezzato rispetto a quello dei teatri polacchi – ma anche da un punto di vista artistico, perché si trattava di un pubblico da sempre abituato a storie romantiche di banditi e prostitute, proposte in forma di banali operette o di riviste.90
45Schiacciato da tali difficoltà, il Varshever Yidisher Kunst-teater concluse il primo capitolo della sua esistenza a un anno appena dalla fondazione. L’esistenza nomade della compagnia aveva richiesto pressanti sacrifici: costretti a spostarsi continuamente tra villaggi poverissimi (eppure desiderosi di teatro) e città cosmopolite come Cracovia, gli attori avevano sperimentato condizioni di pesanti ristrettezze e l’insuccesso di un’opera91 si era spesso tradotto nell’impossibilità di mangiare o di pagare le cure di Ester Rokhl, che da mesi lottava con un cancro ai polmoni. Di certo, sulla scelta di sciogliere temporaneamente l’ensemble pesò anche la morte dell’attrice, che per i giovani membri della compagnia costituiva un imprescindibile riferimento artistico e affettivo: Ester Rokhl si spense il 27 dicembre 1925 e la sua dipartita fu vissuta come un lutto collettivo dalle comunità ebraiche polacche, che si raccolsero numerose al suo funerale. Due anni più tardi Ida e Zygmunt donarono una ricca collezione di materiali legati al mondo teatrale e appartenuti a Ester Rokhl all’Istituto Scientifico Ebraico (yivo)92 di Vilnius: da questa prima raccolta nacque un piccolo museo teatrale a lei intitolato e destinato a documentare, custodire e tramandare la cultura teatrale della diaspora ebraica nell’Europa centro-orientale.93
3.2. Un documento prezioso
46Purtroppo la maggior parte dei materiali relativi all’attività artistica del vykt in questo lasso di tempo è andata dispersa, ma questa carenza è compensata dall’esistenza di un documento cinematografico di straordinario valore: il film muto Tkies kaf (Il voto).94 Realizzata nel 1924 in Polonia a partire dall’omonima opera letteraria di Peretz Hirshbein,95 questa pellicola è preziosa per molte ragioni. Anzitutto perché ci consegna una delle rare raffigurazioni di luoghi cruciali per l’ebraismo orientale come il formicaio umano di via Nalewki, arteria principale del quartiere ebraico di Varsavia, e la città di Vilne, soprannominata la “Gerusalemme della Lituania” per l’effervescente vita culturale in lingua yiddish ed ebraica,96 e di cui la pellicola immortala alcuni scorci come il mercato e l’antico cimitero ebraico con la tomba del Gaon di Vilnius, stimato capo spirituale; luoghi che un medico tedesco di origine ebraica, Alfred Döblin, visitò proprio nel 1924 e di cui tracciò un emozionante ritratto nei suoi appunti di viaggio.97
47Ma Il voto è importante soprattutto perché, un po’ paradossalmente, offre una rara testimonianza della scena teatrale yiddish dei primi anni del Novecento: come si è detto, più che essere concepito come un autonomo prodotto artistico, il cinema ebraico delle origini si configurava come «una registrazione della scena yiddish».98 Oltre a Ida e Zygmunt, Il voto raccoglieva gran parte dei membri del neonato Varshever Yidisher Kunst-teater, configurandosi così come il progetto comune di un ensemble di attori abituati a lavorare insieme in teatro. Inoltre, ritrae tutte e tre le esponenti femminili della dinastia Kaminski – oltre a Ester Rokhl e a Ida, appare infatti anche la piccola Ruth, che all’epoca aveva cinque anni – e ci consegna l’unica testimonianza audiovisiva dell’arte di Ester Rokhl Kaminska.
48L’instabilità politica e la crisi economica del primo dopoguerra si erano ripercosse anche sull’industria del cinema. Tra il 1923 e il 1926 era diminuito drasticamente il numero delle sale cinematografiche e delle produzioni, peraltro già assai limitate nei mezzi e nei temi: da una parte infatti le attrezzature risalivano all’anteguerra e mancava la manodopera professionale, dall’altra la riconquistata indipendenza dello stato polacco e i rapporti sempre delicati tra ebrei e polacchi trattenevano i produttori cinematografici – in larga maggioranza ebrei – dal realizzare film che contenessero un’esplicita tematica ebraica e li spingevano a privilegiare opere di stampo nazionalista, tese a regolare i conti con la Russia zarista e con la Germania. Secondo il regista Natan Gross l’iniziativa di rappresentare soggetti ebraici con l’obiettivo di combattere ignoranza e pregiudizi maturò in seno alle cerchie polacche del mondo del cinema,99 ma colui che per primo si arrischiò nell’impresa fu l’ebreo polacco assimilato Leo Forbert, inizialmente fotografo, poi fondatore insieme a Henryk (Yekhiel) Bojm della Meteor (poi divenuta Leo-Forbert, Leo-Film, Efes-Film, Forbert Film), che produsse alternativamente film “polacchi” e “yiddish”. La prima pellicola a tematica ebraica del dopoguerra, e quella che ottenne maggiore successo di pubblico e critica, fu proprio Il voto, la cui première ebbe luogo nel maggio del 1924 nell’elegante cinema Rococo della centralissima via Nowy Świat.
49La sceneggiatura, scritta da Henryk Bojm pensando proprio alle Kaminski e a Turkow, ricorda quella del Dibbuk, dramma di Semen Akimovich An-ski portato in scena nel dicembre del 1920 dalla Vilner Trupe. In quegli anni lo spettacolo, che sarebbe diventato il più celebre nel repertorio del teatro yiddish ed ebraico, era sulla bocca di tutti e non stupisce l’interesse degli artisti del vykt a includere nel loro programma di «arte onesta e pura»100 anche opere che, come questa, si richiamavano al folklore ebraico. La vicenda trae spunto da una parabola talmudica, secondo la quale una donna viene promessa al suo futuro sposo quaranta giorni prima di lasciare il grembo della madre. Due amici – Mandel e Kronberg – si rivolgono allo tzaddik affinché Dio conceda loro una discendenza e stringono il patto sacro di fidanzare i nascituri, nel caso siano un maschio e una femmina, chiamando a garante dell’impegno il profeta Elia. Vent’anni dopo, Jankiel, figlio di Mandel e studente presso una yeshiva, e Rachel (Ida Kaminska), figlia di Kronberg, impoverita e rimasta sola con la madre (Ester Rokh Kaminska), si innamorano senza sapere di essere già stati promessi l’uno all’altro. Una serie di circostanze, tuttavia, si frappone a impedire la loro unione: il padre di Jankiel vuole darlo in sposo a una ragazza di buona famiglia, mentre un ricco pretendente chiede la mano di Rachel per impedire che in futuro essa possa reclamare il patrimonio del padre, di cui è indebitamente entrato in possesso. Alla fine, l’intervento miracoloso del profeta Elia (Zygmunt Turkow) assicurerà il trionfo della giustizia e il matrimonio dei due giovani.
50Al di là della sceneggiatura, che come vedremo non convinse tutta la critica, la pellicola ricevette unanimi consensi per la ricercatezza delle inquadrature elaborate da Seweryn Steinwurzel e per la recitazione degli attori, coinvolgente sia nelle scene di massa sia nelle sequenze più intime e complessivamente giudicata libera da manierismi. Un critico, poi, rilevò che Ida compensava con la nobiltà della recitazione la mancanza di attributi di fascino tipici di una diva del cinema.101 Dal nostro punto di vista è particolarmente interessante osservare madre e figlia recitare insieme nelle sequenze che le ritraggono al lavoro come venditrici di frutta al mercato di Vilnius, nell’intimità domestica della povera abitazione o tra le tombe del cimitero in cui si sono recate per invitare il defunto Kronberg alle nozze della figlia. Le frequenti inquadrature in primo piano restituiscono la maestria di due attrici che, a dispetto di un testo ricco di spunti melodrammatici e della naturale tentazione di sopperire alla mancanza del suono con una mimica accentuata, dimostrano di sapersi tenere a distanza da facili soluzioni a effetto e di privilegiare una recitazione misurata e naturale.
51Zygmunt Turkow – che si ritrovò, per caso, a ricoprire anche il ruolo di regista102 – descrive Il voto come un racconto tratto dalla tradizione popolare ebraica e dotato, grazie alla sua morale, di valore educativo. A prima vista sembrerebbe, dunque, che il progetto del film fosse ispirato alla volontà edificante di mostrare lo scontro manicheo tra il bene e il male e il premio che spetta a coloro che si comportano con rettitudine. A proposito della riduzione scenica, tuttavia, lo studioso Hoberman sottolinea la discrepanza tra l’opera originaria di Hirshbein, che formulava una critica dei matrimoni combinati e delle superstizioni religiose, e il film, assai più ambivalente nello sfruttamento di elementi tipici del folklore chassidico (per esempio la figura del profeta Elia come strumento di giustizia sociale o il topos del tesoro nascosto)103 e in genere della percezione stereotipata degli ebrei come “misteriosi”, rafforzata dalla rappresentazione di sogni premonitori e apparizioni miracolose. Anche il motivo del conflitto fra tradizione e modernizzazione, presente soprattutto nel confronto tra il pio Jankiel Mandel e il figlio “dissoluto” di Levine, appare stemperato e non sembra qui portante.
52Per comprendere lo spirito del film e mettere in luce alcuni suoi aspetti meno evidenti, bisogna considerare a chi era rivolto. Il fatto che Bojm e Forbert avessero preparato solo i cartelli in polacco (quelli in yiddish furono aggiunti in seguito) lascia infatti supporre che il film fosse destinato prevalentemente a un pubblico che comprendeva questa lingua. Pur consapevoli dello scarso interesse che generalmente i polacchi manifestavano nei confronti della cultura ebraica, è sicuramente probabile che, in tal modo, i produttori volessero mettere sul mercato un film accessibile anche ai “gentili”. Nondimeno, le frequenti scene comiche e parodiche parrebbero presupporre anche un pubblico familiare e al contempo distaccato dal folklore e dalle norme religiose, e quindi capace di riderne. A questo uditorio sembrano indirizzate in particolare alcune scene comiche, come quella in cui il giovane Jankiel, invaghitosi di Rachel, immagina di incontrarla nelle vesti della figlia di Labano e i due innamorati, abbigliati come personaggi del Vecchio Testamento, richiamano alla mente le cronache relative ai primitivi allestimenti delle operette di Goldfaden, o ancora la sequenza della festa di nozze approntata dal padre di Jankiel per il figlio, che vede affollarsi molti invitati: uomini e donne, aristocratici e gente comune spettegolano, bevono e soprattutto mangiano con grande gusto, tuffandosi sulle pietanze con le mani e rubandosi il cibo dai piatti.
53Sono significative, a tale proposito, le critiche che il film ricevette da parte ebraica e che si appuntarono sulle scene più grottesche, proprio come quella del banchetto di nozze appena descritta. Un critico anonimo del noto periodico culturale «Literarishe Bleter» (Pagine letterarie) classificò il film come shund, condannandone l’umorismo triviale: anche se si trattava di scene familiari a teatro, la responsabilità di chi produceva film era maggiore perché l’immagine degli ebrei che veniva proposta poteva raggiungere un più vasto pubblico di “gentili”. Per questo, concludeva l’autore, era necessario aspirare a film seri, artistici e fedeli nel descrivere la vita degli ebrei. Tale allarmismo rifletteva un’inclinazione alla censura “interna”, che non teneva però conto dell’opera artistica in sé. A ben vedere, infatti, la bellezza del film risiede proprio nell’intreccio tra la vicenda principale e gli intermezzi comici di cui è costellata. Un punto di vista, avvalorato anche dalla risposta di Turkow sulle pagine dello stesso giornale, dal quale si può notare come l’umorismo contribuisca a dissestare una narrazione altrimenti ingenuamente schematica e inauguri un modo diverso di guardare ai luoghi della tradizione (primo tra tutti la yeshiva).
54Con i suoi molteplici livelli di lettura, Il voto si candidava a soddisfare le esigenze dei pubblici più disparati: i ceti più popolari avrebbero seguito la storia romantica senza badare alle didascalie che forse faticavano a decifrare, gli ambienti ebraici più progressisti avrebbero apprezzato l’approccio disteso e ironico alle tradizioni e gli spettatori polacchi avrebbero avuto l’impressione di penetrare nel mondo esotico dei loro vicini di casa.
55Il film che ci troviamo di fronte oggi è, in realtà, un prodotto composito realizzato nel 1933 dal regista statunitense George Roland e noto anche con il titolo A Vilna Legend. Ai frammenti del film muto originale del 1924 (che, con dodici bobine da circa dieci minuti ciascuna, era stato per molto tempo una delle più lunghe pellicole polacche) sono stati aggiunti una voice-over in yiddish, che commenta sapidamente gli avvenimenti, e alcune nuove scene ambientate in una taverna. Protagonisti di questa operazione sono alcuni tra i migliori attori yiddish della New York degli anni Trenta, mossi dalla volontà di dare nuova vita e leggibilità a un film che veniva considerato un capolavoro. Osservando il film nella versione attuale, risulta evidente che lo spirito che animava le riprese del ’24 era assai diverso da quello del ’33, epoca in cui gli artisti, probabilmente in conseguenza dell’immigrazione, erano portati a un approccio più didattico e nostalgico. Nel primo caso, invece, ci troviamo di fronte a un approccio libero e giocoso nei confronti della materia narrata perché negli anni Venti la cultura yiddish polacca aveva raggiunto un livello tale di maturazione da consentire un libero recupero della tradizione e si era guadagnata una certa legittimazione: «l’epoca in cui era stato necessario dimostrare che un teatro in lingua yiddish poteva esistere era passata da tempo e l’epoca in cui si sarebbe dovuto dimostrare che ancora esisteva non era ancora giunta».104
3.3. Il secondo vykt
56Il Varshever Yidisher Kunst-teater riprese le attività alla fine del 1926 negli spazi restaurati del Teatr Kaminski. L’ensemble debuttò il 19 ottobre con un allestimento di Non desiderare, o il decimo comandamento di Goldfaden, dramma scelto per celebrare il cinquantesimo anniversario di nascita del teatro yiddish. L’opera narra la storia di Ludwig, ebreo tedesco progressista che cede alle tentazioni del diavolo e abbandona la moglie Matilda per sedurre la pia Frume. A sua volta Peretz, ebreo polacco di buon cuore e marito di Frume, in un momento di debolezza intreccia una relazione con Matilda. Alla fine lo Spirito Buono (interpretato da Ida Kaminska) istituisce un processo grazie al quale viene restaurato l’ordine. Lo spettacolo si fondava su un’interessante rielaborazione testuale, che interpolava l’originale commedia moralizzatrice di Goldfaden con versi del poeta Moyshe Broderzon che alludevano alla contemporaneità e alla politica del tempo.
57Il critico Jakub Appenszlak salutò il ritorno del vykt come una nobile manifestazione della cultura nazionale e giudicò di grande interesse l’allestimento di Turkow, il quale aveva collocato questo dramma naïf a carattere allegorico in un’atmosfera che richiamava i misteri medievali e in un ambiente scenografico composto da impalcature concentriche (opera di Józef Śliwniak), che tradivano l’influenza del suprematismo russo e delle composizioni geometriche utilizzate già da qualche anno dal Goset, il Teatro Statale Yiddish di Mosca. Le innovazioni scenografiche di Turkow/Śliwniak – in linea con gli allestimenti goldfadeniani presentati dal Goset (I due Kuni-Leml) e dallo Yiddish Art Theatre newyorchese di Maurice Schwartz (La strega) – costituivano una novità per il teatro yiddish polacco e implicavano anche una mutata relazione spaziale tra gli attori. Appenszlak osservava inoltre che la compagnia aveva raggiunto una cura dei costumi e delle luci fino a quel momento mai vista sulle scene yiddish.105
58Il debutto fu seguito da I fratelli Karamazov di Dostoevskij, adattamento di Ida diretto da Zygmunt, e dalla tragedia I lupi (24 novembre 1926) di Romain Rolland, autore al tempo assai popolare in Polonia, il cui dramma era incentrato sul celebre affare Dreyfus e sulla questione dei diritti umani. In entrambi i casi la critica si complimentò per la qualità “europea” del lavoro, elogiando le invenzioni illuminotecniche e scenografiche di Władysław (Khayim Volf) Weintraub e l’organicità ed espressività delle scene corali.
59La compagnia allestì poi drammi yiddish contemporanei come Il tesoro di Dovid Pinski, una commedia amara e satirica sull’avidità umana con personaggi grotteschi e una lingua ruvida,106 ed europei come Morfina di Ludwig Herzer, che Appenszlak commentò con calore:
Dal punto di vista della creazione attoriale e registica, lo spettacolo si inscrive tra i maggiori successi dell’attuale stagione teatrale varsaviana. Gli amanti della lingua yiddish troveranno in questo spettacolo un’ulteriore conferma del fatto che si tratta di una lingua letteraria, in grado di rendere tutte le sfumature di un dialogo ricercato. La regia e la recitazione fanno onore alla sig.ra Ida Kamińska. Kamińska è indubbiamente l’artista yiddish dotata di maggiore cultura: la sua capacità di penetrare nell’ambiente è dimostrata da una regia raffinata, che trasforma l’opera di Herzer in un autentico “notturno”, con sfumature di profondo lirismo.107
Concludendo la recensione, il critico non poté trattenersi dallo stigmatizzare la scarsa partecipazione della comunità ebraica a un progetto ambizioso come quello del vykt: progetto che, a suo avviso, in qualunque altra società sarebbe stato stimato e tutelato, mentre a Varsavia la cassa del teatro era rimasta quasi vuota.
60A complicare i bilanci contribuiva il fatto che nella sua seconda incarnazione il Varshever Yidisher Kunst-teater aveva voluto sbarazzarsi del vecchio sistema di retribuzione fondato sul principio dell’khaveyrim-trupe (troupe di compagni), in cui il guadagno degli artisti dipendeva dalle entrate del botteghino, sostituendolo con un salario garantito per ogni membro della compagnia, indipendentemente dal successo economico dell’opera. Nonostante la seconda metà degli anni Venti fosse caratterizzata da una notevole crescita artistica dell’ensemble e dalla risposta positiva della critica e del pubblico, il vykt si trovò nuovamente in ristrettezze economiche: nel 1928, dopo essersi rivolto senza successo a organizzazioni come il Joint Distribution Committee, alle comunità ebraiche (kehilah) e dopo avere girato la Polonia e la Romania, fu costretto a sciogliersi.
61Qualche mese più tardi Zygmunt, ancora segnato dall’esperienza del Voto, decise di studiare regia cinematografica a Mosca con Sergej Ejzenštejn. Quando la possibilità gli fu negata si recò a Berlino, dove compì l’apprendistato presso l’Ufa in qualità di assistente volontario del regista russo Vladimir Striževskij. Tornato in Polonia, tradusse il dramma per due personaggi Il signor Lamberthier di Louis Verneuil e convinse Ida a interrompere il lavoro con la compagnia riunitasi dopo il fallimento del vykt per intraprendere con lui una tournée. Al termine delle repliche la coppia scelse di divorziare, pur continuando a condividere la vita quotidiana e la vita di scena ancora per qualche anno, in Polonia e in giro per i teatri ebraici di Bruxelles, Antwerp, Parigi e Berlino (stagione 1931/1932).
4. Gli anni Trenta
62Dal 1933 i percorsi artistici di Ida e Zygmunt si separarono definitivamente, senza però mai divergere del tutto. Zygmunt recitò per qualche tempo al Teatr Kaminski e per un breve periodo con la Vilner Trupe, collaborò con compagnie yiddish all’estero e tornò a dedicarsi al cinema yiddish che, dopo avere conosciuto un periodo di sospensione produttiva, nella Polonia degli anni Trenta viveva la sua Golden Age.
63Grazie al rinnovamento dell’industria cinematografica e a un sensibile aumento della produzione locale, dovuto a una politica che diminuiva le tasse per le pellicole realizzate in Polonia per contrastare il predominio dei film (anche yiddish) hollywoodiani, tra il 1935 e il 1939 Varsavia divenne uno dei maggiori centri di produzione del cinema ebraico. Nel 1937, su una ventina di film realizzati in Polonia quattro di essi parlavano yiddish e si presentavano come tecnicamente concorrenziali a quelli polacchi, anche perché in buona parte opera degli stessi professionisti. Tre di queste produzioni nacquero grazie al contributo di Zygmunt Turkow in qualità di attore e regista: Zygmunt co-diresse e interpretò Freylekhe kabtsonim (Poveri gioiosi), a cui prese parte anche la figlia Ruth, recitò in Der purimshpiler (L’attore di Purim) di Joseph Green, e curò la direzione artistica, interpretando nuovamente il ruolo di Elia del remake sonoro del Voto.
Gli esperimenti cinematografici di Zygmunt Turkow
Poveri gioiosi 108 fu realizzato dalla casa di produzione Kinor per tentare di emulare il successo raggiunto dalla Green Film con il popolarissimo Yidl [il piccolo ebreo] e il suo violino (1936). Protagonisti di questa commedia degli equivoci sono Shimen Dzigan e Yisroel Shumacher,109 celebri artisti di kleynkunst che qui interpretano due poveri artigiani, un sarto e un orologiaio, convinti di avere fatto una scoperta in grado di rivoluzionare le loro vite. Durante una passeggiata per i campi, i due amici trovano una piccola pozza di petrolio e si persuadono che nel terreno sia nascosto un importante giacimento; tornati a casa, si promettono di mantenere il segreto, ma alla prima occasione finiscono per rivelarlo alle mogli e in breve la notizia fa il giro del villaggio. I due amici si trovano così presi d’assalto da un’orda di postulanti e sedicenti uomini d’affari, ognuno dei quali è interessato a trarre il massimo vantaggio dalla fortuna dei concittadini. Naturalmente non può mancare una storia a sfondo amoroso. Gitl, figlia dell’orologiaio Naftali, si innamora di un attore e cantante girovago e decide di fuggire con lui per evitare il matrimonio combinato con un amerikaner110 o con il figlio lamebrain (sciocco) del sarto Kopl; inavvertitamente porta con sé nella fuga la mappa che il padre ha realizzato per risalire al fantomatico giacimento. Per recuperare la mappa Naftali e Kopl partono all’inseguimento della compagnia teatrale, ma una serie di vicissitudini li conduce invece in manicomio; quando, finalmente, fanno ritorno al villaggio scoprono che in realtà il terreno non contiene altro che pietre. Senza perdersi d’animo, i due amici decidono allora di lanciarsi in una nuova impresa e di costruire una fabbrica di pietre tombali: su questa idea, che oggi può apparire come una terrificante profezia, si chiude il film.
Anche Poveri gioiosi, come il primo Il voto, nasce dal progetto comune di un gruppo di artisti abituati a lavorare insieme a teatro: in questo caso ha la sua origine in seno al già citato teatro-cabaret Ararat di Łódź, fondato da Moyshe Broderzon, nella triplice veste di drammaturgo, produttore e attore, e di cui Dzigan e Shumacher furono gli artisti di punta. Nonostante la sceneggiatura scritta da Broderzon paia a prima vista restituire lo spirito irriverente e metateatrale del kleynkunst, purtroppo nel film l’energia dei suoi eccellenti interpreti viene in gran parte dispersa perché mancano i riferimenti diretti all’attualità che in teatro alimentavano l’urgenza della satira. Per noi è comunque interessante osservare il debutto cinematografico della giovane figlia di Ida e Zygmunt, Ruth Turkow, la quale nello stesso anno avrebbe preso parte anche alla pellicola Al khet, e rilevare che nei titoli di testa (scritti in polacco) viene messo in luce il peculiare ruolo di Zygmunt in qualità di guida nella direzione degli attori.
Girato sei mesi più tardi, L’attore di Purim111 è il secondo film realizzato da Joseph Green in Polonia dopo il trionfo di Yidl e il suo violino. Come gran parte delle pellicole yiddish, è ambientato in un piccolo villaggio galiziano alla vigilia della Prima guerra mondiale e riprende molti temi e personaggi che abbiamo incontrato in Poveri gioiosi: i sognatori dello shtetl, gli artisti del teatro itinerante, la ragazza in fuga dal villaggio. Il protagonista è Getsl (Zygmunt Turkow), un attore girovago che si innamora di Ester, figlia del sarto presso cui ha trovato lavoro; la ragazza, però, è invaghita di Dick, artista in una compagnia di circo. Il padre di Ester, Nachum, si arricchisce improvvisamente grazie a un’eredità giunta dall’America e si propone di darla in sposa al figlio di una famiglia abbiente del villaggio. Nella scena centrale del film – ambientata durante i festeggiamenti di Purim – Getsl e la sua banda di attori scalcagnati portano scompiglio nella serata, utilizzando il dramma tradizionale di Purim (il Libro di Ester) per deridere e scacciare il facoltoso pretendente della ragazza. La storia si conclude con il matrimonio di Ester e Dick, mentre a Getsl non resterà che riprendere il proprio solitario vagabondaggio.
Il cast è composto per la maggior parte da attori ebrei polacchi, con la sola eccezione della giovane coppia di innamorati, interpretata da due star americane (Miriam Kressyn e Hymie Jacobson). Inizialmente il ruolo di Getsl era stato pensato per l’attore Joseph Buloff, il quale tuttavia si ritirò dal progetto privilegiando altri impegni teatrali; pertanto il regista offrì la parte a Zygmunt, che in quel momento stava concludendo il lavoro sul remake del Voto. Nonostante le aspettative, la pellicola non fu però accolta con lo stesso entusiasmo di Yidl e il suo violino: alcuni critici espressero riserve nei confronti dell’interpretazione di Zygmunt, il quale avrebbe creato con eccessivo patetismo e indeterminatezza il personaggio dell’ebreo errante, e anche il regista Green concluse che l’attore era inadatto al ruolo perché poco predisposto alle tonalità comiche.112 Un autore come Mojżesz Kanfer, invece, scagionò Turkow e attribuì la debolezza del film all’inconsistenza della sceneggiatura, che si sforzava di innestare sul terreno ebraico temi frusti invece di attingere al ricco patrimonio della letteratura yiddish, e riproduceva una vaga estetica chapliniana senza coglierne la dimensione profondamente tragicomica. A giudizio di Kanfer, però, la qualità del film era assicurata dal lavoro collettivo di attori di talento, tra i quali spiccava Zygmunt, in grado di creare una commovente versione ebraica dell’eroe chapliniano.113
La nuova versione del Voto,114 prodotta dalla Leofilm e presentata nelle principali sale cinematografiche di Varsavia con sottotitoli in polacco, fu diretta da Henryk Szaro, regista che aveva debuttato con un film yiddish per poi entrare con successo nel circuito polacco. La pellicola ripropone fedelmente la storia del patto di matrimonio violato e infine ricomposto e si avvale della partecipazione di alcuni dei vecchi interpreti (oltre a Zygunt, Shmuel Landau e Moishe Lipman), mentre il ruolo dei giovani innamorati è affidato a Yitskhok Grudberg e a Dina Halpern, nipote di Ida. Anche in questo caso, la direzione artistica assegnata a Zygmunt consisteva nel supervisionare il lavoro degli attori. Nonostante l’eccellenza tecnica e registica, nel confronto con l’originale la pellicola difetta di freschezza e umorimo, che sostituisce con un’impostazione solenne e nostalgica. Il nuovo Voto condivide con Poveri gioiosi lo spirito fatalista e l’atmosfera di predestinazione che troverà pieno compimento nel più acclamato tra i film yiddish prodotti in Polonia, il celebre Dibbuk (1937) diretto da Michał Waszyński.
Questa breve ricognizione dell’attività cinematografica di Zygmunt Turkow ci permette di verificare l’interscambio di forze creatrici, soprattutto per quanto riguarda il lavoro di attrici e attori, tra il teatro e il cinema degli anni Trenta, ma anche di osservare come i soggetti cinematografici avessero un respiro decisamente meno internazionale rispetto al repertorio di molti teatri. La maggior parte delle pellicole yiddish proponevano infatti in forma quasi esclusiva il tema del conflitto tra padri e figli, declinandolo nei termini strettamente ebraici del contrasto tra Vecchio e Nuovo Mondo, tra tradizione e modernità, tra cultura sacra e secolare. A questo motivo si ispirava anche The Jazz Singer (1927), il film della Warner Bros abitualmente associato all’avvento del cinema sonoro che narra la passione del giovane Jakie Rabinowitz per la musica jazz e il suo distacco dalla famiglia – e in particolare dal padre, cantore in una sinagoga – per inseguire la carriera di cantante a Broadway. Il successo del film, e prima ancora dell’omonimo musical scritto da Samson Raphaelson e andato in scena a Broadway, spinse Ida Kaminska a proporne una propria versione en travesti, che debuttò nel marzo 1930 a Cracovia e l’11 aprile al Teatro Scala di Varsavia, con le scenografie di Śliwniak e le musiche del fratello Yosef.115 Un ritaglio di giornale in polacco, rinvenuto da Joanna Krakowska presso gli archivi yivo di New York, mostra un ritratto dell’attrice in abiti maschili, con i capelli corti, la dentatura posticcia e il volto dipinto di nero, secondo l’uso del trucco blackface che nell’America degli anni Venti era stato adottato anche dai principali artisti e intrattenitori ebraici come strumento di assimilazione della cultura americana. Non sappiamo nulla di più sullo spettacolo, ma la didascalia presenta Ida come un’eccezionale artista drammatica e l’opera teatrale, andata in scena mentre nelle sale veniva proiettato il film, come un grande successo.
64Se la versione teatrale yiddish del Cantante di jazz arrivò a Varsavia sulla scorta del trionfo cinematografico, l’unico film a cui Ida prese parte negli anni Trenta fu invece ispirato a una nota commedia di Jacob Gordin, che l’attrice conosceva alla perfezione perché vi aveva recitato fin da bambina. In On a heym (Senza una casa),116 Kaminska si misura con il ruolo di Bas Sheve, cavallo di battaglia di molte dive yiddish, a cominciare da Sara Adler, per la quale l’opera era stata originariamente composta. Realizzata negli ultimi mesi del 1938 dal regista Aleksander Marten, profugo in fuga dall’Austria, la pellicola non si sofferma sulla delicata situazione politica del tempo, ma immortala un dramma di inizio secolo, per giunta edulcorandone gli aspetti più tragici. Questa peculiarità stride oggi con la consapevolezza che Senza una casa sarebbe stato l’ultimo film yiddish sonoro prodotto in Polonia e che pochi mesi dopo la sua uscita il bombardamento di Varsavia avrebbe siglato l’inizio di un’epoca del tutto differente, ma già al tempo l’apoliticità costò alla pellicola l’accusa di anacronismo e sentimentalismo da parte del «Literarishe Bleter», il quale ipotizzò che fosse destinata a un pubblico di ebrei americani, inclini a guardare con sentimentalismo alla vita nei villaggi dell’Europa orientale.117
65La distanza dai temi dell’attualità non costituiva tuttavia un’eccezione nel panorama cinematografico yiddish degli anni Venti e Trenta. Come abbiamo visto, la maggior parte dei film narrava vicende che avevano luogo nel recente passato, in un’epoca che si spingeva al massimo fino alla Prima guerra mondiale, mentre il confronto con la contemporaneità restava una prerogativa dei film documentari, spesso impiegati a fini propagandistici da correnti politiche anche contrapposte come quella sionista e del Bund (il movimento socialista ebraico), o da organizzazioni come il Joint, una fondazione ebraico-americana di assistenza umanitaria. Nel dopoguerra il documentario sarebbe diventato lo strumento privilegiato per testimoniare l’annichilimento della società e della cultura ebraica e gli sforzi finalizzati alla sua ricostruzione, come dimostra uno dei filmati che prenderò in esame nel prossimo capitolo.
66Il regista Marten rinunciò a prendere posizione nei confronti delle repressioni ai danni degli ebrei tedeschi e dell’antisemitismo dilagante per concentrarsi sul raffronto tra Vecchio e Nuovo Mondo e sugli effetti prodotti dall’emigrazione sulla famiglia ebraica. Protagonista della vicenda è una famiglia di pescatori di uno shtetl polacco che, in seguito alla morte del figlio maggiore, decide di emigrare negli Stati Uniti per sfuggire alla miseria e costruirsi un futuro più sereno. Giunti nel Nuovo Mondo, tuttavia, non tutti i componenti della famiglia (a cui si sono aggiunti anche due compaesani, interpretati da Dzigan e Shumacher) riescono ad adattarsi ai ritmi e ai valori della civiltà americana. A soffrire più di tutti è Bas Sheve, sposata a un uomo che le preferisce una cantante ebrea perfettamente inserita nel nuovo ambiente, e madre di un figlio che sembra cavarsela meglio di lei. Dopo avere affrontato lo sradicamento e l’emigrazione, la donna si trova ora per la prima volta in vita sua a trascorrere le giornate da sola, sentendosi inutile in una casa deserta, un appartamento vuoto circondato da altri appartamenti eppure da essi isolato. A farle compagnia soltanto i propri soliloqui e le parole dell’anziano suocero, che tentano di richiamare i componenti della famiglia ai valori religiosi e ai costumi di un tempo.
67Quella che è stata definita «la più claustrofobica e antiquata delle pellicole yiddish polacche »118 ruota ossessivamente attorno al tema della casa e del pericolo rappresentato dal contatto con una cultura giudicata superficiale, priva di un orizzonte religioso e consacrata all’assimilazione del “diverso”. Un’assimilazione che nel film passa anzitutto attraverso la lingua. Il primo adattamento al quale si devono sottoporre i nuovi arrivati, infatti, è quello che investe i nomi propri: è così che, nella terra in cui «gli uomini che lavorano insieme diventano amici», il padre di famiglia Avreyml diventa Abe, il figlio Khonokh diventa Harry e i nomi già brevi dei compaesani Fishl e Motl vengono ridotti a un unico suono, quasi un verso bestiale, Foe e Moe. L’unico a non subire questo mutamento è il personaggio interpretato da Ida, per lo più ritratto all’interno della nuova abitazione, da cui assiste impotente all’andirivieni continuo dei familiari e al progressivo sgretolarsi del loro vincolo. Bas Sheve non condivide il desiderio di integrazione e l’entusiasmo linguistico dei familiari e a differenza loro non contamina mai la propria parlata yiddish introducendovi termini in inglese. Gli altri, al contrario, si appropriano immediatamente di alcune parole chiave, che si ripetono l’un l’altro come a suggellare il proprio diritto a far parte del sogno americano: anche se lo yiddish rimane la lingua principale degli scambi, parole come “Goodbye” e “All right” concludono sempre più frequentemente le conversazioni.
68L’adattamento cinematografico, appesantito da un eccesso di artifici tecnici, ridimensiona la portata tragica del dramma di Gordin: la caratterizzazione negativa del marito e del figlio di Bas Sheve e lo sprofondamento della donna nella follia lasciano il posto a personaggi decisamente più positivi e a un finale in cui la famiglia, nuovamente congiunta, si riunisce attorno al tavolo per festeggiare lo Shabbat. Il film si chiude sulle parole del più giovane membro della famiglia, che si augura di non rimanere mai più senza una casa.
69I limiti descritti, tuttavia, non tolgono valore documentario al film: Senza una casa resta l’unica testimonianza audiovisiva estesa della recitazione di Ida in yiddish e poiché, come sosteneva il regista Weichert a proposito dello yiddish, «la lingua non è esclusivamente una veste. Non [è] solo una forma. La parlata scenica è il contenuto [tojchn]. È l’anima. È il sangue»,119 è proprio alla lingua che dobbiamo prestare maggiore attenzione. In questo film la melodia della parlata yiddish si libera nel canto, vero asse tragico dell’opera, messo in primo piano anche dalla recitazione: se si segue il filo delle tre interpretazioni, affratellate eppure diverse, che Ida Kaminska, Viera Gran (nei panni della seducente cantante) e Yisroel Shumacher (Fishl) offrono della canzone che dà il titolo al film, un dramma falsamente ottimista si trasforma in un intenso kaddish per la casa disgregata e irrimediabilmente perduta.
70Come abbiamo già avuto modo di osservare, nell’autobiografia Ida riserva pochissimo spazio alle esperienze cinematografiche e Senza una casa non fa eccezione. Nelle sue memorie l’artista tace di questa trasposizione sul set di un dramma con cui aveva familiarità fin dall’infanzia e che avrebbe ripresentato anche molti anni più tardi sulle scene teatrali, in un contesto irrimediabilmente mutato come quello della Repubblica Popolare Polacca degli anni Sessanta. Tornando con il pensiero agli anni Trenta, l’attrice preferisce invece ricordare le tournée e i debutti della compagnia che ormai portava il suo nome.
4.1. L’ensemble Ida Kaminska
All’inizio degli anni Trenta Ida si trovò a dirigere per la prima volta in maniera del tutto indipendente diverse compagnie, con le quali percorse la Polonia fermandosi soprattutto in Galizia,120 terra che nel secolo precedente era stata culla del movimento chassidico e di quello “illuminista” e che offriva agli attori un pubblico più assimilato ma, in media, anche più acculturato. Nel 1936 sposò l’attore galiziano Meir Melman,121 da anni collega di scena e suo compagno per il resto della vita. Nello stesso periodo tornò anche a Vilnius, città in cui la comunità ebraica la festeggiò organizzando le celebrazioni per i vent’anni dal suo debutto teatrale.
71Nel paese, intanto, il clima si stava facendo sempre più oppressivo: la crisi economica e la morte del capo di stato Piłsudski avevano favorito l’affermazione di partiti estremisti di destra e, nel 1934, la firma del patto di non aggressione con la Germania di Hitler aveva condizionato l’atteggiamento del governo nei confronti dei cittadini ebrei, virandolo su posizioni chiaramente antisemite. L’estrema destra pretendeva l’emarginazione degli ebrei dalla vita pubblica e la confisca delle loro proprietà e metteva in atto i propri programmi con campagne di boicottaggio degli esercizi gestiti da ebrei, aggressioni e cacce all’uomo che coinvolsero anche il mondo universitario (l’infame “ghetto dei banchi”) con l’effetto di ridurre drasticamente il numero degli studenti di origine ebraica. A metà del decennio l’esecutivo che teneva le redini del paese, composto in gran parte da militari e presieduto dal colonnello Kazimierz Świtalski, fu invaso da un’esaltazione nazionalista condita da una fobia antiebraica che spinse la classe dirigente a concepire il piano di un’emigrazione di massa della popolazione, accusata di essere all’origine di tutti i mali del paese, in Madagascar.122 In questo contesto, le celebrazioni a favore di Ida Kaminska assunsero una portata ben più ampia, configurandosi come un gesto di solidarietà con la popolazione ebraica e di protesta contro la barbarie antisemita. L’anno successivo Ida salutò il fratello Yosef, che in seguito ad attacchi da parte di giornali antisemiti aveva deciso di emigrare con la propria famiglia in Palestina per unirsi alla nascente Orchestra Filarmonica Palestinese.
72A dispetto dell’atmosfera sempre più minacciosa – in cui le aggressioni dei giovani dell’onr (Obóz Narodowo Radykalny, Campo Nazional-Radicale) restavano impunite mentre ai teatri yiddish venivano revocate molte licenze e imposte restrizioni sempre più coercitive – la Varsavia degli anni Trenta restava uno dei centri più fecondi della diaspora e della cultura yiddish, nella sua versione laica e moderna. Un modello di cultura autonoma che non aveva precedenti nella storia ebraica moderna e, come gli eventi avrebbero purtroppo dimostrato, non avrebbe avuto neppure successori. In quegli anni il teatro yiddish in Polonia era percorso da un ardore creativo che portava a risultati di grande livello e a episodi di collaborazione tra l’ambiente teatrale ebraico e polacco.123 Senza dimenticare che, generalmente, l’opinione pubblica polacca si interessava poco al teatro ebraico, in questo periodo nacquero interessanti scambi tra gli artisti: lo spettacolo simbolo di questa virtuosa compenetrazione fu La tempesta di Shakespeare della compagnia yiddish Folks un Yugnt-Teater, andato in scena nel 1938 in una Łódź già avvelenata dalla propaganda nazista, e diretto dal noto regista polacco Leon Schiller.124 Il principale sostenitore della necessità di dialogo tra le due culture teatrali continuava però a essere Mark Arnshteyn, amico del drammaturgo Stanisław Przybyszewski e promotore dell’adattamento alle scene polacche di classici del teatro yiddish come Il dibbuk e Il golem, quest’ultimo allestito in collaborazione con lo scenografo Andrzej Pronaszko. Le proposte di Arnshteyn dovettero tuttavia scontrarsi con i rimproveri della stampa ebraica, che lo accusava di spingere gli ebrei all’assimilazione e di svigorire la natura del teatro yiddish. Anche Ida, dal canto suo, si attirò gli strali della critica quando, ancora ai tempi del vykt, attinse l’ispirazione dalla ricca tradizione drammaturgica polacca e portò in scena Il signor Jowialski, una delle commedie più amate di Aleksander Fredro. Un’opera che avrebbe poi ripreso nel dopoguerra, traducendola in yiddish e pubblicandola presso la casa editrice Idish Buch.
73Nel frattempo, però, nel 1935 Ida si vide costretta a sospendere l’attività della propria compagnia, che aveva sede presso il Teatr Kaminski, perché l’edificio (di cui era comproprietaria) era stato messo in vendita e trasformato in un garage con annessa officina e stazione di benzina. Nel corso della Seconda guerra mondiale la struttura sarebbe stata quasi interamente distrutta. L’unica parte dell’edificio rimasta integra, la sezione inferiore della muratura, sarebbe stata adibita a magazzino del vicino Teatr Polski nel 1955 e successivamente lasciata in uno stato di abbandono: oggi restano a testimonianza di uno dei luoghi cruciali della vita teatrale yiddish nella capitale soltanto rovine abbandonate e in attesa di una nuova assegnazione.
74Dopo anni di instabilità, nel 1938 l’attrice riuscì a prendere in affitto il Teatr Nowości diventando così, insieme alla collega Klara Segalowicz, l’unica donna responsabile della direzione di un teatro yiddish. Il Nowości era uno dei più grandi e raffinati teatri di Varsavia e si trovava nel centro della città, in via Bielańska 5, a pochi passi dal più importante teatro della capitale, il Narodowy, e dall’ambizioso Teatr Kameralny. Alla fine del 1938 la popolazione di Varsavia contava circa un milione e trecentomila abitanti e seguiva con passione le proposte artistiche di diciannove sale e di una ventina di compagnie, che cambiavano repertorio ogni mese, a testimonianza di un interesse sempre vivo dei cittadini per l’arte teatrale.125 Oltre ai teatri in lingua polacca, la capitale annoverava uno studio drammatico russo e tre scene ebraiche, la cui programmazione veniva annunciata anche sulla stampa in lingua polacca: il Nowości, appunto; il Teatro Scala, che soddisfaceva il bisogno di divertimento e risate e contava tra gli artisti residenti Dzigan e Shumacher e tra gli ospiti il duo americano formato da Lilian Lux e Pesach Burstein;126 e il teatro da camera di Jonas Turkow e Diana Blumenfeld, che sul piccolo palco della biblioteca di giudaistica di via Tłomackie presentavano all’intellighenzia ebraica la nuova drammaturgia polacca (Cwojdziński, Nałkowska) e straniera in traduzione yiddish.127
75Assumendo la direzione della scena yiddish più rappresentativa di Varsavia, Ida si trovò a ricoprire un ruolo di prestigio e grande responsabilità. Scelse pertanto di inaugurare la stagione con Glikl di Hameln128 di Max Baumann, un dramma ispirato alla prima autobiografia in lingua yiddish conservatasi fino ai nostri giorni (risalente al xvii-xviii secolo)129 e interpretato con forti allusioni alla coeva politica nazista. L’opera narra la vicenda di una ricca ebrea di Amburgo che si divide tra l’educazione dei figli e la battaglia condotta in tribunale affinché l’assassino del marito – giovane rampollo di una famiglia assai in vista – sia punito. Nello spettacolo diretto e interpretato da Ida, «la richiesta di giustizia rivolta dall’eroina al sindaco di Amburgo risuonò come un appello degli ebrei di tutto il mondo, in particolar modo di quelli stretti nell’orbita di Hitler» .130 L’artista invitò a collaborare all’opera lo scenografo polacco Iwo Gall,131 il quale accettò con l’intento di offrire, attraverso il proprio lavoro, un tributo al teatro yiddish. Lo spettacolo raggiunse un’ampia popolarità e Ida dovette considerarlo una tappa importante nel proprio percorso artistico, visto che decise di riallestirlo spesso nei decenni successivi.
76Incoraggiata dalla reazione entusiasta del pubblico e dal progetto di un sovvenzionamento comunitario che avrebbe consentito alla compagnia l’indipendenza sul piano artistico, l’attrice maturò la convinzione che si fosse conclusa l’epoca del nomadismo e che fosse possibile una rinascita del teatro yiddish in un luogo stabile. Decise pertanto di innalzare il prestigio del teatro da lei diretto con due produzioni, collocate in apertura e in chiusura della stagione 1938/1939, nelle quali investì grandi energie e denaro: Sure Sheindl di Yehupetz, una «mascherata di Purim» basata sulla popolarissima commedia L’anima perduta132 di Yosef Lateiner,133 ma arricchita di inserti musicali a cura di Moyshe Broderzon e della stessa Kaminska, e Fuente ovejuna di Lope De Vega, storia di una coppia di giovani innamorati (Kaminska e Melman) che a metà del xv secolo riescono a guidare gli abitanti di un villaggio nella rivolta contro un tirannico comandante dell’Ordine di Calatrava. Quest’ultimo monumentale allestimento coinvolse alcuni tra i più raffinati artisti polacchi ed ebrei – Iwo Gall ancora alle scenografie, il poeta Alter Kacyzne, il compositore Israel Szajewicz, la coreografa Judyta Berg (già collaboratrice del Dibbuk di Waszyński) – e un cast di settanta persone, tra attori e comparse. Nel montaggio dello spettacolo, Ida mise particolarmente in rilievo gli elementi musicali, coreografici e operettistici, creando una «sinfonia teatrale spagnola»134 armonica e sontuosa che al debutto, il 2 marzo 1939, registrò il tutto esaurito.
77Alla fine di aprile la compagnia di Ida replicò per l’ultima volta Fuente ovejuna e organizzò una serata di celebrazioni in occasione dell’80° anniversario di nascita di Sholem Aleichem presentando l’atto unico Gli uomini, un racconto umoristico interpretato da Yosef Tunkel, considerato un erede dell’arte aleichemiana, e una danza intitolata Menachem Mendl a cura di Judyta Berg. La stagione del Nowości si chiuse con La tempesta diretta da Schiller, che alcuni considerano la migliore creazione di tutta la storia del teatro yiddish in Polonia e nella quale il pubblico di Varsavia ebbe l’opportunità di ammirare il grande attore Avrom Morevski,135 interprete di Prospero. Al termine della stagione Ida si trasferì con la compagnia a Łódź, con l’intento di proseguire la tournée estiva a Vilnius e Leopoli, e affittò il teatro a Zygmunt Turkow, che era tornato nella capitale con la nuova compagnia del vykt, reduce dal successo di una tournée a Cracovia.
4.3. Il terzo vykt
78Turkow aveva riattivato il vykt nel 1938, con l’intento preciso di rafforzare la coscienza nazionale ebraica. Se in passato il progetto si era appuntato sulla creazione di un teatro europeo in lingua yiddish, con il terzo vykt l’artista aspirava invece a creare uno stile teatrale nazionale ebraico, ben radicato nella tradizione e ispirato all’opera di Goldfaden. In un’intervista al critico Mojżesz Kanfer, il regista descrisse questo cambio di prospettiva facendolo risalire agli anni di nomadismo che erano seguiti allo scioglimento del secondo vykt e alla separazione da Ida:
Poi iniziò il mio viaggio per il mondo e cominciai a comprendere meglio il significato della vita ebraica, di quella vita modellata sempre in maniera provvisoria, che perennemente muta d’aspetto, passando dalla più profonda disperazione alla felicità spesso sfrenata. Il teatro ebraico non può essere diverso dalla vita ebraica, deve avere in sé la profondità e la leggerezza, la meditazione e il dinamismo, deve essere cantato, danzato, ricco di lacrime e canti. E tale è il teatro di Goldfaden.136
Il richiamo alla poetica del «padre del teatro yiddish» traduceva l’ambizione di Zygmunt a dare vita a un teatro che entrasse in comunione profonda con il popolo ebraico e con le sue attuali inquietudini. L’ex marito di Ida ricreò infatti il Varshever Yidisher Kunst-teater animato dall’idea di una nuova missione: trasformare l’arte in uno strumento per opporsi alla violenza dell’antisemitismo e al vilipendio dei cittadini ebrei e delle loro tradizioni. Per molti artisti ebrei gli anni Trenta furono contrassegnati da una tendenza alla chiusura difensiva e sia Ida sia Zygmunt si posero il problema di votare il proprio artigianato alla rappresentazione di modelli positivi di vita ebraica. Lo dimostra il mutato manifesto della compagnia del vykt, che delineava la necessità di un teatro «serio», che non anestetizzasse lo spettatore con la vacuità dello shund ma avesse il potere di risollevarne lo spirito:
La collettività ebraica non ha mai avuto tanto bisogno di un teatro serio come ora. […] Lo shund ha trovato il proprio pubblico nel piccolo borghese e nel borghese intellettuale, sui quali agisce come un narcotico, atrofizzando il gusto e le capacità spirituali di resistenza. Il teatro deve infondere gioia, ottimismo, elevazione e fiducia nel domani. […] Attraverso esempi tratti dal lontano passato dobbiamo mostrare che siamo un popolo che, molto prima della nascita di Cristo, ha celebrato l’amore per l’umanità, per il lavoro e l’attaccamento alla terra, dalla quale negli anni siamo stati cacciati e alla quale abbiamo non meno diritto di coloro che ci accusano di essere un popolo di parassiti e usurai.137
Il terzo vykt tornava a puntare l’attenzione sulla drammaturgia yiddish tradizionale, rielaborandola tuttavia nella forma di un folkshpil moderno, una messa in scena in grado di combinare dramma, commedia e operetta con la musica, il canto e la danza: un teatro che necessitava di un regista capace di mettere a sintesi linguaggi e registri e di attori versatili in tutti questi campi. Il repertorio della compagnia incluse il riallestimento dei Sette impiccati e Il campanaro di Notre Dame, l’adattamento del romanzo Lo zio Mosè di Shalom Ash e di Stelle vagabonde di Sholem Aleichem e tre allestimenti da Goldfaden, realizzati nel 1939 a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro: I cantanti di Brody, Bar Kochba e Shulamis o la figlia di Gerusalemme. Furono proprio queste produzioni goldfadeniane, di cui oggi abbiamo qualche notizia grazie agli studi di Mirosława Bułat,138 ad attirare l’attenzione degli spettatori e dei giornalisti.
Turkow vs Goldfaden
Particolarmente rappresentativa della nuova poetica di Zygmunt Turkow fu Shulamis, prima opera del ciclo goldfadeniano che, dopo i successi riscossi a Leopoli e Cracovia,139 nel settembre del 1939 approdò al Teatr Nowości di Varsavia. Come Tkies kaf, anche Shulamis racconta le conseguenze funeste della rottura di un voto. Nel deserto dell’antica Palestina, Shulamis e Avisholem si giurano amore eterno, ma dopo essersi separati l’uomo dimentica l’innamorata e si sposa con un’altra donna. Soltanto la morte dei due figli riporterà alla mente di Avisholem la promessa fatta alla ragazza e, dopo avere abbandonato la moglie, farà ritorno a Betlemme per ricongiungersi con Shulamis, rimastagli sempre fedele. Il desiderio del regista di contrastare la diffusione dell’ideologia nazista attraverso la proposizione di immagini positive della vita ebraica tratte da modelli del passato lo spinse a introdurre diverse modifiche nella caratterizzazione dei personaggi e nello sviluppo della trama. Non tutti i critici apprezzarono la libertà che l’artista si prese nel modificare l’originale,140 ma non poterono fare a meno di constatare che questi riallestimenti condividevano gli stessi scopi delle opere di Goldfaden: risollevare lo spirito del popolo ebraico e risvegliarne l’orgoglio nazionale rinsaldando il legame con il suo passato. Turkow stesso dichiarò esplicitamente che l’obiettivo del suo teatro era offrire evasione ed elevazione morale al ceto medio e al proletariato ebraico, minacciati dall’antisemitismo:
Shulamis di Goldfaden è l’epopea della nobile umanità che caratterizza il nostro popolo. Racchiude tutti i più importanti elementi della tragedia greca e shakespeariana (il fato spietato e ineluttabile, che punisce per peccati non commessi) e presenta allo stesso tempo un elemento ebraico: l’ottenimento del perdono per il peccatore pentito. Inoltre il tutto è proposto in una veste comprensibile, attraverso esperienze e vicende umane realmente accessibili a tutti. […]
E i suoi valori puramente ebraici […]? Non c’è dubbio che gli spettatori odierni, così come quelli di un tempo, nel teatro yiddish vorrebbero trovare distensione e conquistare la fede.
Ho scelto Shulamis […] Un’epoca diversa, un contesto differente, per due ore la possibilità di staccarsi dalla grigia realtà e introdurre lo spettatore allo splendore del paesaggio orientale e mostrargli gli ebrei – non quelli poveri, con la fronte aggrottata dalle preoccupazioni, non quei ragazzotti pallidi e ingobbiti usciti da cheder asfissianti, e neanche il nostro artigiano, il proletario ebreo disperatamente in lotta per mantenere la propria vacillante posizione, a cui il teatro oggi può offrire solo ruoli passivi sulla scacchiera degli eventi – ma gli ebrei-contadini, gli ebrei-pastori, gli ebrei liberi dagli affanni, uomini che sfidano la sorte e ne sostengono il peso, come solo gli uomini liberi sanno fare. Uomini che non sopportano le città e l’atmosfera corrotta delle viuzze, ma amano naturalmente i propri campi, i prati e i cieli sconfinati oltre le montagne. Questi uomini parlano un’altra lingua, più bella e melodiosa. Con il canto manifestano la propria gioia e il canto è espressione della loro tristezza. E soprattutto amano le feste, perché tutta la loro atmosfera è festosa.
Ed è proprio in questa atmosfera che vorrei condurre il nostro concittadino ebreo, oberato di lavoro e angosciato, per incoraggiarlo a dimenticare la propria miseria. Affinché sorrida, respiri liberamente ed esca cantando dal teatro, affinché anche più tardi, al lavoro, gli tornino alla mente le canzoni melodiose di Goldfaden.141
Zygmunt Turkow aspirava a un teatro dal forte impatto sociale e politico, in grado di intaccare la faticosa quotidianità dello spettatore e di fargli risollevare il capo per guardare con fiducia a un futuro dai contorni differenti. Per raggiungere questo scopo, il regista abbandonò soggetti e personaggi dell’attualità e volse il proprio sguardo all’indietro, verso una figura di antenato dai contorni mitici, un uomo dedito ad attività “libere” come la pastorizia e l’agricoltura e non asservito ai meccanismi impoverenti della città.
79Pur non condividendo la medesima idealizzazione del passato, anche Ida concentrò sul teatro le speranze utopiche di un miglioramento della condizione ebraica e, pur temendo l’imminente invasione tedesca, firmò un contratto decennale per l’affitto del Teatr Nowości chiedendo in prestito a un amico l’anticipo di ventimila złoty.
80Il 31 agosto del 1939 Ida, il marito Meir e la figlia Ruth lasciarono Łódź per fare ritorno nella capitale; nel cuore della notte furono svegliati dalle sirene che annunciavano il bombardamento tedesco e decretavano l’inizio della Seconda guerra mondiale. Il terzo giorno dall’inizio del conflitto la Wehrmacht riuscì a circondare le truppe polacche con una manovra a tenaglia da nord e da sud e si aprì la strada verso la capitale. Il cinque settembre una delle bombe scaricate dalla Luftwaffe colpì l’edificio di via Bielańska, dove ancora pochi giorni prima era andata in scena la Shulamis di Turkow, e distrusse il teatro. Nei giorni successivi Ida trovò rifugio insieme alla famiglia e ad alcuni amici, tra cui Zygmunt e la nuova moglie, nelle cantine del Café Esplanade, dove trascorse le giornate attanagliata dalla fame, dalla sete e dalla paura. Attorno alla città, intanto, le truppe polacche che contrastavano eroicamente l’offensiva tedesca confidando nel soccorso degli alleati furono sorprese dall’arrivo a tradimento dei reparti militari sovietici. Quando, il 29 settembre, cessarono le incursioni aeree, l’esercito polacco era stato ormai sopraffatto e Ida scoprì che tutti i documenti della famiglia Kaminski erano stati distrutti e che di venticinque anni di lavoro teatrale non restava più alcuna traccia.142
5. Guerra e sovietizzazione
81Fin dai primi giorni del cessate il fuoco, Ida e Meir compresero la necessità di lasciare al più presto Varsavia: per le strade i soldati tedeschi aggredivano chiunque avesse un aspetto ebraico e la sera prima della partenza Ida fu avvertita da una giornalista polacca che il suo nome si trovava sull’elenco delle persone che la Gestapo avrebbe arrestato con l’accusa di avere prodotto spettacoli anti-hitleriani. La mattina del 17 ottobre – dopo avere salutato gli amici che non volevano o non potevano abbandonare la capitale, tra cui Zygmunt e Jonas Turkow – marito e moglie fuggirono a bordo di due automobili prese in affitto. Con loro, diretti verso i territori occupati dall’Armata Rossa, viaggiavano Ruth e il neomarito, il jazzista Ady Rosner,143 Yitskhok Turkow con la moglie Annie Littman (anch’essa attrice) e altri conoscenti. Seguirono il loro esempio almeno cinquanta tra i più celebri attori del teatro yiddish, che in questo modo trovarono scampo allo sterminio nazista.
82Dopo essere stato preso in ostaggio dai tedeschi, il gruppo riuscì fortunosamente a oltrepassare il confine e a entrare nei territori che di recente erano stati annessi all’Unione Sovietica. L’accordo stipulato tra il Terzo Reich e l’Urss circa la spartizione della Polonia, già decisa in agosto con la firma del patto Ribbentrop-Molotov, si basava su un criterio di omogeneità etnica: al primo sarebbero spettati i territori abitati da polacchi, alla seconda quelli popolati da bielorussi e ucraini, ma anche regioni a maggioranza polacca come la Podolia, i distretti di Białystok, Vilnius e Leopoli (ossia la metà del territorio polacco), e la Lituania. Per mezzo di tale concordato, tredici milioni e duecentomila cittadini della Repubblica Polacca diventavano membri della “famiglia delle nazioni sovietiche”.
83Con il pretesto di liberare i popoli fratelli della Bielorussia e dell’Ucraina, il governo sovietico avviò una brutale campagna di depolonizzazione, mirata a cancellare ogni traccia della cultura polacca: i primi a farne le spese furono i duecen-totrentamila soldati polacchi fatti prigionieri o consegnatisi spontaneamente all’Armata Rossa durante la campagna di settembre. Prigionieri dell’nkvd, alcuni furono deportati nelle aree più remote della Russia mentre oltre ventimila di essi furono eliminati con un colpo alla nuca, con raggelante sistematicità e in spregio a ogni convenzione internazionale.144 Le istituzioni polacche furono spazzate via e per un certo periodo le regioni sotto l’influenza sovietica rimasero preda dell’anarchia e della violenza, che sfociò anche in alcuni pogrom contro gli ebrei, accusati di avere pugnalato alle spalle i polacchi consegnando la nazione ai sovietici.
84L’atteggiamento di generale accoglienza manifestato dalla popolazione ebraica nei confronti del nuovo regime sovietico è ancora oggi un argomento spinoso, oggetto di feroci dispute e recriminazioni. Le ragioni dell’entusiasmo espresso sia dalla locale cittadinanza ebraica sia dagli ebrei che avevano trovato rifugio nei territori occupati dall’Armata Rossa furono molteplici. In molti avevano sperimentato le atrocità compiute dai nazisti nei primi giorni della guerra e apprezzato l’aiuto offerto dai soldati sovietici nell’evacuare città come Lublino e Vilnius; altri erano rimasti impressionati alla vista di un esercito che esprimeva potenza, tecnologicamente equipaggiato e disciplinato, e che manifestava un comportamento assai diverso da quello tenuto dai bolscevichi durante la guerra con la Polonia del 1920, caratterizzato da saccheggi e stupri ancora impressi nella memoria dei più anziani. Inoltre per i militanti comunisti, che contavano una cospicua partecipazione ebraica, l’arrivo dell’Armata Rossa poneva fine a un periodo di esistenza clandestina e prefigurava la realizzazione di un ideale politico: se il Partito Comunista di Polonia era stato liquidato dal Komintern nel 1938,145 molti dei suoi membri avevano continuato a sentirsi pienamente comunisti e avrebbero pertanto contribuito al consolidamento del nuovo regime integrandosi nei governi provvisori. Le comunità ebraiche che avevano già sperimentato la vita in aree annesse all’Unione Sovietica, accolsero semplicemente l’Armata come il minore dei due mali.
85Dal canto proprio, il regime sovietico mirava a ottenere l’integrazione politica e ideologica delle popolazioni ucraine, bielorusse e lituane, ma investì notevoli energie anche per attrarre le minoranze che avevano già espresso simpatie comuniste, e in particolare quella ebraica. Il primo manifesto del governo sovietico si rivolgeva ai fratelli sofferenti dell’Ucraina e della Bielorussia (sarebbe poi stato esteso anche agli ebrei), promettendo uguali diritti a tutti i popoli e condannando il governo polacco come reazionario per avere proseguito la politica zarista di declassamento delle minoranze. Per questo motivo coloro che in precedenza avevano promesso fedeltà alla Polonia (ufficiali dell’esercito, membri della polizia, ma anche attivisti del Partito Socialista Polacco, del Bund e del movimento sionista) vivevano nel costante terrore di essere giudicati come nemici del popolo, arrestati e deportati in Siberia. Fin dall’ottobre del 1939, le autorità militari e civili rafforzarono il processo di sovietizzazione fingendo che l’integrazione dei nuovi territori fosse parte di un processo autonomo e democratico e organizzando le elezioni per le assemblee nazionali dell’Ucraina Occidentale (a Leopoli) e della Bielorussia Occidentale (a Białystok).
86Quando il gruppo di esuli di cui faceva parte Ida riuscì a raggiungere la città bielorussa, vi entrò cantando a gran voce canzoni in yiddish per festeggiare di essere scampato ai nazisti. A Białystok l’attrice fu accolta con grandi onori dalla comunità ebraica e dai rappresentanti del Dipartimento degli Affari Culturali, che le proposero di gestire un teatro. Mentre l’attività culturale ebraica in Unione Sovietica veniva progressivamente ridotta (con l’importante eccezione di quella teatrale),146 nei territori annessi era invece incoraggiata e sostenuta. Il consiglio ricevuto da molti amici, sfollati anch’essi a Białystok da tutta la Polonia, di fuggire ancora più lontano, «da qualche parte al di là dell’oceano», sconcertò Ida, che guardava con fiducia alle promesse di uguaglianza del regime comunista:
ero finalmente arrivata in una terra in cui tutti erano uguali, in cui gli ebrei erano trattati equamente, in cui mi era stata offerta la direzione di un teatro yiddish statale, che fino a quel momento era stata solo un sogno. Avrei dovuto abbandonare tutto ciò per andare in cerca di un luogo in cui potessi diventare ricca? La ricchezza non mi è mai interessata.147
5.1. Il Teatro Statale Yiddish dell’Ucraina Occidentale
87Białystok rappresentò tuttavia una tappa di breve durata: il viaggio della compagnia proseguì in direzione di Leopoli, città in cui abitava la famiglia di Melman e in cui Ady Rosner avrebbe avuto l’opportunità di esibirsi di fronte agli ufficiali di alto rango dell’Armata Rossa. Qui Ida ricevette l’invito, caldamente patrocinato da Mosca, a ricoprire l’incarico di direttrice del Teatro Statale Yiddish dell’Ucraina Occidentale,148 insieme alla promessa di un sostegno economico da parte del regime. La gestione statale della struttura garantiva agli artisti la stabilità e la libertà di dedicarsi esclusivamente alla pratica artistica senza dovere andare in cerca di finanziamenti: un privilegio che il governo seppe ampiamente enfatizzare e strumentalizzare. Ida si trovò così a capo di uno degli otto teatri yiddish statali sorti nei nuovi territori annessi all’Unione Sovietica: a quello di Leopoli, che con diciotto nuove produzioni si distinse per dinamismo, si aggiungevano il teatro statale di Białystok,149 inizialmente diretto da Avrom Morevski, oltre a una scena satirica in cui erano confluiti i membri del Teatro Ararat di Varsavia;150 due teatri drammatici istituiti in Lituania, con sede a Kovno e a Vilnius;151 uno a Riga, in Lettonia; un Der Yidishe Teater fun der Moldavisher ssr a Chişinău, capitale del distretto della Bessarabia prima di allora sprovvista di un teatro yiddish stabile152 e una compagnia itinerante di prima qualità generalmente di stanza a Czernovitz.153 Complessivamente, tra il 1939 e il 1941 questi nuovi gruppi teatrali statali rappresentarono un centinaio di opere e se si considera che uno spettacolo andava in scena mediamente una decina di volte ci si rende conto della quantità di spettacoli in yiddish che furono prodotti in questo periodo.
88Con l’eccezione del teatro di Chişinău, che ebbe il coraggio di inaugurare la propria attività con La strega di Goldfaden, tutti i nuovi teatri permanenti debuttarono con un’opera sovietica; ciò nonostante il repertorio restava sempre saldamente legato ai drammi classici yiddish e, in misura minore, a opere di drammaturghi sovietici contemporanei di origine ebraica (tra i favoriti Markiš, Gershenson, Daniel e Dobrušin). Il ristretto numero di opere di drammaturghi sovietici non ebrei portate in scena attesta la relativa indipendenza della scena statale yiddish del tempo. Anche Ida scelse tra le prime opere Mio figlio, dell’ungherese Sándor Gergely, storia della persecuzione di un comunista da parte del regime reazionario di Miklós Horthy che da poco era stata portata in scena dal teatro dell’Armata Rossa, ma fece prevalere nel suo repertorio classici yiddish come Il decimo comandamento e successi dell’anteguerra come Fuente ovejuna. Un elemento irrinunciabile del programma fu anche La famiglia Ovadis di Perets Markiš,154 il dramma yiddish più rappresentato in Unione Sovietica, propagandato dalla stampa come primo esempio di contatto degli ebrei locali con la realtà sovietica attraverso il ritratto di giovani ebrei rivoluzionari che imbracciano le armi.
89In quei primi mesi di guerra, la Galizia occidentale era diventata uno degli epicentri del teatro ebraico e Ida visse questo periodo con la fiducia di avere trovato riparo in un luogo in cui la cultura yiddish poteva non soltanto sopravvivere, ma addirittura svilupparsi. Una speranza che l’artista condivideva con gran parte dell’eterogenea comunità ebraica: se gli yiddishisti contavano sulla simpatia del regime per la cultura yiddish e sulla possibilità di inserirsi nelle linee di governo con opere «di contenuto socialista e forma nazionalista», i sionisti prendevano atto che l’avvento del nuovo sistema politico avrebbe comportato la fine della lingua ebraica e guardavano alla cultura yiddish come l’ultimo scampolo di identità, e anche tra folkisti e bundisti si respirava un’analoga speranza. Solo più tardi sarebbe sopraggiunta l’amara disillusione e tutti avrebbero compreso che l’obiettivo del governo comunista era circoscrivere l’attività culturale ebraica a fini esclusivamente propagandistici. A quell’epoca, invece, molti intellettuali e artisti ebrei guardavano ai territori annessi della Polonia orientale, delle Repubbliche Baltiche, della Bessarabia e della Bucovina settentrionale come a un nuovo spazio di creazione e vi confluirono in massa.
90Gli ebrei rifugiati si mescolarono a oltre tre milioni di ebrei russi, andando a costituire un terzo della popolazione ebraica del mondo. I due gruppi, tuttavia, presentavano notevoli differenze sociali, culturali e spirituali. Gli ebrei “annessi” (tra cui i polacchi) abitavano prevalentemente in shtetl e piccole cittadine, erano dediti a occupazioni tradizionali, utilizzavano la lingua yiddish per le attività di tutti i giorni, erano cresciuti floridamente attorno alla propria eredità ebraica (sia religiosa che secolare) e avevano creato numerose congregazioni, organizzazioni filantropiche, istituzioni culturali e partiti politici, tra cui vigorosi movimenti giovanili come quello sionista. Gli ebrei russi, al contrario, potevano considerarsi in genere assimilati: appartenevano in gran parte all’intellighenzia cittadina, non possedevano organizzazioni pubbliche proprie, parlavano perlopiù russo e i giovani erano stati educati nello spirito del movimento comunista. Attraverso l’esodo da ovest, i secondi entrarono in contatto con un ebraismo sconosciuto e in questo incontro artisti come Perets Markiš ravvisarono la possibilità di un incremento dell’attività culturale in yiddish. La politica sovietica, invece, mirava a omologare al più presto i due gruppi, sopprimendo il pluralismo nella vita culturale e spirituale ebraica (così come faceva con tutti gli altri popoli) e sfruttando lo yiddishismo a fini promozionali, ma svuotandolo del tutto del suo contenuto nazionale.155
91Nell’adempiere all’ufficio di direttrice del Teatro Statale Yiddish dell’Ucraina Occidentale, Ida fu costretta a destreggiarsi tra le animosità interne alla compagnia, i cui membri originari, galiziani, mal tolleravano l’arrivo dei colleghi varsaviani e la successiva ondata di artisti provenienti dal teatro di Dnipropetrovs’k. Anche la circolazione e la fusione delle compagnie teatrali erano parte di una precisa strategia di sovietizzazione: a metà del 1940, ad esempio, il teatro yiddish di Dnipropetrovs’k era stato chiuso e un gruppo di attori, il cui «stile recitativo era in forte contrasto»156 con quello promosso da Kaminska, era stato mandato a integrarsi con la compagnia del teatro di Leopoli. Nella primavera dello stesso anno era stato anche imposto un cambiamento nella dirigenza, passata dapprima nelle mani di un russo, poi di un ebreo, poi di un ucraino e infine ancora di un ebreo. Ida continuava comunque a dirigere la scena sotto il profilo artistico e il suo status nell’ambiente teatrale rimaneva indiscusso, al punto che nel dicembre 1940 le autorità la elessero presidente del comitato degli attori (una sorta di “direttore politico”) e consigliere comunale, per approfittare del suo nome a fini di propaganda.157 Ida ricoprì questi incarichi politici con grande disagio, dovendo rispondere della mancata iscrizione al partito e ricevendo inviti pressanti a manifestare più apertamente la propria devozione a Stalin durante i comizi a cui era obbligata a partecipare, ma al contempo apprese l’arte della convivenza con il regime, apprendistato che le sarebbe presto tornato utile.
92Nell’estate del 1940 Ida si recò a Leningrado per incontrare la figlia Ruth e la sua fiducia nei confronti dell’Unione Sovietica si incrinò definitivamente: sulla strada l’attrice e il marito sostarono a Kiev per fare visita ad alcuni vecchi attori della compagnia della madre, i quali però le raccontarono di un crescente sentimento di intolleranza nei confronti degli ebrei, di persone torturate perché sospettate di spionaggio e fu essa stessa testimone delle miserabili condizioni in cui versavano gli artisti sovietici, i quali faticavano a procurarsi perfino i generi alimentari di prima necessità. A Leningrado, Ida e Meir assistettero al concerto dell’orchestra di Ady Rosner e all’esibizione canora di Ruth ed ebbero modo di saggiare il divario tra lo stile di vita lussuoso del genero, uno degli artisti prediletti dal “padre del popolo”, e la miseria a cui era condannata la maggioranza della popolazione. Sulla via del ritorno, la coppia si fermò nuovamente a Kiev, dove ebbe occasione di vedere il Re Lear del Teatro Statale Yiddish di Mosca, considerato uno dei più importanti spettacoli del teatro yiddish ed europeo del xx secolo.158 L’incontro con Solomon Michoels, protagonista di primo piano dell’avventura teatrale yiddish, deluse però le aspettative di Ida. Le poche righe che l’attrice dedica alla serata lasciano intuire che nutrisse alcune riserve, purtroppo mai esplicitate, nei confronti dello spettacolo e del suo protagonista.159 Con la scusa di non avere avuto altre occasioni di vederlo in scena, nelle sue memorie si dichiara incapace di esprimere un giudizio articolato sul lavoro d’attore di Michoels, ma lo descrive comunque come
un uomo affascinante, e questa qualità affiorava sul palcoscenico nella sua interpretazione di Re Lear. Non posso giudicarlo con precisione come attore, ma attirava l’attenzione. A tutti piaceva Zuskin nel ruolo del buffone. Molti sostenevano fosse migliore di Michoels ma io non potrei affermare una cosa del genere. Zuskin [nel ruolo del Fool] era molto bravo – era impressionante – ma in Michoels si percepiva con forza l’intellettuale. Forse Zuskin era più maestoso, più drammatico e aveva più tecnica teatrale.160
Se non è del tutto chiaro quale dei due interpreti Ida preferisse e per quale ragione, è però certo che rimase dispiaciuta dalla scena che trovò nel camerino del primo attore quando lo raggiunse al termine dello spettacolo: Michoels sedeva infatti «come un imperatore»,161 attorniato da giovani attrici che lo adulavano, lo sventagliavano e gli servivano il caffé. Al di là dell’aneddotica, non possiamo non rammaricarci che lo sguardo di Kaminska si sia appuntato su un episodio antipatico e non sullo spettacolo in cui Gordon Craig aveva riconosciuto il teatro del futuro, un gioiello di bellezza e poesia.
5.2. La fuga verso est
93Dopo avere fatto ritorno a Leopoli, città in cui l’atmosfera era più leggera che nel cuore della Russia e in cui la coppia si rimise al lavoro con la sensazione di riuscire, letteralmente, a respirare con più facilità, nel giugno del 1941 Ida si recò in tournée con la compagnia nella città di Rovno, con l’idea di allestire Il decimo comandamento e Mirele Efros. All’alba del 22 giugno, però, gli artisti furono svegliati da rumori di spari e bombardamenti, che annunciavano l’inizio della cosiddetta “Operazione Barbarossa” con cui il Terzo Reich invadeva un’attonita Unione Sovietica rescindendo il patto di non aggressione. Poche ore più tardi, in una città presa di mira dalla Luftwaffe, la compagnia di Ida fu costretta ad andare in scena di fronte a una platea deserta poiché il direttore amministrativo, un ligio burocrate ebreo sovietico, sosteneva di non avere ricevuto ordine di cancellare lo spettacolo. A distanza di anni Ida ricorderà che per molti attori e membri dell’orchestra quella matinée goldfadeniana sarebbe stata l’ultima, tetra, performance prima di andare incontro alla morte.
94Nel terrore di cadere in mano tedesca, Ida, che nel frattempo aveva scoperto di essere incinta, riprese la fuga verso est. Seguita da molti membri della compagnia, intraprese un viaggio estenuante, a piedi e in treni colmi di profughi, per approdare dapprima a Kiev e poi a Char’kov, città in cui incontrò molti amici e colleghi. Da qui, Ida e Meir salirono sull’unico treno deserto, che era diretto a Baku, capitale della Repubblica Socialista Sovietica Azera e importante riserva petrolifera dell’urss. In città vigevano tuttavia norme severe in merito all’accoglienza dei rifugiati e, dopo qualche giorno di riposo, Ida e compagni ricevettero la visita di una pattuglia militare, che li costrinse a imbarcarsi su una nave diretta verso la sponda opposta del Mar Caspio. A Tashkent, capitale della Repubblica Socialista Sovietica Uzbeka, incontrarono altri colleghi, temporaneamente evacuati nello stesso luogo: la star dell’operetta Clara Young, amica di vecchia data di Ester Rokhl, il compositore Henryk Wars, celebre autore di musiche per il cinema, i comici Shimen Dzigan e Yisroel Shumacher, nonché lo stesso Solomon Michoels con la troupe del Teatro Statale Yiddish di Mosca.
95Ida e Meir conclusero provvisoriamente il proprio esodo stabilendosi nella città di Frunze (oggi Bishkek), capitale della Repubblica Socialista Sovietica Autonoma del Kirghizistan in cui avrebbero trascorso quasi tre anni. Qui, nell’ottobre del 1941, l’attrice mise al mondo un figlio prematuro di nome Wiktor e qualche settimana dopo Ruth, che aveva raggiunto la madre dalla Siberia, diede alla luce Erika (chiamata così in omaggio alla bisnonna Ester Rokhl Kaminska).
96Inizialmente la compagnia di Ida fu assorbita all’interno della filarmonica locale, una condizione che permetteva agli artisti di ricevere le tessere indispensabili per procurarsi da mangiare, e suscitò l’interesse delle poche decine di ebrei residenti in questo paese industriale dell’Asia centrale. Con il passare dei mesi, però, su Frunze si riversò un grande numero di profughi provenienti dalle altre regioni dell’Unione Sovietica, dalla Polonia e dall’Ucraina, tra cui anche molti attori dei teatri yiddish di Leopoli e Białystok. La missione di Ida si ripropose allora con rinnovata urgenza: il teatro divenne il principale luogo di aggregazione di esseri umani che condividevano la medesima condizione di esuli e il bisogno di difendere la propria identità attraverso la «consolazione offerta da una parola in yiddish».162 Di nuovo a capo di una compagnia teatrale, Ida si mise all’opera riscrivendo a memoria alcuni testi gordiniani, tra cui L’orfana Chasie, Il macello e Sonata a Kreutzer, e allestendoli di fronte a un pubblico sempre più numeroso e coinvolto:
Quando apparvi sulla scena fui testimone di una dimostrazione commovente. Tutta la platea si alzò in piedi, applaudendo e piangendo. Anche noi sulla scena cominciammo a piangere. In piedi, ci guardavamo gli uni gli altri, spettatori e attori, senza un tetto, perseguitati, a migliaia di chilometri dalle nostre case, dove molti di noi avevano lasciato i propri cari.163
L’importanza del lavoro di Ida Kaminska, e ancor più del suo ruolo di «madre di tutti»164 gli ebrei espatriati, riaffiora nelle memorie di coloro che scamparono all’eccidio nazista trovando rifugio in Asia: per esempio Renee Grobart, figlia dell’attore Mordechai Abelman e all’epoca della guerra una bambina, racconta che a Frunze gli ebrei cercavano di stare insieme per ricevere aiuti dal governo sovietico e si commuove al ricordo dell’attrice perché «her name meant a lot in that time. Just say that this was [Ester Rochl’s] Kaminska’s daughter meant that we got maybe more water or another piece of bread».165
97Con il passare dei mesi Frunze fu percorsa da alcuni importanti cambiamenti: se nel primo periodo il pericolo maggiore per i rifugiati era rappresentato dall’epidemia di tifo, che causò la morte di alcuni attori, in seguito l’eco della propaganda nazista e le condizioni di crescente impoverimento provocarono il risveglio di comportamenti antisemiti. A ciò si aggiungeva l’ambigua politica sovietica: per effetto dei fragili accordi tra il Cremlino e Władysław Sikorski, primo ministro del Governo Polacco in esilio, a Frunze e in molte altre città furono inaugurate rappresentanze polacche, che si occupavano di distribuire aiuti agli esuli, ma dopo qualche tempo furono soppresse e chiunque vi fosse stato registrato – inclusa Ida con la sua famiglia – fu interrogato dall’nkvd con l’accusa di avere tradito la causa socialista.
98Con il peggioramento dell’atmosfera politica anche le opportunità teatrali si fecero sempre più sporadiche per cui Kaminska decise di proseguire la propria ricerca altrove. Avuta notizia dell’imminente apertura di una compagnia teatrale in seno all’Armata Polacca filosovietica, contattò la scrittrice e attivista comunista Wanda Wasilewska proponendole di unirsi, insieme al marito e al figlio, all’esercito. Dal momento che la proposta non si concretizzò, nell’aprile del 1944 Ida e Meir affidarono la compagnia nelle mani dell’attore Simche Natan e raggiunsero Ruth e Ady a Mosca.
5.3. La realtà moscovita e il ritorno in Polonia
99Nella capitale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche Meir trovò lavoro come annunciatore della sezione polacca di Radio Mosca e fu tra i fondatori della sezione ebraica dell’Unione dei Patrioti Polacchi. Per Ida, invece, l’ambiente moscovita si rivelò sfuggente: sulle prime fu accolta calorosamente, ma nel corso di due anni e mezzo di permanenza non riuscì mai a lavorare in teatro. In questo periodo il suo principale interlocutore fu Solomon Michoels, che a più riprese la rassicurò sul suo futuro lavorativo e durante le celebrazioni per il ventesimo anniversario della morte di Ester Rokhl la segnalò come naturale erede del progetto materno. Tuttavia fino al 1946 Ida attese invano un’occasione per tornare sulle scene. Quando Michoels le comunicò che l’unica possibilità sarebbe stata organizzare una serata in lingua polacca, ossia sottostare a obblighi analoghi a quelli imposti alla madre trent’anni prima, non ebbe alcuna esitazione e rifiutò recisamente.
100Kaminska maturò un giudizio severo nei confronti di Michoels, presumendo che non volesse creare un precedente con l’istituzione di un programma yiddish all’interno della Società Teatrale Ebraica, e altrettanto inclemente fu la sua opinione sul Goset:
Sinceramente, avevo dei dubbi sul suo teatro. Sapevo che non saremmo giunti a nessun accordo. Il dialetto yiddish degli attori mi sembrava troppo marcato (esageratamente lituano) e non ero abituata al loro stile recitativo. […] Li ho visti mettere in scena Sholem Aleichem […] e Goldfaden. Non posso dire di essere rimasta abbastanza soddisfatta da considerarlo il migliore teatro di Mosca.166
Alla base della sensazione di estraneità riferita da Ida potrebbe esserci un pregiudizio nei confronti dei litvakes, gli ebrei che parlavano il dialetto litvisher yidish (yiddish lituano) e che gli ebrei polacchi (parlanti poylisher yidish) sospettavano di intellettualismo, simpatie goy e, in una parola, carenza di yidishe neshome (anima yiddish). L’opposizione tra i due gruppi rifletteva non solo varianti fonologiche, lessicali o sintattiche, ma anche differenze nei riti sinagogali e negli usi alimentari. Questo potrebbe indicare un’istintiva e irrazionale diffidenza dell’artista, ma in verità dobbiamo arrenderci al fatto che, anche in questo caso, le ragioni più profonde delle riserve nei confronti dello stile attoriale del Goset rimarranno nell’ombra.
101Di certo Ida era disorientata da un contesto che non riusciva a comprendere, nel quale la paura impediva a molti di esprimere la propria opinione e in cui nessuno parlava apertamente yiddish. È opportuno ricordare, infatti, che la storia del teatro yiddish in Polonia differisce profondamente da quella dell’Unione Sovietica, come dimostra la lotta sostenuta da Kaminska per rappresentare un repertorio che fosse anche europeo e quella di Michoels, che invece propugnava un teatro dai temi ebraici. Se il repertorio internazionale esprime una conquista per Kaminska, diviene invece la spia del ribaltamento dell’atteggiamento del regime comunista nei confronti della cultura ebraica nel caso del Goset. La carica di presidente del Comitato Antifascista Ebraico, che Michoels aveva assunto nella speranza di proteggere il proprio teatro, per qualche anno si rivelerà, in effetti, uno strumento utile nelle mani della politica sovietica, in cerca della solidarietà delle comunità ebraiche internazionali. Nel gennaio del 1948, però, Solomon Michoels verrà assassinato e l’anno successivo il Teatro Statale Yiddish di Mosca chiuderà i battenti. La morte dell’artista inaugurerà la lunga serie di “purghe staliniane” che, tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, decimeranno l’élite culturale ebraica, annoverando tra le vittime molti degli artisti e amici con cui Ida aveva trascorso gli anni moscoviti: tra gli altri, i drammaturghi Perets Markiš e Dovid Bergelson, i poeti Shmuel Halkin e Itsik Fefer e lo scrittore Der Nister.
102Durante la permanenza a Mosca Ida si recò spesso a teatro, lamentando tuttavia la carenza di innovazione nel repertorio, che restava ancorato ai grandi classici ostacolando lo sviluppo di nuovi stili: a suo avviso anche il Teatro d’Arte, nonostante gli ottimi attori della nuova generazione, «in generale dava l’impressione di essere un museo: non metteva in scena nessuna nuova opera di buona qualità».167
103Dopo avere rimandato la decisione per quasi un anno per timore di separarsi da Ruth, che insieme al marito stava incontrando maggiori difficoltà a registrarsi per il rimpatrio, alla fine del 1946 Ida si mise in viaggio con il marito e il figlio più piccolo per tornare in Polonia. Al tempo era impossibile lasciare l’Unione Sovietica per la Polonia senza l’appoggio di persone influenti e l’impegno a offrirsi come “collaboratori” una volta rientrati: non sappiamo con quali mezzi e promesse Ida abbia ottenuto il permesso del regime, ma riuscì nell’intento di tornare a casa. Nonostante le fosse giunta notizia del pogrom di Kielce,168 che aveva indotto oltre novantamila ebrei a lasciare la Polonia, come molti ebrei polacchi sopravvissuti avvertiva l’urgenza di ricostruire ciò che la ferocia nazista aveva distrutto. A novembre giunse nella città fantasma di Varsavia e l’impatto con le rovine fu penoso: paradossalmente, soltanto il cimitero in cui riposava la madre le sembrò parte di una città vivente.
Ero oppressa dalla sensazione che soltanto questo fosse rimasto della grande città ebraica di Varsavia. […] Gli ebrei avevano l’usanza di fare visita alle antiche tombe di famiglia. Noi eravamo giunti sulla tomba di un intero popolo, ma le tombe erano ricoperte di cenere vulcanica, sabbia e pietre.169
Il 3 dicembre Ida prese la parola dai microfoni della Radio Polacca,170 rivolgendosi in yiddish a tutti gli ebrei polacchi sparsi per il mondo, rievocando le prime impressioni del ritorno e condividendo i propri sogni per il futuro del teatro:
Ho rivolto i miei primi passi verso il cimitero ebraico di Varsavia, verso la tomba di mia madre, la madre del teatro yiddish. Ho sostato sulla tomba di Peretz, su tombe antiche e recenti. Poi ho camminato per un paio d’ore tra le rovine del ghetto di Varsavia. Alla vista del cimitero, vivo, e del ghetto, morto, sono stata invasa da una strana sensazione… Chiunque può immaginarsi tragiche rovine, ma soltanto chi si trovi in mezzo a spaventosi mucchi di macerie, mattoni e ferraglie, imbevuti del sangue dei nostri cari, può sperimentare un’autentica commozione, un profondo rispetto e un enorme dolore nei confronti di tanta sofferenza, così come una sincera ammirazione per l’eroismo di decine di migliaia di ebrei, che qui hanno vissuto, combattuto e che qui sono morti. […] Mi rendo conto che in questo momento il nostro lavoro culturale deve essere imponente e realizzato con grande slancio, affinché sia un degno monumento alle vittime e agli eroi. Stessa cosa vale anche per il teatro yiddish. So che la questione del teatro è connessa a molte difficoltà. Creare un teatro degno di diventare un monumento richiede molto lavoro, tempo e mezzi, ma deve essere fatto. È un lavoro che deve essere intrapreso dagli attori che si trovano in Polonia e in tutto il mondo. È inoltre un dovere per Zygmunt Turkow, Dina Halpern, Rokhl Holzer, Maks Bożyk e per tutti gli altri, mettersi a servizio del teatro proprio qui, sulla terra su cui sono sparse le ossa dei nostri cari. […] Questo soltanto è il fondamento di un teatro che voglia essere vivo monumento per le nostre vittime.171
6. Verso la creazione di un Teatro Statale Yiddish in Polonia
104La Polonia a cui fece ritorno Ida Kaminska era uno stato radicalmente trasfigurato dal conflitto, che aveva perduto il venti per cento del suo territorio e che aveva subito un drastico spostamento di confini da est a ovest e il trasferimento di intere popolazioni. Le regioni invase dai sovietici nel 1939 erano state annesse dall’Unione Sovietica e la sottrazione di città simbolo della cultura polacca ed ebraica come Leopoli e Vilnius era stata solo parzialmente compensata dall’acquisizione di Wrocław (Breslavia) e Szczecin (Stettino), dalla piena sovranità su Danzica e su una vasta fascia costiera sul Baltico. Il costo in termini di vite umane tutt’oggi resta incerto, ma sommando le vittime delle azioni di guerra, quelle del terrore nazista, dell’occupazione sovietica e di coloro che sparirono in Unione Sovietica, si stima che ammonti a sette milioni e mezzo di morti.172 A essere mutata era anche la struttura sociale del paese, perché la guerra aveva falciato la popolazione urbana in misura quattro volte superiore a quella rurale, colpendo in particolare la piccola e media borghesia. Quasi la metà delle vittime erano cittadini polacchi membri della comunità ebraica (in larga maggioranza urbanizzata e appartenente alla borghesia e all’intellighenzia), in cui erano stati inclusi anche coloro che non si consideravano ebrei ma che furono marchiati come tali dalla perversa politica nazista.
6.1. Nuove basi
105Dal momento che con la Seconda guerra mondiale e la Shoah era scomparso quasi il novanta per cento degli ebrei polacchi e la costellazione di teatri in lingua yiddish si era spenta per sempre, la responsabilità degli artisti sopravvissuti era accresciuta dal dolore della solitudine e dalla determinazione a tramandare la memoria di chi non c’era più, traducendo anche sulla scena il precetto religioso che impone al popolo ebraico il dovere del ricordo.173 Fin dal suo ritorno, Kaminska si sentì investita della missione di mantenere in vita l’eredità del popolo ebraico, la preziosa yiddishkheyt, attraverso il teatro. Nonostante il feroce sterminio, in Polonia era rimasta una delle più cospicue comunità ebraiche (formata da oltre trecentomila persone) e fin dai primissimi mesi del dopoguerra si era impegnata nella ricostruzione della vita culturale yiddish: uno sforzo che avrebbe condotto alla creazione dell’unico teatro statale ebraico del mondo (oltre a quello israeliano) e di una delle pochissime scene teatrali del secondo Novecento in cui si recitava in yiddish.
106Il centro della rinascita ebraica del dopoguerra non fu però la città di Varsavia, che nel conflitto era stata completamente distrutta, ma la regione sud-occidentale della Bassa Slesia, prima appartenuta alla Germania, nella quale era rimasto un esiguo gruppo di sopravvissuti (circa duemila persone).174 La Bassa Slesia appariva agli ebrei come una regione amichevole perché libera dall’antisemitismo serpeggiante anche nei primi mesi dopo la guerra ed era un luogo ideale in cui insediarsi per via del clima adatto all’agricoltura e del territorio ricco di risorse minerarie e naturali. Ancora più importante, gran parte della zona era passata indenne sotto la guerra (con l’eccezione di Breslau/ Wrocław), tutti i centri abitati erano dotati di elettricità e riscaldamento e le abitazioni (nonchè le fattorie e le fabbriche) dei tedeschi espulsi venivano ridistribuite tra ebrei e polacchi.
107La comunità ebraica che si stabilì nella Bassa Slesia era composta da sopravvissuti ai campi di sterminio e da ebrei rimpatriati dai territori orientali, i cosiddetti Kresy. Il programma di disumanizzazione e di sterminio elaborato dai nazisti aveva lasciato i superstiti in una condizione di solitudine e profonda disperazione: stremati dall’esperienza della guerra, ebrei e polacchi si misero al lavoro per riassegnare alla vita un valore e le prime associazioni che crearono furono gruppi di teatro amatoriale, molto popolari in tutte le nuove comunità ebraiche. Mentre costruivano scuole, case di preghiera e cooperative di lavoro, questi uomini sradicati e soli si rivolgevano istintivamente al teatro confidando nel suo ruolo terapeutico e nella sollecitazione sensoriale offerta dalla parola yiddish e dalla comunanza con altri sopravvissuti, che sulla scena cantavano la vita ricacciando, almeno per qualche ora, i traumi postbellici. Ben prima dell’arrivo di Ida Kaminska erano sorte diverse iniziative musicali e teatrali, spesso di carattere occasionale e organizzate nello spirito del puro divertimento e della restaurazione di una fiducia nel futuro. Nel luglio del 1946 la riattivata Associazione degli Artisti delle Scene Ebraiche decretò l’istituzione di due compagnie teatrali professionali, con sede a Wrocław e Łódź città industriale con una lunga tradizione culturale yiddish che aveva preso il posto di Varsavia quale centro della vita culturale e amministrativa: la direzione della prima fu assunta da Zalmen Koleśnikow, anche se a guidare gli attori era Simche Natan, mentre la compagnia con sede a Łódź era diretta da Moishe Lipman.
108Uno dei primi problemi da affrontare era la mancanza di edifici adatti ad accogliere le compagnie yiddish e poiché il teatro costituiva il luogo di aggregazione favorito dalla comunità ebraica del primo dopoguerra la questione suscitava un grande interesse. Nonostante l’indifferenza degli ortodossi e dei sionisti – che consideravano la permanenza in Polonia temporanea e giunsero addirittura a istituire una campagna anti-teatrale giudicando la colletta per la costruzione del teatro uno sperpero che sarebbe stato più proficuo indirizzare al sostegno degli ebrei che combattevano in Palestina – la collettività partecipò con entusiasmo alla ricostruzione, chi versando l’un per cento del proprio stipendio (una scelta condivisa anche da molti polacchi), chi offrendo la propria manodopera. Nell’aprile del 1949, a Wrocław, questo sforzo collettivo condusse all’inagurazione di un teatro da cinquecento posti con un ottimo equipaggiamento tecnico, sito in via Świdnicka 28 e intitolato a Ester Rokhl Kaminska. La pièce scelta per il debutto fu Stelle vagabonde, per la regia di Zygmunt Turkow, divenuto direttore di un teatro yiddish a Rio de Janeiro e tornato in visita in Polonia. Alla morte di Simche Natan, nel dicembre del 1946, a Ida fu offerto di prenderne il posto e la sua visita a Wrocław, due mesi più tardi, fu accompagnata dalla speranza che l’attrice avrebbe preso in mano le redini del Nidershlezyer Idisher Teater (Teatro Yiddish della Bassa Slesia).
109In realtà fino al 1948 l’attrice non si legò stabilmente a nessun ensemble, ma intraprese diverse collaborazioni, probabilmente con l’intento di saggiare le forze degli attori e cercare il luogo più adatto alla realizzazione dei propri progetti. Un altro fattore che incise sicuramente sulla decisione fu la notizia, ricevuta pochi giorni dopo il ritorno a Varsavia, che la figlia e il genero erano stati arrestati in Unione Sovietica con l’accusa di spionaggio e alto tradimento. Da quel momento Ida trascorse i mesi tornando regolarmente nella capitale per cercare l’aiuto di persone influenti, ma tutti i suoi tentativi si rivelarono vani e Ruth e Ady furono condannati a trascorrere diversi anni in Siberia, separati l’uno dall’altra e senza il permesso di vedere la figlia.175 In quei primi mesi angosciosi, Ida si trovò spesso a recitare in uno stato di allucinazione, credendo di riconoscere la figlia e la nipotina tra il pubblico. Sarebbe riuscita a riabbracciarle soltanto nel 1956.
110Anche per accrescere ulteriormente la propria popolarità e sperare in un trattamento di favore nei confronti della famiglia esiliata, Ida si impegnò in un’intensa tournée con il Teatro Yiddish della Bassa Slesia, visitando tutti i piccoli e grandi centri slesiani e spingendosi fino a Łódź, Varsavia e Szczecin. Ovunque, gli attori si trovarono di fronte una platea appassionata di spettatori ebrei, che dopo l’orrore del nazismo provavano un forte attaccamento nei confronti della cultura yiddish, ma anche di polacchi, che pur non capendo la lingua avevano preso l’abitudine di partecipare a un teatro che sembrava parlare a tutti. Questa familiarità presentava anche un risvolto negativo perché l’atteggiamento degli spettatori ricordava quello diffuso nei teatri all’aperto dell’anteguerra, in cui tutti mangiavano e bevevano commentando ad alta voce ciò che accadeva sulla scena, mentre i bambini correvano per la sala e cercavano di arrampicarsi sul palcoscenico. Per venire incontro ai gusti di tutti gli spettatori, il teatro di Wrocław proponeva opere di genere differente, compresi vaudeville e varietà, mentre la maggior parte dei drammi attingeva al canone classico (composto dalla triade Gordin, Goldfaden, Aleichem).
111Anche la compagnia del Teatro Yiddish di Łódź sperimentava analoghe difficoltà causate dalla mancanza di una sede e dalla necessità di difendersi dal fuoco della critica che, seguendo con attenzione la rinascita del teatro yiddish, era particolarmente esigente e disprezzava ogni forma di facile intrattenimento, etichettandolo come shund. Il direttore Lipman non fu in grado di rispondere alle aspettative e le sue produzioni furono giudicate di bassa lega, incapaci di reggere il confronto con le produzioni polacche e di innalzare il livello artistico del teatro yiddish. La stagione 1947/1948 del Teatro Yiddish di Łódź si concluse pertanto sotto la direzione di Ida Kaminska, che in dicembre aveva debuttato a Wrocław con la regia di Stasera verrà un amico di Yvan Noé e Jacques Companeez, dramma ambientato durante la Seconda guerra mondiale in un ospedale psichiatrico in cui trovano rifugio alcuni membri della resistenza e un ebreo.
6.2. A capo della scena yiddish del dopoguerra
112Dal momento in cui assume la direzione del teatro di Łódź appare evidente che Ida si è presa carico dell’esistenza e della qualità artistica non soltanto di quella compagnia, ma dell’intero sistema teatrale yiddish in Polonia. In qualità di direttrice, l’artista intraprese diverse manovre volte a stabilizzare la condizione del teatro e a garantirgli un futuro sotto gli auspici dello stato e non più dipendente dalle ristrette risorse delle organizzazioni ebraiche; seguì inoltre in prima persona la ristrutturazione della sala di via Jaracz 2, resa possibile dalle donazioni di due semplici cittadini, e la inaugurò il 21 novembre del 1948 (in corrispondenza con la festività di Rosh Hashana) con un’opera dall’immutata valenza simbolica: Glikl di Hameln.176 Un giovane spettatore del tempo ricorda così l’impatto che quello spettacolo ebbe su di lui e sui compagni di scuola:
Ho visto per la prima volta il Teatro Yiddish e Ida Kaminska nella Łódź del dopoguerra, in un locale rozzo, che veniva chiamato “pollaio” perché ci si sedeva sulle panche di legno come su un posatoio. Al tempo, lo spettacolo che produsse in me l’emozione più forte fu Glikl fun Hammeln fodert gerechtikajt, ossia Glikl di Hameln chiede giustizia. Tutti i miei compagni della scuola ebraica furono molto commossi da quell’opera, perché tutti noi chiedevamo giustizia e andavamo al teatro yiddish come in sinagoga, anzi al posto di andare in sinagoga.177
Nei mesi precedenti l’apertura ufficiale alla presenza delle autorità, l’artista propose però al pubblico L’avvocatessa e La sparatoria di via Długa, due opere estranee al repertorio yiddish tradizionale che suggerivano il profilo artistico assunto dal nuovo teatro. Dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, Ida era infatti ancora più convinta che la scena yiddish non dovesse confinarsi in un ghetto di temi ebraici, solleticando il vagheggiamento nostalgico o il semplice intrattenimento, ma dovesse ambire a confrontarsi con ogni aspetto della contemporaneità.
113Questa convinzione la spinse ad aprire il teatro a un pubblico non ebraico anche attraverso la redazione di programmi in lingua polacca, che raccontavano nel dettaglio la trama dello spettacolo. Grazie a questa innovazione il teatro attirò un pubblico nuovo178 – in grado di riempire le poltrone lasciate sempre più vuote dagli spettatori ebrei, che in quegli anni emigravano in massa (circa centomila persone solo nel 1946) – ma anche l’attenzione della critica, che da quel momento cominciò a seguire le produzioni in yiddish. Alla rinascita della cultura yiddish contribuì attivamente anche la stampa ebraica in lingua polacca, rappresentata dai giornali «Opinia» (Opinione), «Nasze Słowo» (La nostra parola) e «Mosty» (Ponti), che coordinò i primi tentativi spontanei di fare risorgere una vita teatrale, tra l’altro organizzando e supportando economicamente la ricostruzione del teatro di Łódź. Un ruolo importante giocarono in questi primi anni del dopoguerra le recensioni, attraverso le quali si discutevano le idee proposte in scena e l’immagine della società ebraica rappresentata, ma anche il lavoro degli attori, di cui veniva evidenziata in modo particolare la natura collettiva.179
114Il periodo postbellico fu dunque segnato da profondi contrasti: da una parte proseguiva l’emorragia della popolazione ebraica, che sempre più spesso decideva di abbandonare la Polonia per recarsi in Israele e veniva incoraggiata nel proprio intento dai comunisti, che in tal modo contrastavano l’imperialismo britannico, loro principale nemico dopo il crollo dei fascismi; dall’altra chi sceglieva di rimanere, come Ida Kaminska, o di tornare come Luba Stolarska e Sylik Shternfeld, allievi dell’Istituto Teatrale moscovita intitolato a Michoels, o i coniugi Chevel e Riva Buzgan, era deciso a battersi affinché la cultura yiddish fosse riconosciuta come parte integrante della “nuova realtà”. Il prezzo da pagare per questa integrazione fu, però, l’ingerenza del nuovo governo.
115Dopo avere beneficiato di regolari sovvenzioni, nel marzo del 1949 la direttrice del Teatro Yiddish di Łódź ricevette, come tutti gli altri teatri sotto l’egida del Ministero della Cultura e dell’Arte, un documento nel quale erano indicati gli obiettivi che la struttura avrebbe dovuto raggiungere per rientrare nel Piano Economico Nazionale dell’anno: nove debutti, ottanta rappresentazioni in sede e quarantacinque in tournée, «al servizio» di quarantamila spettatori.180 Inoltre, dalla fine degli anni Quaranta il Ministero iniziò a intromettersi sempre più nelle decisioni sul repertorio, suggerendo l’introduzione di opere dalla pronuncia progressista in linea con la dottrina del realismo socialista, imposta ufficialmente a tutti i teatri polacchi nel giugno del 1949 con l’Assemblea Teatrale Nazionale di Obory. In quell’occasione, il viceministro alla cultura e all’arte Włodzimierz Sokorski si fece portavoce delle attese del Partito Operaio Unificato Polacco nei confronti degli artisti, che furono accusati di non impegnarsi a sufficienza nell’allestimento di opere contemporanee, capaci cioè di trasformare la coscienza della società attraverso temi di chiara ispirazione socialista. La nuova drammaturgia avrebbe dovuto ritrarre i conflitti di classe, l’uomo della rivoluzione e il suo nemico, individuato nell’intellettuale cosmopolita e reazionario o nella gerarchia ecclesiastica e imperialistica. Il mondo teatrale avrebbe dovuto essere rivoluzionato non attraverso allestimenti innovativi, ma grazie a nuovi contenuti politici, in grado di cancellare «il morboso psicologismo e l’esistenzialismo»181 fino ad allora prevalenti. Da quel momento, per tutte le compagnie teatrali diventò urgente stornare in ogni modo dalle proprie scelte drammaturgiche l’accusa di apoliticità e di autonomia culturale.
116Alla fine del 1949 le istanze di Ida a favore della nazionalizzazione del teatro yiddish – condivise peraltro con buona parte dell’ambiente teatrale polacco, che desiderava lo stesso per le proprie scene – furono coronate da successo. Lo stesso destino toccò a quasi tutti i teatri professionali della Polonia popolare. Con questo processo lo Stato diventava l’unico datore di lavoro di artisti, personale tecnico e amministrativo, e si arrogava il diritto di interferire nelle scelte artistiche ed economiche per allinearle agli interessi della dirigenza del partito comunista. Dopo avere inglobato l’Unione degli Artisti delle Scene Ebraiche nell’Unione dei Lavoratori della Cultura e dell’Arte, equiparando così i diritti di attori ebrei e polacchi, il Ministero provvide a nazionalizzare i due teatri yiddish di Łódź e Wrocław, che prima agivano come cooperative, unificandoli sotto il nome di Państwowe Teatry Żydowskie (Teatri Statali Yiddish, qualche mese dopo convertito al singolare). Dapprima Wrocław fu scelta come sede unica del nuovo ente, ma dopo pochi mesi le fu preferita Łódź. Meir Melman – che (molto probabilmente) per desiderio della moglie era diventato membro del partito – fu nominato direttore amministrativo, mentre Ida assunse l’incarico di direttore artistico e Jakub Rotbaum quello di regista principale. Rotbaum, che amava definirsi allievo di Michoels e che era stato legato alla Vilner Trupe e in seguito aveva contribuito allo sviluppo del teatro yiddish in Francia e negli Stati Uniti, era stato richiamato in Polonia proprio da Ida, affinché collaborasse alla ricostruzione del teatro yiddish. In un primo momento le due compagnie lavorarono in maniera indipendente, firmando ognuna le proprie creazioni e portandole in scena nelle due sedi.
I fratelli Rotbaum
I “fratelli d’arte” Sara, Jakub e Lia Rotbaum (Rotboym) si distinsero, rispettivamente, nel campo della recitazione, della regia teatrale e dell’opera e furono amici e confidenti della famiglia Kaminski per tutta la vita. La maggiore, Sara Rotbaum (1899-1970), si era formata presso l’Istituto d’Arte Drammatica di Varsavia e la scuola di Max Reinhardt a Berlino e aveva mosso i primi passi con la Vilner Trupe. Nel 1921 si unì al Teatro Statale Yiddish di Mosca e vi rimase fino alla chiusura nel 1949. Nel 1935 fu insignita del titolo di Artista d’Onore della Repubblica Socialista Sovietica. Fu universalmente considerata una delle migliori attrici del Goset e negli anni tra il 1934 e il 1949 divenne anche responsabile dell’insegnamento di fonetica e dizione, attraverso il quale si puntava a uniformare la parlata yiddish degli allievi attori. A metà degli anni Cinquanta si trasferì in Polonia e per un paio di anni fece parte dell’ensemble del teatro yiddish di Varsavia: la incontreremo ancora nel primo allestimento di Madre Courage diretto da Ida Kaminska.
Jakub (Yankev) Rotbaum (1901-1994) fu invece regista, scenografo, costumista e pittore. Studiò a Varsavia presso la Scuola di arti decorative, l’Accademia di belle arti e la Scuola di cinema e intraprese la carriera di direttore delle scene yiddish nel 1925, collaborando in qualità di assistente alla regia con l’Azazel di Varsavia. Nel 1926 diresse una versione in ebraico dell’Ufficio postale di Rabindranath Tagore al Teatr Elizeum. In quello stesso periodo strinse amicizia con lo scrittore e fotografo Alter Kacyzne, che gli consigliò di proseguire la formazione a Mosca, dove già si trovava la sorella maggiore: il giovane vi si trasferì e divenne allievo di Stanislavskij, Mejerchol’d e Solomon Michoels, che considerava il proprio mentore. Jakub tornò in Polonia affascinato dalla cultura teatrale russa e con l’obiettivo di distogliere il teatro yiddish dal folklore, orientandolo verso temi sociali e politici. Nel 1929 fu invitato a lavorare presso la Vilner Trupe, di cui divenne direttore artistico e principale regista, debuttando con Il ghetto nero, un adattamento di Tutti i figli di Dio hanno le ali di Eugene O’Neill. Nel 1938 si trasferì a Parigi, dove collaborò con la compagnia d’avanguardia Piat (Parizer Yidisher Arbeter-Teater), curando la regia del Sordo di Bergelson e di È difficile essere ebreo di Aleichem. All’epoca del soggiorno parigino rimase fortemente colpito e influenzato da Charles Dullin, Gaston Baty e Louis Jouvet; apprezzò inoltre il talento di Jean-Louis Barrault, che vide nel Processo di Kafka, nell’Amleto e in Fame di Hamsun. Nel 1940 ricevette l’invito di Maurice Schwartz a lavorare presso lo Yiddish Art Theater di New York: qui diresse, tra gli altri, Sender Blank di Aleichem, Zio Mosè di Asch e Vogliamo vivere di Bergelson. Nel 1942 a Detroit portò in scena la prima versione di Sogno su Goldfaden, opera che avrebbe allestito in tutto il mondo per il resto della vita. Durante l’esperienza americana trasse alcuni utili insegnamenti dal mondo del cinema, che a suo avviso coniugava l’artigianato attoriale con un’attenta organizzazione e disciplina. Tornò in Polonia nel 1949 anche per rispondere all’invito di Ida Kaminska a ricostruire il teatro yiddish, cui si dedicò per qualche anno. Dal 1951 al 1962 fu direttore del Teatr Polski di Wrocław, dove mise in scena opere di Shakespeare, Gogol, Wyspiański e Brecht. Dal 1968 fu costretto a limitare la propria attività alla sola scena yiddish, sia in Polonia sia nel resto del mondo. Nei prossimi capitoli vedremo più da vicino le peculiarità della sua direzione teatrale, applicata alla drammaturgia yiddish e internazionale, e in che relazione fosse la sua poetica con quella kaminskiana.
La carriera di Lia (1907-1994), la più piccola dei fratelli Rotbaum, fu meno legata al teatro yiddish. Studiò pedagogia all’università di Varsavia, musica al conservatorio e danza presso la scuola diretta da Tacjanna Wysocka, entrando a fare parte della compagnia della celebre coreografa. Nel 1928 fondò insieme al fratello uno studio teatrale per operai. All’inizio degli anni Trenta viaggiò in tutta Europa per approfondire lo studio delle nuove correnti coreutiche e nel 1935 si stabilì a Mosca, dove studiò regia all’Istituto Nazionale di Arte Teatrale (gitis). Dal 1944 al 1946 lavorò come regista e coreografa presso il teatro di Stalingrado e nel 1954 fu regista di operette a Mosca. Nel 1956 fece ritorno in Polonia e divenne la regista principale dell’Opera di Wrocław. Al lavoro sulla scena affiancò l’impegno in qualità di pedagoga: le sue esperienze furono poi raccolte in un libro intitolato L’Opera e la sua forma scenica.
Nel 1949 fu avviata la campagna per la costruzione di una sede più adatta a ospitare il teatro yiddish e l’occasione fu sfruttata per consolidare la comunità ebraica attorno a un intento comune. L’obiettivo fu raggiunto nel febbraio 1951, ma le autorità cittadine decisero che la sala da oltre settecento posti di via Więckowski 15 avrebbe accolto anche la compagnia polacca del Teatr Nowy diretta da Kazimierz Dejmek. La soluzione si rivelò però insoddisfacente per la compagnia yiddish, la quale, pur amministrando l’edificio, si ritrovò con una sede che non la rappresentava: mancavano infatti del tutto le decorazioni a tema ebraico inizialmente previste e l’ensemble, obbligato a visitare anche la sede di Wrocław e le province, e legato a un pubblico necessariamente più ristretto, risultava meno presente e attivo dei colleghi polacchi.
117Per l’inaugurazione della nuova sede del Teatro Yiddish di Łódź, il 4 febbraio 1951, Ida scelse La famiglia di Ivan Popov, dramma di propaganda dedicato alla famiglia di Vladimir Il’ič Ul’janov. Nel portare per la prima volta in Polonia quest’opera, che a Mosca aveva vinto il Premio Stalin, Kaminska curò la traduzione e la regia, coinvolgendo quasi tutti i membri delle due compagnie yiddish e ritagliandosi, ancora una volta, un importante ruolo materno, quello della genitrice di Lenin. Nonostante il dramma rispondesse alle aspettative delle autorità comuniste e nei documenti ufficiali della compagnia fosse descritto come un «grande successo artistico e ideologico»,182 il pubblico al quale era destinato lo accolse tiepidamente e dopo sole sette repliche lo spettacolo fu archiviato. Vita ugualmente breve ebbe La dott.ssa A. Leśna,183 dramma contemporaneo polacco ambientato in un ospedale di provincia, che debuttò sulle scene proprio nella regia di Kaminska e che le meritò un premio al Festival delle Opere Polacche Contemporanee di Wrocław. Ida sfruttò sapientemente l’occasione del festival per rafforzare l’idea che il suo teatro fosse parte integrante del tessuto culturale della Polonia e, in quanto tale, necessario. Insieme a questo spettacolo presentò anche In una notte d’inverno184 di Szymon Diamant, primo dramma yiddish scritto in Polonia dopo la guerra e incentrato sulla storia di un ragazzo e di un’anziana in fuga dal ghetto di Zamość, che trovano rifugio presso alcuni contadini polacchi. La regista si diceva convinta che lo spettacolo avrebbe avuto vita lunga sulle scene del teatro yiddish polacco grazie alla ricca galleria di personaggi contadini presentati – che ritraevano i diversi atteggiamenti tenuti dai polacchi nei confronti degli ebrei (tra cui anche quelli indecisi e abietti) – e in particolare al protagonista, la cui solidarietà nei confronti degli ebrei braccati raggiungeva vette di eroismo.185
118In una notte d’inverno – che era stato pubblicato con un titolo diverso presso la casa editrice Idish Buch186 e che Ida aveva già allestito due anni prima – fu accolto con favore per il suo «lampante significato sociale»,187 condensato nella scena finale in cui «il giovane ebreo, inviato dai partigiani [che volevano testare la sua capacità di combattere] in una pericolosa missione, torna dopo avere ucciso il soldato tedesco e, imbracciando il fucile, indica la direzione: “Via libera”. L’uno di fianco all’altro, si incamminano sulla strada i compagni d’armi: l’operaio, il contadino e l’ebreo perseguitato».188 A questo spettacolo – che come abbiamo visto accennava a questioni spinose come i differenti gradi di empatia manifestati nei confronti degli ebrei e lo stereotipo negativo secondo cui essi non sarebbero stati in grado di opporsi attivamente ai nazisti – partecipò anni dopo anche il giovane Henryk Grynberg, futuro scrittore di opere dedicate alla memoria della tragedia ebraica in Polonia, concepite come un inestricabile intreccio di autobiografia e finzione.
Avevo terminato gli studi in giornalismo con il proposito di non lavorare per i mezzi di informazione, che per principio erano al servizio della propaganda di stato, quando seppi che Ida Kamińska aveva bisogno per il suo teatro segnato dall’età di qualcuno che recitasse il ruolo del giovane ebreo che fugge dall’annientamento di un villaggio e si rifugia presso alcuni contadini. […] Non era un grande ruolo, ma era centrale e potente, e conoscevo bene quella condizione per esperienza personale; in qualche misura era l’ennesima incarnazione del ragazzo ebreo della Strada di confine e dei Tedeschi.189
Ricordando il suo debutto sul palcoscenico, Grynberg lo definisce un atto di testimonianza:
[…] mi trascino fino a un casolare, esco sul proscenio e racconto quello che ho lasciato alle mie spalle nello shtetl annientato […] Non ero un attore nè dovevo esserlo. Non recitavo né dovevo recitare. Questa cosa recitava in me. Uscivo in direzione della ribalta, tendevo le mani verso il vuoto nero, spalancavo gli occhi e la bocca… e raccontavo. In quel vuoto avvertivo qualche presenza. A Białystok, Lublino, Będzin, perfino a Legnica e a Wałbrzych, capitava che portassero via le donne dalla sala. […] Nella città ebraica di Lublino ci accolsero venti famiglie, a Białystok quindici. Białystok majn hejm, Białystok majn trojm! – cantava uno dei nostri solisti. Che cosa ne è rimasto di te?190
La forza che emanava anche dagli attori più inesperti, e che veniva percepita dagli spettatori con un’istintiva sovrapposizione di recitazione e testimonianza, non si limitava del resto agli spettacoli che trattavano direttamente della Shoah – tema per anni pressoché assente dalla letteratura e dal teatro – ma traspariva anche da opere di tutt’altro argomento. È questo il caso di Mirele Efros, a cui è dedicato il prossimo capitolo, e di Glikl di Hameln, che il 17 maggio 1952 Ida scelse per festeggiare a Łódź il trentacinquesimo anniversario di carriera teatrale. La celebrazione, che si svolse sotto il protettorato del Ministero della Cultura e dell’Arte, ebbe vasta eco in tutto l’ambiente artistico, come attestano il discorso pronunciato dal celebre regista Leon Schiller, la partecipazione al comitato d’onore dei principali artisti polacchi e di rappresentanze del partito, nonché il fiume di telegrammi che resero onore alla festeggiata.191
119Nonostante le soddisfazioni personali e il riconoscimento formale del valore del teatro yiddish come pari a quello dei migliori ensemble polacchi, Ida si trovò di nuovo ad attraversare un periodo difficile a causa dell’antagonismo divampato tra le due compagnie, che spinse alcuni attori di Wrocław a denunciare l’inopportunità che il teatro fosse diretto da marito e moglie. La risposta del governo non tardò a farsi attendere: la sede del teatro fu trasferita nuovamente a Wrocław e Meir Melman sostituito con un amministratore più vicino al regime. La posizione di Ida a capo della struttura si sarebbe stabilizzata soltanto più tardi, con il trasferimento del Teatro Statale Yiddish nella capitale.
6.3. Un repertorio strategico
120Prima di allora, però, Ida aveva già consolidato la strategia di sopravvivenza del teatro e – pur senza coltivare più alcuna illusione nei confronti del comunismo – lo aveva trasformato in una delle più attive vetrine di drammi sociorealisti o espressione della corretta ideologia. Con questo proposito curò ad esempio il debutto in Polonia di opere come Mio figlio di Gergely (già allestita durante la guerra), La famiglia di Popov, La tragedia ottimistica di Vsevolod Višnevskij, sulla Rivoluzione d’Ottobre, o Trenta pezzi d’argento di Howard Fast, feroce attacco al capitalismo diretto da Jakub Rotbaum.
121Oggi gli storici del teatro concordano sul fatto che Ida Kaminska abbia consentito all’introduzione di opere “consigliate” dal regime, ma soltanto dopo averle accuratamente selezionate in base al loro valore drammaturgico (e alla possibilità di creare ruoli memorabili) e con l’intento di curarne sempre l’allestimento sul piano artistico, tenendosi alla larga dallo schematismo tanto in voga all’epoca. Oltre ai componimenti di chiaro profilo propagandistico, scelti per siglare l’alleanza di facciata con il nuovo sistema, la direttrice si impegnò con particolare attenzione a sottolineare il legame con la cultura polacca, tanto nelle dichiarazioni pubbliche quanto nelle scelte artistiche, che attinsero alla drammaturgia polacca classica e contemporanea: entrarono così nel repertorio Il signor Jowialski di Aleksander Fredro (gennaio 1952, già rappresentato prima della guerra), Meir Ezofowicz di Eliza Orzeszkowa (settembre 1953), La ragnatela di Maria Czanerle (febbraio 1954) e Julius ed Ethel di Leon Kruczkowski (maggio 1954).
122La scelta di Kaminska di approntare un repertorio internazionale e di affrancare il teatro yiddish dal ghetto delle tematiche ebraiche – già strenuamente difesa negli anni Venti e Trenta – incontrò come allora numerose resistenze, sia in ambito polacco sia ebraico. Nel caso di un capolavoro della commedia polacca ottocentesca come Il signor Jowialski, ben noto a tutti gli spettatori, i giudizi furono particolarmente polarizzati. Se un critico come Jan Alfred Szczepański lodò il personaggio della Szambelanowa interpretato da Ida,192 lo scrittore Adolf Rudnicki paragonò il suo «buffo esperimento» ai tentativi fatti dal padre Avrom con la drammaturgia polacca, che non restituivano autenticamente lo spirito polacco e si erano rivelati al più divertenti.193
123A metà degli anni Cinquanta i critici Juliusz Kydryński e Artur Sandauer misero in discussione il repertorio del teatro yiddish, sostenendo che una scena con «compiti speciali»194 avrebbe dovuto concentrarsi di più sul proprio patrimonio drammaturgico nazionale. Sandauer, di origine ebraica, affermò che il teatro yiddish non avrebbe dovuto portare in scena opere estranee alla vita ebraica e con un certo coraggio, considerato il categorico imperativo realistico applicato alla drammaturgia del tempo, suggerì invece di attingere ai drammi fantastici di cui la cultura yiddish era ricca, rassicurando tra le righe il regime che tali opere a carattere mistico e religioso non avrebbero intaccato l’educazione del cittadino socialista. Il critico aveva probabilmente in mente titoli come Il dibbuk di An-ski (che tornerà sulle scene solo dopo il “disgelo” del 1956), Il golem di Lejwik o Notte al Mercato Vecchio di Peretz, entrambi rappresentati al Teatro Statale Yiddish dopo l’emigrazione di Ida.
124In risposta, Ida pubblicò sulla rivista «Teatr» un articolo polemico dal titolo Incomprensioni, in cui ribatteva che se era importante che ogni teatro avesse in repertorio un buon numero di opere del paese di provenienza, non aveva invece alcun senso che si dedicasse unicamente a esse. L’artista invitava pertanto critici e spettatori
a liberarsi da questo offensivo […] pregiudizio […], secondo il quale in lingua yiddish si possono recitare soltanto ebrei. Ebrei con tanto di barba…
Artur Sandauer, in un articolo su di noi peraltro molto lusinghiero, scrive tra l’altro che: «… in bocca a un re o a un nobile la lingua yiddish suona strana, perchè personaggi del genere non sono mai esistiti tra il popolo ebraico». (Come? Non ci sono stati? […]) E se si parla di “lingua”, è pensabile che un torero parli svedese? Uno svedese ha mai lottato con un toro? Si tratta veramente di questo? Che fine hanno fatto tutti gli altri elementi che compongono un buon spettacolo […]?
Il Teatro Yiddish di Mosca, guidato dall’illustre Michoels, ha messo in scena prima della guerra Re Lear di Shakespeare e Gordon Craig lo ha definito uno dei migliori allestimenti shakespeariani.195
Dopo avere citato a sostegno della propria tesi il capolavoro del Goset, Kaminska ricordava al lettore che anche Leon Schiller aveva allestito in lingua yiddish La tempesta di Shakespeare e che lei stessa prima della guerra, e ancor più da quando aveva assunto la direzione del Teatro Statale Yiddish, aveva contribuito a portare per la prima volta sulle scene polacche opere internazionali. Commentando poi la propria messa in scena della commedia di Fredro, aggiungeva:
Anche quando abbiamo recitato Il signor Jowialski (come si sono sdegnati, quelli a cui dà fastidio l’accostamento della lingua yiddish con Fredro) volevamo dimostrare che Fredro non si ferma al confine della lingua nativa ma, su coloro che non sono prevenuti, può esercitare un influsso anche in lingua yiddish. Grazie al nostro spettacolo Il signor Jowialski è stato pubblicato anche in yiddish e potrà raggiungere quanti non conoscono la lingua polacca.196
In risposta all’invito di Sandauer a introdurre opere «fantastiche» nel repertorio del Teatro Statale Yiddish, Ida motivava il suo rifiuto rifugiandosi nel linguaggio propagandistico dell’epoca e mettendo piuttosto in rilievo come la minoranza ebraica si fosse integrata con successo nella società polacca del dopoguerra e non ambisse a separarsene.
Ci rendiamo conto che i nostri spettacoli tipicamente ebraici, cioè retrospettivi, riscuotono molto successo, probabilmente in virtù del loro “esotismo”… Ma davvero dobbiamo aspirare soltanto a opere fantastiche o che attingono alla “mitologia religiosa” (articolo di Sandauer), anche se esse non riflettono per nulla i grandi eventi della nostra epoca? Davvero questo unico teatro yiddish in Polonia deve avere un repertorio così limitato, in cui non riesce a esprimersi? L’affermazione di Lucjan [Juliusz, sic!] Kydryński, che non dovremmo recitare opere del repertorio normale, ci ha avvilito. […] Siamo forse un teatro “anormale”?… […]
Per la popolazione ebraica gli avvenimenti degli ultimi anni […] sono stati realmente fantastici, perché impossibili da concepire attraverso una normale immaginazione. Ma il gruppetto di coloro che sono rimasti è stato in grado, insieme a tutta la società, di impegnarsi in un lavoro normale e sano e in nessun settore vuole considerarsi differente.
Vogliamo essere – conservando il nostro carattere specifico, la nostra lingua e il nostro temperamento – uno dei teatri di qualità in Polonia. Penso che non si debba recitare male e che non si debbano portare in scena opere prive di valore. Ma qualunque opera degna di fare parte del tesoro comune del teatro non può esserci estranea. […]
Non possiamo permettere che ci trattino come un ristorante nel quale si va solo per “il pesce alla maniera ebraica”… Il teatro non è una trattoria…
Ci dispiace quando si pregiudica in partenza l’indirizzo del nostro repertorio, circoscrivendolo alla “particolarità del ghetto”. Quanto a me, non vorrei essere la direttrice di un teatro con una così “limitata responsabilità”…197
Se Sandauer non rispose pubblicamente alla replica di Kaminska, Kydryński approfittò invece delle pagine dello stesso giornale per sottolineare che non avrebbe mutato opinione perché a suo avviso il teatro yiddish non era un teatro come tutti gli altri, ma aveva il compito di «salvare ciò che è rimasto della tradizione degli ebrei polacchi, richiamando dal passato quel mondo defunto di idee e sentimenti e mostrandolo a quanti sono sopravvissuti […] E anche a coloro che non facevano parte di quell’universo ma per i quali esso era parte del loro mondo».198 Kydryński concluse che non aveva alcun senso tradurre e recitare in yiddish drammi che lo spettatore ebreo avrebbe potuto vedere in altri teatri (anche considerando che, a differenza del passato, tutti gli ebrei che abitavano la Polonia del dopoguerra comprendevano la lingua polacca), mentre si sarebbero dovute allestire quelle opere della tradizione ebraica alle quali sia ebrei sia polacchi si accostavano con interesse e piacere, «come a una fonte».199
125Lo spazio che Ida Kaminska immaginava per il teatro yiddish andava tuttavia ben oltre i confini del folklore e del genere: più che la differenza insita nella cultura ebraica-yiddish l’artista desiderava porre in primo piano le qualità artistiche del suo teatro, con l’obiettivo di proporre arte e non un intrattenimento nostalgico o una ricostruzione etnografica. Come abbiamo visto, la convinzione che il teatro yiddish dovesse aspirare a un alto profilo artistico ed essere libero di attingere ai testi di qualsiasi cultura le era stata tramandata dai genitori e nel tempo aveva trovato diversi fiancheggiatori, anche tra artisti non ebrei come Leon Schiller.
126Le scelte effettuate dalla direttrice del Teatro Yiddish mostrano che, a differenza di quanto dichiarato nel proprio articolo, Ida non considerava la drammaturgia classica yiddish soltanto in un’ottica «retrospettiva». Basti riflettere sul suo costante ritorno a Mirele Efros e sulla presenza in cartellone di autori come Goldfaden, Aleichem, Gordin e, qualche anno più tardi, An-ski, Ettinger, Dymov: drammaturghi che riscuotevano particolare successo tra il pubblico, le cui opere restavano a lungo in cartellone e sarebbero state proposte a più riprese anche negli anni varsaviani. Va precisato che, pur curandone la programmazione, con il tempo Kaminska aveva preso ad affidare la regia di tali opere tradizionali ai colleghi e si era orientata su scritture più contemporanee e internazionali, ma anch’esse, come vedremo nel prossimo paragrafo, esploravano questioni intrecciate all’identità ebraica. Se ancora nel 1947 Ida aveva diretto I due Kuni-Leml di Goldfaden e Mirele Efros di Gordin al Nidershlezyer Idisher Teater, e nel marzo del 1950 una serata dedicata a Sholem Aleichem dal titolo Gli uomini, tra il 1951 e il 1953 Jakub Rotbaum aveva invece firmato Sogno su Goldfaden ispirato a testi di Goldfaden, Manger e dello stesso regista, Sender Blank e 200 000 di Aleichem, e Hershele di Ostropole di Zonszajn e Gerszenson; Natan Meisler e Yitskhok Turkow-Grudberg C’era una volta (novembre 1951) da Peretz; Michał (Moishe) Szwejlich la «rappresentazione popolare» La nonna racconta (luglio 1954) su un collage di testi di Peretz, Sforim, Manger e Gebirtig; mentre Chevel Buzgan l’Uriel Acosta di Karl Ferdinand Gutzkow (ottobre 1954).200
127Come ha osservato Mirosława Bułat, una lettura attenta dell’articolo Incomprensioni trasmette l’impressione che Ida non fosse veramente interessata ad attaccare i due critici, quanto a utilizzare strumentalmente la stampa – il mezzo più sfruttato dal regime per indottrinare la popolazione – per confermare la propria fedeltà al governo e affermare la responsabilità della scena yiddish nella costruzione del nuovo stato socialista. A distanza di anni è impossibile stabilire con certezza perché l’artista ritenesse importante sottolineare proprio in quel momento la propria lealtà politica, ma non va dimenticato che sia lei che Jakub Rotbaum lottavano da tempo per riportare in Polonia i familiari rimasti in Unione Sovietica e che per la direttrice era prioritario garantire al teatro yiddish un futuro, assicurandogli un ricovero sotto l’ala protettrice dello stato.
7. Varshe, ritorno e ripartenza
128Alla fine del 1955 Ida realizzò il sogno di riportare il teatro a Varsavia (in yid. Varshe), la città con la più grande tradizione teatrale yiddish del mondo, certa che «il teatro yiddish dovesse avere sede nella città in cui gli ebrei erano stati martirizzati e in cui, nella rivolta del ghetto di Varsavia, avevano mostrato il loro più grande coraggio» .201 Indubbiamente, sulla scelta dell’artista pesava anche l’ambizione di lavorare nella capitale e il maggiore prestigio che ne sarebbe derivato. In occasione di un colloquio con Jakub Berman, alto papavero del partito responsabile nell’Ufficio Politico sia della cultura sia dell’apparato di repressione, Ida aveva ricevuto l’offerta di un appartamento nella prestigiosa via Marszałkowska e, con sua grande sorpresa, dopo qualche mese il Teatro Statale Yiddish aveva ottenuto l’agognato trasferimento nella capitale. Per il governo si trattava di cogliere l’occasione per dirimere i perduranti conflitti tra le compagnie di Łódź e Wrocław, ma è probabile che non tutti gli esponenti del partito fossero concordi, visto che in ottobre si attendeva ancora l’approvazione ufficiale del presidio del governo nonostante il trasferimento fosse già stato realizzato e motivato con ragioni di carattere socio-politico e propagandistico.202
7.1. Il volto del teatro yiddish nella capitale
129Alla compagnia fu assegnato un edificio in legno in via Królewska 13, nel cuore della capitale, sede fino a quel momento del Teatro della Casa dell’Esercito Polacco, appena trasferitosi nel nuovo Palazzo della Cultura e della Scienza “donato” da Stalin alla città. L’anno successivo, l’unico teatro stabile yiddish in Europa (insieme a quello di Bucarest)203 fu intitolato a Ester Rokhl Kaminska,204 il cui nome comparve sulla facciata a grandi caratteri polacchi e yiddish, a concretizzare e valicare un’utopia nata mezzo secolo prima: «mia madre aveva sempre sognato un teatro sostenuto dalla comunità, ma non aveva mai osato sognare un teatro statale».205
130Il trasferimento del Teatro Statale Yiddish a Varsavia coincise con una fase di profonda trasformazione per il paese. La morte di Stalin, il 5 marzo 1953, aveva svelato la superficialità con cui si era attuato il processo di omologazione forzata ai parametri sovietici e aveva aperto la strada a un’epoca di speranza in riforme più liberali. Il processo di destalinizzazione avviatosi con la morte del leader sovietico culminò nel febbraio del 1956 con il clamoroso «rapporto segreto» in cui il primo segretario Nikita Chruščëv, durante il xx congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, denunciò i crimini compiuti da Stalin, colpevole di deviazione dalla corretta interpretazione della dottrina marxista-leninista e di culto della propria personalità.206 In Polonia, i segni del disgelo apparvero più visibili che in altri paesi: ripresero i contatti con il mondo occidentale, il vecchio corso politico cominciò a essere oggetto di sempre maggiori critiche sulla stampa e il mondo della letteratura e dell’arte si liberò a poco a poco dal giogo del realismo socialista. Il disgelo si estese a tutti i campi della cultura: furono fondati circoli di discussione politica, nuove riviste tra cui il mensile teatrale «Dialog» (Dialogo), teatri come il Cricot 2 di Tadeusz Kantor a Cracovia e il Teatro della Pantomima di Henryk Tomaszewski a Wrocław, e tre scene studentesche, avamposti di nuove visioni politiche e sociali, il teatro satirico Trota di Łódź, il Teatro Studentesco dei Satirici di Varsavia e il teatro cabaret Bim Bom di Danzica, la musica jazz cominciò a filtrare attraverso la radio e sbocciò una generazione di registi cinematografici di grande talento come Andrzej Wajda, Janusz Morgenstern e Roman Polański.
131Nel marzo del 1956 la morte di Bolesław Bierut, segretario generale del poup (Partito Operaio Unificato Polacco), facilitò ai principali esponenti del partito polacco l’archiviazione della fase duramente stalinista e il traghettamento del paese verso una nuova epoca. La società polacca fremeva: l’intellighenzia reclamava il ritorno al suo ruolo critico e indipendente e la classe operaia pretendeva una reale democrazia socialista, fondata sull’autogestione delle fabbriche e sulla socializzazione della produzione. In ottobre Władysław Gomułka, già segretario generale del partito, poi caduto in disgrazia, fu riabilitato ed eletto primo segretario del poup. In un convincente discorso pronunciato di fronte a quasi mezzo milione di persone, propose una mediazione tra le istanze popolari e le restrizioni imposte dall’urss: pur non mettendo in discussione il sistema monopartitico, lasciò trapelare l’ipotesi di una “via polacca al socialismo”. La strategia si rivelò vincente e risparmiò alla Polonia la repressione militare sovietica che colpì invece, appena un mese più tardi, l’Ungheria. La società accolse Gomułka come un capo carismatico, confidando in cambiamenti orientati a una maggiore autonomia e democrazia, e nel gennaio 1957 gli confermò la propria fiducia in occasione delle elezioni parlamentari.
132In realtà la stagione delle riforme (nota come l’ “Ottobre Polacco”) si esaurì dopo appena un anno perché Gomułka si trovò costretto a mediare tra due correnti interne al partito, quella dei “liberalizzatori” (tra cui figuravano molti esponenti di origine ebraica) e quella dei “conservatori”. Con il rafforzamento della posizione di Chruščëv, divenuto anche capo del governo, e il ricompattamento del Partito Operaio Unificato Polacco, la società rientrò sotto il completo controllo del partito.
133A metà degli anni Cinquanta la composizione della società polacca appariva ulteriormente mutata grazie al boom demografico del dopoguerra e al rimpatrio di oltre duecentomila cittadini polacchi dall’Unione Sovietica (tra cui molti detenuti nei lager e la stessa Ruth Turkow-Kaminska con la figlia Erika). Con lo sterminio, le deportazioni e lo spostamento forzato di confini e popoli della Seconda guerra mondiale la Polonia aveva perduto i propri cittadini ebrei, bielorussi, ucraini e tedeschi ed era diventata uno stato etnicamente omogeneo. Il 1956 coincise con una seconda, ingente, ondata migratoria della popolazione ebraica, durante la quale oltre cinquantamila persone – circa un terzo dei sopravvissuti alla Shoah – abbandonarono il paese dirette verso Israele o verso gli stati “capitalisti”. L’esodo fu dettato in parte dalla paura suscitata dai riflussi di antisemitismo politico,207 in parte dal desiderio di unirsi a maggiori concentrazioni ebraiche e migliorare la propria situazione materiale. Tra gli emigranti si contarono molti rappresentanti del mondo culturale e metà dei componenti della compagnia del Teatro Statale Yiddish.
134Nonostante le pressioni ricevute dal governo, Ida non ostacolò mai la partenza dei colleghi e si trovò così a gestire un ensemble estremamente instabile.208 Per reintegrare le forze mancanti accolse molti rimpatriati, tra cui figurava anche il decano degli attori yiddish Avrom Morevski,209 e cercò di attirare giovani all’interno della compagnia attraverso la creazione di uno studio drammatico210 e l’insegnamento della lingua yiddish, che le nuove generazioni non conoscevano più. Invece di scoraggiarsi, l’attrice si impegnò con entusiasmo in questo ruolo pedagogico, che percepiva come intimamente connesso all’arte teatrale.211 Henryk Grynberg racconta infatti che Ida
sapeva distribuire le parti e disporci sulla scena in modo che sembrassimo dei veri attori. […] Sapeva che cosa fosse impresso in ognuno di noi e che cosa ognuno di noi avesse da “dire”. Per questo […] i giornali mi descrissero come un importante “fenomeno teatrale”, nonostante fossi andato in scena senza alcuna preparazione tecnica.212
L’allievo ricorda anche il vigore e l’affetto con cui la direttrice esercitava questo compito:
Mi ero presto convinto che avesse più energia di tutti noi. Non aveva bisogno del copione perché conosceva tutti i drammi a memoria, teneva a mente il programma di regia e, a differenza di altri registi, sapeva sempre a che cosa mirava. Era anche un’eccellente pedagoga. Non offendeva né feriva mai un attore. Sapeva risvegliare in noi l’entusiasmo anche per un piccolo ruolo. […] Se non era soddisfatta di qualcosa mostrava freddezza, e questa era una punizione sufficiente. La riconciliazione avveniva quando si rivolgeva a noi per nome e ci prendeva confidenzialmente sotto braccio.213
Il reclutamento dei giovani e l’apertura dell’ensemble anche ad attori non ebrei richiese a Ida uno sforzo non da poco per insegnare ai nuovi colleghi i linguaggi della scena e l’idioma in cui avrebbero recitato. Nel documentario Il suo teatro, dedicato a Ida Kaminska e al Teatro Statale Yiddish, assistiamo a una lezione condotta dall’artista, che da principio ricorda agli studenti le regole base della comunicazione sulla scena – la necessità di utilizzare un tono di voce sostenuto ma non eccessivo, di scandire con chiarezza le parole e, ciò che è più importante, di ascoltare attentamente il partner – per poi ripassare insieme a loro le battute tratte da una scena di Terrore e miseria del Terzo Reich intitolata L’ora dell’operaio. Dapprima Ida ascolta un giovane allievo che sicuramente ha dovuto studiare lo yiddish e ne corregge la pronuncia laddove si presenta eccessivamente slava, poi fa ripetere la stessa battuta a un ragazzo di nome Wajngarten, muovendo anche a lui, che pure mostra maggiore confidenza con la lingua, qualche piccolo appunto.
135La condizione in cui si trovava, invece, Henryk Grynberg era quella di chi doveva recuperare dai recessi della memoria una lingua che era stato costretto a dimenticare per avere qualche speranza di sopravvivere.
Nella primissima infanzia avevo familiarizzato con la lingua yiddish, ma durante la guerra, dovendomi spacciare per “ariano”, sono stato costretto a rimuoverla accuratamente dalla memoria. Tra il 1947 e il 1952, quando frequentavo la scuola ebraica, ho imparato a capirla abbastanza bene, ma non a parlarla e sulla scena avevo difficoltà con la pronuncia gutturale combinata del “ch” con la “r”. All’epoca, il Teatro Yiddish aveva uno studio drammatico per giovani, ma lo frequentavo poco perché spesso ero impegnato nelle prove sul palco e negli spettacoli con cui giravamo la Polonia. Nel novembre del 1962, insieme ai miei coetanei Helena Kaut e Bruno Fink, ho sostenuto l’esame da privatista presso la Scuola Superiore Statale di Teatro. Nel frattempo si era unita al nostro teatro Helena Wilda, una giovane attrice non ebrea, e aveva cominciato a recitare saltuariamente Szymon Szurmiej, che veniva da una casa non ebraica (la madre era ebrea ma il padre ucraino), conosceva poco lo yiddish e non era assolutamente in grado di leggerlo. Per gli altri componenti della compagnia lo yiddish era la lingua madre, alcuni parlavano male polacco.214
Nell’intervista rilasciata a chi scrive, Grynberg ricorda il rapporto assai differente che intercorreva tra gli artisti della compagnia e la lingua yiddish e mette in rilievo la discrepanza tra la formazione degli attori della vecchia generazione e quella di Szymon Szurmiej, che alla fine degli anni Sessanta sarebbe succeduto a Kaminska nella direzione del teatro. Come vedremo nel terzo capitolo, Grynberg sceglierà di abbandonare la Polonia e la carriera di attore per dedicarsi alla letteratura, ma l’apprendistato teatrale compiuto sotto la guida di Ida – attraverso il ritorno alla lingua e il lavoro sulla scena – si rivelerà prezioso anche nell’esercizio del ruolo di scrittore-testimone.
Nel teatro di Ida Kamińska ho imparato a conoscere la cultura yiddish e sono diventato uno scrittore dalla doppia cultura. Forse non è un caso che abbia scritto e pubblicato i miei primi racconti sei mesi dopo avere debuttato su quella scena e che li abbia raccolti sotto il titolo Ekipa Antygona [La squadra di Antigone], con cui è poi uscita anche la mia prima antologia di racconti. Kamińska mi ha insegnato la disciplina artistica e la pulizia del disegno, che si sono rivelate molto utili nella mia pratica di scrittore.215
Più di un testimone dell’epoca ricorda che Ida Kaminska dirigeva il Teatro Statale Yiddish esercitando un comando matriarcale, come se ancora si trattasse di una compagnia d’arte a struttura familiare. Questa tendenza si sarebbe tradotta in un’attenzione quasi materna nei confronti dei componenti del gruppo, ma anche nella concentrazione delle decisioni nelle mani della sola direttrice e nella predilezione verso i membri con i quali condivideva legami biologici o affettivi, come il marito Meir, la figlia Ruth e il nuovo compagno di quest’ultima, Karol Latowicz.216 Come vedremo, negli anni i servizi segreti comunisti avrebbero imparato a sfruttare le insofferenze generate da questa gestione parafamiliare per trasformare alcuni attori e attrici in “informatori” e spiare così le attività del teatro.
136È indubbiamente vero che la conduzione del Teatro Statale Yiddish rifletteva la forma tradizionale originaria del teatro di famiglia e che ruotava tutto attorno alla prim’attrice, ma la scelta di Ida di assegnare ai familiari ruoli di primo piano era spesso giustificata dal loro effettivo talento e dalla necessità di arginare le spinte disgregatrici che assediavano la compagnia. Alcune difficoltà erano comuni alle compagnie polacche, alcune esclusive del teatro yiddish. Tra i condizionamenti figuravano il controllo statale sull’attività dell’ensemble e i richiami all’estetica del realismo socialista; le concessioni da fare alla politica per non essere intralciati dalla censura e la determinazione a proporre un lavoro onesto, tale da non tradire la fiducia degli spettatori; i ritmi pressanti di un lavoro itinerante e che doveva produrre di continuo nuovi debutti per soddisfare un pubblico ristretto e non perdere visibilità, cioè utilità, agli occhi del governo. A ciò si aggiungeva la necessità per la regista e direttrice di trovare impiego ad attori in buona parte ormai anziani, di gestire l’andirivieni continuo degli artisti e di amministrare la suddivisione interna dei privilegi economici derivanti dalla possibilità di andare in tournée all’estero.
Non era solo una grande attrice, ma anche una grande madre. La maternità era il suo attributo più bello e profondo. Lo ha mostrato in Mirele Efros, Madre Courage, Gli alberi muoiono in piedi e perfino nel personaggio comico e satirico di Sure Sheindl. Se nella nostra compagnia c’era maggiore invidia e suscettibilità ciò dipendeva dal fatto che il teatro yiddish fosse solo uno. Ma la causa principale della rivalità erano le trasferte all’estero. Nei paesi occidentali gli attori ricevevano un compenso di venti dollari al giorno. Venti dollari sul mercato nero polacco equivalevano al mio stipendio di un mese e alla metà dello stipendio di un attore più esperto. Con i risparmi sulla diaria ci si riusciva a procurare un po’ di abbigliamento e accessori di fine serie da rivendere al ritorno. Per ragioni economiche si portava all’estero un cast ridotto al minimo, perciò era necessario lottare per ottenere un ruolo principale.217
7.2. Vecchie e nuove storie
137Oltre a Ida Kaminska e agli attori della sua famiglia teatrale, protagonisti della scena yiddish postbellica erano i personaggi e le storie attraverso i quali questi artisti incontravano il pubblico. Anche dopo il trasferimento a Varsavia Ida rimase fedele alla propria politica di repertorio, che bilanciava narrazioni contemporanee e internazionali (con qualche concessione alla propaganda) con storie e motivi yiddish, tradizionali o meno.
138Durante la direzione del Teatro Statale Yiddish a Varsavia (1955-1968) Ida Kaminska curò la regia di circa venti spettacoli. Al gruppo dei drammi originariamente composti in yiddish oppure scritti in altre lingue ma a tema strettamente ebraico si ascrivono: Mirele Efros, che inaugurò il nuovo corso del teatro il 27 dicembre 1955 e conobbe due riallestimenti (1959, 1968); I due Kuni-Leml (1958); L’opera dell’ebreo (1958)218 di Alter Kacyzne; Glikl di Hameln (1958); Il re allegro (1959)219 di Jakub Preger; la ripresa di In una notte d’inverno (1959); Meir Ezofowicz (già allestito nel 1953 e ripreso nel 1960 e nel 1965) di Eliza Orzeszkowa; La nave solitaria (1961) di Mojżesz Dłużnowski;220 Serkele (1963) di Solomon Ettinger; Il conto finale (1963) di Michał Mirski; Senza una casa (1963) di Gordin; Il certificato di matrimonio (1964) dell’israeliano Ephraim Kishon;221 Colmare i bunker (1964) della stessa Kaminska; Sure Sheindl (1966) di Yosef Lateiner; Mister David (1966) di Cecil P. Taylor222 ed Eravamo dieci fratelli (1968) di Chaim Sloves.223
139Le opere che possiamo definire internazionali, ossia composte in una lingua diversa dallo yiddish e non esplicitamente inerenti una tematica ebraica, sono in numero minore: L’uomo di successo (1956) di Grigorij Jagdfeld;224 Madre Courage e i suoi figli (1957, poi ripreso nel 1967) di Brecht; Gli alberi muoiono in piedi (1958) di Alejandro Casona e La trasfusione (1962) di Žak Konfino.225
140Da questo sintetico elenco si comprende quanto fosse diversificato il repertorio curato da Ida. Prima di entrare nel dettaglio di alcune produzioni, possiamo rilevare che una caratteristica comune alle opere dirette e interpretate da Kaminska era quella di privilegiare personaggi femminili dalla personalità marcata: una linea di stampo matriarcale che rispecchiava la natura stessa del teatro ereditato da Ida, trasmesso di generazione in generazione per via matrilineare. Ne sono un esempio le protagoniste dei due spettacoli “internazionali” che riscossero maggiore successo: la Madre Courage brechtiana, a cui è dedicato il terzo capitolo, e l’anziana protagonista del dramma di Casona, ingannata dai parenti affinché non venga a conoscenza della verità riguardo al nipote, compromessosi in attività criminali negli Stati Uniti. A proposito di quest’ultima creazione attoriale, il critico Jan Paweł Gawlik osservava con ammirazione che la mancata conoscenza della lingua yiddish non costituiva affatto un ostacolo alla comprensione e alla partecipazione all’evento teatrale. Anche in presenza di un dramma in una lingua straniera, per di più di qualità non eccelsa, la poesia che sprigionava dal lavoro dell’attrice era capace di muovere a una profonda commozione.
Se un’attrice che recita in una lingua incomprensibile allo spettatore riesce a mostrare il dramma di un personaggio in maniera totalmente comprensibile, rendendo del tutto inutile la conoscenza della lingua; se in un uomo avvezzo al teatro, alle sue tecniche e ai suoi segreti, suscita una commozione tanto incontenibile e intensa da causare il proverbiale groppo in gola, allora tali circostanze divengono la misura dell’arte, l’espressione della “forza drammatica” (così popolare nel secolo scorso e oggi dimenticata) racchiusa nella recitazione dell’attrice.
Ha creato un personaggio al confine tra due stili contrapposti, riuscendo tuttavia a conservare le peculiarità di entrambi. Un personaggio definito con minuzia e realismo e insieme dotato di poetica leggerezza attoriale. […]
Non so se nel nostro teatro ci sia un’attrice in grado di recitare la Nonna con una simile freschezza e perfezione espressiva. […] Ida Kamińska ha interpretato questo ruolo con una delicatezza e una limpidezza che ho visto in lei per la prima volta. C’era in lei l’ispirazione della poesia e l’autenticità della grande arte. Kamińska è rinomata per la sua grandezza e spesso […] le si attribuisce la supremazia nel repertorio tragico. Di certo è una grande interprete e una grande attrice tragica, ma credo che proprio nel ruolo della Nonna si sia rivelato uno stile precedentemente inedito: un tono di straordinaria delicatezza formale, una capacità virtuosistica di impiegare le sfumature con straordinaria incisività.226
Tra gli spettacoli del primo gruppo, invece, osserviamo la compresenza di autori classici come Goldfaden e Gordin e di drammaturghi yiddish contemporanei come Kacyzne e Sloves, la commistione di successi comici dell’anteguerra come Serkele e Sure Sheindl e di componimenti teatrali che, direttamente o meno, si riferivano al recente sterminio ebraico. In tutto, il Teatro Statale Yiddish portò in scena cinque opere esplicitamente incentrate sul soggetto che molti scrittori yiddish del dopoguerra preferivano designare con il vocabolo khurbn (distruzione) o brokh (catastrofe): La sparatoria di via Długa (1948) della poetessa polacca Anna Świrszczyńska; due drammi di Chaim Sloves (il già citato Eravamo dieci fratelli e La sconfitta di Haman, allestito nel 1950); Una casa nel ghetto (1953) di Bine Heler e Il conto finale (1963) del drammaturgo ebreo comunista Michał Mirski. Quest’ultima opera – appositamente scritta e allestita in occasione del ventesimo anniversario dell’Insurrezione del ghetto per i molti stranieri che avrebbero partecipato alla cerimonia – è un esempio lampante di manipolazione ideologica e riscrittura consapevolmente distorta della storia al servizio del revisionismo comunista. Secondo Seth Wolitz, che ne fu spettatore, Mirski eccedette nel ritrarre casi di amicizia e cooperazione tra ebrei e polacchi, semplificò eccessivamente la questione dello sfruttamento dei lavoratori ebrei da parte del borghese Judenrat ed esagerò il contributo dei comunisti nell’organizzazione della rivolta, per di più diffondendo calunnie sui membri del partito sionista e nazionalista. Wolitz non risparmia neppure a Ida un giudizio severo, accusandola di essere una kluge Yidene (ebrea astuta) e di avere collaborato al gioco del regime. Annota tuttavia che la regista aveva inserito nello spettacolo un tableau estraneo al manoscritto originale: in una delle primissime scene il sipario si apriva su un vagone merci, dalle cui strette finestrelle, nel più completo silenzio, si agitavano disperate innumerevoli mani.227 Quel silenzio era poi stato rotto da un frastuono di applausi perché, secondo Wolitz, il pubblico assisteva finalmente a un quadro veritiero, che «confermava ipostaticamente il messaggio: l’Olocausto ha spazzato via gli ebrei, la loro disperazione è rimasta inascoltata e tutto ciò che resta è il silenzio della memoria».228
141Anche Colmare i bunker, il dramma scritto da Ida229 e unanimemente giudicato mediocre dal punto di vista drammaturgico, alludeva alla Shoah e affrontava un tema scottante come l’antisemitismo polacco del dopoguerra. La storia, ambientata non a caso a Kielce nell’estate del 1946, bilanciava con accortezza la legittima mancanza di fiducia degli ebrei nei confronti della Polonia “liberata” con un finale positivo in linea con le aspettative del regime, finale in cui l’anziana protagonista Rachel, trascorsi gli anni dell’occupazione nazista in un bunker sotterraneo e sperimentate l’indifferenza e le violenze del dopoguerra, ritrova l’ottimismo nei confronti del futuro e dell’umanità.230
142Sul fronte opposto a questi due spettacoli, che anche per il loro carattere tendenzioso ebbero breve corso, si colloca il caso di Meir Ezofowicz, allestimento che in virtù delle qualità artistiche riuscì a svincolarsi dall’ingessatura ideologica e conobbe almeno tre riprese e diverse tournée estere. Lo spettacolo, che sia Kaminska che la critica consideravano tra i migliori del Teatro Statale Yiddish, era tratto da un romanzo composto dalla scrittrice polacca Eliza Orzeszkowa per esprimere solidarietà alla minoranza ebraica e caldeggiare un’alleanza-assimilazione nella società polacca al fine di scongiurare il pericolo della russificazione. L’opera ripercorre il conflitto secolare tra due famiglie ebraiche: i Todros, rappresentanti dell’ortodossia e del fanatismo religioso, e gli Ezofowicz, aperti alle riforme, all’istruzione e all’assimilazione. Il capostipite degli Ezofowicz lascia in eredità ai discendenti una raccolta di documenti che incoraggiano l’alleanza tra il popolo polacco e quello ebraico. Quando, dopo molti decenni, Meir (interpretato da Juliusz Berger) decide di portare avanti la lotta al progresso dei suoi avi, opponendosi per esempio alle punizioni corporali inflitte ai bambini e alla persecuzione ebraica nei confronti dei Caraiti, la bisnonna Frajda (Kaminska) gli affida gli scritti del marito per aiutarlo nella missione.231 Ma la comunità ebraica non è ancora pronta per il cambiamento: anche la battaglia di Meir Ezofowicz si concluderà con un fiasco e il giovane verrà scomunicato dal rabbino Todros e cacciato dal villaggio.
143Ida Kaminska portò per la prima volta in scena Meir Ezofowicz nel 1953, un anno caldo dal punto di vista della pressione ideologica sulle opere d’arte, e la lettura proposta dai critici della Repubblica Popolare Polacca si incentrò sulla lotta tra il progresso e le superstizioni nazionalistiche e religiose, che ostacolavano l’amicizia tra i popoli. Joanna Krakowska232 ha dimostrato tuttavia come il fulcro di questo spettacolo – che aveva colpito la critica per la recitazione affilata e la tensione emotiva, per le scenografie essenziali e metaforiche di Iwo Gall, insomma per uno stile espressionista ben lontano dal realismo socialista – non risiedesse più nell’intreccio (la questione dell’assimilazione, ad esempio, aveva perso ogni ragione d’essere) ma si fosse spostato altrove. Negli anni, Meir Ezofowicz era diventato «l’epopea di un mondo scomparso»233 e la tensione prodotta sulla scena dalla frizione tra le parole di Orzeszkowa e la lingua e i corpi degli attori non poteva non richiamare la specifica tragedia dello sterminio ebraico, per quanto nel discorso pubblico essa fosse stata universalizzata e inglobata nel lutto collettivo della nazione.234 Ma, suggerisce Krakowska, Ida Kaminska andava oltre il pianto sulla sorte del proprio popolo: in Meir Ezofowicz faceva scontrare il discorso emancipatore della scrittrice con un’inedita presa di consapevolezza della perdita collettiva causata dalla Shoah e ne faceva emergere la propria, sempre attuale, missione etico-teatrale, che consisteva nel «salvare dallo sterminio della cultura ebraica le sue aspirazioni moderne […] a dispetto di tutto, coltivare l’emancipazione anche in assenza degli emancipati».235
144Scrivendo all’epoca del “disgelo” e dell’autocritica, Andrzej Wróblewski commentava che negli anni precedenti il Teatro Statale Yiddish era stato in grado più di altri di non soccombere allo schematismo e che spettacoli come Meir Ezofowicz e Mirele Efros non erano soltanto rimandi alla tradizione yiddish, utili ad appagare i bisogni dello spettatore ebreo, ma una coraggiosa presa in carico, nell’oggi, del tema della lotta (vocabolo che piaceva sicuramente al partito, ma che poteva assumere un significato più profondo in relazione alla sopravvivenza della cultura yiddish):
[…] una lotta per i problemi morali, lotta a cui all’epoca i teatri polacchi avevano rinunciato. […] La compagnia del Teatro Yiddish si è assunta il difficile ruolo di avvocato della questione ebraica […] e senza dare nell’occhio si è fatta portavoce di questioni assai più ampie. In ciò si annida un amaro paradosso. Concentrandosi su temi ebraici, cercando i drammi più adatti a sé, il Teatro Yiddish ha affrontato – unico in Polonia – problemi che abbiamo sempre sfuggito con insistenza e taciuto (con la sola eccezione di Adolf Rudnicki). Risollevando queste questioni a uso interno, per regolare i conti con certi anacronismi […] ha toccato questioni morali straordinariamente dolorose e urgenti, che si ripercuotono in maniera molto più ampia.236
Il citato Adolf Rudnicki è stato tra i primi e più seguiti scrittori dell’Olocausto, tra i pochi a cercare di concretizzare l’assunto di Aleksander Wat, che fosse possibile essere ebrei al cento per cento e polacchi al cento per cento.237 Fine osser vatore anche del teatro di Ida Kaminska, in un’antologia di racconti del 1958 ci ha trasmesso un’appassionata descrizione di come, con il trascorrere degli anni, si fosse allentato il legame che univa gli artisti e gli spettatori del teatro yiddish. L’eccezionalità dell’impegno di Ida e dei suoi compagni si coglie appieno solo se si considera il contesto mutato in cui andavano in scena: sul palco attori sempre più anziani si trovavano a interpretare personaggi rimasti giovani, di fronte a una platea in costante erosione e dovendo resistere alla pressione del tempo e della storia, che cooperavano a trasformare il loro vivo lavoro in una reliquia. Anche il racconto di Rudnicki, tra i pochi scrittori ebrei polacchi attivi nel dopoguerra ad aver fatto in tempo a ricevere un’educazione tradizionale ebraica, riflette questa istintiva tentazione imbalsamatrice.
Il primo teatro che ho conosciuto è stato il teatro yiddish. Il dramma si chiamava L’uomo selvaggio […] Ancora oggi ricordo che stavo in piedi sulla panca, da qualche parte nelle ultime file della sala dal soffitto basso dell’Unione dei Fornai (soltanto le prime file vicino al palco avevano le sedie). […] Guardavo l’attore, che si chiamava Itzkowicz, come un essere soprannaturale.
Quel mio primo teatro sollevò un putiferio in casa. Mio padre era un uomo profondamente religioso e provava disgusto per tutto quel teatro in lingua yiddish. Considerava la sola condivisione delle sedie da parte di uomini e donne un peccato dalle terribili conseguenze. Imitare l’essere umano era per lui equivalente a oltraggiare l’essenza divina nell’uomo e quindi un peccato ancora più grave.
Eppure oggi […] se voglio respirare ancora il mondo di mio padre, posso ritrovarlo soltanto nel teatro yiddish […] che è rimasto l’unica memoria di quella vita. […]
Almeno una volta al mese il Teatro Statale Yiddish arriva anche a Varsavia per qualche replica e allora, nella saletta di via Jagiellońska, all’Ateneum con la sua pessima acustica o nella sala sotterranea del Teatr Nowej Warszawy, si compie uno dei più mirabili misteri del nostro tempo. […] la scena e la platea costituiscono un corpo unico, senza eguali al mondo. Queste serate non hanno molto in comune con il teatro nel senso corrente del termine, sono occasioni di ricordi collettivi, in cui si porgono i fiori a un mondo che ormai non esiste più. Queste serate richiamano un banchetto funebre. […] Attraverso gli attori, al ritmo delle loro battute, dei loro canti e lamenti, i convitati rendono omaggio ai defunti e alla propria giovinezza. […]
Ogni volta mi colpisce la forza del pubblico del Teatro Statale Yiddish, non l’intelligenza, ma la forza. […] Le persone anziane, che durante l’occupazione erano le più indifese, sono del tutto assenti e l’età media oscilla tra i trenta e i cinquant’anni. Anche i giovani scarseggiano: i sopravvissuti sono partiti per il mondo e quelli che sono rimasti non vanno in cerca di ricordi, per crogiolarsi in essi come i più anziani, anzi odiano i ricordi che si sono conclusi con Birkenau.
[…] in platea adesso si incontrano molti polacchi. I forni di Auschwitz hanno dovuto inghiottire milioni [di ebrei], l’albero sconquassarsi, perché il ramo sopravvissuto per miracolo attirasse l’attenzione. […] perché l’intellighenzia polacca si lasciasse incuriosire da quell’incomprensibile fenomeno che sono gli ebrei.238
Come abbiamo visto, nel giro di qualche anno la società polacca del dopoguerra aveva cambiato a più riprese il proprio volto. A metà degli anni Sessanta la popolazione ebraica in Polonia era ridotta a circa trentamila persone, tra le quali ormai pochissime legate alla fede giudaica. La comunità ebraica era di fatto controllata da un piccolo gruppo di comunisti che parlavano yiddish e che, con l’approvazione del governo e l’aiuto economico della comunità ebraica americana (soprattutto del Joint, che dal 1957 aveva riottenuto il permesso di operare), mantenevano in vita alcune vestigia della cultura yiddish secolare: il giornale «Folks-Shtime» (La voce del popolo),239 la casa editrice Idish Buch e il Teatro Statale Yiddish.
145Il progetto teatrale di Ida era però sinceramente apprezzato anche dall’intellighenzia polacca, come testimonia la partecipazione di artisti di spicco alle celebrazioni in suo onore, la collaborazione di Erwin Axer e Tadeusz Łomnicki al documentario Il suo teatro e dichiarazioni come quella dello scrittore e attivista cattolico Jerzy Zawieyski, secondo il quale Kaminska «non appartiene soltanto al teatro yiddish, ma anche al teatro polacco. Il suo destino è legato tanto all’ambiente ebraico quanto a quello polacco».240 Attestati di stima come quello di Zawieyski riflettevano non tanto una condizione reale quanto una speranza, ma prima di essere definitivamente vanificati si rivelarono in grado di attirare in sala sempre più spettatori polacchi.
146Per fare fronte alla mutata composizione della platea, nel 1960 il Teatro Statale Yiddish si dotò di un sistema di traduzione in cuffia, che consentiva agli spettatori di ascoltare la trasposizione simultanea delle battute in polacco. In un’intervista rilasciata in quel periodo Ida si dichiarò felice di avere risolto il problema della comprensione linguistica,241 ma a giudizio di Grynberg la traduzione serviva soprattutto alle autorità per controllare quanto veniva detto per mezzo della scena.
Un giorno proposero di installare da noi le cuffie, come alle Nazioni Unite, per attirare più spettatori e rendere gli spettacoli più redditizi. Le persone che venivano ai nostri spettacoli non avevano bisogno della traduzione, anche se non capivano lo yiddish. Venivano per assistere alle immagini del passato, per ascoltarne le voci e non per la traduzione di parole ormai non più essenziali. […] L’impianto era necessario solo alle autorità, che non si fidavano di nessuna parola. Del resto non a torto. In una delle nostre commedie, il gabbai di una comunità ebraica di provincia veniva avanti fino alla ribalta riflettendo ad alta voce: «Andare o non andare?» E improvvisamente veniva fuori che la platea non era deserta come sembrava e all’unanimità rispondeva: «Andare!», anche se l’azione aveva luogo nel xix secolo e si trattava di tutt’altra partenza. No, le nostre autorità non potevano fidarsi di nessuno. Strano, anzi, che acconsentissero alla messa in scena di spettacoli, tanto più ebraici. Le spese per l’allestimento dell’impianto radiofonico nel nostro teatro furono coperte, come al solito, dalle organizzazioni ebraiche estere.242
7.3. Riconoscimenti, compromessi e frizioni con il potere
147In questo teatro trasformato in «sala conferenze»243 si giocava, anno dopo anno, il delicato braccio di ferro tra il regime e Ida Kaminska, abile «Talleyrand in gonnella che sapeva sempre cosa fare perché il lupo statale fosse sazio e la pecorella ebraica salva».244 Come abbiamo visto, da tempo Ida non nutriva più illusioni circa la visione del mondo proposta dall’ideologia comunista, ma confidava di sapersi destreggiare nel sistema ostentando un’aderenza tutta esteriore e ricavandosi uno spazio di libertà artistica e dialogo sincero con lo spettatore. Per questo motivo, pur restando apartitica, conduceva un complesso scambio di favori e astuzie con le autorità di ogni livello: allestendo di tanto in tanto spettacoli in linea con i dettami del realismo socialista, vincendo a carte gli appartamenti per i colleghi più bisognosi e le loro famiglie con il reponsabile dell’ufficio per gli alloggi e trattando con i dovuti riguardi gli informatori nascosti tra il personale artistico e tecnico del teatro.
Nome in codice: Helena
Tra le spie figurava anche Ruth Taru Kowalska, attrice di spicco della compagnia e compagna di scena di lunga data di Ida, con la quale aveva condiviso anche l’esperienza del vykt.245 Figlia di bundisti e attivista comunista della prima ora, tra il 1938 e il 1939 Ruth aveva scontato alcuni mesi di carcere per le proprie convinzioni politiche e al termine della guerra aveva fatto immediatamente ritorno nella “nuova” Polonia per offrire il proprio contributo alla ricostruzione. Tra i materiali conservati presso l’Istituto per la memoria nazionale di Varsavia figurano due dossier che raccolgono i molti documenti prodotti dalla polizia segreta dopo gli incontri con l’attrice, che dal marzo del 1961 lavorò come informatrice con il nome in codice di “Helena”.246 Per quel che si evince dalle relazioni della persona responsabile dei colloqui, Taru Kowalska considerava i propri resoconti sull’atteggiamento tenuto dalla direzione del Teatro Statale Yiddish come un dovere nei confronti della Repubblica Popolare Polacca e della causa socialista, al punto da rifiutare ogni ricompensa economica per due anni (salvo poi cambiare idea) e da proporre essa stessa nuove indagini. Il principale compito della spia era riferire qualsiasi opinione politica eccentrica manifestata all’interno delle associazioni ebraiche e in particolare della dirigenza del Teatro Statale Yiddish. Le accuse si appuntavano soprattutto sulla conduzione familiare, dispotica e privatistica del teatro da parte di Ida Kaminska, «madre straordinaria» al servizio della figlia e del genero, ma «lontana dall’appartenenza al partito e dal senso di dovere che ciascun cittadino dovrebbe provare nei confronti dello stato socialista».247 Di ritorno da una tournée in Israele, “Helena” informò i servizi segreti del comportamento tenuto da Meir Melman, concludendo che il collega era in realtà un simpatizzante del sionismo e che la sua adesione al partito comunista era fittizia. Le delazioni di Taru Kowalska, che nel frattempo continuava a prendere parte ai principali spettacoli del Teatro Statale Yiddish, continuarono fino al 1967, quando la politica estera della Polonia popolare cambiò orientamento.
Se da una parte il regime teneva sotto stretta osservazione tutti i membri della famiglia Kaminski (forse anche attraverso microspie collocate nei loro appartamenti),248 dall’altra premiava Ida con importanti onorificenze – tra cui l’Ordine per la Rinascita della Polonia (1951), il Premio Statale di ii Livello per i Conseguimenti Artistici (1955) e l’Ordine della Bandiera del Lavoro di i Classe (1959), assegnato per meriti nella costruzione del socialismo nella Polonia Popolare – e si godeva i benefici della propria “vetrina” liberale. Trasformato in una tappa doverosa per i turisti in visita alla capitale (compresi ospiti illustri come Friedrich Dürrenmatt e Arthur Miller), con la sua esistenza il Teatro Statale Yiddish rappresentava infatti un efficace attestato dell’apertura del nuovo sistema socialista e dell’infondatezza delle accuse di antisemitismo che gli venivano rivolte.
148Fu questo il motivo per cui, dalla fine degli anni Cinquanta, il governo consentì alla compagnia di Ida di estendere le proprie tournée anche all’estero. Nell’arco di un decennio il Teatro Statale Yiddish polacco avrebbe visitato il Belgio, l’Olanda, la Gran Bretagna, la Repubblica Democratica Tedesca e l’Austria, ma anche Israele, il Sud America, gli Stati Uniti e perfino l’Australia, suscitando in tutto il mondo un’ampia eco per il valore simbolico della sua esistenza prima ancora che per il merito delle sue proposte artistiche.249 Il repertorio scelto per questi viaggi – che per Ida avevano l’obiettivo preciso di incontrare gli ebrei di tutto il mondo per dire loro: «Siamo qui e stiamo facendo qualsiasi cosa in nostro potere per continuare a esistere»250 – era composto dai classici della drammaturgia yiddish, con l’eccezione del dramma di Casona e di Tutti i miei figli di Arthur Miller, diretto da Chevel Buzgan. Nell’estate del 1957 il governo della Repubblica Popolare Polacca e l’ambasciata israeliana finanziarono il primo viaggio dell’attrice in Israele; viaggio che per Ida fu motivo di profonda emozione perché, dopo lungo tempo, le consentì di riabbracciare il fratello e la sua famiglia, l’ex marito Zygmunt Turkow e gli attori dell’Habima, e di conoscere personalmente Golda Meir, all’epoca Ministro degli Affari Esteri e dichiaratasi una delle sue maggiori fan.
149Le concessioni del «lupo statale» erano però sempre accuratamente calcolate e concertate con Mosca, come dimostra il fatto che, nonostante le numerose richieste avanzate da Ida, la compagnia non ottenne mai il permesso di andare in tournée in Unione Sovietica.251 Accordare a un simbolo vivente come Ida Kaminska, erede della madre del teatro yiddish e direttrice di un teatro statale in un paese sovietico, il permesso di esibirsi nella terra che aveva recentemente fatto assassinare i suoi artisti e smantellato tutti i teatri ebraici, restò sempre fuori questione.
150In generale, per molti anni l’atteggiamento prevalente dei maggiorenti del partito comunista polacco nei confronti dell’artista e del suo teatro fu improntato a una diffusa cautela (condivisa anche dall’opinione pubblica), nel timore di essere accusati di discriminazione o, all’opposto, di eccessiva complicità con la minoranza ebraica. Un risvolto positivo di questo atteggiamento prudenziale fu il minore controllo amministrativo esercitato sul teatro yiddish rispetto ad altre strutture; la conseguenza negativa fu l’indifferenza mostrata nei confronti delle concrete proposte artistiche della compagnia: il ministro della cultura Włodzimierz Sokorski, ad esempio, per anni si sarebbe “dimenticato” di citare il teatro yiddish in occasione di manifestazioni pubbliche, dimostrando con i fatti di considerarlo un semplice paravento. Contro tale disinteresse Ida si batteva con ogni mezzo, consapevole che la visibilità era la carta più importante da giocare per garantire al Teatro Statale Yiddish la sopravvivenza. Nel 1962, per la prima volta, il governo di Varsavia prese ufficialmente in considerazione l’ipotesi di liquidare il teatro, adducendo la motivazione che l’edificio aveva sede in una struttura pericolante e che, a fronte delle spese sostenute, non poteva garantire l’affluenza di pubblico di altre scene drammatiche.252 In quell’occasione prevalsero gli interessi propagandistici e alla fine si decise di salvare il teatro e di iniziare i lavori per la costruzione di un nuovo edificio, ma ormai era chiaro che la scena yiddish era considerata un’enclave di cui un giorno la Polonia Popolare avrebbe potuto fare a meno.
151Allo stesso modo, Ida Kaminska era oggetto di ammirazione e stima in seno all’ambiente culturale polacco, ma tutto sommato percepita come un “corpo estraneo”. Considerato per esempio il diffuso riconoscimento del suo talento, sarebbe stato lecito attendersi che i cineasti polacchi si interessassero all’attrice, invece in tutto il ventennio del dopoguerra non le fu mai proposto alcun ruolo di rilievo.253 Se ai registi cecoslovacchi Ján Kadár e Elmar Klos era bastato assistere a una replica degli Alberi cadono in piedi per proporre a Ida un ruolo da co-protagonista nel film premio Oscar Il negozio al corso (1965), le uniche interpretazioni cinematografiche dell’attrice nella Polonia del dopoguerra si limitarono a un ruolo secondario nel film per la televisione Addio a Maria (1966)254 e a quello da co-protagonista – ma passato sotto silenzio – ne L’abito nero (1967).
152Il negozio al corso, prima pellicola prodotta da un paese comunista dell’Europa Centrale e distribuita anche nei paesi democratici, compresi gli Stati Uniti (già nel gennaio del 1966), ottenne uno straordinario successo culturale e commerciale e regalò ulteriore visibilità a Ida Kaminska, sia in Polonia sia all’estero. Nel 1965 fu premiato con l’Oscar come miglior film straniero e l’anno successivo Ida – che dall’epoca di Senza una casa non aveva più avuto esperienze cinematografiche – fu candidata all’Oscar come migliore attrice protagonista. Insieme al primo attore Josef Kroner, magistrale nel sottolineare il carattere tragico e farsesco della vicenda, ricevette inoltre una menzione speciale al Festival di Cannes e, nel 1967, un premio statale dal presidente cecoslovacco Antonin Novotny.
153Il film fu il primo della cinematografia cecoslovacca a trattare il tema della Shoah e dell’antisemitismo slovacco e a mettere in luce l’efficiente collaborazione del governo clerico-fascista di Jozef Tiso nello sterminio degli ebrei. Il regista slovacco Kadár, che durante la guerra era stato imprigionato e aveva perso il padre in un campo di concentramento, avvertiva l’esigenza di creare un’opera che non avesse la pretesa di raccontare la tragedia dei sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti, ma che fosse modellata sul destino di un singolo individuo. Persuaso dell’originalità del racconto La trappola (1962) di Ladislav Grosman, che ritrae con accenti tragicomici l’emergere del fascismo slovacco attraverso l’intreccio delle vite di un falegname e della proprietaria di una merceria, si mise in cerca degli attori. La scelta dell’interprete femminile, in particolare, si rivelò difficile perché a suo giudizio «la Cecoslovacchia non aveva attrici della precedente generazione che avessero un’esperienza di vita tale da poter creare un personaggio così complesso».255 Quando però vide Ida Kaminska in scena, il regista si rese conto che l’artista «portava in sé il destino della vedova Lautmannová»256 e che incarnava «il più potente memoriale del fascismo e delle sue vittime»257 che egli avesse mai conosciuto.
154Il film consente di ammirare la maestria di Kaminska nel regalare a un personaggio che avrebbe potuto facilmente trasformarsi in una macchietta, una presenza del tutto estranea ai piani originari dei registi: fu infatti solo dopo avere ridiscusso la caratterizzazione comica proposta da Kadár e Klos e avere ottenuto che l’anziana signora Lautmannová acquistasse una dimensione essenzialmente tragica che Ida accettò la parte. La sua Rozália Lautmannová non è soltanto una vecchina buona e dura d’orecchi, ma il corpo e la voce testimoniano un carattere sfaccettato formatosi nel corso di molti anni: è testarda ma gentile, indifesa ma determinata, aperta all’accoglienza di tutti ma salda nella fede e nelle tradizioni. La sordità la tiene all’oscuro dei provvedimenti filonazisti che stanno prendendo piede nel suo paese, la Slovacchia alleata del Terzo Reich, e renderà possibile il malinteso per il quale l’uomo che avrebbe dovuto espropriarla dell’attività commerciale si trasformerà in un valido aiutante. Nell’ultimo capitolo torneremo a trattare del film – a cui Ida prese parte recitando in slovacco – per soffermarci su alcuni interessanti “affioramenti” legati alla lingua yiddish.
155Le crescenti tensioni politiche fecero sì che la meritevole creazione di Ida nel film L’abito nero, tratto da un romanzo di Stanisław Wygodzki,258 fosse accolta con indifferenza al Festival di Praga.259 Eppure la sua interpretazione di una madre angosciata in attesa del ritorno del figlio dalla guerra – pur ingessata dalla cornice di questo asfittico thriller psicologico – non era inferiore a quella dell’anziana bottegaia Lautmannová, protagonista della più sentimentale pellicola cecoslovacca. Entrambe creazioni misurate nei dettagli e di potente drammaticità, non tradiscono in alcun modo la scarsa esperienza di fronte alla macchina da presa lamentata da Ida e testimoniano la pienezza che caratterizza tutti i suoi personaggi, il richiamo pungente alla tragedia dell’Olocausto (anche quando non è esplicitato, come nell’Abito nero) e la versatilità del sentimento materno che sempre li permea. Assai differente fu però l’accoglienza riservata alle due interpretazioni: se la prima cadde presto nel dimenticatoio, la seconda meritò a Ida la candidatura all’Oscar. Alla nipote che lamentava il fatto che la vittoria fosse poi andata a Elizabeth Taylor, Ida avrebbe risposto: «Sono soddisfatta, mia cara. Sono un’attrice ebrea e per tutta la vita la cosa più importante è stata il palcoscenico, per questo considero la candidatura un onore per me e per il teatro yiddish».260
156In patria, però, il clima interno al Partito Operaio Unificato Polacco era di nuovo teso: Gomułka iniziò a diffidare dei funzionari di origine ebraica e dei ceti intellettuali e favorì l’ala più conservatrice e dogmatica del partito, alla quale si associarono gli ex-combattenti dell’Armia Ludowa (Armata Popolare), i cosiddetti “partigiani”, capitanati dal generale Mieczysław Moczar. Insieme, questi due gruppi attaccarono i liberali con una propaganda venata di antisemitismo, che aspirava a epurare il Ministero degli Interni e l’esercito degli ultimi esponenti di origine ebraica, mentre Gomułka intensificò la campagna di repressione contro gli intellettuali, accusandoli di non comprendere il ruolo dell’arte in uno stato socialista: l’attività di molti giornali fu ostacolata e circoli di resistenza critica come il club Krzywe Koło smantellati. Ebrei e intellettuali diventarono i capri espiatori anche di un altro conflitto maturato in seno al partito, uno scontro di stampo generazionale che contrapponeva le vecchie guardie dell’apparato ai giovani che aspiravano a fare carriera.
157La situazione precipitò nell’estate del 1967, quando Israele sconfisse la coalizione di stati arabi sostenuta e armata dall’Unione Sovietica, che perse così prestigio e fu presa dal timore di lasciarsi sfuggire l’influenza su quella regione. La Guerra dei Sei Giorni fece detonare le tensioni interne, incrinando anche la posizione del Teatro Statale Yiddish e della sua direttrice. Il 12 giugno il governo polacco ruppe le relazioni diplomatiche con Israele, espellendone l’ambasciatore e condannando ufficialmente «l’aggressione», mentre il teatro fu scelto dai rappresentanti di numerose ambasciate come luogo davanti al quale stazionare con le proprie auto in segno di protesta per l’indebita cacciata del collega. Il 19 giugno, al Congresso dei Sindacati dei Lavoratori, Gomułka (che forse temeva un attacco personale per via dell’origine ebraica della moglie) accennò per la prima volta alla presenza di «circoli sionisti» e alluse all’esistenza di una «quinta colonna» di ebrei schierati al fianco di Israele, invitandoli a lasciare la Polonia. Il discorso di Gomułka infiammò una ignobile campagna antisemita, che per ragioni di correttezza politica fu sempre definita antisionista. Moczar ne approfittò per sferrare l’attacco finale ai vertici del partito, allo scopo di stanare i fantomatici sionisti nascosti al suo interno; il generale Wojciech Jaruzelski, esponente dei più alti ranghi militari, gli fece eco accusando gli Stati Uniti di capeggiare un complotto sionista internazionale.
158Come già accaduto nell’urss staliniana, la parola «sionismo» si trasformò in un’etichetta svuotata di ogni significato storico-filologico, utile a creare un nemico del popolo facendo riaffiorare nella società polacca tutti i vecchi risentimenti e pregiudizi contro gli ebrei.261 La sola origine ebraica divenne spia dell’appartenenza a organizzazioni sioniste internazionali, nonostante si trattasse di un evidente controsenso dal momento che i pochi ebrei rimasti in Polonia avevano volutamente scelto di non emigrare in Israele negli anni precedenti e nella gran parte dei casi erano persone completamente assimilate e ferventi comunisti. Questi cittadini si scoprirono improvvisamente traditi dal progetto politico nel quale avevano riposto fiducia e il caso di Ruth Taru Kowalska dà la misura dello sconvolgimento che ciò rappresentò per molti di loro. Se nell’estate del 1966 l’attrice riferiva ancora della frequenza con cui il segretario dell’Ambasciata israeliana assisteva agli spettacoli del Teatro Statale Yiddish suggerendo si trattasse di un pretesto per qualche incontro dietro le quinte, il 31 maggio 1967 comparve di fronte al suo interlocutore in uno stato di grande nervosismo e prostrazione a causa della posizione assunta dall’Unione Sovietica contro Israele, giungendo a parlare esplicitamente di un ritorno dell’antisemitismo in Polonia. Nella relazione stilata dopo l’incontro, il responsabile del servizio di sicurezza annotò: «nel fervore dell’eccitamento “Helena” ha dimenticato le proprie idee internazionalistiche e rivoluzionarie» e «il modo di interpretare i fenomeni e il giudizio sulla situazione attuale hanno smascherato la sua identità di sciovinista e di sostenitrice del nazionalismo ebraico».262
159Com’era immaginabile, i controlli dei servizi segreti su Ida Kaminska e i membri del teatro – avviati all’inizio degli anni Sessanta – si intensificarono alla fine del decennio, anche perché l’attrice non acconsentì mai a condannare l’operato di Israele e approfittò di ogni occasione pubblica per dichiarare la propria distanza dall’associazione socio-culturale che rappresentava gli ebrei in Polonia e che invece lo aveva fatto.
160In questo clima di forte tensione, Ida festeggiò cinquant’anni di carriera teatrale: alle celebrazioni, inizialmente previste per giugno e poi «per ragioni tecniche»263 posticipate al 18 settembre, presero parte i più importanti esponenti del mondo culturale polacco, che in tal modo desideravano esprimere solidarietà a lei e a tutta la popolazione ebraica. Nel corso della serata l’artista propose alcune scene da Mirele Efros e Madre Courage, intervallate dalla proiezione in anteprima del documentario biografico Il suo teatro, realizzato da Władysław Forbert, regista e figlio del celebre fotografo e produttore cinematografico. Il film si conclude con l’immagine di Ida che osserva con gravità, come presagendo l’immediato futuro, la sala in costruzione del nuovo teatro yiddish, uno spazio che aveva sognato a lungo e nel quale non avrebbe mai recitato. La manifestazione fu corredata di discorsi ufficiali da parte delle autorità e di rappresentanti del mondo culturale ebraico e polacco. Il primo a prendere la parola fu il viceministro alla cultura Kazimierz Rusinek, che nella sua orazione non dimenticò di deplorare l’aggressione compiuta dallo Stato di Israele. In risposta, Ida si rivolse agli ebrei presenti in sala dichiarando che in un momento così grave non era libera di dire esplicitamente tutto ciò che avrebbe voluto, ma che condivideva con loro gli stessi sentimenti: le sue parole furono accolte da un applauso fragoroso.264
161Nei primi mesi del 1968 la censura del governo nei confronti dello spettacolo Gli avi del vate Adam Mickiewicz, diretto da Kazimierz Dejmek, scatenò la protesta dei ceti intellettuali e degli studenti, la cui opposizione fu stroncata brutalmente dalla polizia e ufficialmente presentata come un effetto della congiura sionista. In quegli stessi mesi si moltiplicarono le delazioni inerenti il Teatro Statale Yiddish e i suoi attori. Scorrendo i numerosi rapporti segreti – che contengono l’accurata descrizione dell’atteggiamento tenuto dai membri della compagnia all’estero, i costi sostenuti dallo stato per il mantenimento della struttura e la proposta di sospendere le tournée all’estero – si ricava l’impressione che il governo stesse preparando il terreno per la liquidazione del teatro.
162Entro la fine di quello che sarebbe passato alla storia come “il marzo 1968” la purga antisemita portò all’espulsione dal partito di oltre ottomila membri, mentre un numero imprecisato di cittadini perse il posto di lavoro a causa di colleghi ambiziosi o vendicativi.265 Qualche settimana più tardi Ida Kaminska si unì ad altre migliaia di ebrei polacchi dando luogo all’ultima emigrazione ebraica di massa del xx secolo.266 L’esodo forzato fu vissuto come una tragedia dagli emigranti, che si consideravano cittadini polacchi, e rappresentò una perdita immensa per la cultura polacca, depauperata di molti esponenti della sua intellighenzia. A differenza della casa editrice Idish Buch, il Teatro Statale Yiddish non fu soppresso ma snaturato dall’interno e con quella trasformazione fa i conti tutt’oggi.267 Partita Ida Kaminska, le successe alla direzione per brevissimo tempo Juliusz Berger, poi nel 1970 prese le redini della struttura, per tenerle quarant’anni, Szymon Szurmiej, che restò sempre schierato dalla parte del potere.
163Con l’esilio di Ida Kaminska, in Polonia si concluse definitivamente la stagione vitale del teatro yiddish, inaugurata da molti artisti nel xix secolo e difesa nel secondo Novecento da Ida e dalla sua visione coraggiosa e utopistica. Artista concreta ed esigente, Ida Kaminska sapeva bene di dovere gettare nuove basi affinché il teatro yiddish del dopoguerra rimanesse un luogo di viva interrogazione e reazione al rivolgimento provocato dalla Seconda guerra mondiale. Nonostante i compromessi con il potere, sulla scena seppe scansare il ruolo di predicatrice e conservare la propria individuale postura artistica. Fu in grande misura merito suo se il teatro yiddish rinacque dalle ceneri della Shoah e poté presentare alla Storia un volto nuovo, senza ridursi a una rievocazione fieristica del mondo degli ebrei barbuti dello shtetl, degli artigiani sognatori e delle belle ragazze brune dalle lunghe trecce. La lingua yiddish innervò un vasto repertorio di storie e personaggi, incorporando nella sua melodia un profondo anelito di integrazione, di incontro tra identità e culture al riparo da ogni obbligo di assimilazione. Forse come nessun altro, Ida cercò per tutti gli anni del dopoguerra di creare attraverso il teatro uno spazio comune in cui realizzare una reciproca apertura tra cultura ebraica e polacca, nel segno di un’alleanza tra lingua, identità e alterità altrove spesso solo teorizzata. Per conseguire questo obiettivo comprese che era necessario che le due culture si conoscessero per davvero e prestò sempre la massima attenzione a non isolarsi, a non ripararsi nel recinto del ghetto culturale, ma a lottare per essere riconosciuta parte integrante della cultura della Polonia.
164In un’intervista rilasciata alla radio polacca nel 1966, Ida definì il proprio progetto «poco logico» e governato dal cuore, ma se il suo teatro non si degradò a balocco sentimentale fu perché l’artista credeva fermamente che in Polonia fossero rimaste le radici della yiddishkheyt (a differenza di Adolf Rudnicki che, più pessimista o realista, vedeva solo un ramo scampato alla distruzione) ed era convinta che occuparsi delle radici avrebbe portato alla nascita di nuovi frutti.268 Curare le radici significava non dimenticare l’originaria ispirazione didattica del teatro yiddish e coltivare memoria del passato e della «Grande Disgrazia »269 condividendo la scena con i propri antenati. Come testimonia Henryk Grynberg, non certo propenso a concessioni spiritualistiche, se nel teatro yiddish i defunti vivevano a fianco dei vivi «ciò non è mai stato più vero del teatro del dopoguerra di Ida Kaminska, in cui le anime che abitavano il teatro ebraico mi stregarono come a suo tempo accadde a Franz Kafka, ma alla lettera perché dopo l’Olocausto».270 Un ingrediente fondamentale di questo dialogo, intrecciato ogni sera tra passato e futuro, tra gli avi, gli attori e gli spettatori, era la nostalgia. Facendoci guidare dalle osservazioni di un compagno di lavoro dell’attrice come Jakub Rotbaum,271 possiamo supporre che Ida avesse un’idea precisa della nostalgia come bacino emotivo indispensabile all’incontro teatrale: una nostalgia intesa come desiderio e tensione dinamica, come potente antidoto all’immobilismo cui condannano sia il rimpianto sia la malinconia. Nei prossimi capitoli cercherò di delineare meglio questa ipotesi entrando nel vivo di due sue grandi creazioni attoriali, che attraverso la figura immortale della yidishe mame trasformano uno jargon di nicchia in una lingua universale.
Notes de bas de page
1 Secondo alcune fonti il 15, secondo altre il 22 febbraio: «Non confessò mai a nessuno la propria data di nascita, ma disse soltanto che era nata nel giorno che precede Purim, il giorno del Digiuno di Ester», Ida Kaminska, My life cit., p. 8.
2 Già Ida Kaminska lamentava l’assenza di una monografia approfondita dedicata alla madre; le uniche informazioni si basano su: Yitskhok Turkow-Grudberg, Di mame Ester Rahel, Idish Buch, Warszawa 1953; Zalmen Zylbercweig, Di velt fun Ester Rokhl Kaminska, pubblicazione a cura dell’autore, Ciudad de México 1969; Ester Rokhl Kaminska, Briv, intr. e commento di Mark Turkow, Farlag fun B. Kletskin, Vilne 1927. Cfr. anche le memorie dell’artista, pubblicate a puntate dopo la morte sul quotidiano yiddish di Varsavia «Der moment», tra l’11 giugno 1926 e il 21 gennaio 1927: Ester Rokhl Kaminska, Derner un blumen. Der veg fun mein leben (Spine e fiori. Il cammino della mia vita), cit. in Alexandre Messer, Charlotte Szajn-Messer, Les Kaminski dans le théâtre yiddish de Pologne, in Entre héritage et devenir. La construction de la famille juive. Études offertes à Joseph Mélèze-Modrzejewski, a cura di Patricia Hidiroglou, Publications de la Sorbonne, Paris 2003, p. 269.
3 Avrom Goldfadn/Abraham Goldfaden (1840-1908): poliedrica figura di drammaturgo, compositore, regista e impresario, universalmente considerato «il padre del teatro yiddish». Soltanto in tempi recenti si è proceduto a una disamina storico-culturale dell’artista e della sua opera, ma è indubbio che la sua impresa fu essenziale per la nascita del teatro yiddish. In italiano, cfr. Paola Bertolone, L’esilio del teatro. Goldfaden e il moderno teatro yiddish, Bulzoni, Roma 1993 e A. Attisani, con V. Belling, M. Rizzuti, L. Valenza, Tutto era musica cit.; sulla presenza di Goldfaden sulle scene polacche cfr. Zalmen Zilbercwaig, Goldfaden na polskiej scenie, trad. Tomasz Kuberczyk, in Aa. Vv., Teatr żydowski w Polsce do 1939, «Pamiętnik Teatralny» (volume monografico), XLI, 1-4, Warszawa 1993, pp. 211-216.
4 Broderzinger (Brodersänger, Cantanti di Brody): artisti semiprofessionisti originari della città di Brody, sul confine russo-galiziano, che dagli anni Cinquanta dell’Ottocento si esibirono nei caffè e nelle cantine delle città situate nella Zona di residenza ebraica dell’Europa orientale, proponendo un repertorio di canzoni e sketch comici volti a prendere in giro gli ebrei ricchi e i chassidim.
5 Secondo lo storico Zalmen Zylbercweig, autore del monumentale Leksikon fun yidishn teater, la compagnia che si esibiva all’Eldorado faceva capo a David Shvartsbard ed era composta da: Herman e Adolf Berman, Anna e Roza Bira, Ester Rokhl Kaminska, Julius Oskar, Rotshteyn, Adolf Shlifershteyn, Gustav Shvartsbard, Yakov Spivakovski and Moshe Veysfeld, <http://www.museumoffamilyhistory.com/yt/tat-01.htm>.
6 Shulamis fu una delle opere predilette dalla critica e dal pubblico in Polonia. Cfr. Anna Kuligowska-Korzeniewska, Polska Szulamis. Dramat żydowski na scenach polskich na przełomie xix i xx wieku, in Dramat obcy w Polsce w xix i xx wieku, a cura di Wojciech Kaczmarek, Joanna Michalczuk, Wydawnictwo kul, Lublin 2004, pp. 45-63.
7 Scuola elementare pubblica per bambini di estrazione modesta, diffusa nel mondo ebraico ashkenazita e sefardita e ispirata al modello del cheder. Vi si insegnava la lingua ebraica e le Sacre Scritture, in particolare la Torah e il Talmud.
8 Zalmen Zylbercweig, Leksikon fun yidishn teater, vol. VI, Mexico City 1969, col. 5254, trad. Mirosława Bułat, cit. in Anna Kuligowska-Korzeniewska, Kamińscy: Abraham Izaak i Ester Rachel, in Teatralna Jerozolima. Przeszłość i teraźniejszość, a cura di Id., Oficyna Wydawnicza Errata, Warszawa 2006, p. 42.
9 Marian Melman, Kamiński Abraham-Izaak, in Polski Słownik Biograficzny, XI, Wrocław-Warszawa-Kraków, cit. ibid.
10 Shomer (pseudonimo di Nokhem Meyer Shaykevitch, 1849?-1905): prolifico autore di storielle e drammi. Incontrò Goldfaden in Romania e quando a Odessa fu creato un teatro yiddish si dedicò alla stesura di opere per la scena. Su invito di alcuni attori yiddish nel 1889 emigrò negli Stati Uniti, dove i più importanti esponenti dell’establishment letterario yiddish – tra cui Sholem Aleichem – lo attaccarono, accusandolo di avere plagiato autori stranieri e di produrre opere prive di valore artistico, incapaci di ritrarre la vita ebraica e immorali. La critica non riuscì però a frenare la popolarità di Shomer, che pubblicò oltre duecento racconti e cinquanta drammi in yiddish, e il cui successo fu cavalcato anche da autori rivali, i quali ne sfruttarono il nome per diffondere il proprio lavoro. Cfr. in proposito il primo e il terzo volume di questa serie.
11 A. Kuligowska-Korzeniewska, Kamińscy: Abraham Izaak i Ester Rachel, in Teatralna Jerozolima cit., p. 49.
12 I. Kaminska, My life cit., pp. 8-9.
13 Ivi, p. 9.
14 Ivi, p. 8.
15 Henryk Grynberg, Życie żydowskie i artystyczne, «Teatr», 7/8, 1996, p. 35.
16 Zalmen Zylbercweig ci ha trasmesso i nomi dei membri della compagnia dei coniugi Kaminski: tra le attrici figuravano Ester Rokhl e la figlia Regina, Miriam Trilling, Jermolina Wajsman, Barska-Fisher, Sonia Edelman, Sonia Libert, Chine Bragińska-Fiszzon, Krojze-Miler, Wiera Shapiro, Sonia Shlozberg, mentre l’organico maschile comprendeva Avrom Kaminski, Avrom Fiszzon, Jakub Libert, Natan Dramow, Herman (Gershon?) Wajsman, Herman Fisher, Brandesko, Sh. Krojze, M. Ch. Tytelman, L. Rapel, Herman Berman, Yitzhak Zandberg, Adolf Berman e altri. Cit. in A. Kuligowska-Korzeniewska, Kamińscy cit., p. 43.
17 Dovid Pinski (1872-1959): scrittore e drammaturgo yiddish nato a Mogilev, in Bielorussia. Nel 1892 a Varsavia incontrò Yitskhok Leybush Peretz e in stretta collaborazione con lui e la sua cerchia di allievi creò i suoi primi drammi in yiddish, caratterizzati da un approccio innovativo alla cultura ebraica e improntati alla promozione di idee socialiste. Autore di romanzi, racconti e copioni teatrali che furono adottati anche dal cinema yiddish. Avraham Novershtern, Dovid Pinski, yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 8 ottobre 2016: <http://www.yivo-encyclopedia.org/article.aspx/Pinski_Dovid>.
18 Yitskhok Leybush Peretz (1852-1915): poeta, scrittore e drammaturgo, protagonista di spicco della cultura yiddish ed ebraica. Nato a Zamość, città multietnica della Polonia dominata dalla Russia e roccaforte dell’Illuminismo ebraico, Peretz modellò la propria idea di rinascimento della cultura ebraica sull’esempio della lotta polacca per l’indipendenza che, dovendo compensare la mancata libertà sul piano politico, si concentrò sulla promozione della lingua e della cultura. Alfiere della necessità per gli intellettuali ebrei di rivolgersi al popolo, offrendo una creazione artistica che ne elevasse le apirazioni culturali e lo spirito nazionalista, fu un severo fustigatore del teatro yiddish di basso livello. Ruth R. Wisse, Yitskhok Leybush Peretz, yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 8 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Peretz_Yitskhok_Leybush>.
19 Henryk L. (H. Lichtenbaum?), Teatr żydowski, «Izraelita», 25, 1905, p. 289, cit. in Mirosława Bułat, Teatr żydowski w świetle «Izraelity» w latach 1883-1905, in Aa. Vv., Teatr żydowski w Polsce, a cura di Anna Kuligowska-Korzeniewska e Małgorzata Leyko, Wydawnictwo Uniwersytetu Łódzkiego, Łódź 1998, p. 97.
20 Il primo studioso a riservare un’attenzione approfondita alla figura di Mark Arnshteyn è stato Michael Steinlauf, autore nel 1988 di una tesi di dottorato rimasta inedita: Polish-Jewish theater: The case of Mark Arnshteyn; A study of the interplay among Yiddish, Polish and Polish-language Jewish culture in the modern period, Brandeis University, Department of Near Eastern and Judaic Studies. Dello stesso autore, segnaliamo i più accessibili: Mark Arnshteyn and Polish-Jewish theater, in Yisrael Gutman, Ezra Mendelsohn, Jehuda Reinharz, Chone Shmeruk, The Jews of Poland Between Two World Wars, University Press of New England, Hanover 1989, pp. 399- 411 e Mark Arnshteyn, yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 17 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Arnshteyn_Mark>.
21 Michael Steinlauf, Teatr żydowski w Polsce. Stan badań, ivi, p. 16.
22 In particolare il fratello Yosef parlava più spesso polacco perché i suoi amici erano polacchi e il padre lo riprendeva in continuazione: «Parla in yiddish!» Anche Ida giocava spesso nel cortile con bambini polacchi perché nel loro caseggiato non abitavano molti ebrei. Intervista n. 87 (4) di Gershon Weiner a Ida Kaminska e Meir Melman, progetto Idish teater, 9 febbraio 1971, pp. 17-18, Institute of Contemporary Jewry. Division of Oral History, Università Ebraica di Gerusalemme.
23 Adolf Rudnicki, Teatr zawsze grany, Czytelnik, Warszawa 1987, p. 61.
24 Laura Quercioli Mincer, La letteratura yiddish ed ebraico-polacca, in Aa. Vv., Storia della letteratura polacca, a cura di Luigi Marinelli, Einaudi, Torino 2004, p. 501.
25 Franz Kafka, Discorso sulla lingua jiddish, in Id., Confessioni e Diari, a cura di Ervinio Pocar, trad. Italo A. Chiusano, Mondadori, Milano 1981, p. 1001.
26 Guido Massino, Fuoco inestinguibile. Franz Kafka, Jizchak Löwy e il teatro yiddish polacco, Bulzoni, Roma 2002, p. 24.
27 Jacob Guinsburg, Aventuras de uma língua errante: ensaios de literatura e teatro ídiche, Perspectiva, São Paulo 1996, p. 36.
28 Hannah Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2004, p. 269.
29 L. Quercioli Mincer, La letteratura yiddish cit., p. 501.
30 Nel 1904, assistendo a una replica del Potere dell’amore al Grand Street Theater di New York, lo storico tedesco Karl Lamprecht si trovò a comprendere il teatro greco e il suo significato religioso: «When the last curtain descends after midnight – the play, I seem to remember, started at 8 p.m. – I know at last the meaning of the tremendous applause that followed each act. Here in the Yiddish theater there still prevails a mood of piety, of devotion and edification that disappeared everywhere in the modern theater. Here audience, actor, and playwright share an ethos unaffected by critical distinctions between moral or religious and purely theatrical problems and their resolutions. Here the drama has remained a divine service», cit. in J. Hoberman, Bridge of Light: Yiddish Film between Two Worlds, Dartmouth College Press, New York 2010, p. 22.
31 Michael C. Steinlauf, Paura di Purim: Y.L. Peretz e la canonizzazione del teatro yiddish, in Aa. Vv., Café Savoy. Teatro yiddish in Europa, a cura di Paola Bertolone e Laura Quercioli Mincer, Bulzoni, Roma 2006, p. 99.
32 Tra i membri della Fareynikte Trupe figuravano Ester Rokhl Kaminska, Avrom Yitzhok Kaminski, Herman Fisher (suggeritore e assistente alla regia), Regina Kaminski, Yankev Libert, Bertil, Wajsman, Ester Glazer, Zhelazno, Herman Serotsky, Edelman, Yermolina Wajsman, Shloyme Kan. Lives in the Yiddish Theatre. Short biographies of those involved in the Yiddish Theatre as described in Zalmen Zylbercweig’s “Leksikon fun yidishn teater” 1931-1969, Museum of Family History: <http://www.museumoffamilyhistory.com/yt/tat-01.htm>, 8 ottobre 2016.
33 Sholem Asch (1880-1957): tra i più interessanti e prolifici scrittori yiddish, fu anche drammaturgo. La sua opera teatrale più nota – Il dio della vendetta (1907) – fu portata in scena da Max Reinhardt a Berlino e tutt’oggi è il secondo dramma più popolare del repertorio yiddish dopo Il dibbuk. I suoi romanzi si caratterizzano per la scrittura innovativa e per l’attenzione a temi sociali e controversi. Il valore della sua opera fu riconosciuto già in vita, tanto che nel 1920, a quarant’anni, fu realizzata un’edizione in dodici volumi e nel 1932 fu eletto presidente onorario dello Yiddish Pen Club. Joseph Sherman, Sholem Asch, yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 8 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Asch_Sholem>. Cfr. anche il paragrafo corrispondente nel primo volume di questa serie.
34 Yankev Dinezon (1856?-1919): scrittore, editore e attivista letterario originario di Kovno, in Lituania. Alla fine del 1885 si trasferì a Varsavia con la sorella e conobbe Peretz, di cui divenne amico e stimato collaboratore. Su incoraggiamento di Peretz tornò a scrivere in yiddish, attività che aveva abbandonato dopo avere pubblicato, e ripudiato, un romanzo considerato il primo bestseller della letteratura yiddish. Smise di scrivere nel 1910 e si concentrò nella cura della vivace comunità letteraria yiddish raccoltasi a Varsavia. Durante la Prima guerra mondiale si dedicò, insieme a Peretz, alla fondazione dei primi orfanotrofi ebraici. Negli ultimi anni di vita fu tra i più accaniti promotori delle scuole yiddishiste in Polonia. Jeremy Dauber, Yankev Dinezon, yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 8 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Dinezon_Yankev>.
35 David Frischman (1859-1922): scrittore ed editore in lingua ebraica e yiddish, critico letterario, traduttore e poeta. Il suo sogno era creare e promuovere una letteratura ebraica europea libera dalla necessità di concentrarsi su temi come la lotta per i diritti civili o la risoluzione della “questione ebraica”: una letteratura raffinata in lingua ebraica che potesse reggere il confronto con i classici della letteratura occidentale. A tale proposito era convinto che la strada per un rinascimento ebraico moderno passasse per lo sviluppo della sensibilità e del gusto e non attraverso la valorizzazione dell’eredità culturale prettamente ebraica. Hamutal Bar-Yosef, David Frishman, yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 8 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Frishman_David>.
36 Mordkhe Spektor (1858-1925), scrittore ed editore che, a differenza di alcuni suoi contemporanei, pubblicò da subito le proprie opere in lingua yiddish. Dopo avere lavorato a San Pietroburgo come giornalista, si trasferì a Varsavia e qui collaborò a tutte le più importanti testate yiddish. Partecipò inoltre alla fondazione della Kultur-lige. Nathan Cohen, Mordkhe Spektor, yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 8 ottobre 2016:
<http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Spektor_Mordkhe>.
37 I. Kaminska, My life cit., pp. 12-13.
38 Intervista n. 87 (4) di Gershon Weiner cit.
39 Izaak Turkow, Wielki jubileusz Idy Kamińskiej. 35-lecie działalności scenicznej, «Ojfgang», […], 1952, […].
40 Laura Quercioli Mincer, Ida Kaminska: una vita per il teatro, in Café Savoy cit., p. 162.
41 I. Kaminska, My life cit., p. 9. Qualità che è possibile verificare osservando l’unica testimonianza cinematografica della recitazione di Ester Rokhl: il film muto Tkies kaf.
42 Ibid.
43 Ibid.
44 Secondo alcune fonti il Teatro Kaminski poteva ospitare milletrecento spettatori, secondo altre perfino millecinquecento.
45 Ryszard Mączyński, Teatr Kamińskiego, in Aa. Vv., Teatr Żydowski w Polsce cit., pp. 273-276.
46 Marito della sorella di Ester Rokhl, Keyle Pulman, che era manager del teatro Kaminski e che a metà degli anni Trenta si battè per salvarlo dalla distruzione.
47 I. Kaminska, My life cit., p. 13.
48 Ivi, p. 10.
49 Per le strade di Varsavia circolava una battuta fondata sul contrasto tra i cognomi dei due direttori, il primo tradizionalmente slavo, il secondo evidentemente ebraico: «Kamiński ha costruito il Teatro Ebraico e Schifman il Teatro Polacco». Cfr. Adolf Rudnicki, Teatr zawsze grany, Czytelnik, Warszawa 1987, p. 51.
50 Meir Ezofowicz (1911), tratto dal romanzo omonimo di Eliza Orzeszkowa. Sceneggiatura e regia: Józef Ostoja-Sulnicki. Aiuto-regia: Aleksander Hertz. Fotografia: Jan Skarbek-Malczewski, Czesław Jakubowicz. Interpreti: Maria Dulęba, Władysław Grabowski, Mila Kamińska, Wiktor Nałęcz-Kamiński, Józef Zieliński. Produzione Sfinks. Come sottolinea Natan Gross, il regista Ostoja-Sulnicki aveva convinzioni antisemite – documentate da un suo scritto coevo – che nel film sono in parte attenuate: l’ambiguità emerge però nel finale della storia, quando la ragazza di cui il protagonista è innamorato viene per questo uccisa dai membri della setta tradizionalista cui appartiene.
51 Tra il 1907 e il 1908 Mordechaj “Mordka” (Moishe) Towbin decise di avventurarsi nella prima produzione cinematografica della Polonia, che all’epoca era spartita tra Russia, Prussia e Austria. La storia si ispirava a due fatti di cronaca che avevano avuto luogo nella regione della Grande Polonia: uno sciopero di lavoratori bambini e la protesta di un contadino che, non avendo ottenuto dalle autorità prussiane il permesso di costruirsi la casa, aveva deciso di abitare in un carro da circo. Nella versione cinematografica – conosciuta con il titolo La cultura prussiana – i due episodi divennero esemplari del destino di una famiglia. Fino alla Prima guerra mondiale la censura impedì che il film fosse proiettato a Varsavia, mentre è certo che sia stato mostrato all’estero, in paesi come la Russia, la Francia e l’Italia. Una breve versione del film (8’), intitolata Les Martyrs de la Pologne, è stata ritrovata nel 2000 nell’archivio di Bois d’Arcy e rappresenta il più antico reperto cinematografico polacco: <https://www.youtube.com/watch?v=IuIkdFVvuUM>.
52 Natan Gross, Film żydowski w Polsce, Rabid, Kraków 2002, p. 12.
53 Iluzjony, «Goniec Wieczorny», 251, Warszawa 1911, p. 4, cit. ivi, p. 19.
54 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 16.
55 La Siła (Forza), di proprietà di Towbin, è stata una delle primissime case di produzione cinematografica. Era molto attiva e produceva fino a cinque film all’anno.
56 Fondata da un ex socio di Towbin, Samuel Ginzberg, e dal proprietario di un laboratorio cinematografico, Henryk Finkelstein, la Kosmofilm fu la più importante casa di produzione in Polonia fino alla Prima guerra mondiale. Realizzò una ventina di pellicole di ogni genere (melodrammi, farse, criminali, diari di viaggio) e cominciò a produrre anche film per spettatori polacchi. Non godendo di rapporti internazionali come altre case di produzione (Pathé o Gaumont), non fu tuttavia in grado di lanciare sul mercato esterno all’Impero Russo i propri prodotti, con la parziale eccezionale del film Il macello. Secondo alcune fonti Avrom-Yitskhok Kaminski rilevò la Siła quando fece bancarotta e divenne il principale direttore della Kosmofilm creata al suo posto.
57 Mendele Moykher-Sforim ( “Mendele il venditore ambulante di libri”), nome di penna scelto dallo scrittore Sholem Yankev Abramovič, che fu definito da Sholem Aleichem “il nonno della letteratura yiddish”. Fervente maskil (sostenitore dei principi dell’Illuminismo), dopo avere intrapreso la carriera di saggista e giornalista in lingua ebraica, passò allo yiddish come strumento per raggiungere tutti i lettori ebrei e convincerli della necessità di abbandonare superstizioni e astrazioni e immergersi nel contesto storico e culturale che li circondava. Consapevole del disprezzo che circondava la lingua yiddish, sulle prime pubblicò le proprie storie, di ispirazione autobiografica, sotto pseudonimo. Il passaggio allo yiddish non comportò soltanto un cambio di registro – che virò dall’autoritario e onniscente al colloquiale, monologico-drammatico e soggettivo – ma la messa in discussione della verità assoluta del pensiero illuminista. Pur non avendo mai scritto per il teatro, i suoi personaggi, e su tutti Mendele, l’ebreo educato in una yeshiva dell’Europa orientale, ispirarono molti copioni del teatro yiddish. Dan Miron, Sholem Yankev Abramovitsh, yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 9 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Abramovitsh_Sholem_Yankev>. Si veda anche il primo volume di questa serie.
58 In realtà Joanna Krakowska ha chiarito che la riapertura del teatro e il debutto di Ida come attrice avvennero tra l’agosto e il settembre del 1915 e che, nei suoi ricordi, Kaminska deve avere confuso le date. Continueremo tuttavia a intendere il 1916 come anno del suo ingresso ufficiale sulle scene perché tale essa lo considerava e a quella data avrebbero fatto riferimento tutti i successivi anniversari. Del resto, il 1916 fu l’anno in cui tutte le competenze di Ida – attoriali, drammaturgiche, di traduttrice e regista – trovarono piena espressione. Cfr. Joanna Krakowska-Narożniak, Jubileusze Idy Kamińskiej — Wilno, Łódź, Warszawa, in Łódzkie sceny żydowskie. Studia i materiały, a cura di Małgorzata Leyko, Wydawnictwo Uniwersytetu Łódzkiego, Łódź 2000, pp. 179-187.
59 I. Kaminska, My life cit., p. 29.
60 «L’eccellente Estera [sic] Kamińska, artista di fama europea, è al momento impegnata in una tournée nel Regno di Polonia. La celebre attrice tragica ebrea è accompagnata dai migliori artisti ebrei del Regno. Il repertorio della compagnia si compone di ottime opere di drammaturghi ebrei ed europei. Due settimane fa, a Lublino, abbiamo avuto l’opportunità di ammirare questo talento dono della grazia divina che da tempo è Estera Kamińska. Siamo stati rapiti, inoltre, dalle spiccate capacità artistiche della signorina Ida Kamińska. Anche gli altri componenti della troupe si sono dimostrati all’altezza del compito. Siamo usciti da questi spettacoli appagati dal punto di vista estetico e ammirati nei confronti del teatro yiddish, che ha già raggiunto un così alto livello». M. Goldsztajn, O teatrze żydowskim, «Myśl Żydowska», 21, 1917, cit. in Stefan Kruk, Teatralia w lubelskiej «Myśli Żydowskiej», in Aa. Vv., Teatr Żydowski cit., p. 385. Il giornale annunciò che la compagnia di Ester Rokhl, considerata l’accoglienza entusiastica, avrebbe fatto ritorno a Lublino nel mese di ottobre con L’eterno errante di Osip Dymov, un’allegoria delle peregrinazioni della diaspora, e Dio di vendetta di Sholem Asch, ambientato in un bordello. Poiché per allora il settimanale fu costretto a interrompere le pubblicazioni, è difficile stabilire se queste repliche abbiano avuto luogo.
61 Józef Dunkelblum, Występy Idy Kamińskiej (Teatr Panteon).„ Nora”, dramat Ibsena w 3 aktach, «Myśl Żydowska», 19, 1917, cit. ivi, p. 384.
62 Agli occhi di un altro recensore il lavoro della compagnia, accolto con grande entusiasmo dal pubblico, testimoniava l’alta qualità cui era giunto il teatro ebraico. Cfr. S. Kruk, Teatralia w lubelskiej cit., pp. 377-390.
63 I. Kaminska, My life cit., pp. 36-37. È opportuno sottolineare che a Vienna erano presenti numerosi teatri yiddish, alcuni dei quali di ottima qualità (cfr. il primo volume di questa serie).
64 La tomba fu distrutta dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale.
65 I. Kaminska, My life cit., p. 31.
66 Mirosława Bułat, W poszukiwaniu teatru “żydowskiego”: Zygmunt Turkow, in Antreprener. Księga ofiarowana profesorowi Janowi Michalikowi w 70. rocznicę urodzin, a cura di J. Popiel, Kraków 2009. Edward Krasiński, autore di diverse pubblicazioni sul Teatr Polski e Arnold Szyfman, non dà notizia della partecipazione di Turkow.
67 I. Kaminska, My life cit., p. 32.
68 Boris Sergeyevich Glagolin (in realtà Gusev, Saratov 1879-Hollywood 1948) fu maestro di Michael Chekhov al Teatro Suvorin, associato al Maly Suvorinskij Teatr di San Pietroburgo. Molti anni più tardi l’allievo ricordò l’impressione prodotta in lui dall’attore nel ruolo di Khlestakov nell’Ispettore generale (1909): «Boris Glagolin’s mastery as an actor and director made a profound impression on me. When I saw him in the role of Khlestakov, I experienced a kind of revelation. It became clear to me that Glagolin played Khlestakov not like everyone else […] This feeling […] arose in me without having any comparisons and analogies, but directly from Glagolin’s acting. The unusual freedom and originality of his creativity […] astonished me, and I was not wrong: no one played Khlestakov in the way Glagolin did. When I subsequently came to play this part I recognized in myself Glagolin’s influence. When Stanislavky produced The Government Inspector, he led me in a direction which had something in common with the impression that Glagolin had made on me as Khlestakov», Michael Cechov, The Path of the Actor, Routledge, London-New York 2006, pp. 16-17. Nel gennaio del 1929 Glagolin curò la regia di una versione yiddish della Turandot di Carlo Gozzi, rappresentata al Manhattan Opera PlayHouse dagli artisti dell’Habima e con le danze di Michio Ito: una produzione colossale che nondimeno si rivelò un disastro perché Glagolin aveva una conoscenza superficiale delle tecniche di Stanislavskij, dell’artigianato dell’Habima e del teatro yiddish americano e aveva pertanto mescolato gli stili in maniera inintelligibile (Mel Gordon, Stanislavsky in America: An Actor’s Workbook, Routledge, London-New York 2009).
69 Nome che designa una serie di organizzazioni culturali e sociali sorte in Europa tra il 1920 e il 1930, che raggiungevano un centinaio di centri abitati. La prima Kultur-lige fu creata a Kiev all’inizio del 1918 allo scopo di promuovere lo sviluppo di varie sfere della cultura yiddish. Tra i suoi fondatori figuravano membri dei partiti socialisti ebraici e sionisti ed esponenti di rilievo della vita culturale e politica come Perets Markiš e Dovid Bergel’son. L’organizzazione comprendeva sezioni dedicate all’arte, alla musica, alla letteratura e all’editoria; con il suo sostegno furono aministrate scuole e corsi per adulti, realizzati progetti teatrali ed esperimenti drammatici ambiziosi. A Kiev era attiva una biblioteca e nell’autunno del 1928 fu inaugurata l’Università Popolare Ebraica. Inizialmente le autorità sovietiche appoggiarono la Kultur-lige, ma negli anni Venti ne liquidarono il comitato centrale, sostituendolo quasi esclusivamente con membri del Partito Comunista. Gran parte delle istituzioni che ne avevano fatto parte passarono sotto il controllo delle Sezioni Ebraiche del Commissariato dell’Educazione e furono trasformate in appendici degli organi burocratici sovietici.
70 I. Kaminska, My life cit., p. 54.
71 Ivi, p. 56.
72 Claudio Madonia, Fra l’Orso russo e l’Aquila prussiana. La Polonia dalla Repubblica Nobiliare alla IV Repubblica (1506-2006), Clueb, Bologna 2013, pp. 137-138.
73 Ivi, p. 138.
74 Ivi, p. 139.
75 Serkele, scritta negli anni Venti dell’Ottocento e messa in scena per la prima volta nel 1863 durante una celebrazione di Purim al seminario rabbinico di Zhytomyr, è una delle prime commedie yiddish di maniera. La vicenda ruota attorno alla figura della malvagia Serkele, che deruba la nipote Hinde dell’eredità del padre David Gutherts, creduto morto. Nella felice conclusione, Gutherts (lett. Buoncuore) torna a casa per proteggere la figlia. Lo spettacolo di Turkow attrasse l’attenzione di molti critici, che apprezzarono la stilizzazione moderna di questa favola popolare: «Il sig. Zygmunt Turkow, il cui talento registico fiorisce di giorno in giorno […] ha interpretato Serkele come un racconto popolare, illustrandolo con immagini caratteristiche. La scena d’apertura riproduce la copertina del libro di Ettinger. Quando il libro viene aperto, le pagine formano le quinte e lo spettacolo ha inizio al centro della scenografia, dove i quadri si adattano perfettamente allo stile primitivo scelto dal sig. Apelbaum [lo scenografo]». Jakub Appenszlak, Teatr Centralny (Warszawska Żydowska Grupa Dramatyczna): Serkele, czyli Rocznica śmierci brata, «Nasz przegląd», 27 ottobre 1923, cit. in Mirosława M. Bułat, W poszukiwaniu teatru “żydowskiego”: Zygmunt Turkow, in Antreprener. Księga ofiarowana profesorowi Janowi Michalikowi w 70. rocznicę urodzin, a cura di Jacek Popiel, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków 2009, p. 588. Aleksander Zelwerowicz, uno dei più noti attori, registi e pedagoghi polacchi (nonché insegnante di Turkow), in un’intervista sul teatro yiddish citò anche questo allestimento: «Chi potrebbe mai reggere il confronto con un attore ebreo dal punto di vista della musicalità e dell’espressività del gesto? […] A Cracovia ho conosciuto il teatro di Goldfaden, vecchio e primitivo, e non mi è piaciuto. Però al Tsentral ho visto un’opera molto interessante: Serkele. Mi resterà sempre impressa nella memoria. Conosco Zygmunt Turkow ed è indubbiamente un regista di talento. […] Nella mia scuola […] a distinguersi erano soprattutto gli allievi ebrei […] i quali oggi occupano posti di tutto rispetto sulle scene dei teatri polacchi». Sz. L. Sz [najderma] n, U polskiego aktora i reżysera Aleksandra Zelwerowicza, «Literarishe Bleter», 15-16, 1927, cit. in Aa. Vv., Teatr żydowski w Polsce cit., pp. 495-496.
76 Informazioni tratte da Zygmunt Turkow, Di ibergerisene tkufe, Tsentral-farband fun Poylishe Yidn in Argentine, Buenos Aires 1961 e citate da M. B. Bułat, Prasa polska a teatr jidysz w Polsce cit., p. 123.
77 Un passo in questa direzione era rappresentato dalla fondazione, nel 1919, del Sindacato degli Artisti delle Scene Ebraiche in Polonia (Związek Zawodowy Artystów Żydowskich w Polsce), nato con l’obiettivo di influenzare e migliorare il repertorio teatrale yiddish diffondendo opere di buon livello. La sede di via Leszno 2 comprendeva una biblioteca, una sala lettura e un club.
78 Moyshe Broderzon (1890-1956), poeta e drammaturgo yiddish nato a Mosca ma presto trasferitosi a Łódź. Cominciò a scrivere in yiddish nel 1908 e un decennio più tardi fondò insieme agli artisti Yankl Adler e Marek Szwarc il primo gruppo avanguardistico yiddish in Polonia, lo Yung-yidish (1918-1921). Nel ventennio tra le due guerre si dedicò principalmente al teatro: compose testi per l’Azazel, il primo caffè teatrale in Polonia, e nel 1927 fondò a Łódź il cabaret teatrale Ararat (acronimo di Artistisher Revolutsyonerer Revi-Teatr, Teatro di rivista artistico e rivoluzionario), che negli anni successivi fu uno dei più interessanti centri di creazione scenica dell’Europa orientale e portò al successo internazionale artisti comici del calibro di Shimen Dzigan, Yisroel Shumacher e Yoysef Tunkel. Purtroppo, gran parte degli sketch che Broderzon compose per l’Ararat sono andati perduti. Nel 1939 fuggì a Białystok, per essere poi deportato in Asia Centrale dal governo sovietico, nel 1944 fu docente al Goset. Nel 1950, in pieno terrore staliniano, fu arrestato e condannato a trascorrere dieci anni in un gulag. Tornò a Łódź nel 1955 e poco dopo morì. Cfr. Gilles Rozier, Moyshe Broderzon: Un écrivain yiddish d’avant-garde, Presses universitaires de Vincennes, St. Denis 1999.
79 «In 1922 I went for a short visit to Berlin, where Yosef was studying music. There I attended the theater and saw many first-rate actors. Among them was the German Jewish actor Alexander Granach, who in the early twenties was considered one of the most accomplished actors in Berlin. From Berlin I brought back several plays, one of which, The Sinful Mr. Chew, by Julius Berstl, was produced in the Central Theater. Another, Romain Rolland’s Wolves, was produced in a later season by the Warsaw Yiddish Art Theater. […] my mother […] joined my brother in Vienna, where he had gone to continue his studies», I. Kaminska, My life cit., pp. 60-61.
80 Negli anni Venti in Polonia il kleynkunst (lett. “piccola arte”) divenne un genere in gran voga. Era uno spettacolo di teatro-cabaret che comprendeva brevi sketch comici e satirici, intervallati da canti e danze. La prima compagnia di rivista in Polonia fu Azazel (vocabolo biblico per inferno), presto seguita dall’Ararat creato dal poeta Moyshe Broderzon. I cabaret di Varsavia (oltre a quelli nominati anche i polacchi Qui Pro Quo e Morskie Oko) ebbero il merito di favorire l’interazione tra pubblico ebraico e polacco anche se, è opportuno ricordarlo, fu soprattutto l’intellighenzia ebraica ad apprezzare questo genere di spettacolo, mentre i ceti popolari preferivano le storie d’amore tradizionali. Mirosława M. Bułat, Kleynkunst, The yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 9 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Kleynkunst>.
81 Cfr. M. C. Steinlauf, Paura di Purim cit., pp. 77-100.
82 Małgorzata Leyko, Żydowska awangarda teatralna jako poszukiwanie nowej tożsamości kulturowej, in Aa. Vv., Polak, Żyd, artysta. Tożsamość a awangarda, a cura di Jarosław Suchan e Karolina Szymaniak, Muzeum Sztuki w Łodzi, Łódź 2010, p. 108.
83 Jakub Appenszlak, Scena żydowska: Teatr Centralny: Grzeszny Czu, «Nasz Przegląd», 27 novembre 1923, cit. in M. M. Bułat, W poszukiwaniu cit., p. 593.
84 L’aggettivo “europeo” applicato al teatro fu molto utilizzato e assunse una connotazione ambigua: poteva riferirsi semplicemente alla volontà di ottenere un successo internazionale, alla scelta di un repertorio basato sui classici europei tradotti in yiddish o, ancora, alla preferenza accordata agli insegnamenti stanislavskiani. Cfr. N. Sandrow, Vagabond Stars. A World History of Yiddish Theater, Syracuse University Press, Syracuse-New York 1996, p. 308.
85 Questa la definizione che della dimensione europea del teatro yiddish diede il critico Mojżesz Kanfer, Gościnne występy Trupy Wileńskiej, «Nowy Dziennik», 119, 1931, cit. in Eugenia Prokop-Janiec, Mojżesz Kanfer a teatr jidysz, in Teatr żydowski w Polsce cit., p. 262.
86 Zygmunt Turkow scrisse nel 1939: «Eravamo convinti che il teatro ebraico avesse bisogno di testi europei e che fosse necessario spalancare le finestre per farvi entrare l’aria dell’Europa […]; anche i testi di Goldfaden li mettemmo in scena in una maniera europea, per così dire, completamente diversa dal teatro di Goldfaden», cit. da M.K. [Mojżesz Kanfer], Teatr Goldfadenowski — teatrem żydowskim: Z rozmowy z Zygmuntem Turkowem, «Nowy dziennik», 20 aprile 1939, cit. in M. M. Bułat, W poszukiwaniu teatru “żydowskiego” cit., p. 587. Le finestre alle quali esplicitamente si riferisce Turkow confermano il bisogno dei due giovani artisti di aprirsi alle contemporanee esperienze europee e la predisposizione del teatro yiddish al dialogo con l’alterità, spesso tematizzato nel contrasto tra esperienze ordinarie e soprannaturali, tra ortodossia e distacco dalla tradizione e dalla religione (un motivo frequente della drammaturgia), tra mondo familiare e idealizzato dello shtetl e speranze legate al sogno americano (un tema esplorato con successo anche nel cinema).
87 In polacco, come in molte lingue, il verbo grać ha sia il significato di «giocare» che di «recitare», pertanto la recensione va letta tenendo presente che, pur avendo dovuto optare per una delle due traduzioni italiane, l’autore intendeva riferirsi a entrambi i significati. J. Appenszlak, Teatr Centralny: Dwaj Kuni Lemel, «Nasz Przegląd», 22 aprile 1924, cit. ivi, pp. 588-589.
88 Cfr. Mirosława M. Bułat, From Goldfaden to Goldfaden in Cracow’s Jewish Theatres, in Yiddish Theatre: New Approaches, a cura di Joel Berkowitz, The Littman Library of Jewish Civilization, Oxford-Portland 2008, pp. 139-155.
89 Consiglio di amministrazione scelto per guidare una comunità ebraica autonoma. Bisogna precisare che talvolta i teatri yiddish riuscivano a ottenere un sostegno dalle kahal: per esempio la compagnia di Ida Kaminska ricevette, nella stagione 1937/1938, una sovvenzione da quella di Leopoli, cit. in Mirosława M. Bułat, Krakowski Teatr Żydowski (Krokewer Jidisz Teater) — między szundem a sztuką, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków 2006, p. 146.
90 Marian Melman, Teatr żydowski w Warszawie w latach międzywojennych, in Warszawa ii Rzeczypospolitej 1918-1939, t. i, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, Warszawa 1968, pp. 395-396.
91 Un fiasco fu, per esempio, L’amore medico di Molière, che aveva debuttato il 17 marzo 1922. Seguendo un’antica usanza teatrale la compagnia “seppellì” l’insuccesso inscenando la parodia di un funerale ebraico ortodosso. La processione, guidata dal produttore, era formata da un buffone che raccoglieva le elemosine e dagli attori che reggevano le candele. Cfr. N. Sandrow, Vagabond Stars cit., p. 317.
92 Der yidisher visnshaftlekher institut (Istituto Scientifico Ebraico, noto con l’acronimo yivo) fu fondato a Vilnius nel 1925 al fine di documentare e studiare la vita ebraica in tutti i suoi aspetti, con particolare attenzione alle comunità dell’Europa orientale e alla cultura e lingua yiddish. Nei primi quindici anni di attività, l’Istituto pubblicò oltre un centinaio di ricerche di alto profilo scientifico nel campo delle scienze sociali e degli studi umanistici. La sua missione fu accolta non solo da studiosi di professione, ma anche da persone comuni: ricercatori non professionisti (chiamati zamlers) provenienti dalla Polonia, dall’Europa e dalle Americhe, si impegnarono infatti a raccogliere e a inviare allo yivo libri, manoscritti, fotografie, manifesti e altri artefatti per costruire un archivio della cultura ebraica. Il progetto riscosse tanto successo perché l’Istituto si impegnò a utilizzare lo yiddish come lingua ufficiale dell’amministrazione e della ricerca, fiducioso che costruire una conoscenza in lingua yiddish avrebbe portato allo sviluppo culturale e spirituale di tutta la comunità ebraica. Con l’invasione nazista molti attivisti si prodigarono per salvare la collezione, che nel 1940 fu in buona parte trasferita a New York, dove si trova tutt’oggi.
93 Attualmente ciò che resta della collezione è conservato presso lo yivo di New York con la segnatura rg 8 e include copioni manoscritti (di autori come An-ski, Kobrin e Lateiner), locandine, lettere, ritagli di giornali e fotografie relative a molti protagonisti della scena teatrale yiddish in Polonia e altrove fino al 1939. Tra gli artisti e gli ensemble rappresentati nella collezione figurano la Vilner Trupe, l’Ararat, il vykt, lo Yung-Teater, il Goset, lo Yiddish Art Theater, l’Habima, Dovid Herman, Ida Kaminska, Esther Rokhl Kaminska, Nahum Lipovski, Zygmunt Turkow, Yosef Vinogradov, Rudolf Zaslavsky.
94 Tkies kaf (Il voto, 1924). Regia: Zygmunt Turkow. Sceneggiatura: Henryk Bojm. Fotografia: Seweryn Steinwurzel. Interpreti: Adam Domb (Chaym Kronberg), Ester-Rokhl Kaminska (moglie di Kronberg), Ida Kaminska (Rachel Kronberg), Moishe Lipman (Baruch Mandel), Henryk Tarło (Jankiel Mandel), Władysław Godik (amico di Jankiel), David Lederman (il sensale di matrimoni), Shmuel Landau (speculatore), Lev Mogliov (Shmuel Levine), Jonas Turkow (studente “demoniaco” della yeshiva), Zygmunt Turkow (il profeta Elia), Simche Balanoff (Jacob Mandel), Sonia Altboym, Diana Blumenfeld, Herman Fenigsztejn. Produzione: Leo Forbert. La versione americana del 1933 è anche nota come A Vilna Legend, sott. The Rabbi’s Power. I credits del dvd presentano la «celebre star ebrea Joseph Buloff (il narratore) con il sostegno degli attori ebrei russi Ida Kaminska e Siegmund Turkoff» e Jacob Mestel, Louis Kodison, Benjamin Fishbein (proprietario della taverna), Ben Basenko. Regia: George Roland. Sceneggiatura: Jacob Mestel. Fotografia: Chas. Hanley. Direzione artistica: Joseph Crain. Registrazione: R. S. A. System. Distribuzione: High Art Pictures Corp. Restaurato nel 2002 grazie alla Rita J. and Stanley H. Kaplan Foundation da The National Center for Jewish Film, Brandeis University. Durata: 60’.
95 Peretz Hirshbein (1881-1948) è considerato uno dei più raffinati drammaturghi yiddish. Trasferitosi a Varsavia dalla provincia di Grodno, viene accolto nella cerchia letteraria di Y. L. Peretz. Nel 1908 scrive Il voto, opera che appartiene alla fase simbolista della sua produzione drammatica. Nello stesso anno si trasferisce a Odessa, dove fonda una compagnia teatrale, la Hirshbein Troupe. Subito dopo lo scioglimento della compagnia compone quelle che sono considerate le sue opere migliori: una serie di drammi ispirati alla vita rurale degli ebrei lituani. Da uno di essi, I campi verdi, è stato tratto uno dei più amati film yiddish. Joel Berkowitz, Perets Hirshbeyn, The yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 9 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Hirshbeyn_Perets>.
96 Oltre a ospitare la sede dello yivo, la città di Vilnius accolse la Vilner Trupe, creata nel 1916, il museo e l’archivio fondato da An-ski nel 1919, lo Yung Teater nato nel 1927. Dal 1928 al 1933 ospitò anche un importante Studio Drammatico Ebraico che aspirava a creare un teatro stabile in lingua ebraica in Polonia. Prendendo a modello il legame tra Habima e Teatro d’Arte di Mosca, lo Studio si associò al Teatro Reduta diretto da Juliusz Osterwa e Mieczysław Limanowski e fu diretto da diversi membri di Reduta: dapprima Zygmunt Chmielewski, poi Halina Gallowa, in seguito il marito Iwo Gall, e infine Wacław Radulski. Allestì con successo spettacoli tratti da opere di Charles Dickens, Y. L. Peretz e Yitshak Lamdan. In cerca di finanziamenti, lo Studio si rivolse all’Organizzazione Sionista, ma la richiesta fu respinta.
97 Alfred Döblin, Viaggio in Polonia, Bollati Boringhieri, Torino 1994.
98 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 343.
99 Natan Gross, Film żydowski cit., p. 32.
100 Mojżesz Kanfer, Conversazione con Ida Kaminska, in Café Savoy cit., p. 298.
101 Leo Belmon, Ślubowanie, «Kinema», 39, 1924, pp. 41-42, cit. in N. Gross, Film żydowski cit., p. 38.
102 Inizialmente i produttori avevano pensato di affidare la direzione a Bruno Bredschneider, regista molto stimato e vicino allo stile espressionista, ma Bojm non era convinto che sarebbe riuscito a penetrare a fondo in un soggetto così legato alla cultura ebraica; si ipotizzò, allora, di invitare il regista americano Sidney Goldin, noto autore di pellicole a tema ebraico, ma quando ciò si rivelò impraticabile si decise di dare inizio alle riprese senza un regista. Il compito di dirigere gli attori fu affidato a Seweryn Steinwurzel, direttore della fotografia di grande professionalità e cugino di Leo Forbert che, tuttavia, non aveva alcuna esperienza in tal campo. Alla fine del primo giorno di riprese gli attori, disperati, pretesero un regista e fu così che il compito fu assegnato a Turkow il quale, pur non avendo alcuna esperienza cinematografica, portò a termine il lavoro avvalendosi anche della consulenza tecnica di Steinwurzel. Ivi, p. 37.
103 Cfr., ad esempio, il racconto di Rabbi Bunam Il tesoro, in Martin Buber, I racconti dei chassidim, ora in Id., Storie e leggende chassidiche, a cura di Andreina Lavagetto, Mondadori, Milano 2008, pp. 1112-1113.
104 N. Sandrow, Vagabond Stars cit., p. 309.
105 Anche il giudizio sul lavoro d’attore fu positivo: «Guidato dal regista Turkow l’ensemble ha assolto alla perfezione al proprio dovere. La signora Ida Kamińska nei panni dello “Spirito-Buono” esprimeva una grazia serafica e ha interpretato una delle canzoni con grande finezza». Jakub Appenszlak, Żydowski teatr artystyczny: Dziesiąte przykazanie (Łoy sachmojd), «Nasz Przegląd», 288, 21 ottobre 1926, cit. in Edward Krasiński, Teatry żydowskie w Warszawie między wojnami, in Aa. Vv., Teatr żydowski w Polsce cit., p. 330.
106 Opera che aveva attratto anche Max Reinhardt, il quale ne aveva allestito una versione in tedesco nel 1910, e che nel 1923 era andata in scena a Broadway.
107 Jakub Appenszlak, «Nasz Przegląd», 53, 22 febbraio 1927, cit. in E. Krasiński, Teatry żydowskie cit., p. 332.
108 Freylekkhe kabtsonim (Poveri gioiosi, 1937). Regia: Leon Jeannot, Zygmunt Turkow. Sceneggiatura: Moyshe Broderzon. Fotografia: Adolf Forbert. Musica: Hanoch Kon. Scenografie: Czesław Piaskowski, Itskhok Brauner. Direttore letterario: Jecheskiel Moishe Neuman. Suono: Jerzy Bock. Interpreti: Shimen Dzigan (il sarto Kopl), Yisroel Shumacher (l’orologiaio Naftali), Genie Lowicz (Gitl, figlia di Naftali), Chana Levin (Hodel, moglie di Naftali), Ruth Turkow (Itke, figlia di Kopl), Fela Garbarz (Feyge, moglie di Kopl), Menashe Oppenheim (attore), Anna Appel (Velvel), Shmuel Goldstein (sensale), Maks Bożyk, Zygmunt Turkow, Shmulik Goldstein, Maks Brin, Hersh Hart. Produzione: Kinor. Direttori di produzione: Saul Goskind, I. Winten (Wincenty Tenenbaum). Restaurato nel 1985 da The National Center for Jewish Film. Durata: 62’.
109 Shimen Dzigan (1905-1980) e Yisroel Shumacher (1908-1961) furono tra i più grandi artisti di teatro-cabaret (kleynkunst) in Polonia. All’inizio degli anni Trenta i loro sketch comici e satirici, che prendevano di mira la propaganda antisemita ma anche i costumi ebraici, divennero famosi in tutto il mondo. Il tipo comico di Dzigan fu spesso quello del povero iperattivo ma felice; Shumacher, in contrasto, era flemmatico e riservato. Si rifugiarono in Unione Sovietica durante la Seconda guerra mondiale, ma nel 1942, quando tentarono di tornare in Polonia per unirsi al Corpo d’Armata polacco del generale Władysław Anders, furono arrestati. Rilasciati dopo qualche anno si trasferirono in Israele: nel 1958 crearono un proprio teatro a Tel Aviv, ma due anni dopo le loro strade si separarono. Natan Gross, Dzigan and Shumacher, The yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 8 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Dzigan_and_Shumacher>.
110 L’uomo, pasciuto e volgare fumatore di sigari, è membro di una Landsleit Society, un’associazione di immigrati ebrei che raccoglie persone (sing. landsman, plur. landsleit) che provengono da uno stesso villaggio del Vecchio Mondo. Quello del rapporto tra gli immigrati e i loro ex compaesani europei è un tema molto presente nel ventennio tra le due guerre, epoca in cui si giravano anche documentari per sistemare le povere ragazze dello shtetl con questi ricchi candidati.
111 Der purimshpiler (L’attore di Purim, 1937). Regia: Joseph Green, Jan Nowina-Przybylski. Sceneggiatura: Joseph Green, Chaver Paver. Dialoghi e testi delle canzoni: Itzik Manger. Fotografia: Seweryn Steinwurzel. Musica: Nicolaus Brodsky. Direzione musicale: Henryk Wars (Warszawski). Scenografie: Jacek Weinreich. Interpreti: Zygmunt Turkow (Getsl), Miriam Kressyn (Ester), Hymie Jacobson (Dick), Ajzyk Samberg (sarto Nachum, padre di Ester), Maks Bożyk (nonno di Ester), Berta Litwina (Tsippe, madre di Ester), Shmuel Landau (il ricco Mekhele Zaidman), Eni Liton (Lea), Jakub Fisher (sensale), Jakub Rajnglas (apprendista sarto), Maks Brin (shames, assistente del rabbino). Produzione: Green Film. Restaurato nel 2008 da The National Center for Jewish Film. Durata: 88’.
112 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 245.
113 Moassi [Mojżesz Kanfer], Z ekranu: „ Der Purimszpiler”, «Nowy Dziennik», Kraków, 260, 1937, p. 8, cit. in N. Gross, Teatr żydowski cit., pp. 85-86.
114 Tkies kaf (Il voto, 1937). Regia: Henryk Szaro. Sceneggiatura: Henryk Bojm. Fotografia: Stanisław Lipiński. Musica: Iso Szajewicz. Scenografie: Jacek Rotmil, Stefan Norris. Direzione artistica: Zygmunt Turkow. Interpreti: Yitskhok Grudberg (Yankev), Dina Halpern (Rokhl), Berta Litwina (Estera Kornblit, madre di Rokhl), Menashe Oppenheim (David Webber), Maks Bożyk (shadkhen, il sensale di matrimoni), Zygmunt Turkow (il profeta Elia), Moishe Lipman (Chaim), Shmuel Landau (Weber), Simche Fostel (direttore), Estera Perelman (Mirele), Kurt Katsch (Mendel). Produzione Leo-Film. Restaurato nel 2000 grazie alla Rita and Stanley H. Kaplan Foundation da The National Center for Jewish Film, Brandeis University. Durata: 97’.
115 Il teatro Scala era situato in via Dzielna 1, all’angolo con via Dzika, nel cuore della Varsavia ebraica, ed era una delle scene più note e dal repertorio più ambizioso.
116 On a heym (Senza casa, 1939). Regia: Aleksander Marten. Sceneggiatura: Alter Kacyzne, dall’omonima opera di Jacob Gordin (1907). Fotografia: Jakub Joniłowicz e Dawid Ajzensztadt. Musiche: Iso Szajewicz. Direzione musicale: Henryk Wars (Warszawski). Coro della sinagoga di Varsavia diretto da Mr. Ejzensztadt. Scenografia: Jacek Weinreich. Montaggio: Jerzy Sten. Interpreti: Adam Domb (padre di Avreyml), Alexander Marten (Avreyml), Ida Kaminska (Bas Sheve), Ben Zuker (Khonokh), Shimen Dzigan (Motl), Yisroel Schumacher (Fishl), Viera Gran (Bessy), Dora Fakiel (Lina, la modista). Produzione: Adolph Mann. Restaurato nel 1991 grazie alla S. H. and Helen R. Scheuer Family Foundation da The National Center for Jewish Film, Brandeis University. Durata: 86’.
117 J. Hoberman, Bridge of Light cit., p. 296.
118 Ivi, p. 295.
119 Michał Weichert, HaDibuk in HaBima, «Literarishe Bleter», 97, 1926, cit. in M. Bułat, Trójjęzyczny teatr żydowski w Polsce„ w lustrze” publicystyki Michała Wejcherta na łamach„ Literarisze Bleter”, in Żydzi w lustrze dramatu, teatru i krytyki teatralnej, a cura di Eleonora Udalska e Anna Tytkowska, Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego, Katowice 2004, p. 168.
120 Territorio compreso nella Confederazione polacco-lituana, poi provincia dell’Impero austro-ungarico dal 1772 (anno della prima spartizione della Polonia) al 1918, la Galizia divenne parte della neonata Repubblica Polacca dopo la Prima guerra mondiale. Comprendeva le città di Cracovia e Leopoli (yid. Lemberg) e vide fiorire la cultura ebraica, dando i natali a scrittori come Bruno Schulz e Joseph Roth e accogliendo il giovane Martin Buber.
121 Meir/Majer (nei documenti polacchi Marian) Melman (1900-1978): attore, regista e organizzatore teatrale. Nel 1919 avrebbe voluto iscriversi all’università di Leopoli, che quell’anno però non accettava studenti ebrei. Si trasferì allora a Cracovia, dove trovò lavoro come impiegato presso uno studio legale. Nel 1921 si iscrisse all’Università di Cracovia nel corso di laurea in filosofia, indirizzo letteratura polacca, e al contempo prese a frequentare i corsi di arte drammatica condotti dal regista Marian Jednowski. Nel 1924 si recò a Vienna per completare la formazione teatrale e raccogliere materiali per gli studi di dottorato sul drammaturgo polacco Tadeusz Rittner. Dal 1923 mosse i primi passi nel mondo teatrale yiddish, legandosi dapprima alla Vilner Trupe e al teatro Gimpel di Leopoli, diretto dal figlio del celebre attore Yankev Ber Gimpel, e dal 1926 al vykt. A partire dal 1934 fece parte stabilmente di tutte le compagnie guidate da Ida Kaminska, che divenne poi sua moglie. Nello stesso anno completò gli studi universitari ottenendo la laurea in legge. Autodichiarazione, cart. personale di Meir Melman, Instytut Teatralny im. Zbigniewa Raszewskiego, Varsavia.
122 Nel 1935 il ministro degli Affari esteri Józef Beck aveva incaricato una commissione speciale di studiare un piano di emigrazione di massa degli ebrei dalla Polonia e l’anno successivo interpellò il Presidente del consiglio francese Léon Blum a proposito dell’eventualità di destinare a tale scopo le colonie francesi. Blum si tenne su posizioni prudenti ma per opportunità politiche accettò di prendere in considerazione un insediamento ebraico in Madagascar e consultò a tale proposito il Congresso ebraico mondiale e le organizzazioni ebraiche polacche, che non si mostrarono del tutto contrarie. A protestare vigorosamente contro la politica filonazista polacca e il progetto di espulsione furono il partito democratico popolare folkista e il Bund socialista; i sionisti-revisionisti, invece, appoggiavano l’idea dell’emigrazione, ma solo verso la Palestina. Per approfondire cfr. Carla Tonini, Operazione Madagascar. La questione ebraica in Polonia 1918-1968, Clueb, Bologna 1999.
123 Ad esempio Michał Weichert, che negli anni 1929-1933 diresse lo Studio Teatrale Ebraico, racconta che Aleksander Zelwerowicz e Leon Schiller, a capo dell’Istituto Statale d’Arte Teatrale, erano molto interessati alle tecniche di dizione insegnate nella scuola ebraica e che per questo assistevano spesso alle lezioni e gli chiesero di fare parte della commissione d’esame che doveva valutare gli allievi polacchi. Cfr. Michał Weichert, Studio Teatralne i Jung Teater. Fragment wspomnień, in Teatr żydowski w Polsce do 1939 cit., pp. 295-312. Provò a opporsi alla generale indifferenza nei confronti del teatro ebraico anche lo scrittore Tadeusz Boy Żeleński, uno dei pochi autori polacchi a recensire gli spettacoli yiddish. Ida era una grande ammiratrice di Żeleński, che ebbe modo di incontrare a Leopoli nel 1940, in occasione di una serata di celebrazioni in memoria di Adam Mickiewicz: dopo avere letto in yiddish alcuni frammenti del Signor Tadeusz, l’attrice fu avvicinata dal noto critico, che si complimentò per l’eccellente resa del testo.
124 In proposito cfr. Jerzy Timoszewicz, «Burza» Szekspira w Folks Un Jugnt-Teater. Inscenizacja Leona Schillera (1938/39), ivi, pp. 439-452.
125 Tomasz Mościcki, Teatry Warszawy 1939, Kronika, Bellona, Warszawa 2009, p. 11.
126 A proposito del vaudeville proposto dagli attori americani cfr. Ivi pp. 95-97. Il 30 aprile 1939 Dzigan e Shumacher presentarono invece la rivista satirica Prendi e non piangere, che il critico Appenszlak commentò così: «Nello specchio distorto di questo spettacolo si sono riflesse tutte le tematiche attuali della nostra realtà, tutti i problemi e le difficoltà sono stati trasposti in una sfera di allegria e umorismo, di quel particolare umorismo ebraico che costituisce una forma di autodifesa. I due arcicomici ebrei si completano alla perfezione: Dzigan è nervoso, abile, fulmineo nell’agire, infallibile…, Shumacher è uno scettico flemmatico, dall’imperturbabile serenità d’animo. […] Oltre all’umorismo, lo spettacolo coniuga la poesia del canto popolare stilizzato, reminiscenza variopinta e bella delle vecchie canzoni di successo cantate dalle compagnie itineranti, con la modernità della rivista», A. [J. Appenszlak], «Nasz Przegląd», 131, 1939, p. 13, cit. ivi, pp. 219-220.
127 Gli spettacoli di solito avevano luogo dal sabato al lunedì. Tra le proposte di Blumenfeld e Turkow figurarono La teoria freudiana dei sogni di Antoni Cwojdziński, andata in scena nel gennaio del 1939 dopo il successo ottenuto dalla versione polacca diretta da Edmund Wierciński due anni prima al Teatr Mały, e «l’arciallegra» commedia in tre atti La carriera di Laszlo Fodor, con Diana Blumenfeld, Miriam Orleska, Herman Halpern, Leon Lerner e Jonas Turkow, del giugno 1939. Ivi, pp. 62-64; p. 284.
128 Lo spettacolo, composto da quattro atti, un prologo e un epilogo, includeva gli attori Yitzhok Grudberg, Natan Meisler, Ruth Turkow, Izrael Kamaj, Joel Bergman, Leon Herbst, Adam Domb, Sonia Altbaum, Meir Melman. Grazie all’eccellente interpretazione, Ida ottenne uno speciale sussidio dall’Unione degli Artisti delle Scene Ebraiche.
129 Delle memorie esiste anche una traduzione in italiano, curata da Vanna Lucattini Vogelmann: Memorie di Glückel Hameln (1646-1724), Giuntina, Firenze 1984.
130 I. Kaminska, My life cit., p. 79.
131 Iwo Gall (1890-1959): scenografo, regista e direttore. Si formò presso l’Accademia di Belle Arti di Cracovia e collaborò con il teatro cabaret Zielony Balonik. Durante la Prima guerra mondiale debuttò come scenografo presso il Teatr Polski a Vienna; dal 1923 al 1929 collaborò con Reduta, dapprima a Varsavia e poi a Vilnius, creando le scenografie per gli spettacoli di Leon Schiller, Juliusz Osterwa ed Edmund Wierciński e misurandosi come regista ne I giudici (1927). Alla fine degli anni Venti lavorò anche presso lo Studio Drammatico Ebraico di Vilnius. In seguito, e fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si recò all’estero per approfondire gli studi teatrali e lavorò con diverse scene drammatiche polacche. In questo stesso periodo elaborò una teoria dell’arte scenografica, che a suo avviso avrebbe dovuto essere sempre sottomessa all’attore e a un teatro “poetico” che avrebbe fatto a meno della scatola scenica. Nel 1941, insieme alla moglie Halina Gallowa, fondò a Varsavia una scena teatrale clandestina e nel 1945, a Cracovia, uno studio drammatico che formò alcuni ottimi attori. Successivamente fondò a Danzica, insieme ai propri allievi, il Teatr Wybrzeże, un centro teatrale assai innovativo che ebbe tuttavia vita breve. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta si dedicò alla regia di opere shakespeariane nei teatri di Łódź e Cracovia. Nel 1958 creò la sua ultima scenografia per lo spettacolo L’opera dell’ebreo diretto da Ida Kaminska.
132 Per le vicende relative all’adattamento e alla fortuna europea di quest’opera cfr. Nina Warnke, Going East: The Impact of American Yiddish Plays and Players on the Yiddish Stage in Czarist Russia, 1890-1914, «American Jewish History», 92, 1, March 2004, pp. 1-29.
133 Yosef Lateiner (1853-1935): considerato campione dello shund, cominciò a lavorare con Goldfaden in Romania, dove debuttò come drammaturgo attorno al 1878 collaborando con Yisroel Gradner. Successivamente si trasferì a New York, dove fu tra i soci fondatori del Grand Theater, primo edificio teatrale destinato ad accogliere una compagnia yiddish, e continuò a tradurre e “yiddishizzare” testi e copioni dal rumeno e dal tedesco. Compose in tutto un’ottantina di opere, nessuna delle quali memorabile, eppure conobbe uno straordinario successo popolare.
134 J. Appenszlak, «Nasz Przegląd», 70, 1939, p. 11, cit. in T. Mościcki, Teatry Warszawy 1939 cit., p. 125.
135 Avrom Morevski (1886-1964): attore, regista, traduttore e saggista nato a Vilnius. Debuttò come attore russo nel 1905 e nel 1910 si diplomò presso la scuola teatrale Suvorin di San Pietroburgo. Recitò in russo fino al 1918, quando passò alla scena yiddish, prima a Vilnius e poi a Łódź. Nel 1919 si unì alla Vilner Trupe, dove interpretò il ruolo dello tsaddik nel Dibbuk diretto da Dovid Herman. Continuò poi a lavorare a fasi alterne con la compagnia fino al 1927, traducendo in yiddish drammi del repertorio classico europeo, tra cui Il mercante di Venezia. Diresse il Krokever Yidish Teater nella stagione 1927-1928, ma nel 1928 lo lasciò per recitare a New York sotto la direzione di Maurice Schwartz, poi a Chicago (1929) e a Parigi (1930). Negli anni 1931, 1934 e 1935 formò diverse proprie compagnie, senza però riuscire a a stabilizzarle. Nel 1938 interpretò Prospero nella celebre versione yiddish della Tempesta diretta da Leon Schiller. Prese inoltre parte come attore a diversi film in Polonia e Germania, tra cui Il dibbuk (1937). Alla fine della guerra tornò in Polonia, dove entrò a fare parte del Teatro Statale Yiddish di Ida. Mirosława M. Bułat, Avrom Morevski, The yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 8 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Morevski_Avrom>.
136 M. K., Teatr goldfadenowski — teatrem żydowskim. Z rozmowy z Zygmuntem Turkowem, «Nowy Dziennik», 107, 1939, p. 8, cit. in M. Bułat, W poszukiwaniu teatru “żydowskiego” cit., pp. 595-596.
137 Zygmunt Turkow, cit. in Jacob Guinsburg, Aventuras de uma língua errante: ensaios de literatura e teatro ídiche, Perspectiva, São Paulo 1996, pp. 399-400.
138 Per una sintetica ricostruzione degli spettacoli e della loro ricezione, all’interno di un più ampio studio sulla poetica di Zygmunt Turkow, cfr. il già citato articolo di Mirosława M. Bułat, pubblicato in polacco con il titolo W poszukiwaniu teatru “żydowskiego”: Zygmunt Turkow, in Antreprener. Księga ofiarowana profesorowi Janowi Michalikowi w 70. rocznicę urodzin, a cura di J. Popiel, Kraków 2009, pp. 585- 605, e in inglese “Cosmopolitan” or “Purely Jewish”?: Zygmunt Turkow and the Warsaw Yiddish Art Theatre, in Inventing the Modern Yiddish Stage, a cura di Joel Berkowitz e Barbara Henry, Wayne State University Press, Detroit 2012, pp. 116-135.
139 Shulamis era stata creata a Leopoli nel 1938 e aveva debuttato a Cracovia il 28 aprile del 1939, attirando numerosi spettatori anche tra quanti abitualmente non frequentavano il teatro yiddish. L’11 giugno il quotidiano «Nowy Dziennik» tirò le somme del successo: lo spettacolo contava già quaranta repliche, per un totale di dodicimila cinquecento spettatori, numero che nessun altro allestimento yiddish a Cracovia aveva mai eguagliato. Cfr. Trzeci dzień niebywałego powodzenia Sulamity, «Nowy Dziennik», 14 maggio 1939; Z życia teatru: rzadki jubileusz, «Nowy Dziennik», 15 maggio 1939; Dziś nieodwołalnie po raz ostatni Sulamita, «Nowy Dziennik», 25 maggio 1939, Wymowa liczb, «Nowy Dziennik», 11 giugno 1939, cit. in M. M. Bułat, From Goldfaden to Goldfaden cit., p. 151.
140 «Nonostante dall’esterno ci colpisca per la sua forza, l’architettura è un’arte molto discreta. La prima regola dell’architettura è non erigere colossi su fondamenta progettate per ville ariose. Zygmunt Turkow non sempre osserva questa regola. Ama così tanto il teatro, ha così tanto da dire ed è così pieno di idee che, incautamente, carica troppo le fondamenta. Ad esempio, Shulamis dovrebbe essere un dramma storico pastorale ma in alcuni punti diventa un oratorio, in altri un’opera dell’Antica Grecia, per non dire dell’accento del tutto grottesco sul… movimento per i diritti dei neri». Tra i cambiamenti più vistosi introdotti da Turkow e dal drammaturgo Aszendorf vi fu infatti la trasformazione di Tsingitang, servitore nero del protagonista Avisholem, che tradizionalmente era una figura comica, nel portavoce della protesta degli uomini di colore contro l’oppressione dei bianchi, Mojżesz Kanfer, Wieczory teatralne: Goldfaden czy Aszendorf?, cit. in M. M. Bułat, ivi, pp. 153-154.
141 Zygmunt Turkow, Dlaczego wystawiłem„ Sulamitę”, «Nowy Dziennik», 115, 1939, p. 9. cit. in M. M. Bułat, W poszukiwaniu cit. p. 598.
142 Tutto il patrimonio artistico materiale della famiglia Kaminski – che comprendeva centinaia di costumi, scenografie e accessori teatrali – rimase a Łódź, dove fu distrutto. Cfr. Curriculum artistico, Cart. personale di Ida Kamińska, Instytut Teatralny im. Zbigniewa Raszewskiego, Varsavia.
143 Adolph Rosner (noto con il soprannome Ady o Eddie, 1910-1976): nato a Berlino da genitori ebrei polacchi fu un giovane prodigio musicale e un trombettista di talento, definito dallo stesso Satchmo “il Louis Armstrong bianco”. All’età di diciotto anni entrò a fare parte della band Weintraubs Syncopators, con la quale ottenne uno straordinario successo. In seguito all’ascesa al potere del Partito Nazionalsocialista, Rosner si trasferì in Polonia, dove contribuì alla nascita del jazz nel paese, suonando nei più celebri locali di Varsavia e al “U Adi” (Da Adi) di Łódź. Il suo apporto allo sviluppo del jazz in Polonia e in Russia non ebbe eguali: sebbene la sua orchestra, come molte all’epoca, suonasse anche altri stili musicali, si distinse per l’attenzione e la maestria nel genere swing. Durante la Seconda guerra mondiale entrò nelle grazie di alcuni rappresentanti del partito comunista e dello stesso Stalin, per il quale tenne anche un concerto personale. Quando la musica jazz fu condannata come un’arte perversa, borghese e capitalistica, Rosner – che era considerato il più grande jazzista nella storia dell’Unione Sovietica – cadde in disgrazia e nel 1946 fu internato in un gulag. Fu riabilitato come artista soltanto dieci anni più tardi, ma poco dopo la musica jazz venne nuovamente messa al bando. In Unione Sovietica tutte le sue registrazioni radiotelevisive furono cancellate e il ricordo della sua arte andò in gran parte perduto.
144 Il riferimento è all’eccidio di Katyń, una serie di esecuzioni di massa commesse dall’nkvd ai danni di militari e cittadini polacchi tra l’aprile e il maggio 1940. Fino a qualche anno fa era uno degli orrori meno conosciuti della Seconda guerra mondiale. Alcune fosse comuni furono scoperte nel 1943 dai tedeschi, che decisero di strumentalizzare l’eccidio a vantaggio della propaganda nazista. Fino al 1990 l’Unione Sovietica negò le accuse indirizzatele dal governo polacco in esilio, attribuendo ai tedeschi le responsabilità del delitto. Nel 2007 il regista Andrzej Wajda ha girato un film sull’eccidio di Katyń, di cui anche il padre fu vittima. Nel 2010 il parlamento russo ha approvato una dichiarazione in cui condanna Stalin e altri ufficiali sovietici come responsabili di avere ordinato il massacro.
145 Si stima che tra il 1936 e il 1938 l’Unione Sovietica abbia giustiziato cinquantamila polacchi membri del kpp (Komunistyczna Partia Polski, Partito comunista polacco), tra cui molti di origine ebraica. Per approfondire la difficile condizione dei comunisti polacchi, cfr. C. Madonia, Fra l’Orso russo e l’Aquila prussiana cit., pp. 191-193.
146 Alla fine degli anni Trenta, in Unione Sovietica, le istituzioni scolastiche e gli organi di stampa ebraici furono drasticamente ridotti. Il teatro, invece, continuò a fiorire, in parte anche ufficialmente incoraggiato dal governo, che in esso vedeva uno strumento di indottrinamento. Nel momento in cui l’Armata Rossa invase i territori della Polonia Orientale, in Unione Sovietica erano attivi teatri ebraici nelle città di Mosca (il celebre Teatro yiddish statale da camera diretto da Solomon Michoels), Char’kov, Minsk, Birobidzhan, Odessa, Zhitomir e Baku. Oltre alle compagnie itineranti (tra cui la sezione drammatica dell’Iteg, Idishe Teater Gezelshaft, un’associazione teatrale con forti influenze comuniste anche prima della guerra), erano presenti numerosi gruppi drammatici.
147 I. Kaminska, My life cit., p. 113.
148 Il cui primo direttore amministrativo fu l’attore Gershon Roth, mentre Alter Kacyzne ricoprì l’incarico di consigliere artistico. Gravitarono inoltre attorno al teatro i drammaturghi Israel Ashendorf, Yerahmiel Green e Leybush Dreykurs.
149 Il teatro presentò in totale dodici opere e inaugurò l’attività con La famiglia Ovadis di Markiš, diretta da Avrom Morevski, e seguita dai frammenti di due classici del repertorio del teatro yiddish sovietico: Uno scherzo sanguinoso di Sholem Aleichem e Hershele di Ostropole di Gershenson diretta da Jacob Mindlen, un giovane direttore succeduto a Morevski. L’ultimo spettacolo avrebbe dovuto essere il melodramma Gli spagnoli di Michail Lermontov, ma non andò mai in scena perché dopo l’invasione tedesca i settanta membri della compagnia si dispersero nell’Asia Centrale.
150 Tra i membri figuravano Broderzon, Dzigan e Shumacher. Questo teatro satirico portava in scena la vita del tempo in una lotta costante con la censura sovietica, spesso vinta attraverso improvvisazioni dell’ultimo minuto e allusioni sottili. Veniva spesso criticato e accusato di rimanere attaccato allo shmaltz (sentimentalismo) del tempo passato. Quando scoppiò la guerra tra il Terzo Reich e l’Unione Sovietica la compagnia si trovava in tournée a Odessa: gli attori furono mandati a Char’kov e da lì si separarono, trovando rifugio in Asia Centrale.
151 Teatro diretto da Dovid Umru e Chaim Grade, in cui confluirono molti artisti ebrei polacchi in fuga. A Vilnius era inoltre attivo un teatro di marionette e burattini.
152 Il regime comunista stanziò i fondi per allestire una sala da millecinquecento posti, di cui divenne direttore artistico il drammaturgo Jacob Sternberg. La compagnia comprendeva venti attori, ai quali si aggiunsero i colleghi del Teatro Yiddish Statale di Baku, che era stato chiuso. Per il debutto il Teatro Yiddish Centrale della Repubblica Socialista Sovietica Moldava scelse La strega di Goldfaden, opera che destò grandi attenzioni e che fu vista anche dai membri principali del Goset. Ronit Fisher, Romanian Yiddish Theater: <http://jwa.org/encyclopedia/article/romanian-yiddish-theater>.
153 Alla fine del 1940 si raccolsero a Czernovitz alcuni tra i principali attori della scena yiddish romena, tra cui Sidy Thal e Sevilla Pastor. La compagnia operò soltanto per quattro mesi, durante i quali allestì spettacoli di successo come Tevye il lattivendolo di Sholem Aleichem e Sonata a Kreutzer di Tolstoj.
154 Perets Markiš (1895-1952): poeta, autore di prosa, drammaturgo e saggista, originario della Volinia. Debuttò nel 1917 e nel 1921 si trasferì a Varsavia: qui fu tra i fondatori della rivista «Literarishe bleter», collaborò con i poeti Uri Tsevi Grinberg e Melech Ravitch trasformando la città nel centro del modernismo yiddish. Nel 1926 tornò in Unione Sovietica e il trasferimento coincise con la fine della stagione modernista della sua scrittura. Negli anni Trenta era considerato uno dei più importanti scrittori yiddish sovietici. Tra le sue opere più note figura il romanzo Uno a uno, storia di un operaio ebreo che torna in Unione Sovietica dagli Stati Uniti per contribuire alla costruzione del socialismo. Dal 1939 al 1943, Markiš fu a capo della sezione yiddish dell’Unione degli scrittori sovietici e nel 1942 si unì al partito comunista. Fu arrestato nel 1949 durante la campagna di liquidazione orchestrata contro i membri del Comitato antifascista ebraico e gli ultimi esponenti della cultura ebraica in Unione Sovietica. Dopo un processo farsa fu condannato a morte, come gran parte degli accusati. Avraham Novershtern, Perets Markish, yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 8 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Markish_Perets> e il quinto volume di questa serie.
155 Alcune operazioni di facciata avevano fatto sperare che la cultura yiddish trovasse posto nel nuovo assetto. Nel gennaio del 1941 era stato fondato a Mosca un comitato presieduto dal segretario dell’Associazione degli Scrittori Sovietici, allo scopo di organizzare le celebrazioni dedicate al 90° anniversario della nascita di Peretz, cui presero parte, tra gli altri, Alter Kacyzne, Ida Kaminska, Moyshe Broderzon e Avrom Morevski (allora direttore del teatro yiddish di Białystok).
156 I. Kaminska, My life cit., p. 120.
157 Le credenziali per essere eletti nel consiglio comunale erano: origini proletarie, attività rivoluzionaria, interesse per il proletariato. «A standout among the candidates for the Lvov council was Ida Kaminska, a well-known stage actress and the artistic director of the governmental Jewish Theater in the town. She was summoned to the Party’s municipal committee, where she was informed that the Party and the people appreciated her artistic endeavors and therefore decided to present her candidacy for the municipal council as a member of the Communist and unaffiliated list». Tra gli altri candidati ebrei figuravano Pearl Urich, attrice di successo in fuga dalla Polonia, Sophia Okrant, «donna “dal ricco passato proletario”»; il professore di biochimica Jacob Parnass, il professor Kutscher dell’Istituto Sovietico di Commercio e la poetessa yiddish Rokhl Korn». Dov Levin, The Lesser of Two Evils: Eastern European Jewry under Soviet Rule, 1939-1941, Philadelphia, Jerusalem, The Jewish Publication Society 1995, p. 54.
158 A un’approfondita analisi del Re Lear è dedicato il sesto volume di questa serie: Claudia D’Angelo, Re Lear. Storia di uno spettacolo yiddish sovietico, Accademia University Press, Torino 2017. Nello spettacolo recitava anche una vecchia conoscenza di Ida, Sara Rotbaum, che interpretava Goneril, una delle figlie del sovrano, e che dopo la guerra avrebbe collaborato con il Teatro Statale Yiddish di Varsavia.
159 A Solomon Michoels e al suo compagno di scena Veniamin Zuskin è dedicato il quinto volume di questa serie: Antonio Attisani, Solomon Michoels e Veniamin Zuskin. Vite parallele nell’arte e nella morte, Accademia University Press, Torino 2013.
160 I. Kaminska, My life cit., p. 134.
161 Ibid.
162 Ivi, p. 170.
163 Ibid.
164 Ivi, p. 176.
165 Intervista n. 3921, Renee Grobart (Varsavia 1934), 13/7/1995, Stati Uniti, USC Shoah Foundation – The Institute for Visual History and Education University of Southern California.
166 I. Kaminska, My life cit., p. 186.
167 Ivi, p. 190.
168 Kielce è una città della Polonia sud-orientale: alla vigilia della Seconda guerra mondiale era abitata da circa 24.000 ebrei, nel gennaio del 1945 ne rimanevano 2. Un anno dopo, circa duecento sopravvissuti avevano fatto ritorno in città, ma nel mese di luglio, a seguito della diceria secondo la quale alcuni ebrei avevano rapito un bambino polacco, si scatenò un pogrom di straordinaria ferocia in cui persero la vita quarantadue ebrei e altri quaranta furono feriti. Per una ricostruzione dettagliata dell’evento, dei suoi moventi e della sua successiva strumentalizzazione da parte della propaganda del regime, che attribuì la colpa all’opposizione anticomunista, si consiglia la lettura di Francesco M. Cataluccio, Vado a vedere se di là è meglio, Sellerio, Palermo 2010, pp. 253-280. Per un’analisi delle posizioni assunte dalla Chiesa polacca cfr. Adam Michnik, Il pogrom, postfazione a cura di Francesco M. Cataluccio, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
169 I. Kaminska, My life cit., p. 206.
170 I programmi in lingua yiddish della Radio Polacca andarono in onda dal 1945 al 1958 e furono promossi da Jonas Turkow, ex cognato di Ida Kaminska. I primi “a idishe radio-sho” avevano come speaker Diana Blumenfeld e venivano trasmessi da Lublino con l’obiettivo di aiutare il ricongiungimento dei sopravvissuti. In breve tempo divennero molto popolari sia in Polonia sia all’estero. Quando Turkow e la moglie lasciarono la Polonia, le audizioni radiofoniche passarono nelle mani del Dipartimento per la Cultura e la Propaganda del Comitato Centrale degli Ebrei Polacchi. A partire dal giugno del 1945 furono trasmesse da Varsavia quattro volte alla settimana e progressivamente il palinsesto si estese per includere informazioni sulla vita ebraica in paese e all’estero, aggiornamenti sulla situazione politica, economica e sociale in Polonia, programmi artistici, musicali e letterari. L’ensemble del Teatro Statale Yiddish registrò numerosi radiodrammi e interpretò molte canzoni, in yiddish e in polacco, moderne e tradizionali. Negli anni Cinquanta le audizioni in yiddish smisero di essere ascoltate in Polonia, ma ogni giorno andavano in onda due programmi indirizzati alle comunità ebraiche all’estero: uno per gli ascoltatori in Europa e in Israele, l’altro per quelli americani. Nel 1958 la Segreteria del Comitato Centrale del Partito Operaio Unificato Polacco decretò la chiusura della redazione. Soltanto nel 2008 la Radio Polacca tornò a trasmettere un programma in lingua yiddish, Naie Chwalies (Nuove Onde): creato dalla sezione ebraica della Radio Polacca per l’Estero, è andato in onda ogni domenica per mezz’ora proponendo interviste e reportage, fino alla liquidazione nel 2011.
171 Programma yiddish, 3 dicembre 1946, testo conservato negli archivi dell’Istituto Storico Ebraico di Varsavia e tradotto da Anna Rozenfeld, Ida Kamińska na falach eteru. Powrót, «Cwiszn», 3-4, 2014, pp. 80-82.
172 C. Madonia, Fra l’Orso russo e l’Aquila prussiana cit., p. 222.
173 «Soltanto presso Israele, e non altrove, l’ingiunzione a ricordare è sentita come comandamento religioso per un intero popolo». Il tema è sviluppato in Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor: storia ebraica e memoria ebraica, intr. di Harold Bloom, Giuntina, Firenze 2011.
174 Per approfondire cfr. Agnieszka Ilwicka, Grand Illusion? The Phenomenon of Jewish Life in Poland after the Holocaust in Lower Silesia, «The Person and the Challenges», 4, 2, 2014, pp. 97-125 e Anna Hannowa, Ku upaństwowieniu Teatru Żydowskiego — na Dolnym Śląsku, in Teatralna Jerozolima cit., pp. 84-97.
175 Un’esperienza raccontata nel dettaglio da Ruth Turkow Kaminska nel libro autobiografico I Don’t Want To Be Brave Anymore, New Republic Books, Washington D.C. 1978, poi ripubblicato con il titolo Mink Coats and Barbed Wire, Collins and Harvill Press, London 1979.
176 Lo spettacolo rinnova il grande successo del periodo prebellico in un periodo segnato dal pogrom di Kielce e da nuovi attacchi antisemiti: a Łódź le repliche durano due mesi, poi proseguono con immutata popolarità a Cracovia, Leopoli e Varsavia.
177 Intervista dell’autrice a Henryk Grynberg, 5 maggio-10 giugno 2015, corrispondenza via email.
178 Come si legge nel resoconto dell’attività dell’anno 1950, indirizzato all’Associazione socio-culturale degli ebrei in Polonia: «Il Teatro Statale Yiddish, in quanto prosecutore di ottant’anni di tradizione teatrale ebraica, di un teatro che è sempre stato popolare, è oggi al servizio dell’operaio ebreo e dell’intellighenzia lavoratrice. La riduzione del contingente di spettatori ebrei in seguito all’emigrazione […] ha influenzato il mancato sfruttamento del piano di servizi previsto per la seconda metà dell’anno. La maggioranza della popolazione ebraica, e soprattutto la sua parte produttiva, è tuttavia rimasta nel paese ed esprime il proprio rapporto con il Teatro Yiddish richiedendo spettacoli in ogni cittadina. Un fenomeno particolarmente positivo […] è l’affluenza del pubblico polacco. A Płock il nostro spettacolo ha radunato tutta la cittadinanza ebraica (80 persone) e 800 /! / lavoratori polacchi. […] Tale nobile internazionalismo è uno dei nostri inconfutabili successi», Archivio del Towarzystwo Społeczno-Kulturalne Żydów w Polsce, atti istituzionali del Państwowy Teatr Żydowski di Wrocław, 325, Żydowski Instytut Historyczny, Varsavia.
179 Cfr. Mirosława M. Bułat, Trójjęzyczny teatr żydowski w Polsce„ w lustrze” publicystyki Michała Weicherta…, in Żydzi w lustrze dramatu, teatru i krytyki teatralnej cit., pp. 269- 280.
180 Archiwum Państwowe w Łodzi, Zarząd Miejski w Łodzi, Wydział Kultury i Sztuki, segn. 48, Rozporządzenia i okólniki, cit. in Małgorzata Leyko, Ida Kamińska i Łódzki Teatr Żydowski, in Łódzkie sceny żydowskie cit., p. 165.
181 Włodzimierz Sokorski, Zadania twórczych konferencji polskiego świata artystycznego, «Trybuna Ludu», 256, 1949.
182 Resoconto dell’attività del 1950 del Teatro Statale Yiddish, cit.
183 La dott.ssa A. Leśna di Irena Krzywicka. Regia: Ida Kaminska. Scenografia: Aleksander Jędrzejewski, Wiesław Lange. Cast: Ida Kaminska (dott.ssa Antonina Leśna), Marian Melman/Chonon Lewensztejn (dott. Winiarski), Chevel Buzgan (dott. Zwardoń), Fryda Szafer (Wera), Izaak Turkow (Ziembek), Natan Meisler (Socha), Luba Stolarska (Marcysia), Betty Latowicz (madre della dott.ssa Leśna), Ruth Taru-Kowalska/Sonia Szeftel (moglie del dottore). Kaminska espose le scelte registiche e anche i cambiamenti apportati alla drammaturgia nell’articolo„ Dr Anna Leśna” i„ W noc zimową”, «Teatr», ix-x, 1951, pp. 41-44.
184 In una notte d’inverno di Szymon Diamant. Regia: Ida Kamińska. Scene: Aleksander Bogen. Scenografia: Edward Grajewski. Musiche: Saul Berezowski.
185 I. Kaminska, „ Dr Anna Leśna” i„ W noc zimową” cit., p. 44.
186 Szlojme Diamant, Un ebreo tra i contadini, 1948. Per approfondire la storia della casa editrice Idish Buch cfr. Joanna Nalewajko-Kulikov, Kilka uwag o Idisz Buch, in Nusech Pojln. Studia z dziejów kultury jidysz w powojennej Polsce, a cura di Magdalena Ruta, Austeria, Kraków-Budapest 2008, pp. 129-164.
187 E.R., S. Diamanta„ W noc zimową”, […], 1949, […].
188 Ibid. L’autore non specifica se si trattasse di partigiani dell’anticomunista Armia Krajowa (Esercito nazionale) o dell’Armia Ludowa (Esercito popolare), di orientamento comunista.
189 Nel 1948 Grynberg era ospite di una casa per l’infanzia ebraica (struttura che si occupava dell’assistenza ed educazione dei bambini che, temporaneamente o in maniera permanente, non potevano contare sulla propria famiglia) nei dintorni di Łódź e fu scelto insieme ad altri compagni per fare da comparsa nel film di Aleksander Ford La strada di confine (noto in Italia con il titolo Fiamme su Varsavia). Interpretava un piccolo contrabbandiere del ghetto di Varsavia che, ritratto in un drammatico primo piano, pronunciava un’unica battuta: “Quei cani delle SS!”. L’anno successivo il Teatr Powszechny di Łódź lo ingaggiò nel ruolo del bambino ebreo per lo spettacolo I tedeschi di Leon Kruczkowski. Queste erano le uniche esperienze “d’attore” che poteva vantare Grynberg quando cominciò a lavorare al Teatro Statale Yiddish. Intervista dell’autrice a Henryk Grynberg, cit.
190 Henryk Grynberg, Życie osobiste, Polska Fundacja Kulturalna, London 1979, p. 22.
191 Cfr. Cart. Trentacinquesimo anniversario della carriera artistica di Ida Kamińska, Cart. Trentacinquesimo anniversario della carriera artistica di Ida Kamińska (bis), Cart. Telegrammi per il trentacinquesimo anniversario della carriera artistica di Ida Kamińska, Cart. 4.6. Programma del trentacinquesimo anniversario, Cart. 102. Trentacinquesimo anniversario (1952), Archiwum Teatru Żydowskiego im. Estery Rachel i Idy Kamińskich, Varsavia.
192 «Fredro ha fatto della Szambelanowa un personaggio farsesco e caricaturale, che blaterava sciocchezze in un francese da cuoche – Kamińska non ha ceduto alle pressioni e lo ha reso un personaggio da commedia, una dama del dwór [casa signorile in campagna, simbolo della nobiltà polacca] nonostante tutte le ridicolaggini – e ne è uscita vittoriosa perché è stata un’interpretazione innovativa e riuscita: ricordo molte Szambelanowa, ma più di tutte stimo quella di Ida Kamińska», Jan Alfred Szczepański, Symbol żywych wartości, in Ida Kamińska. 50 lat pracy artystycznej/50 ior kinstlerishe tetikajt, a cura di Andrzej Wróblewski, Idish Buch, Warszawa 1967, p. 56. Regia: Ida Kaminska. Traduzione: Ida Kaminska, Lejb Olicki. Scenografia: Edward Grajewski. Interpreti: Marian Melman (il signor Jowialski), Ruth Kowalska/Miriam Lancmanowa (la signora Jowialski), Józef Widecki (Szambelan Jowialski), Ida Kamińska (Szambelanowa), Ketty Efron (Helena), Mieczysław Spektor (Janusz), Karol Latowicz (Ludmir), Michał Grynsztejn (Wiktor), Arnold Paluszak/Mojżesz Lancman (lacché).
193 Adolf Rudnicki, Teatr zawsze grany, Czytelnik, Warszawa 1987, p. 55.
194 Juliusz Kydryński, Odwiedziny teatralne, «Przekrój», 526, 1955, p. 11.
195 Ida Kamińska, Nieporozumienia, «Teatr», 12, x, 16-30 giugno 1955, p. 17.
196 Ivi, p. 18.
197 Ivi, pp. 17-18.
198 Juliusz Kydryński, Teatr narodowy czy getto kulturalne, «Teatr», 16, 1955, p. 20.
199 Ibid.
200 Quella citata è una selezione dei titoli proposti dal Teatro Statale Yiddish, per il repertorio completo cfr. Teatr w latach 1944-1949 e Repertuar Państwowego Te- ··
atru
Zydowskiego (1950-1995), in Państwowy Teatr Z
ydowski im. Ester Rachel Kamińskiej. Przeszłość i teraźniejszość, a cura di Szczepan Gąssowski, PWN, Warszawa 1995, pp. 99- 122; pp. 168-180.
201 I. Kaminska, My life cit., p. 223.
202 Lettera (firma non leggibile) indirizzata al caposezione dell’Organizzazione della Direzione Centrale dei Teatri, datata 30 agosto 1955, Archiwum Akt Nowych, Varsavia, Cart. 366 3/6 Atti del Ministero della Cultura e dell’Arte di Varsavia, t. ii, collez. 366/1, fasc. 3185.
203 Per una panoramica sul teatro yiddish romeno del dopoguerra cfr. Elvira Grözinger, Stalinist Policy and Jewish Culture: The Jewish State Theatre of Bucharest, in Under the Red Banner: Yiddish Culture in the Communist Countries in the Postwar Era, a cura di Elvira Grözinger e Magdalena Ruta, Harrasovitz Verlag, Wiesbaden 2008, pp. 47-58.
204 Ordinanza n. 222, datata 22 dicembre 1955, Archiwum Akt Nowych, Varsavia, Cart. 366 3/6 Atti del Ministero della Cultura e dell’Arte di Varsavia, t. ii, collez. 366/1, fasc. 3185.
205 I. Kaminska, My life cit., p. 228. I teatri di Wrocław e Łódź continuarono ad accogliere spettacoli di altre compagnie itineranti e a organizzare concerti e serate culturali, seppur con sempre minore intensità. A Wrocław restarono attivi fino al 1960 una Casa della Cultura intitolata a Ester Rokhl Kaminska e un coro yiddish. Gli eventi del marzo 1968 posero del tutto fine a queste attività e gli edifici in cui avevano sede furono assegnati a due teatri polacchi, il Teatr Nowy di Łódź e il Teatr Polski di Wrocław.
206 Per gli ebrei di tutto il mondo simpatizzanti del comunismo un ruolo analogo a quello ricoperto dal rapporto segreto di Chruščëv fu rivestito dall’articolo Unzer wejtik un unzer trajst (Il nostro dolore e la nostra consolazione), pubblicato sul quotidiano «Folks-Shtime» in forma anonima, in cui veniva data notizia dell’epurazione degli esponenti della cultura ebraica in urss durante l’epoca staliniana. Contro le intenzioni dell’autore (il redattore capo Grzegorz Smolar), la pubblicazione persuase migliaia di ebrei in Occidente ad abbandonare il movimento comunista e le sue organizzazioni.
207 Tra gli effetti negativi del disgelo vi fu una nuova ondata di sentimenti antisemiti, che portò a licenziamenti, tafferugli e attacchi sulla stampa. Questa volta si trattava di una precisa strumentalizzazione politica atta a regolare i conti ai vertici del partito comunista: la frazione detta “natoliniana”, formata da burocrati dell’apparato, provò a disfarsi della frazione “puławiana” avversaria, più liberale e composta da molti giovani di origine ebraica, addossando a loro la colpa dei crimini staliniani e tentando di riattizzare gli umori antisemiti serpeggianti in seno al partito e nelle masse. I primi chiamavano i secondi (che rivestivano alte cariche come Jakub Berman) con disprezzo “ebrei”, mentre questi definivano gli avversari “cafoni”, in riferimento al basso livello culturale del gruppo dei burocrati. Il risultato della discussione in seno alla dirigenza del partito fu la diramazione di una circolare ufficiale in cui si condannava con fermezza ogni forma di antisemitismo. C. Madonia, Fra l’Orso russo e l’Aquila prussiana cit., pp. 246-247.
208 È difficile dare conto nel dettaglio di tutti i cambiamenti che interessarono l’organico degli attori. Per un orientamento generale si veda l’elenco a intervalli quinquennali fornito da Szczepan Gąssowski, Zespół Aktorski Państwowego Teatru Żydowskiego, in Państwowy Teatr Żydowski cit., pp. 276-277.
209 Purtroppo l’attore non godeva di buona salute, per cui fece in tempo a curare la regia del Dibbuk e a interpretare il ruolo dello tsaddik (che aveva ricoperto anche nel debutto del 1920) e poi, pur continuando a fare parte formalmente dell’ensemble, si ritirò a scrivere le sue memorie. Sarebbe morto nel 1964.
210 Alla fine del 1954 il Teatro Statale Yiddish chiese delucidazioni in merito alla richiesta di finanziamento per uno studio drammatico, avanzata mesi prima e ufficialmente approvata. Lo studio avrebbe dovuto implementare l’organico della compagnia, costituito in maggioranza da attori in là con gli anni e affaticati dalle frequenti tournée per il paese. Il direttore amministrativo S. Lent motivava così la richiesta: «I diplomati delle scuole teatrali statali con conoscenza della lingua yiddish, se mai ve ne sono, non si scritturano presso il nostro teatro a causa delle difficili condizioni lavorative. Per queste stesse ragioni non si uniscono a noi attori provenienti da altre compagnie e sono invece i nostri attori a cambiare compagnia, come nel caso del cittadino Rajski […] e del cittadino Szafer […]». Lettera indirizzata al ministro della Cultura e dell’Arte Włodzimierz Sokorski, 2 ottobre 1954, Archiwum Akt Nowych, Varsavia, Cart. 366 3/6 Atti del Ministero della Cultura e dell’Arte di Varsavia, t. ii, collez. 366/1, fasc. 3185.
211 Dopo attenta osservazione, Jakub Rotbaum ritenne di avere compreso che il teatro per Ida Kaminska aveva un profondo valore educativo, J. Rotbaum, Ida Kaminska — A groise idishe shoishpilerin, «Naïe Presse/La Presse Nouvelle», […].
212 Henryk Grynberg, Życie osobiste cit., pp. 35-36.
213 Intervista dell’autrice a Henryk Grynberg, cit.
214 Ibid.
215 Ibid.
216 Karol Latowicz (1923-1984), figlio dei noti attori Yitzhok e Betty Latowicz. Debuttò sulle scene del teatro yiddish di Varsavia nel 1937, l’anno successivo prese parte al film Mamele, diretto da Konrad Tom e Joseph Green, poi si spostò in Belgio. Tornò in Polonia poco prima dello scoppio del conflitto e trascorse quel periodo in Unione Sovietica, lavorando anche come danzatore nella compagnia dell’Armata Rossa. Fece ritorno in Polonia nel 1946, anno in cui si stabilì in Bassa Slesia per prendere parte alla rinascita del teatro yiddish. Diresse il film Ebrei in Polonia, prodotto da Szymon Federman e uscito per la casa di produzione Film Polski nel 1957. Si unì alla compagnia diretta da Ida Kaminska e qualche anno più tardi sposò la figlia Ruth, un matrimonio al quale si oppose, invano, Zygmunt Turkow e che non ebbe un esito felice, forse anche a causa dei problemi di alcolismo e di tendenza al gioco d’azzardo di Latowicz.
217 Intervista dell’autrice a Henryk Grynberg, cit.
218 Dramma storico del noto autore e fotografo Alter Kacyzne, scritto nel 1938 e incentrato sulle vicende dei marrani (ebrei convertiti a forza al cristianesimo, ma rimasti segretamente fedeli alla propria religione) portoghesi nella prima metà del xvii secolo e in particolare sulla figura del poeta e commediografo Antonio José da Silva, detto «O Judeu». Prima messa in scena a Buenos Aires nel 1948, pubblicato poi nella raccolta Gezamelte shriftn (Tel Aviv 1967). In italiano Alter Kacyzne, L’opera dell’ebreo, Giuntina, Firenze 1993.
219 “Dramma popolare” di un autore di cui si sono perse le tracce, si ha soltanto notizia di un allestimento del 1939 a cura di Michael Brandt al Teatr Nowości di Varsavia. In una recensione dell’epoca il critico Jakub Appenszlak la definì una delle migliori opere della drammaturgia yiddish moderna, una sorta di versione ebraica di Cenerentola, senza però lieto fine, cit. in Tomasz Mościcki, Teatry Warszawy 1939 cit., pp. 224-225.
220 Moshe Dluznowsky (originariamente Mojżesz Dłużnowski, 1903-1977): scrittore e drammaturgo yiddish nato in una famiglia chassidica di piccoli commercianti, emigrato in Francia nel 1930 e successivamente negli Stati Uniti. Tra le sue opere più note, La nave solitaria (1956?) è uno dei pochi drammi yiddish ad affrontare il tema della Shoah e ritrae gli sforzi degli ebrei per sfuggire ai nazisti. È stato portato in scena con successo da David Licht al Folksbiene nel dicembre 1956 e da Maurice Schwartz a Buenos Aires.
221 Commedia con inserti canori (1961) del drammaturgo e satirista israeliano Ephraim Kishon (pseudonimo di Ferenc Hoffmann, 1924-2005), apprezzata e rappresentata con successo in tutto il mondo dagli anni Sessanta a oggi. L’opera ha per protagonisti l’idraulico Elimelech e la moglie Shiffra che, dopo venticinque anni di vita comune, si trovano nelle condizioni di dover recuperare l’attestato del matrimonio che hanno celebrato molti anni prima in un kibbutz. La commedia prende in esame l’istituzione del matrimonio, sia da una prospettiva seria che umoristica, e la complessità della relazione tra marito e moglie, soprattutto quando quest’ultima è costretta a sopportare per anni le tirannie del compagno. Nel 1982 Ruth Turkow Kaminska prenderà parte alla commedia al Folksbiene di New York, prima di ritirarsi definitivamente dalle scene, cfr. <http://www.nytimes.com/1982/11/09/theater/stage-the-marriage-contract.html>.
222 Cecil Philip Taylor (1929-1981), prolifico drammaturgo scozzese, la cui opera attinge spesso alle proprie origini ebraiche e all’orientamento politico di stampo socialista. Il primo dramma Mr David (1954) vinse il secondo premio nel concorso per drammaturghi organizzato dal World Jewish Congress. La sua opera di maggiore successo fu Good (1981), dramma ambientato nella Germania prebellica e incentrato sul rapporto tra un professore di ampie vedute che ha per migliore amico un ebreo e che, a poco a poco, viene sedotto dall’ideologia nazista al punto da condividerne la “soluzione finale”.
223 Chaim Sloves (1905-1988), fervente comunista e promotore della cultura yiddish, avvocato, scrittore e drammaturgo di fama internazionale. Immigrato a Parigi nel 1926, durante la Seconda guerra mondiale partecipa alla resistenza clandestina. Nel 1937 è segretario del comitato organizzatore del Congresso Mondiale della Cultura Yiddish di Parigi. Oltre a Eravamo dieci fratelli (1963) è autore dei drammi La rovina di Haman, un purimshpil sull’Olocausto messo in scena dal Teatro Yiddish della Bassa Slesia nel 1949 per la regia di Yitskhok Grudberg-Turkow e Baruch di Amsterdam, rappresentato al Teatro Statale Yiddish nel 1961 per la regia di Meir Melman, in cui Spinoza è ritratto come un giovane in lotta contro l’autorità rabbinica e trasformato nel paradigma dell’ebreo laico moderno. Zygmunt Turkow, che aveva contribuito alla regia di La rovina di Haman, pur trovandosi in Brasile al momento del debutto a Wrocław mandò i suoi auguri sia agli attori sia agli spettatori, secondo lui uniti da un legame profondo, attraverso il giornale yiddish polacco «Nidershlezie». Alla figura di Sloves ha dedicato diversi studi Annette Aronowicz, tra cui: Haim Sloves, the Jewish People, and a Jewish Communist’s Allegiances, «Jewish Social Studies», 9.1, 2002, pp. 95-142; Spinoza among the Jewish Communists, «Modern Judaism», 24, 1, 2004, Oxford University Press, pp. 1-35; Homens mapole: Hope in the Immediate Postwar Period, «The Jewish Quarterly Review», 98, 3, 2008, pp. 355-388; Joy to the Goy and Happiness to the Jew: Communist and Jewish Aspirations in a Postwar Purimshpil, in Inventing the Modern Yiddish Stage, a cura di Joel Berkowitz e Barbara Henry, Wayne State University Press, Detroit 2012, pp. 275-294.
224 Non è stato possibile reperire informazioni sull’opera e il suo autore.
225 Žak Konfino (1892-1975) esercita la professione di medico fino alla Seconda guerra mondiale poi, all’età di quarant’anni, decide di dedicarsi integralmente alla scrittura, diventando uno dei più noti autori di satira jugoslavi. I suoi soggetti sono la vita quotidiana degli ebrei sefarditi in Serbia e la relazione psicologica tra medico e paziente. Proprio l’esercizio della professione in una piccola comunità serba sefardita sviluppa in lui una particolare sensibilità nei confronti della sofferenza dell’umanità e una preferenza dal punto di vista lirico per i soggetti ebraici in condizione di povertà, accomunati tuttavia da una grande energia nella lotta per la sopravvivenza. Nella sua prosa cerca di alleviarne le amarezze attraverso una scrittura comica e satirica, un umorismo nero che per alcuni lo avvicina a Sholem Aleichem (delle cui opere ha curato la traduzione in serbo). The Encyclopedia of Modern Jewish Culture, a cura di Glenda Abramson, Routledge, London-New York 2005, p. 815. Considerata la biografia e le scelte artistiche dell’autore forse anche lo spettacolo Trasfusione andrebbe ascritto al primo gruppo.
226 Jan Paweł Gawlik, Ida Kamińska, in Id., Twarze teatru, Ossolineum, Wrocław 1963, pp. 124-125; pp. 129-131. Si può trovare conferma dell’impressione riportata da Gawlik anche osservando l’unico frammento dello spettacolo conservato, che mostra la protagonista in un momento di grande euforia e tenerezza, mentre canta e si ubriaca conservando tuttavia una delicatezza e finezza di disegno che non permette mai al personaggio di scivolare nella macchietta. Cfr. Il suo teatro.
227 Scena descritta anche da Roman Szydłowski, Epicka opowieść o tragedii getta, «Trybuna Ludu», 24 aprile 1963.
228 Seth Wolitz, A Holocaust play in Warsaw in 1963, in Staging the Holocaust: the Shoah in Drama and Performance, a cura di Claude Schumacher, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1998, p. 143.
229 Ida aveva già composto un dramma nel 1929 intitolato C’era una volta un re, che probabilmente non ebbe molto successo.
230 Molti critici espressero le loro riserve sul testo. August Grodzicki, per esempio, commentò che l’opera trasformava la tragedia di una nazione in un melodramma familiare dal linguaggio declamatorio, ma si premurò comunque di mettere in rilievo la recitazione composta e magistrale di Kaminska, sostenuta dalla bravura dei colleghi Chevel Buzgan, Riva Buzgan, Ruth Kaminska, Karol Latowicz e dal talento della giovane Helena Wilda (l’unica tra gli attori “stabili” della compagnia a non avere origini ebraiche). A. Grodzicki, Wielki temat, «Życie Warszawy», 18 novembre 1964; Jaszcz, Wszechstronność Idy Kamińskiej, «Trybuna Ludu», 18 novembre 1964.
231 Abbiamo un assaggio della scena della trasmissione dei “libri” al pronipote nel documentario Il suo teatro.
232 Joanna Krakowska, Meir Ezofowicz, czyli Żydzi, «Didaskalia Gazeta Teatralna», 113, 2, 2013, pp. 55-64. L’articolo è il risultato di una ricerca condotta all’interno del progetto multimediale realizzato presso l’Istituto Teatrale di Varsavia e intitolato Repubblica Popolare Polacca. Rappresentazioni, una storia delle rappresentazioni teatrali intrecciata alla rappresentazione di questioni politico-sociali, cfr. <http://www.teatrpubliczny.pl/PRL> e nello specifico sul tema Meir Ezofowicz/Ebrei/Ida Kaminska <http://www.teatrpubliczny.pl/PRL/id:17>.
233 Jan Sztaudynger, Epopea świata zaginionego, «Teatr», 4, 1954, cit. ivi, p. 57.
234 Per una recente disamina di questo articolato processo di costruzione dell’identità polacca dopo l’Olocausto, processo che è passato dall’ambivalente omogeneizzazione della memoria nei primi tre decenni del dopoguerra ai tentativi di reclamare l’eccezionalità del destino ebraico nei primi anni Ottanta; dalla ri-articolazione della memoria alla luce del sentimento di colpa che ha caratterizzato gli anni dell’indipendenza (post ’89), fino all’attuale interiorizzazione della memoria ebraica nella coscienza polacca come esperienza non interamente assorbibile nella sola identità polacca cfr. Krystyna Duniec e Joanna Krakowska, Nie opłakali ich?, in Zła pamięć. Przeciw-historia w polskim teatrze i dramacie, a cura di Monika Kwaśniewska e Grzegorz Niziołek, Instytut im. Jerzego Grotowskiego, Wrocław 2012, pp. 21-35.
235 J. Krakowska, Meir Ezofowicz cit., p. 64.
236 Andrzej Wróblewski, Granice osamotnienia, «Teatr», 18, 1956, pp. 6-8.
237 Per approfondire cfr. Laura Quercioli Mincer, Adolf Rudnicki: la sconfitta dell’intellettuale, in Patrie dei superstiti. Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, Lithos, Roma 2010, pp. 21-28.
238 Adolf Rudnicki, Niebieskie kartki. ṡlepe lustro tych lat, Czytelnik, Warszawa 19582, pp. 326-328; 334-336.
239 Giornale yiddish pubblicato in Polonia dall’aprile 1945 al dicembre 1991. Fino alla fine del 1956 fu patrocinato dal Partito operaio polacco unificato, poi divenne l’organo dell’Associazione socio-culturale degli ebrei in Polonia, dal 1989 al 1991 fu invece finanziato dal Ministero della Cultura e dell’Arte. Dal 1950 al 1968 il giornale contava quattro uscite alla settimana, successivamente divenne un settimanale. Per un approfondimento cfr. Moshe Shklar, The Newspaper Folks-Shtime (The People’s Voice) 1948-1968: A Personal Account, in Under the Red Banner: Yiddish Culture in the Communist Countries in the Postwar Era cit., pp. 135-146.
240 Szczepan Gąssowski, Ida Kamińska (1899-1980), in Państwowy Teatr Żydowski cit. p. 139.
241 Nell’intervista Ida dichiarò che il problema della comprensione linguistica la tormentava da tempo perché i simpatizzanti del teatro dovevano farsi accompagnare da persone che conoscessero la lingua yiddish e affidarsi alle loro traduzioni bisbigliate in tutta fretta, per di più disturbando sia gli altri spettatori sia gli attori. Adesso chiunque poteva ritirare all’ingresso le cuffie alla modica cifra di 2.50 zł e ascoltare l’attenta traduzione in simultanea di ciò che veniva detto in scena. Lo speaker sedeva infatti in un gabbiotto di vetro alle spalle del pubblico e aveva modo di seguire l’azione. Al giornalista, che domandava se non si fosse pensato di utilizzare una registrazione invece di uno speaker in carne e ossa, l’attrice rispondeva di essere stata fin dall’inizio contraria all’idea perché il teatro è fatto da persone vive e il registratore nasconde troppi pericoli. Il nuovo ciclo di spettacoli “radiofonizzati” fu inaugurato da Gli alberi muoiono in piedi, cui seguirono gli spettacoli recentemente portati in tournée in Israele (a Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme): Sender Blank, Il professor Mamlock, Il re allegro e Mirele Efros. Zradiofonizowany teatr, a cura di M. T., «Radio i Telewizja», 20 marzo 1960, […].
242 H. Grynberg, Życie osobiste cit., pp. 39-40.
243 A. Rudnicki, Niebieskie kartki cit., p. 25.
244 H. Grynberg, Życie osobiste cit., p. 39.
245 Ruth Taru Kowalska (pseudonimo di Rajzł Tukmaker, 1909-1979) nasce in una famiglia ebraica di tendenze progressiste, legata al Bund. Si forma come attrice presso lo studio drammatico di Dovid Herman, che successivamente la ingaggia nel suo cabaret Azazel, dove Ruth rivela le proprie doti negli sketch comici, nel canto e nella danza. Si unisce poi al vykt diretto da Zygmunt e Ida, in cui prende parte, tra gli altri, ai Lupi di Rolland e alla Strega di Goldfaden. Tra il 1931 e il 1933 recita sporadicamente con la Vilner Trupe, recandosi anche in tournée a Vienna e in Germania. Dal 1932 è membro del Partito comunista polacco, di cui il marito è funzionario. Al ritorno in Polonia viene ingaggiata da Klara Segalowicz per fare parte del Folks un Yugnt-Teater: qui recita nella Strega di Itzik Manger diretta da Jakub Rotbaum e nella Tempesta allestita da Leon Schiller. Durante la guerra trova rifugio in Kazakistan, dove conduce alcuni circoli drammatici. Fa ritorno in Polonia a metà del 1945 e da subito si impegna nella ricostruzione del teatro yiddish: a Dzierżoniów organizza un concerto in occasione della fondazione del Comitato Ebraico del Voivodato della Bassa Slesia. Attrice di primo piano del Teatro Yiddish della Bassa Slesia, del Teatro Yiddish di Łódź e del Teatro Statale Yiddish di Varsavia (al quale rimarrà legata fino alla morte), è ricordata per la passionalità che seppe infondere nelle proprie creazioni.
246 ipn bu 001043/1599 Ruth Taru Kowalska (pseudonimo Helena), ipn bu 01434/180 Ruth Taru Kowalska (microfilm), Instytut Pamięci Narodowej, Varsavia.
247 Denuncia, fonte: “Helena”, trascrizione della conversazione segreta registrata il 6 giugno 1961 e accolta da J. Dąbrowski, ipn bu 001043/1599, Instytut Pamięci Narodowej, Varsavia.
248 ipn bu 01178/209 Gwiazda 1963 (microfilm).
249 Una delle rare eccezioni è Tymon Terlecki, che recensisce negativamente Meir Ezofowicz, al quale aveva assistito a Londra nel 1957, cit. in Państwowy Teatr Żydowski im. Ester Rachel Kamińskiej cit., pp. 235-241.
250 I. Kaminska, My life cit., p. 248.
251 Najstarszy w świecie, a cura di Krystyna Nastulanka, «Polityka», 28 maggio 1966, […]. Anche Ruth Taru Kowalska, nelle sue denunce, sottolinea che Ida si lamentava spesso dell’impossibilità di andare in Unione Sovietica.
252 Cfr. documenti del Ministro alla Cultura Tadeusz Giliński, 237/XVIII/26 e 237/XVIII/193, Archiwum Akt Nowych, Varsavia.
253 Gran parte delle fonti in circolazione le accreditano la partecipazione al dramma di Aleksander Ford sull’Olocausto, Fiamme su Varsavia (1949), ma l’attrice stessa chiarì che si trattava di una leggenda: «Non ho recitato in quel film, ho solo diretto un piccolo frammento. È tutto e me ne rammarico. Ancora quindici anni fa avrei potuto recitare molti ruoli. Oggi queste possibilità si sono ridotte», Najstarszy w świecie cit.
254 Pożegnanie z Marią (Addio a Maria, 1966). Regia: Jerzy Antczak. Realizzazione televisiva: Henryk Drygalski. Adattamento: Irena Strzemińska, dai racconti di Tadeusz Borowski Addio a Maria e Da noi ad Auschwitz. Fotografia: Paweł Minkiewicz. Scenografia: Anna Jarnuszkiewicz. Musica: Eugeniusz Rudnik. Interpreti: Tadeusz Łomnicki (Tadeusz), Ewa Wiśniewska (Maria), Zbigniew Zapasiewicz (Tomasz), Marian Kociniak (Piotr), Jan Matyjaszkiewicz (Apoloniusz), Ida Kamińska (moglie del medico), Jan Świderski (dirigente), Barbara Sołtysik (la sposa), Wojciech Duryasz (lo sposo). Ida Kaminska interpreta il ruolo secondario ma commovente della moglie di un medico, che dapprima riesce a fuggire dal ghetto e poi sceglie di farvi ritorno per raggiungere la figlia, rimasta prigioniera. Durata: 68’.
255 Ján Kadár, «New York Herald Tribune», 23 gennaio 1966, <http://www.criterion.com/current/posts/139-the-shop-on-main-street-not-the-six-million-butthe-one>.
256 Ibid.
257 Ibid.
258 Stanisław (Szaja) Wygodzki (1907-1992): scrittore, poeta e traduttore di letteratura yiddish. Abbandonò il sionismo, abbracciato in gioventù su ispirazione del padre, per unirsi al movimento comunista. Trascorse la Seconda guerra mondiale in diversi campi di concentramento (tra cui Auschwitz e Dachau), nei quali perse anche una figlia. Tornò in Polonia nel 1947 e da quel momento la sua opera fu dominata dal tema dell’Olocausto e dal trauma dei sopravvissuti. Dopo la campagna antisemita del 1968 si trasferì in Israele, dove collaborò con la stampa in lingua ebraica e polacca concentrandosi sull’esperienza dei comunisti ebrei, dello stalinismo e dei fatti del 1968. Eugenia Prokop-Janiec, Stanisław Wygodzki, yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 10 ottobre 2016:
<http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Wygodzki_Stanis%C5%82aw>.
259 I. Kaminska, My life cit., pp. 262-263.
260 Ivi, p. 247.
261 Per una presentazione delle forme della neolingua nel 1968, manifestazione estrema del discorso propagandistico, cfr. Monika Woźniak, La lingua della propaganda ufficiale polacca nel 1968, in I linguaggi del Sessantotto. Atti del convegno multidisciplinare Libera Università degli Studi “San Pio V”, a cura di Matilde de Pasquale, Giovanni Dotoli, Mario Selvaggio, Editrice apes, Roma 2008, pp. 307-322.
262 La relazione si concludeva con l’ipotesi che le informazioni fornite da Ruth Taru Kowalska anche in quel turbolento colloquio potessero fare parte di un doppio gioco della donna (annotazione del […] giugno 1967 successiva all’incontro condotto da Bronisław Sanetra con “Helena” tenutosi il 31 maggio). Il rapporto successivo è datato 20 gennaio 1968 e si riferisce all’incontro avvenuto tra Sanetra e l’attrice il 19 gennaio, il primo da quello di maggio dell’anno precedente. La polizia tornò a contattare Taru Kowalska ipotizzando che la reazione fosse dovuta al fatto che una parte della sua famiglia abitava in Israele e che per questo motivo fosse «caduta preda dell’isteria del suo ambiente» e che dopo qualche tempo fosse possibile trovare un accordo. Sanetra però riferì che l’attrice non si esponeva a condannare il mancato rientro in Polonia e la richiesta di asilo politico negli Stati Uniti avanzata da Henryk Grynberg e che manifestava la propria solidarietà con i molti cittadini ebrei licenziati dalle loro posizioni, sostenendo che si trattava di persone che avevano sacrificato se stesse per la causa comunista. In conclusione Sanetra annotò: «in precedenza [Helena] aveva condannato la dir. del teatro Ida Kaminska e il marito per il loro sciovinismo ebraico; attualmente sta dalla loro parte. Non ha fornito altre informazioni degne di nota. A queste condizioni ritengo che mantenere ulteriori contatti con lei sia inutile. Sarebbe invece opportuno seguire il suo comportamento e porre sotto osservazione i suoi contatti al fine di trovare un’eventuale via d’accesso a persone legate direttamente al movimento sionista». ipn bu 001043/1599 Ruth Taru Kowalska, Instytut Pamięci Narodowej, Varsavia.
263 Lettera firmata del comitato organizzatore delle celebrazioni e indirizzata al direttore generale dello spatif Stanisław Siekierko, 2 maggio 1967, Cart. personale di Ida Kamińska, Instytut Teatralny im. Zbigniewa Raszewskiego, Varsavia.
264 I. Kaminska, My life cit., p. 255.
265 Con la formula “Marzo ’68 polacco” si fa riferimento a un insieme di eventi e dinamiche di difficile inquadramento perché tutt’oggi oggetto di dibattito e polemica tra gli storici. Per un approfondimento cfr. Jerzy Eisler, Polski rok 1968, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2006 e Dariusz Stola, Kampania antysyjoni-styczna w Polsce 1967—1968, Instytut Studiów Politycznych PAN, Warszawa 2000.
266 Secondo i dati del Ministero degli Interni, tra il 1967 e il 1971 abbandonarono la Polonia 13.333 cittadini ebrei insieme ai membri delle proprie famiglie: il 28 % di essi si stabilì in Israele, mentre i gruppi più numerosi si trasferirono in Danimarca e in Svezia. Oltre il 30 % degli emigranti possedeva un alto grado di istruzione. August Grabski, Andrzej Rykała, Żydzi w Polsce 1944-2010, in Aa. Vv., Atlas historii Żydów polskich, Demart, Warszawa 2010, p. 414.
267 A detta di Henryk Grynberg, che assistette a una rappresentazione nel 1993, sulle scene del Teatro Yiddish recitavano quasi solo attori non ebrei, che farfugliavano in uno yiddish a tal punto incomprensibile da convincerlo ad abbandonare la sala al primo intervallo. Chi scrive ha assistito di persona ad alcune produzioni, tra cui Ach! Odessa — Mama nel 2013, musical interpretato quasi interamente in polacco e ispirato alle avventure di Benya Krik (bandito nato dalla penna di Isaac Babel), che dispiegava una yiddishkheyt da cartolina e tradiva la povertà creativa e il livello dilettantistico dei suoi realizzatori. Szymon Szurmiej ha retto le fila del teatro per quarantaquattro anni e alla sua morte, nel luglio del 2014, la direzione è passata nelle mani della moglie Gołda Tencer. Nel 2015 si sono tenuti i festeggiamenti per il sessantesimo anniversario dalla nazionalizzazione del teatro con due spettacoli commissionati a giovani registe polacche, che hanno tentato di svecchiare l’immagine polverosa e amatoriale del teatro (che da tempo non è più tenuto in considerazione dalla critica), intrecciando i testi della tradizione con il trauma e la memoria dell’Olocausto (è il caso del Dibbuk diretto da Maja Kleczewska) o affrontando direttamente alcuni spinosi interrogativi sulla necessità o meno di un teatro yiddish al giorno d’oggi (Gli attori ebrei, una sorta di mockumentary diretto da Anna Smolar). È interessante inoltre annotare che la nazionalizzazione, che come si è visto era stata auspicata da Ida, viene tuttora interpretata come una condizione favorevole e decisiva per la sopravvivenza del teatro, nonostante dal primo gennaio 2006 esso abbia mutato profilo istituzionale, entrando nel registro delle istituzioni culturali sotto l’egida del Voivodato della Masovia, in comunione (anche dal punto di vista finanziario) con il Ministero della Cultura e del Patrimonio Nazionale. Questo mutamento ha fatto sì che dalla denominazione ufficiale del teatro scomparisse l’aggettivo “statale”. In quell’occasione Szurmiej aveva anche annunciato di volere cambiare il nome in Teatro Artistico Ebraico di Varsavia Ester Rokhl e Ida Kaminska, un chiaro rinvio anche all’eredità del vykt: tale proposito, però, non è mai stato realizzato. Il 9 giugno 2016 il teatro si è ritrovato senza sede perché la proprietà dell’edificio, che fino all’anno prima apparteneva all’Associazione socioculturale degli ebrei in Polonia, è passata a una società di investitori immobiliari.
268 Kwadrans z Idą Kamińską, intervista radiofonica a cura di Helena Cieślińska, 26 novembre 1966, […], cartella 1/1430 Televisione Polacca, rassegna stampa.
269 Ibid.
270 Intervista dell’autrice a Henryk Grynberg, cit.
271 Per Ida la nostalgia era un imprescindibile «ponte tra noi e il passato» (Jakub Rotbaum, czyli dwa teatry. Cz. II Teatr polski, intervista a cura di Anna Hannowa, «Teatr», 49, 9, 1994, p. 41), mentre sembrava interessare meno Jakub Rotbaum. Nelle interviste il regista tendeva a esprimersi con il linguaggio dell’epoca a favore di un teatro popolare ed educativo, che stimolasse l’ottimismo, ma in occasione di un colloquio con Alina Sachabińska, alla domanda se la gente avesse bisogno di un teatro didattico, rispose che compito del teatro era risvegliare nello spettatore qualcosa di cui, inconsapevolmente, aveva nostalgia. Oggi, una posizione decisamente contraria alla rievocazione nostalgica (nella sua versione più deteriore, ben lontana dalla proposta poetica di Kaminska) è espressa dal regista e attore Rafael Goldwaser, fondatore del teatro yiddish Der LufTeater di Strasburgo: Rafael Goldwaser, Nostalgia w teatrze żydowskim to droga donikąd, «Cwiszn. Żydowski kwartalnik o literaturze i sztuce», 4, 2010, pp. 34-36.
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