Il mio lavoro sul Re Lear di Shakespeare
p. 243-288
Texte intégral
1Interpretare Re Lear è stato il mio più grande sogno fin da quando ero ragazzo. Allora studiavo al liceo di Riga, dove si prestava molta attenzione alla letteratura universale. L’insegnante di lettere, durante le lezioni, ci faceva leggere i classici ad alta voce. Di solito a me assegnava le parti in versi. Leggevamo sempre opere teatrali interpretandone i diversi ruoli. Quando fu il momento del Re Lear di Shakespeare, il professore mi assegnò la parte di Lear. Ricordo molto bene l’impressione che produsse in me l’ultima scena, mi toccò più di tutte le altre della tragedia. Ciò deve essersi riflesso nella mia lettura, perché l’insegnante si commosse. Quel giorno mi ripromisi che se in futuro fossi diventato attore, avrei dovuto interpretare Re Lear.
2Allora già sognavo di diventare attore, ma nascondevo questo sogno nel profondo. Pensavo di non essere abbastanza dotato. Inoltre i miei genitori l’avrebbero presa male: la mia famiglia apparteneva a un ambiente in cui la professione dell’attore era ritenuta qualcosa di cui vergognarsi. Se nella capitale una piccola parte degli attori entrava a far parte dell’alta società, in provincia e soprattutto negli ambienti ebraici gli attori incontravano una certa diffidenza e non erano mai accettati. Questo mi costrinse a nascondere i miei sogni, soprattutto perché ero convinto che non si sarebbero mai realizzati. Cominciai a prepararmi seriamente a una professione completamente diversa. Allora mi interessava molto l’avvocatura politica, mi immaginavo come un legale che con sforzi eroici difendeva qualcuno, naturalmente un rivoluzionario, per il quale avrei ottenuto la liberazione. E mentre mi preparavo alla carriera di avvocato decisi di dedicarmi alla dizione. All’epoca parlavo male il russo. Nella mia ingenuità mi dicevo che essere un avvocato significava prima di tutto essere un ottimo oratore.
3A quel tempo avevo un amico che mi sosteneva, era Nimzovič, il padre del rinomato scacchista. Anche lui era un grande scacchista e un poeta, anche se si occupava di affari forestali. Aveva sessant’anni, io ne avevo diciassette, ma ci intendevamo molto bene. La mia carriera giuridica lo interessava quanto a me gli affari forestali. Però prestava molta attenzione al mio sogno di diventare attore, e io al suo talento poetico. Mi consigliò di prendere lezioni di tecnica attoriale e mi fece conoscere l’attore Veližev, che in seguito avrebbe lavorato con Mejerchol´d. Veližev mi ha aiutato molto nell’impostazione della voce e nella dizione, sentenziò però che non sarei diventato attore perché non avevo le caratteristiche necessarie: in verità sperava che potessi fare qualcos’altro di utile in teatro, poiché secondo lui comprendevo l’arte. Accettai di buon grado il suo giudizio, ma la professione dell’attore rimase il mio sogno.
4È passato molto tempo da allora. La vita mi allontanò dai sogni giovanili. Venni ammesso all’università, alla facoltà di giurisprudenza, e mi dedicai completamente alla preparazione per la futura attività di avvocato. Andavo a teatro di rado. Così trascorsero dodici anni. Poi ci fu la Rivoluzione. Dopo la Rivoluzione venni ammesso alla scuola teatrale. Di solito interpretavo ruoli da commedia. In quasi tutti i ruoli comici afferravo però una sfumatura tragica; ciò era così evidente che spesso i recensori mi definivano un attore tragicomico. Nel 1930 ho avuto la fortuna di interpretare il ruolo del Sordo nel dramma di Bergel´son. Nell’interpretare questo ruolo vennero improvvisamente fuori alcune mie capacità tragiche che fino a quel momento erano rimaste nell’ombra per me e per i miei colleghi. Evidentemente ero molto convincente. In ogni caso, quei miei colleghi, della cui sensibilità mi fidavo molto, iniziarono a consigliarmi di pensare al Lear di Shakespeare.
5Questo suggerimento mi colpì perché coincideva con il mio sogno giovanile ormai quasi dimenticato. Ero ancora molto lontano dal pensiero di un lavoro serio sul Re Lear. La mancanza di fiducia nelle mie forze era troppo forte. Nel 1932 mi accaddero molte disgrazie, in un periodo molto breve persi alcune persone che mi erano molto care. Queste perdite mi sconvolsero a tal punto da pensare di abbandonare il teatro. Entrare in scena e interpretare i vecchi ruoli mi era diventato insopportabile. In questi ruoli c’erano episodi comici, che facevano ridere il pubblico. Queste risate mi erano estranee, invidiavo il fatto che le persone potessero ridere, per me non era più possibile. Decisi in effetti di abbandonare il teatro, ma per risvegliare in me l’interesse per la vita e per il lavoro, i miei colleghi iniziarono a dirmi sempre più spesso: «Quando interpreterai Lear…».
6Dentro di me era ancora viva la prima impressione scolastica della tragedia, ricordavo come l’insegnante avesse pianto mentre leggevo l’ultimo atto. Da allora non ero più tornato sul testo. I ricordi ne avevano conservato in me soltanto il lato pessimistico. Ricordavo che accade qualcosa di catastrofico, che c’è una morte, e ciò corrispondeva come nient’altro al mio umore. Mi resi conto che soltanto immergendomi completamente nel lavoro avrei potuto liberarmi dal peso del dolore. Iniziai quindi a riflettere seriamente su come mettere in scena Re Lear nel nostro teatro: «O la va o la spacca».
7Oltre alla passione giovanile per Lear c’era anche il fatto che il Goset era un teatro yiddish. Per gli attori di quel teatro era più facile interpretare le pièce che hanno un “colore nazionale”. Nel Re Lear questo colore doveva essere scoperto perché, secondo me, questa tragedia di Shakespeare ricorda sotto molti aspetti le vicende bibliche. Avrei persino detto che si trattava di una storia scritta in forma di domande e risposte sulla divisione dello Stato.
8Nei primi anni della mia vita avevo frequentato una scuola ebraica dove ho dovuto studiare le scienze teologiche (la Bibbia, il Nuovo Testamento, il Talmud, i commenti al Talmud). Inoltre, la vita quotidiana nella casa dei miei genitori era patriarcale, totalmente permeata della fede religiosa di mio padre. Tutto ciò non poteva non avere un’influenza su di me. La poesia di questi libri antichi entrò nella mia coscienza e la tragedia del Re Lear era in qualche modo simile a quella poesia antica. Finalmente decisi. Quando iniziai a impegnarmi nell’allestimento della tragedia, però, comparvero alcuni enormi ostacoli.
9Per prima cosa, quando si discusse dell’opportunità di mettere in scena Re Lear, tutta la compagnia del teatro era contraria. Zuskin, uno dei miei compagni più vicini, l’attore più dotato del nostro teatro, temeva questo lavoro, sosteneva che non ce l’avremmo fatta. E riteneva che il teatro non ne avesse bisogno. Mi trovai solo e dovetti superare con tenacia la sfiducia degli altri nei confronti dell’opera. Il secondo ostacolo comparve durante il processo di preparazione della tragedia. Il regista Sergej Ernestovič Radlov aveva già una grande esperienza di lavoro su Shakespeare. Interiormente era già pronto per il Re Lear e pensava di preparare tutto lo spettacolo in venti prove. Probabilmente non immaginava le difficoltà che sarebbero nate durante il lavoro, non immaginava quanto sarebbe stato difficile lavorare sul Lear con una compagnia che non si era mai avvicinata a Shakespeare, quanto sarebbe stato complesso tradurre Shakespeare in lingua yiddish.
10Il pericolo principale però non consisteva nel fatto che all’inizio del lavoro Radlov avesse sottovalutato queste difficoltà e neanche nel fatto che fin dall’inizio non affrontasse adeguatamente questo impegno. Nel processo di lavoro la serietà del compito si rivelò da sola. Il maggiore pericolo consisteva nel fatto che, sul progetto di Re Lear, Radlov e io avevamo posizioni diverse. Radlov aveva già lavorato su Shakespeare, aveva già maturato un certo atteggiamento e un proprio punto di vista sulla sua arte. Devo ammettere che nella comprensione di Shakespeare come personalità che ha una visione e percezione della vita, Radlov mi era superiore. Quando però cercava di realizzare il personaggio di Lear non riusciva a farlo in modo abbastanza profondo. Il suo Lear non era vivo.
11All’inizio del lavoro io invece non avevo una comprensione chiara di Shakespeare nel complesso, però sentivo il personaggio di Lear in modo molto concreto.
12Prima di decidermi definitivamente sulla messa in scena del Lear al nostro teatro, lessi molti libri e articoli su Shakespeare e soprattutto su Re Lear. Avevo studiato attentamente quasi tutte le traduzioni di Shakespeare in russo e soprattutto quelle del Re Lear. Lessi anche le traduzioni della tragedia in tedesco.
In quel momento (era il 1934) c’era una passione diffusa per Shakespeare. Tairov stava preparando la regia delle Notti egiziane1 al Teatro da Camera, Kaverin stava provando Il mercante di Venezia al Teatro Nuovo, il Teatro della Rivoluzione metteva in scena Romeo e Giulietta e al Teatro Vachtangov c’era appena stata la prima di Amleto. Era un periodo in cui si dibatteva animatamente su come mettere in scena i classici e soprattutto Shakespeare. La regia di Amleto al Teatro Vachtangov aveva dimostrato che non è possibile avere un atteggiamento superficiale2 nei confronti di Shakespeare, che per portare in scena le sue opere è necessario studiare molto e considerarne tutti gli aspetti, l’epoca e l’opera, la filosofia e lo stile.
13La questione delle regie di Shakespeare era così attuale che l’Accademia Comunista aveva tenuto due riunioni speciali durante le quali i registi degli spettacoli e gli interpreti dei ruoli principali avevano esposto le loro riflessioni su Shakespeare e raccontato i loro piani di regia per i prossimi lavori. A una di queste riunioni dovetti prendere la parola anche io. In quel contesto esposi per la prima volta la mia opinione sulla tragedia. Il mio discorso si basava soltanto sui materiali studiati, non c’era ancora la traduzione in yiddish della tragedia e mancava il piano di regia. Il mio discorso fu accettato dall’uditorio con grande fiducia, ma ciò che dissi era molto lontano dal pensiero di Radlov.
14Dopo il mio discorso ricevetti una lettera da Radlov in cui dichiarava di non voler più lavorare con me. Scriveva: «Vedo che dissentiamo molto in profondità e che tu sei autonomo, dunque io probabilmente non dovrò metterci mano». Negli stessi giorni sulla stampa era comparso il primo bozzetto del trucco di Re Lear proposto dallo scenografo A.G. Tyšler. La mia concezione del personaggio non coincideva in alcun modo con la barba tradizionale e praticamente obbligatoria di Lear. Inoltre la barba nasconde metà del viso dell’attore e non vi aggiunge nulla. Penso che la barba ostacoli l’interpretazione. Quando invece Radlov vide il disegno di Tyšler si preoccupò molto. Non lo condivideva. Prima di allora Lear era sempre stato interpretato con la barba. La lettera di Radlov era molto aspra. Io gli risposi che non volevo interrompere la collaborazione.
15Mi permetto di parlare oggi di queste cose perché la nostra discussione era nata non su base opportunistica, si trattava di una discussione creativa e di principio. Decidemmo che le riflessioni teoriche non ci avrebbero portati da nessuna parte, come regista mi assunsi l’impegno di dividere in sezioni i primi atti della tragedia e di mostrargli in scena ciò che immaginavo. Quando arrivò, gli mostrai quanto avevo fatto (non era ancora la struttura definitiva dello spettacolo) e fu d’accordo. Forse avevamo trovato una lingua comune. Superammo il conflitto, ci trovammo d’accordo e il lavoro da quel momento procedette bene.
16Nel lavoro sul personaggio di Lear, in particolare nel primo periodo, dedicai molto tempo a uno studio dettagliato delle fonti. Per me era fondamentale esprimere in modo molto concreto l’idea di base della tragedia. Da noi si parla molto del seme del personaggio, di continuità dell’azione, di processi psichici interiori che portano l’attore a una certa forma di espressione e spesso si dimentica che tutto ciò deve sottostare al rigore della concezione generale; il personaggio non è lo scopo ma il mezzo per confermare l’idea della messinscena e del lavoro dell’attore. Perché l’attore non è soltanto un interprete, dietro l’attore-interprete c’è l’attore-autore, l’attore che pensa.
17Potrebbe sembrare esagerato che lo studio su Re Lear e il lavoro analitico e sintetico mi avessero richiesto più di un anno. Non fu soltanto un lavoro di tipo razionale. Insieme al processo mentale procedeva parallelamente un altro lavoro, l’elaborazione delle immagini sceniche di ciò che stavo leggendo. Per questo erano necessari i testi, ed è stato un grosso ostacolo non conoscere l’inglese. Ciò mi impediva di studiare Lear nell’originale. D’altra parte studiare l’inglese per l’occasione non era possibile, avrebbe richiesto troppo tempo e una conoscenza superficiale non mi avrebbe permesso di cogliere l’immagine autentica dell’opera.
18All’inizio dovetti leggere la tragedia nella traduzione di Družinin. Di questa traduzione mi colpì una frase. La feci notare al regista [Nikolaj] Volkonskij, che inizialmente era stato invitato a dirigere il Re Lear ma che per una serie di motivi non lo realizzò. Questa frase si trova all’inizio della tragedia. Lear annuncia di avere deciso di mettere in atto le proprie «decisioni più segrete» [Meantime, we shall express our darker purpose],3 il suo antico proposito, dividere lo Stato. La parola «decisioni» mi costrinse a supporre che Lear avesse pensato non soltanto alla spartizione dello Stato ma anche a qualche esperimento. La successiva traduzione che mi fu possibile leggere era quella di Kuzmin, più precisa e attenta, forse persino migliore dal punto di vista letterario, secondo me però non compatibile con il contenuto filosofico della tragedia. Kuzmin traduce questa frase in modo molto più semplice: «Abbiamo intenzione di fare ciò che abbiamo programmato da molto tempo» . La parola «programmato» mi scoraggiò. Essa non confermava la mia convinzione in merito all’ “esperimento “di Lear e neanche il fatto che Lear in qualche modo avesse previsto i risultati di tale esperimento.
19In lingua russa esiste un’altra traduzione molto vecchia e prosaica di Ketčer. Ketčer non aveva confidenza con la poesia. Per questo fece una traduzione molto vicina all’originale. Anche la traduzione di Ketčer permetteva di supporre che la ripartizione dello Stato non fosse soltanto un capriccio del re ma l’inizio di un suo grande piano. Ciò era confermato anche dalla scena della tempesta, in cui il re finge di impazzire. Leggendo attentamente il testo di questa scena è possibile scoprirvi che i momenti di follia non sono molti, anzi, il re fa riflessioni sagge, lucide e ragionevoli. Le sofferenze avevano costretto Lear a esprimere una serie di pensieri che potevano sembrare folli se il re si fosse trovato in circostanze normali. Se invece si suppone che sia soltanto stato un capriccio a costringere Lear a svegliarsi e rivalutare certi valori, la tragedia non ha abbastanza forza. La questione consisteva probabilmente in qualcosa di più logico e profondo.
20La quarta traduzione che ho studiato era di Sokolovskij, una edizione annotata precedente alla Rivoluzione. La stessa frase in Sokolovskij suona così: «Abbiamo deciso di realizzare la nostra antica premeditazione». Non «decisioni» ma «premeditazione»! Gli specialisti affermano che in inglese c’è una sfumatura tra idea e premeditazione e che in Shakespeare è usato il termine «premeditazione», cui si aggiunge «oscura». Questo confermò la mia opinione secondo cui Lear, realizzando la propria idea di dividere lo Stato, mette in atto un piano pensato in precedenza. Prendere la sua idea come il capriccio di un vecchio folle che ha nostalgia della pace sarebbe stata una forzatura artificiosa.
21Mi era difficile immaginare che Lear fosse così cieco da non vedere ciò che il pubblico e il lettore avrebbero visto dal primo minuto. Appena Goneril o Regan cominciano a parlare è chiaro che sono false e che la più onesta tra le sorelle è Cordelia. Ritengo che Lear sapesse benissimo chi fossero Goneril e Regan e quanto Cordelia fosse superiore rispetto a loro e agisse in base a valori più elevati. Ma per Lear l’amore e l’odio non significano assolutamente nulla. Lo faceva arrabbiare il fatto che soltanto Cordelia, la più giovane e inesperta, avesse il coraggio di contrastarlo, lui che aveva il potere assoluto e, credeva, la saggezza assoluta. Decideva di piegare il suo carattere, di dimostrarle che la sua tenacia era dettata da un impeto giovanile e che in realtà lei non sapeva nulla.
22Il suo piano non è compreso da Kent e Gloucester ed è deriso dal suo buffone, ma pensare che un re di ottant’anni fosse impazzito soltanto a causa della vecchiaia e che questo fosse il movente del suo gesto insensato non è accettabile, è contraddetto da tutto ciò che segue nella tragedia. Il passato di Lear non dà alcuna possibilità di pensare che sia capace di azioni insensate e assurde. In precedenza probabilmente non aveva commesso alcuna azione di questo tipo, che altrimenti lo avrebbe portato a una diversa catastrofe.
23Con queste premesse il punto di partenza della mia concezione della tragedia consisteva nel fatto che il re aveva convocato le proprie figlie e si era presentato loro con una intenzione pensata in precedenza. La facilità con cui rifiuta il suo grande potere mi aveva portato a concludere che per Lear molti valori comuni hanno perduto ogni significato, mentre ha acquisito una nuova comprensione filosofica della vita.
24Il potere è niente in confronto a ciò che Lear sa. Per lui l’uomo ha ancora meno valore. La concezione feudale dell’uomo incarnata da Lear consiste in questo. Dopo essere stato sul trono per molti anni inizia a credere di essere un eletto, è convinto della propria saggezza, pensa di essere superiore a tutto ciò che conosce e decide che può mettere se stesso contro il mondo intero, con uno scherzo: «E allora, figlie mie, quale di voi potrò dire che mi ama di più – non solo per natura, ma per merito? Con lei sarò più generoso». Il fatto che avesse deciso di pagare per una lusinga dimostra che non le considera parole d’amore. Le proprietà e le ricchezze che ha deciso di dividere non valgono più niente ai suoi occhi. Divide il regno, lascia la corona e il potere perché a ottant’anni ha raggiunto il limite di una saggezza molto particolare, strettamente feudale e idealistica. Ciò che considerava avere grande valore, il potere e le proprietà, ai suoi occhi ha perso il proprio fascino. Io sono il centro del mondo. Non vi è niente al di sopra di me. Che cosa sono per me il potere, la forza? Che cosa sono per me la verità o la falsità? Che cos’è per me l’ipocrisia di Goneril e Regan, che cos’è l’amore pudico ma autentico di Cordelia? Tutto ciò non ha alcun valore, tutto è inutile, la verità è soltanto nella mia saggezza, soltanto la mia persona ha valore!
25Il suo nichilismo rinnega tutto tranne la propria individualità. Lear è convinto che la leva di tutti i processi vitali sia dentro di lui, nei meandri del suo “io”. In un certo modo la filosofia di Lear è vicina a quella tolstojana: come Tolstoj, Lear trova il significato dell’esistenza soltanto all’interno dell’uomo, come Tolstoj trova veri valori soltanto nel mondo interiore. Ma l’aspirazione tolstojana all’autoperfezionamento gli è estranea, così come l’umiltà e la sua invocazione di amore per il prossimo. Re Lear non avrebbe mai offerto la guancia sinistra se lo avessero colpito sulla destra. Il suo “io” è tipicamente feudale. È una forma di saggezza, ma non è eroica, è più ecclesiastica e biblica: «Tutto è vanità, esisto soltanto io». È egocentrismo trasformato in principio.
26Lear ama Cordelia a modo suo, ma non vuole prendere in considerazione la sua libertà, i suoi desideri, non vuole accettare il suo diritto a pensare e sognare. La contrapposizione al suo potere lo indigna. Pur amandola, la allontana.
27Se si parte da questo concetto e se ne ricava una definizione sintetica si potrebbe dire che si tratta di una tragedia della conoscenza, di una tragedia che descrive la bancarotta della saggezza di Lear. Bisogna passare attraverso una tempesta, attraverso dure prove interiori per tornare alla conoscenza delle basi della natura oggettiva. La tragedia di Re Lear si presenta come una tragedia di un sapere feudale che sta scomparendo insieme alla società feudale.
28La mia comprensione della tragedia era lontana dalla tradizione e non corrispondeva in alcun modo alle recenti interpretazioni. Innumerevoli interpreti tra cui Georg Brandes4 hanno trasformato quest’opera nella tragedia dell’ingratitudine da parte di una figlia, quindi in una tragedia famigliare, oppure in una tragedia di Stato, come se volessero dire: ecco ciò che capita con i re quando assumono un atteggiamento privo di saggezza nei confronti del potere e dello Stato.
29Una tale discussione politico-didattica della questione probabilmente non era estranea neanche allo stesso Shakespeare che, come è noto, ha preso in prestito il soggetto del Re Lear dal dramma Gorboduc sulla divisione del regno, scritta come una predica al re inglese. Ma sarebbe ingenuo pensare che questo fosse l’unico scopo sostanziale della tragedia poiché a ogni passo si presenta il suo grande contenuto filosofico, che va molto oltre rispetto ai temi esposti in Gorboduc. Ciò è confermato soprattutto dal terzo atto, dove si sente che Lear inizia a guardare le cose in modo completamente nuovo, a percepire diversamente le persone e a provare compassione. Prova compassione per coloro che sono stati feriti dal destino, giunge alla conclusione che ci sono valori che esistono indipendentemente dal suo mondo interiore.
30Parlando con Volkonskij, avevamo notato l’analogia (forse anche solo esteriore) tra l’abbandono del potere e della ricchezza da parte di Lear e l’abbandono di Jasnaja Poljana da parte di Tolstoj. Tolstoj riteneva che Shakespeare fosse privo di talento, che in Re Lear ci fossero passioni inventate e artificiali, che il rifiuto della corona e la divisione del regno da parte di Lear non avessero alcun fondamento; lui stesso però, arrivato all’età di Lear, ha lasciato la casa, la ricchezza e la vita agiata per salire su un vagone di terza classe e rompere per sempre con il proprio passato.
31La vita si è beffata della riflessione tolstojana su Shakespeare e con questo esempio Tolstoj ha dimostrato che l’uomo, giunto a un certo stadio del proprio pensiero, della propria conoscenza e saggezza, può rinunciare al proprio passato, rompere e dimenticarlo.
32Shakespeare è stato spesso percepito in modo emotivo. Anche il grande Flaubert non fa eccezione, nelle sue lettere ci sono alcune righe dedicate a Lear. Flaubert scrive della grande impressione che gli fece l’imponente scena della tempesta nella pianura desolata in cui avviene l’incontro tra Lear, Edgar, Kent e il Fool. Flaubert immagina questa scena come un delirio corale travolgente, ma non ne coglie l’essenza filosofica. In questa scena Shakespeare allude chiaramente al fatto che dalla bocca di Lear e per via degli eventi si sta esprimendo una nuova visione del mondo, da cui Lear è sconvolto.
33Il concetto di base del futuro spettacolo mi si presentava in questo modo: dopo essersi saziato della vita e del potere, il re ha pensato di lanciare una sfida al mondo intero, a un mondo che secondo lui è miserabile rispetto alla propria personalità. Vede concentrati in sé la volontà e il potere regale, ma anche una grande saggezza nelle questioni della vita. Dalle vette di questa sua saggezza canuta gli ideali del bene e del male appaiono miserabili. Non è possibile supporre che non conosca il reale valore di Goneril e Regan. Ama molto Cordelia, a modo suo. La ragazza è simile a lui, come è evidente anche nel suo modo di esprimersi: «Parla tu, Goneril, tu che sei la primogenita»,5 ecco tutto ciò che ha da dire a Goneril. «E adesso, che cosa dice la mia seconda figlia, la mia bella Regan, moglie di Cornvaglia?»,6 ecco tutto il suo discorso a Regan. Mentre per Cordelia c’è un intero monologo: «E adesso tu, gioia mia, tu che sei l’ultima ma non certo la meno importante, tu, giovane amore conteso tra i vigneti di Francia e i pascoli della Borgogna, che cosa dici, tu? Ho per te un terzo del mio regno – e più ricco degli altri. Che cosa dici?».7
34Da questa diversità dei discorsi si può dedurre che fa una distinzione molto precisa tra Goneril e Regan da una parte e Cordelia dall’altra. Pertanto sarebbe scorretto supporre che per lui tutte le figlie fossero uguali dall’inizio, che non avesse un atteggiamento particolare nei confronti di ciascuna di loro, che per lui si mescolassero in una immagine unica e indistinta. Ma alla luce della sua saggezza, l’amore e l’odio non gli sembrano degni di attenzione: «Tutto è vanità. Vanità di ogni genere». Probabilmente gli sembra degno di attenzione soltanto colui che siede sul trono, che ha grandissima esperienza, potere e saggezza illimitati.
35Se si osserva la posizione di Lear all’inizio della tragedia sotto questa luce, si comprende perché Cordelia lo faccia infuriare. Ciò che lo fa esplodere è il fatto che lei, così giovane e priva di esperienza, abbia il coraggio di affermare che la verità ha più valore dell’adulazione, che contrapponga la propria volontà a quella di Lear. Ha voluto dimostrare a Lear la sincerità dei sentimenti, fargli vedere che davanti a questo sentimento impallidiscono tutti i valori di questo mondo, o meglio quelli terreni, il potere, le terre. Ha avuto il coraggio di affermare che esistono altri valori al mondo oltre a quelli conosciuti da Lear. La discussione tra il padre e la figlia va ben oltre i limiti dei rapporti famigliari, nel comportamento di Cordelia Lear vede il tentativo di contestare la propria saggezza e decide di darle una lezione. La lezione deve essere molto dura. Decide di cacciarla. Probabilmente però ha previsto che il Re di Francia la prenderà in moglie e che l’altro pretendente, il Conte di Borgogna, sarà respinto. A Lear questo fa piacere e per questo parla in modo apparentemente severo ma in realtà bonario con il Re di Francia, mentre con il borgognone è in apparenza bonario ma lo tratta con disprezzo.
36Questo è il punto d’inizio del conflitto tragico. Immediatamente tutto si mette su binari paralleli. Gli eventi che hanno luogo nella famiglia del re si intrecciano fin dall’inizio con i conflitti tra diverse visioni del mondo.
37La tragedia di Lear non consiste affatto nelle sofferenze provocategli da Goneril e da Regan quando lo cacciano. Lo fanno soffrire, ma questo dolore non costituisce il motivo della tragedia. Il tragico compare quando dopo tutte le sofferenze Lear finalmente comprende di essersi sbagliato. Quando si convince della giusta e coraggiosa visione del mondo di Cordelia, l’ha già persa. Alla fine del testo, dopo la tempesta interiore e il crollo di tutto il proprio sistema filosofico, arriva a una piccola isola di salvezza: «Ho trovato l’uomo, l’uomo esiste».
38Per questo, secondo me, la tragedia non inizia quando Lear è cacciato da Goneril. La tragedia inizia quando Lear allontana Cordelia, ovvero nel primo atto. Che cosa accade dopo? Goneril non è neanche molto stupita quando inizia a dargli consigli: «Siete vecchio, da riverire, e allora siate saggio. Avete un seguito di cento cavalieri e servitori – gente debosciata. Violenta, senza regola. Non è più una corte, questa. Guardate come hanno ridotto il palazzo. Una taverna, un bordello».8 Le risponde scherzando: «Come si chiama questa bella signora?» .9 Poi, verso la fine, Goneril lentamente e con metodo lo porta a infuriarsi e a maledirla. Solo per un istante nella voce di Lear si percepisce il dolore. Goneril dovrebbe capire che l’ingratitudine dei figli è più amara del veleno.
39Ecco poi il suo incontro con la seconda figlia, Regan. Si avvicina a Regan con poca fiducia, come se presentisse ciò che può accadere e le lancia una sfida: «Tua sorella è un diavolo, Regan»,10 e comprende subito che anche Regan non può rispondergli diversamente. Con lei però parla già come con un essere la cui natura gli è nota. Finge, fa il furbo, da un lato la accarezza, dall’altro la colpisce.
40Proprio ora, per la prima volta, gli viene in mente: «Se alla natura non concedi qualcosa che ecceda il suo bisogno naturale, l’uomo si ridurrà come una bestia».11 Lo dice di se stesso. Poi, nella scena della tempesta, Lear cerca con grande tormento di comprendere la vera natura dell’uomo. Da quel momento, quando incontra Edgar che si finge folle, nell’animo di Lear si scatena la tempesta che fa crollare tutte le sue vecchie idee sull’uomo. Non è soltanto una tempesta distruttiva, è anche il caos da cui nascono nuove comprensioni e nuove idee sulla vita. In questo momento l’intensità della sua vita spirituale è tale che l’attore ha tutti i diritti di interpretarlo come una crisi di follia. La tempesta che si scatena è una dolorosa conquista delle nuove idee sull’essere umano. Tutto qui. Parafrasando il proverbio «Non ci sarebbe stata fortuna se non l’avesse aiutata la disgrazia», direi: senza questa follia non ci sarebbe stata l’autentica saggezza di Lear nel finale della tragedia.
41Definisce Edgar come un saggio ateniese. Di lui dice: «È questo, un uomo? Ma guardatelo bene. Non dipendi dal baco per la seta, tu, non dipendi da qualche bestia per la pelliccia, dalla pecora per la lana. Noi siamo complicati. Tu sei la cosa in sé. Eccolo l’uomo allo stato di natura».12 Ma che cos’è l’uomo? «È questa povera bestia biforcuta, nuda».13 In questo modo, in questa scena, nel momento culminante della tragedia, giunge alla completa dissacrazione di se stesso e alla percezione della natura. Da qui, dal crollo della sua saggezza tronfia e assoluta, unica e indiscutibile, è facile giungere al riconoscimento della giustizia, del valore e della bellezza spirituale di Cordelia. Ecco allora che Cordelia gli si rivela come una persona meravigliosa, una persona vera. Lear però ha acquisito questa saggezza, questa idea del valore dell’uomo troppo tardi. La lezione filosofica ha un prezzo molto alto, che ha dovuto pagare con il tesoro che ha appena acquisito, ovvero Cordelia. Perciò si può dire che la tragedia di Lear consiste nella bancarotta della sua ideologia precedente, falsa e feudale, e nella acquisizione di una nuova ideologia più progressista e giusta. Penso che questo fosse l’unico modo possibile di leggere la tragedia per farla risuonare in modo contemporaneo.
42Tre registi furono in predicato per mettere in scena Re Lear nel nostro teatro: il primo è stato Volkonskij. Cominciò il lavoro con grande entusiasmo. Nella sua concezione c’erano molte cose interessanti, per primo mi ha spinto verso l’idea che quando Lear divide il proprio regno probabilmente sta sperimentando, perché è impossibile accettare l’idea che un re impazzito commetta questa assurdità e che a causa di questa assurdità poi soffra enormemente. Questa ipotesi banalizzerebbe l’opera. Volkonskij è stato il primo a indicare l’interessante parallelo tra il destino di Lear e quello di Tolstoj, ma non ha saputo formulare una concezione filosofica di tutta la tragedia. Si è concentrato sui motivi secondari dell’opera, soprattutto mettendo l’accento sugli elementi del linguaggio di cui essa è molto ricca.
43Volkonskij intendeva il Rinascimento in modo semplicistico e pensava che i tempi dell’azione di Shakespeare fossero storicamente lontani, voleva presentare la tempesta come un carosello di dèi. Era convinto di avere il diritto di farlo perché Lear, appellandosi alla giustizia suprema, si rivolge sempre agli dèi e alle dee, ovvero si esprime in modo pagano. L’idea di Volkonskij si allontanava dall’essenza filosofica della tragedia con questa valorizzazione dello sfondo pagano, insignificante dal mio punto di vista. Ecco perché il lavoro di Volkonskij si è fermato all’assegnazione dei ruoli e ad alcune discussioni con il collettivo e non è andato avanti.
44Il secondo regista è stato Erwin Piscator. È interessante notare che per lui il problema fondamentale fosse che il Re Lear di Shakespeare veniva messo in scena da un teatro ebraico. Per questo riteneva che nella tragedia fosse necessario inserire alcune correzioni. Secondo lui, l’azione doveva essere trasferita in Palestina, ai tempi della Bibbia. Ciò ovviamente comportava una tale violenza al testo e all’autore che continuare a discutere sullo spettacolo non aveva alcun senso.
45All’epoca muovevo i primi passi nello studio di Shakespeare, mentre Volkonskij e Piscator avevano già una grande esperienza registica e teatrale. Ho assunto una posizione contraria rispetto a tali distorsioni non soltanto come direttore artistico del teatro, ma anche in qualità di futuro interprete del ruolo di Lear.
46Radlov era molto diverso rispetto a Volkonskij e Piscator. Per Radlov il tempo delle interpretazioni di Shakespeare era già finito. Aveva messo in scena Otello tre volte14 e soltanto la terza versione della sua regia poteva essere considerata realistica. Le sue prime due versioni mostravano ancora chiare tracce di errori formali.
47Quando iniziò a lavorare al nostro teatro, Radlov dichiarò di avere con Shakespeare un rapporto simile a quello che si ha con uno spartito. Il suo unico compito era dirigerlo correttamente. Nella sua concezione Shakespeare era qualcosa di oggettivo la cui natura doveva essere studiata e trasmessa correttamente. Questo suo atteggiamento semplificava il compito e permetteva una collaborazione.
48Durante il lavoro ebbi però la sensazione che Radlov scivolasse sulla superficie di Shakespeare senza entrare con determinazione nella profondità della sua visione. Mi consigliava spesso di non filosofeggiare troppo. Secondo lui Shakespeare era un mare la cui autentica profondità può essere raggiunta soltanto quando ci si immerge cercando di non atteggiarsi da esperti. Questo è vero in generale, ma per l’attore può ridursi a una giustificazione per considerare Shakespeare una calamità naturale. Un atteggiamento del genere nei confronti del lavoro dell’attore per me è sempre stato inaccettabile. I personaggi creati sia da alcuni attori della scena sovietica sia della scena russa del passato mi ricordavano quei mostri che hanno tutti i sintomi della vita, cuore e sangue caldo, ma non la testa. Per pochi attori il pensiero significa dignità.
49Tutto ciò, allora, accadeva ai registi che avevano fatto del pensiero teatrale e del pensiero creativo il loro monopolio. Da tempo immemorabile gli attori si sono ridotti al rango di “quelli che recitano”. Ciò non vuol dire che non siano stati vettori e comunicatori di grandi idee, ma che in loro si apprezzava soprattutto il temperamento, non l’espressione di un pensiero profondo e originale.
50Nella mia visione, invece, il vero compito di ogni attore è arrivare al contatto e all’armonia tra pensiero e sentimento. Questo non riguarda soltanto l’attore ma ogni lavoro artistico. In letteratura questo principio è diventato una legge. Puškin può essere compreso soltanto come una scintilla che appare perché la “punta” della sua forchetta (mi rendo conto che questa immagine è rozza) trapassa la testa e il cuore. Tali esigenze sono sempre state poco considerate nel caso degli attori.
51In questo senso ricordo una recensione di Litovskij all’Otello del Malyj. Questo critico ha scritto, tra le altre cose, che l’autore del Re Lear e anche del personaggio di Lear fosse Radlov, mentre Michoels era soltanto «un geniale interprete che era riuscito ad arricchire l’dea di base di Radlov con toni ober e unter».15
52Questa citazione ribadisce l’idea di un attore che sia soltanto interprete. Ho già scritto che durante il lavoro con Radlov abbiamo avuto molte accese discussioni, a volte sfociate in aperti conflitti, e Radlov dichiarava spesso per iscritto che rinunciava a continuare il lavoro. Lo ricordo non per sminuire il grande valore del lavoro di Radlov, ma perché ho dovuto lottare con lui per approfondire una serie di idee e per elevare l’opera da tragedia famigliare a tragedia di passioni umane, politica e filosofica, e Radlov ha dovuto lottare contro una serie di deviazioni talvolta anche di carattere formale che io avevo manifestato all’inizio.
53Per esempio io attribuivo un significato eccessivo al fatto che Lear avesse previsto, grazie alla propria saggezza, uno schema indicativo dello sviluppo degli eventi. Questo era ovviamente un tentativo di attribuire a Lear il dono di una chiaroveggenza che non possedeva e non c’era nell’idea di Shakespeare. Penso che le discussioni con Radlov ci abbiano molto arricchiti. I motivi per discutere erano molti, per esempio il trucco di Lear. Ho già detto della famigerata barba. Può sembrare strano a un primo sguardo, ma per me il desiderio di interpretare Lear senza barba era una questione di principio. Mi sembrava di vedere che il cammino di Lear nella tragedia non andava dalla vecchiaia alla morte ma da una ideologia vecchia, statica e consumata a una ideologia rinnovata, molto più vitale e giovane. Quindi si tratterebbe di un percorso che va dalla vecchiaia a una seconda giovinezza. La tragedia consiste nel fatto che Lear ha acquisito idee nuove e giovani e una nuova forza a un’età ritenuta incompatibile con un fenomeno del genere. Era ormai vicino alla morte e dopo avere vissuto per più di ottant’anni esclamava per la prima volta: «Povere creature, quanto poco mi sono preoccupato di voi. Povera gente, dovunque voi siate, con addosso i vostri quattro stracci, tutti ossa, con questa tempesta… Come fate? Non ci ho mai pensato, io, a voi».16 La barba sarebbe stata un ostacolo alla scelta interpretativa di passare dalla vecchiaia a una “seconda gioventù” raggiunta in una tempesta di emozioni. Per le emozioni che vive, Lear può occupare un posto accanto a Amleto, Romeo e Otello. La mia discussione con Radlov proseguì fino al momento in cui in scena le caratteristiche del personaggio iniziarono a dare vita a una precisa immagine. Allora dalle discussioni teoriche siamo passati alla competizione nella pratica e siamo riusciti a trovare facilmente un accordo.
54Bisogna dire che io sono direttore artistico e attore, ma spesso anche regista. Dunque devo riferire non soltanto del mio lavoro sul personaggio di Re Lear, ma anche di quelli dello scenografo, del musicista e del traduttore.
55La scenografia è stata realizzata dal pittore Aleksandr Grigorevič Tyšler. Si è trattato del suo primo lavoro al nostro teatro.
56Ci furono pochissime discussioni con Tyšler durante la creazione. È uno di quei pittori che si fidano soprattutto della propria percezione interiore, molto soggettiva e straordinariamente raffinata. Legge il testo una sola volta e poi segue completamente la prima impressione. Penso che durante la lettura non veda neanche le parole e che davanti ai suoi occhi appaia immediatamente lo spazio scenico, come se leggesse lo spazio. Questa ovviamente è una capacità estremamente preziosa per un pittore. A volte però il lampo di genio porta a una percezione molto soggettiva dell’opera.
57Il primo bozzetto della scenografia per Re Lear preparato da Tyšler era straordinariamente simile a quello per un Riccardo III comparso sui giornali qualche tempo dopo. Probabilmente sia nel Lear che in Riccardo III (lavorava contemporaneamente su queste tragedie), Tyšler vedeva “Shakespeare in generale”. I bozzetti ricordavano qualcosa di molto lontano, simile a una fiaba o a una leggenda. Ma in qualche modo questo bozzetto mi ricordava ciò che pensavo e lo sentivo molto vicino.
58Il disegno mostrava due piattaforme su piedini corti e affilati. Su queste stavano due cavalli coperti da una groppiera, uno di fronte all’altro. Sopra le teste dei cavalli c’erano altre due piattaforme simili a balconi. Ovviamente l’azione poteva svolgersi ai piani inferiori, in avanscena e ai piani superiori.
59Tyšler aveva spiegato che i cavalli erano lì per sottolineare la popolarità di Shakespeare e il carattere primitivo dell’epoca ritratta. La scenografia, diceva Tyšler, cercava di trasmettere lo spirito del vecchio teatro shakespeariano, che lui immaginava come un balagan ambulante. Devo confessare che questa proposta preoccupò sia me che Radlov. Le tendenze di Radlov in fin dei conti differivano dalle mie soltanto nella comprensione della problematica della tragedia, eravamo però del tutto concordi nel desiderio di creare uno spettacolo profondamente realistico. Il bozzetto di Tyšler non coincideva in alcun modo con questa intenzione. Non coincideva a tal punto che rischiava di provocare un contrasto tra il teatro e lo scenografo. Tyšler chiese a Radlov quale dovesse essere secondo il regista il Leitmotiv della scenografia. Con fermezza Sergej Ernestovič affermò che per lui l’elemento principale era il cancello del castello che si chiude di fronte a Lear. In questo modo Radlov formulò molto concretamente il compito affidato allo scenografo. L’immagine del ponte levatoio doveva creare l’impressione di una separazione tra Lear e il castello, e doveva sottolineare in modo molto chiaro che Lear era diventato un esiliato, che si era allontanato e aveva rotto con tutto ciò che gli era familiare. Questa immagine era così chiara e convincente che Tyšler accettò di preparare un nuovo bozzetto.
60Dalla storia del teatro sapevamo che gli scenografi delle regie precedenti del Re Lear si erano sempre interessati al palazzo: un palazzo sfarzoso o severo, cupo o maestoso. Anche noi eravamo interessati al palazzo, ma ci interessava quello dal quale è espulso il padrone, il re. Volevamo rendere l’espulsione uno dei momenti più importanti dello spettacolo. Per questo il cancello del palazzo è subito comparso nella mente del regista.
61Un’altra questione che suscitò discussioni con Tyšler riguardava le decorazioni. Ho già fatto notare che il regista Volkonskij cercava di creare uno spettacolo pagano dal punto di vista dei colori. Noi invece ritenevamo che l’azione della tragedia non potesse svolgersi ai tempi del paganesimo. Ci sembrava indiscutibile che l’azione si svolgesse all’epoca del Rinascimento inglese. Pensavamo che non fosse il tardo Rinascimento e neanche quello contemporaneo a Shakespeare, ma il primo Rinascimento. L’azione della tragedia era stata trasportata da Shakespeare al tempo della Guerra delle Due Rose. Le decorazioni avrebbero dovuto richiamare quell’epoca. Inizialmente Tyšler non era d’accordo, ma improvvisamente “vide” la pièce in modo nuovo e immediatamente preparò un nuovo modello, subito accettato sia da Radlov che da me. Avevamo di fronte un edificio in mattoni, le cui mura, quando necessario, si aprono come un cancello. All’interno ci sono due sale, una di colore nero e l’altra rosso scuro. Le scale che portavano a queste sale potevano trasformarsi in ponti levatoi, le statue e le immagini dipinte corrispondevano allo spirito del Rinascimento. Il palazzo si presentava come un insieme molto originale di interno ed esterno. Per il pubblico si chiudeva con il sipario, sul cui sfondo alcuni episodi della tragedia potevano svolgersi in proscenio. Il sipario era fatto di due tessuti, uno nero e uno rosso, su entrambi erano ricamate porte e drappi.
62Nei bozzetti presentati da Tyšler mancavano alcune scene: quella nella pianura desolata durante la tempesta, quella nella baracca e la scena in cui avviene lo scontro tra Edmund e Edgar, infine quella della morte del re. Per la scena della tempesta, Tyšler non riusciva a trovare una soluzione. Pensava di avere realizzato il proprio compito e che il resto andasse fatto dal teatro senza la sua collaborazione. Cedendo alle richieste del regista e del direttore artistico realizzò quanto richiesto: appese del velluto nero, sul velluto fece passare una nuvoletta e in base alle esigenze di Sergej Ernestovič mise anche un albero secco, caduto in mezzo alla scena, ogni tanto illuminato da un fulmine. Allo stesso modo fu trovata una soluzione per la scena della baracca. Tyšler cucì sui sipari realizzati in tessuto morbido alcuni mattoni, che dovevano indicare un muro. Questa soluzione derivava dallo stile monumentale utilizzato nelle scene precedenti, per le quali aveva utilizzato il legno, la vernice e gli ornamenti severi delle statue antiche.
63In un secondo tempo Tyšler elaborò i costumi. Penso che fossero molto appropriati. Vi è espressa molto bene la presunzione dei padroni feudali. Il costume aiuta a sottolineare i momenti principali della tragedia. Cercherò di spiegarlo con alcuni esempi. Nella prima scena Lear indossa un abito nero con decorazioni dorate e sopra un mantello decorato da corone, come stelle su un cielo scuro. Per l’incontro con Goneril, che lo caccia, indossa nuovamente un mantello ma assai più modesto del primo; questo indica la passata grandezza del re… Quando Lear è nella pianura desolata, il mantello sta appeso come uno straccio su una spalla sola, il colletto è aperto e il petto è nudo. Nella baracca Lear non ha mantello, il colletto pende come la pietosa copertura di un corpo stanco, lo porta su un braccio come per confermare che l’uomo «è questa povera bestia biforcuta»,17 oppure come dice Lear: «Povera gente, dovunque voi siate, con addosso i vostri quattro stracci, tutti ossa, con questa tempesta… Come fate?».18
64Durante l’incontro con il Conte di Gloucester il colletto non c’è più. Il corpo seminudo del re è come coperto da un innocente mantello. Ma ecco Lear nella tenda di Cordelia. Cordelia con grande fatica cerca di non lasciare avvicinare a sé il padre-re. Lui è vestito come al suo primo ingresso in scena. Lear prigioniero indossa soltanto il colletto dorato, non ha né il mantello né la corona e ha le mani legate. In queste condizioni di re dimezzato riceve il più duro colpo inferto dal destino, ovvero la perdita di Cordelia e infine la propria morte.
65Così variava il costume di Lear, nelle diverse fasi dello sviluppo del personaggio. Devo confessare che tutte le precisazioni e le sfumature nel cambio dei dettagli del costume fanno parte del lavoro dell’attore. I due costumi principali di Lear e i due mantelli erano però ovviamente creati dall’artista Tyšler.
Il lavoro sulla traduzione in yiddish richiese grande attenzione. Qui dovetti svolgere un ruolo di mediatore tra il regista Radlov e il traduttore, il noto poeta ebreo Shmuel Halkin. All’epoca Radlov non soltanto aveva grande familiarità con Shakespeare, ma conosceva anche tutti i problemi legati alla traduzione in russo. La ricchezza espressiva di Shakespeare offre ai traduttori grandi possibilità di sperimentazione. Alcuni di essi concentrano la propria attenzione sullo stile brillante dell’autore, sulla complessità dei suoi personaggi e dei modi di dire, altri tendono alla massima semplificazione del linguaggio, altri ancora si appassionano alla rude sincerità delle metafore o alla propensione di Shakespeare per le immagini carnali. Ogni traduttore è convinto che qualsiasi tratto del linguaggio shakespeariano sia l’aspetto determinante del suo stile. In alcune traduzioni, invece, tutti gli sforzi sono rivolti a un rispetto molto preciso del numero delle sillabe e dei versi del testo; gli autori di queste traduzioni sperano di creare un testo equivalente e di uguale valore rispetto all’originale. Non condivido tale concezione, perché ogni lingua ha una propria consistenza e figuratività, pertanto la tendenza a rispettare lo stesso numero di versi nella traduzione secondo me è un metodo semplicemente meccanico e poco significativo. Non è stato un caso che cercando un traduttore per Re Lear mi sia rivolto a Halkin. La sua creatività poetica è caratterizzata da una semplicità straordinaria, che si abbina alla vitalità del verso biblico.
66A suo tempo, nell’ambito della letteratura e della critica ebraiche si era molto discusso sulla creatività di Halkin. Qualcuno trovava il suo modo di scrivere reazionario, proprio perché i suoi versi spesso ricordavano lo stile biblico. Era sciocco pensare che Halkin fosse un poeta reazionario perché nella sua creatività trovavano continuità le migliori tradizioni della letteratura ebraica antica. Consideravo questa peculiarità del suo talento come particolarmente preziosa per la traduzione del Re Lear. Lo spiegherò con un esempio. Cercando le melodie per il Fool che dovevano essere adatte al testo shakespeariano, Halkin sottopose alla nostra attenzione questa canzoncina: «Il vetro è pulito e trasparente, attraverso di esso vedi tutto il mondo, vedi colui che piange e colui che ride. Ma è sufficiente coprire una parte del vetro con un po’ di argento – e basta un soldo di argento! – e il mondo scompare immediatamente. Il vetro si trasforma in uno specchio e per quanto pulito e trasparente sia, d’ora in poi in esso vedi soltanto te stesso» .
67L’idea è esposta in modo allegorico. Questo modo di esprimere i pensieri con un piccolo aneddoto è molto vicino alla Bibbia e alla saggezza popolare ebraica. Un soggetto semplice nasconde in sé un profondo significato filosofico. In yiddish questa forma di poesia suona molto bene. Il contenuto della canzoncina è un esempio. Era un po’ fuori luogo, perché nella tragedia si parla di ricchezza da un punto di vista diverso rispetto alla canzone, che infatti non fu utilizzata nella versione definitiva dello spettacolo. Lo stile del poeta Halkin si rivelò però straordinariamente coerente con quello della tragedia shakespeariana. In particolar modo gli riuscì la scena in cui Lear lancia le sue maledizioni. Dal punto di vista formale questi anatemi richiamano la parte della Bibbia in cui sono pronunciate le maledizioni agli apostati. Per certi versi Lear ricorda Giobbe che scaglia invettive e ricorre a immagini molto simili a quelle della Bibbia.
68Nella concezione filosofica di Lear è presente una certa patina religiosa, il suo nichilismo lo costringe a lanciare in modo cinico una sfida all’amore, alla fedeltà e alla sincerità e ha la tendenza a una straordinaria concentrazione di colori: tutto ciò porta a confrontare i personaggi di Shakespeare con i personaggi della Bibbia, ovviamente soltanto da un punto di vista letterario. Proprio in questo senso Halkin si rivelò il migliore traduttore di Re Lear. Durante il lavoro però bisognava tenerlo sotto controllo, perché la passione straordinaria per lo stile biblico rischiava di oscurare ulteriori particolarità altrettanto importanti dello stile di Shakespeare. In particolar modo abbiamo discusso del testo in prosa della tragedia. Halkin non riusciva a comprendere la prosa shakespeariana e queste parti sono rimaste le più deboli della sua traduzione.
69La bellezza della drammaturgia shakespeariana consiste, come dice allegoricamente Radlov, nel fatto che la poesia e la prosa si danno il cambio e in questo modo, con la forza dell’alta e della bassa marea, catturano il lettore, il pubblico e l’attore. Halkin non riusciva ad afferrare la prosa perfetta di Shakespeare. Discutere con lui era molto difficile, anche perché nella sua traduzione si trovavano risultati poetici rilevanti. La parte in versi della tragedia era restituita nel modo migliore, mentre la prosa è rimasta poco espressiva e pallida. Halkin non si considerava un grande conoscitore di Shakespeare; non conosceva l’inglese né il tedesco (esistono molte buone traduzioni di Shakespeare in tedesco), poteva lavorare soltanto con le traduzioni in russo.
70È vero che era molto aiutato da Radlov, buon conoscitore dello yiddish e dell’inglese che utilizzava sapientemente grazie alla propria formazione filologica. Si orientava molto velocemente e bene nel testo e suggeriva molto spesso al traduttore le vie per utilizzare la lingua di Shakespeare. Halkin ha scritto un numero pressoché infinito di versioni della traduzione. Radlov e io correggevamo il suo lavoro. Stavo attento che Halkin non convincesse Radlov del fatto che la natura della lingua ebraica rendesse un modo di dire inevitabile. Halkin non aveva sempre ragione, ma era sempre sinceramente convinto delle proprie opinioni. Radlov tendeva spesso a non essere d’accordo con lui, ma, nonostante le sue idee rispetto alla traduzione, a volte cedeva alle convinzioni del traduttore e allora toccava a me discutere gli argomenti “convincenti” di Halkin, dopo di che lui trovava rapidamente un’altra soluzione.
71Shakespeare sceglieva le soluzioni espressive a modo suo. Non è un caso per esempio che in Re Lear ci siano diverse similitudini con gli animali. Esse sono indissolubilmente legate alla tragica trasformazione che colpisce l’intera visione del mondo di Lear. Nelle prime scene Shakespeare cerca immagini in un altro ambito, per esempio Goneril dice: «So soltanto che mi siete più caro dei miei occhi, più dello spazio in cui mi muovo, più della libertà» ,19 e Regan: «Sono come mia sorella, io. Fatta della stessa stoffa».20 Questi accostamenti sono dello stesso tipo: per apparire migliori le sorelle distolgono il pensiero da ciò che hanno veramente nel cuore. Soltanto nella rabbia il re ricorda gli animali che gli suscitano disprezzo. Nella traduzione e soprattutto in quella in yiddish ciò rappresenta una difficoltà particolare, perché molti animali e soprattutto i volatili non hanno nome. I nomi sono stati presi in prestito dalle lingue slave ma lo yiddish contemporaneo deriva dal tedesco medievale. La vita degli ebrei era separata dalla natura, rinchiusi in luoghi in cui si occupavano di commercio o di artigianato, non hanno dato nomi agli animali e ai volatili perché non li conoscevano. Inoltre lo yiddish non è in grado di riprodurre i concetti linguistici dell’originale. Se è possibile tradurre la parola “dèi” (in yiddish geter), la parola “dea” è cacofonica. Nel vocabolario di una lingua che in un passato non molto lontano non era una lingua letteraria e nella quale sono comparse solo recentemente traduzioni dei classici greci e romani, mancava il gergo pagano. Non vi erano parole con cui si potessero indicare gli dèi e le dee dell’epica antica. Tutto ciò creava grandi difficoltà. Ci ha salvati una circostanza che secondo me può servire per qualsiasi traduzione: la traduzione letterale e l’ortodossia della traduzione passano sempre in secondo piano di fronte a un compito più importante e più grande come trasmettere la poesia e lo stile di un’opera, la sua anima. Secondo me Halkin ci è riuscito, perché sentiva Shakespeare in modo molto profondo e autentico.
72Personalmente il lavoro con il traduttore mi ha aiutato a entrare ancora più in profondità nel linguaggio shakespeariano, nei misteri del testo e a svelarne alcuni.
73Come attore mi è stato molto utile anche il lavoro con il compositore. Nel nostro teatro la musica occupa da molto tempo un posto privilegiato. Quando ricerchiamo una particolare espressività spesso trasformiamo le parole in una canzone e le azioni sceniche in musicali. Utilizzare questo metodo per le tragedie di Shakespeare era impossibile. Nelle opere shakespeariane la musica deve mantenere una funzione ausiliaria e di servizio.
74I momenti musicali più importanti dello spettacolo sono quelli dei corni da caccia, delle fanfare, della marcia cerimoniale, della musica della battaglia e di quella dell’inseguimento di Edgar, della canzoncina del Fool, della musica che si sente durante il risveglio di Lear. Shakespeare ha una battuta speciale rivolta all’orchestra. «Suonate più forte!»,21 dice il medico quando attende che il re si risvegli. Sarebbe stato un errore creare un equivalente musicale degli elementi che caratterizzano la scena della tempesta nella pianura desolata; non sarebbe stato coerente con i metodi utilizzati normalmente dal nostro teatro. Ero convinto che l’imitazione della tempesta con suoni e rumori sarebbe stata in contraddizione con lo stile dello spettacolo. Per me quella scena è il momento culminante dell’illuminazione filosofica di Lear e di tutta tragedia. Mi sembrava che l’imitazione della pioggia e del tuono, come gli effetti illuminotecnici per i fulmini e i lampi, avrebbero distratto il pubblico, lo avrebbero ostacolato nel percepire l’idea centrale di quel momento. Per quanto riguarda una “rappresentazione” musicale della tempesta devo dire che inizialmente ero tentato, poi decisi che questi metodi sarebbero stati estranei a Shakespeare. Forse mi sbagliavo. Mi sbagliavo sicuramente quando, andando con l’immaginazione al teatro ai tempi di Shakespeare, pensai che la tempesta non fosse rappresentata ma “recitata” dagli attori. Pensandoci, la mia fantasia suggerì un’idea apparentemente allettante, che per fortuna fu subito bruscamente rifiutata da Radlov. Nacque in me l’idea di mostrare che essenzialmente non vi è alcuna tempesta, che la tempesta ha luogo più nell’immaginazione del re che nella pianura desolata intorno a lui. Mentre in realtà, così pensavo, c’è brutto tempo, piove, e la gente, come sempre, cerca un rifugio. La tempesta ha luogo soltanto nella sua mente e si rivolge al vento, vorrebbe che il vento ripulisse tutto ciò che incontra sulla propria strada, che la pioggia affogasse la terra e che il diluvio spazzasse via il male. Lear, così immaginavo, desiderava la tempesta, desiderava che la natura fosse arrabbiata e che si ribellasse come la sua anima. Ma poiché la vera tempesta in realtà non c’è, i devoti e i fedeli al re, Kent e il Fool, la mimano gonfiando le guance, urlando e facendo rumore.
75Le “impalcature” che avevo costruito intorno all’immagine di Lear per arrivare al suo apice andavano bene, ma sarebbe stato un grave errore lasciarle nello spettacolo. Perché? Prima di tutto perché Shakespeare aveva previsto la tempesta nel testo, essa coincide e accompagna lo stato d’animo eccitato del re e non è frutto della sua fantasia. Inoltre la tempesta inasprisce le emozioni di Lear e accompagna i suoi sentimenti. Al tempo di Shakespeare il pubblico era molto allenato a comprendere le convenzioni teatrali: appena si annunciava un temporale, nell’immaginazione del pubblico se ne disegnava il quadro. Il pubblico dei nostri giorni invece è abituato al fatto che il teatro, in un modo o nell’altro, espliciti l’atmosfera che circonda i personaggi.
76Penso che la questione della funzione della musica nei momenti centrali non sia stata risolta fino in fondo, anche se siamo riusciti a trovare alcune buone soluzioni. Nella prima scena per esempio, quando è annunciato l’ingresso del re, parte la marcia cerimoniale e al suono della musica compaiono le principesse, i loro mariti, i nobili, Cordelia e il Fool. Quando la scena è popolata dai cortigiani entra il re, la figura centrale della tragedia, la musica si ferma e regna un silenzio assoluto (che a sua volta serve da sfondo musicale) e Lear compare silenzioso e assai poco vistoso. Lo stesso procedimento era ripetuto nell’ultimo atto, quando i soldati accompagnavano i prigionieri. Si sentiva una marcia guerresca che a un certo punto si interrompeva, a quel punto il re e Cordelia, legati, entravano in scena in silenzio.
77Secondo me i più grandi risultati ottenuti dal compositore Lev Michailovič Pul´ver sono le canzoni del Fool e la musica per la scena dello scontro tra Edgar e Edmund. Pul´ver ha un talento molto raffinato per quanto riguarda la natura della musica di scena. Anche lui però, come Tyšler e Halkin, è sempre influenzato dalla prima impressione dell’opera. È molto forte nelle parti in cui per la musica ci sono premesse sceniche dirette. Questo non deve stupire: ha iniziato a fare musica a nove anni, prima come musicista girovago suonando ai matrimoni, in seguito, diventato un grande musicista, nelle orchestre dei teatri, al Teatro dell’Opera Ucraino e al Bol´šoj di Mosca. La sua biografia teatrale ha lasciato un’impronta in tutta la sua arte. La sua musica è teatrale e attiva. Nello spettacolo shakespeariano però era limitato nelle sue possibilità, non doveva illustrare eventi o momenti centrali nello sviluppo dell’azione drammaturgica, ma soltanto alcuni episodi “di parata”, per esempio l’ingresso cerimoniale dei cortigiani o il ritorno del re dalla caccia. In questo caso la musica ha un ruolo più modesto rispetto agli altri spettacoli del nostro teatro.
78Re Lear si distingue secondo me dagli altri spettacoli del Goset anche per il carattere della recitazione. Bisogna ammettere che non esistono organismi teatrali in cui si realizzi un lavoro attoriale davvero unitario, da scuola, mancano sempre (o sovente) il carattere monolitico e l’unità nella direzione degli attori, penso che ciò valga anche per il Teatro d’Arte, la cui fama è dovuta proprio all’omogeneità dell’ensemble. Della mancanza di una scuola unitaria Konstantin Sergeevič Stanislavskij ha parlato diverse volte, nelle conversazioni private si lamentava spesso del fatto che i suoi discepoli non comprendessero del tutto e sempre in modo diverso tra loro i principi del lavoro dell’attore su se stesso e sul ruolo. Questa unità non esiste neanche nel nostro teatro, i nostri attori sono uniti dal fatto di lavorare insieme da molti anni, hanno accumulato una buona esperienza, ma non condividono una teoria generale dell’arte dell’attore che faccia da fondamenta per la loro formazione come avviene al Teatro d’Arte. Per questo, iniziando a lavorare su Shakespeare, ogni attore cercava di trovarvi qualcosa che corrispondesse alla propria esperienza ed emerse qualcosa di molto interessante: nella tragedia shakespeariana alcuni metodi attoriali hanno iniziato a risuonare in modo completamente nuovo. I tre attori migliori erano Veniamin Zuskin, Sara Rotbaum e Jakov Gertner.
79Rotbaum è un’attrice che si è formata con Max Reinhardt, una delle figure più interessanti del teatro contemporaneo. Reinhardt non soltanto è uno dei fondatori della regia teatrale e di una scuola, è anche uno sperimentatore eclettico, che ha praticato i generi teatrali più disparati, dalla tragedia classica antica come Edipo, fino alle opere contemporanee di Sudermann, oltre ai più diversi metodi di messa in scena. Per questo i rappresentanti di numerose scuole teatrali assai differenti tra loro si presentano come discepoli di Reinhardt e hanno buoni motivi per definirsi tali. Alla scuola di Reinhardt, Rotbaum si è formata in una delle specialità minori, in cui tutta l’attenzione dell’attore è focalizzata sulla pronuncia della parola. Questa scuola considerava come proprio ideale la declamazione, non l’azione scenica né il gesto. Per questo motivo, mantenendo una completa immobilità dei polsi, appesi come rami, Rotbaum compie per tutto il tempo movimenti forzati con il capo, cercando di sottolineare l’aspetto legato al significato della parola. Nella tragedia di Shakespeare questa discrezione del gesto creava una monumentalità e nel personaggio di Goneril ha rivelato con particolare forza la sua superbia e il cinismo con cui la donna faceva soffrire il padre. Se all’immagine di Goneril creata da Rotbaum si fosse aggiunta la mobilità, sarebbe diventata frettolosa e povera. In questo caso il limite dell’attrice ha portato a un grande risultato.
80Con Gertner, che nella tragedia interpretava Edgar, è accaduto qualcosa di simile. Il ruolo di Edgar è tra i più complessi del Re Lear; è scritto come in contrappunto rispetto a ciò che accade a Lear, aiuta a far emergere la sua essenza. Ciò è visibile soprattutto nella scena della finta pazzia del re. Quando si cerca di riflettere su questa scena, di determinare in quale momento scenico Lear «vada fuori di testa», viene spontaneo soffermarsi sul suo incontro con il finto pazzo Edgar. C’è qualcosa di tragico nel fatto che Lear veda, nell’Edgar che finge, una persona vera. «Tu sei la cosa in sé. Eccolo, l’uomo allo stato di natura»,22 esclama Lear quando vede il corpo nudo, sporco e frustato dal vento del vagabondo. Anche se in questa scena il comportamento di Lear è la finzione della pazzia, ciò accade soltanto perché sta vivendo un processo di trasformazione dei propri valori. Crollano tutte le sue precedenti visioni della vita; benché in questa scena Lear non sia affabile, in fondo è naturale e organico.
81Per quanto riguarda Edgar, semplicemente recita il ruolo del folle, finge per ingannare gli altri e salvarsi dal patibolo, che a quei tempi per la legge inglese era la fine di ogni vagabondo. Il destino del re sconvolge Edgar e la sua finta follia si trasforma per qualche istante in una follia autentica. È anche possibile il contrario: forse a questo punto lui vorrebbe gettare la maschera del folle, ma la situazione lo costringe a continuare a fingere. Lo stesso si ripete quando incontra il padre, poi quando comprende la pesante accusa mossa nei suoi confronti da Edmund. Era importante sottolineare la finzione, l’arte della follia di Edgar.
82Gertner è un attore dotato, anche se il suo aspetto esteriore non è dei migliori. La sua voce è abbastanza brutta, la sua musicalità è mediocre, sente il ritmo della musica solo in modo superficiale. Il destino non gli ha concesso la dovuta formazione, in cambio però gli ha dato una grande forza di volontà e una straordinaria abilità. È un autodidatta, tutto ciò che sa lo ha imparato grazie alla sua “autoformazione”. Sa molte cose, anche se le sue conoscenze sono empiriche, incomplete. Come la maggior parte degli attori del nostro teatro, Gertner non è capace di essere oggettivo. Per molto tempo, prima del ruolo di Edgar, aveva messo a punto un proprio metodo, che naturalmente ha utilizzato anche nel lavoro sul personaggio di Edgar. Questo metodo non funziona sempre, ma in Shakespeare ha improvvisamente portato a un buon risultato. Quando non possiede una caratterizzazione abbastanza efficace, Gertner cerca di rimediare con uno sforzo della voce. Ama parlare a voce alta, a volte senza che ve ne sia una precisa necessità. Il suo secondo difetto è di non far crescere e sviluppare il personaggio, rende tutti i dettagli del ruolo ugualmente importanti e per questo il ruolo manca di volume, di rilievo, non ha luci e ombre. Fin dal primo momento interpreta sulla nota più alta (ovvero parla a voce molto alta), dunque non può più progredire e non sviluppa la parte esterna del ruolo. Nel suo gesto, e questo vale per la maggior parte degli attori del nostro teatro, domina l’aspetto illustrativo. Quando per esempio pronuncia la parola «io», involontariamente la sua mano si muove verso il petto, quando dice la parola «testa», il gesto anticipa dove si trova la sua testa. Se invece pronuncia la parola «giuro», alza due dita. Questi gesti illustrativi indeboliscono la forza della parola, sono nati negli attori del nostro teatro a causa della loro mancanza di fiducia nei confronti del pubblico, perché non sono sicuri che gli spettatori capiscano la nostra madrelingua. Per questo le parole vengono “completate” dal gesto, a volte perfino le parole conosciute non soltanto dal pubblico ebraico.
83Secondo me i gesti illustrativi non hanno alcuna utilità, il gesto non deve “aiutare a parlare”, deve aiutare a ragionare. Deve aiutare ad agire, non essere un commento alla parola pronunciata. È un fatto degno di nota che, lavorando sul personaggio di Edgar, l’attore abbia deciso di illustrare non soltanto il gesto ma anche il testo. Edgar dice la battuta: «Maiale di pigrizia, io, volpe di ruberie, lupo di avidità. E cane di rabbia».23 Qui il compito di Gertner-Edgar era quello di interpretare la finta follia. Alla parola «maiale», Gertner grugniva, alla parola «volpe» si muoveva con agilità, illustrando con questo movimento l’abilità e la “sinuosità” della volpe, alla parola cane iniziava ad abbaiare. Il paradosso stava nel fatto che nel ruolo di Edgar questo metodo era molto azzeccato. Anche in questo caso una evidente debolezza dell’attore diventa la sua forza e un’arma di precisione. Ricordo che in modo assolutamente consapevole avevo iniziato ad abbaiare anch’io, non in modo illustrativo però, perché a differenza di Edgar, Lear non recita la follia, è come se volesse dimostrare che il linguaggio umano non può esprimere la nuova verità che ha appena acquisito: l’uomo non è che una povera bestia biforcuta. L’abbaiare del cane, intrecciandosi al testo shakespeariano, risuona sulle labbra di Lear come una nuova verità filosofica: «Noi siamo complicati. Tu sei la cosa in sé. Eccolo, l’uomo allo stato di natura».24
84Zuskin aveva una collocazione particolare nel nostro lavoro su Shakespeare, è un attore dal talento straordinariamente brillante. La natura gli ha dato molto, in primo luogo ha un grande fascino e, come osserva Stanislavskij, il fascino «è il dono più grande che sia mai stato dato a un attore» . Il temperamento di Zuskin attribuisce maggiore importanza all’intuizione che alla logica. Per lui il mondo interiore, il mondo dei sentimenti e delle percezioni ha un ruolo fondamentale, e proprio questa qualità fa sì che sia diventato straordinariamente popolare. Zuskin non si occupa mai di scavare dentro se stesso, non si tratta in alcun modo di una autoanalisi ipertrofica, la sua è una percezione viva e sensibile della realtà oggettiva. Per lui ogni persona, come ogni fiore per un’ape, è la goccia di un miele particolare. L’artista Zuskin assorbe questa goccia e la porta nel proprio alveare. La prima cosa che nota in una persona è ciò che vi trova di commovente, la seconda è ciò che ha di buffo e ciò che la rende viva. Per Zuskin l’aspetto buffo è ciò che distingue una persona viva da una morta. Il senso dell’umorismo è molto forte in lui, il suo humor è sempre dipinto con tonalità liriche, utilizza di rado l’arma tagliente della satira. Questo non perché abbia una particolare condiscendenza nei confronti dell’uomo; attore dalla testa ai piedi, incarna ciò che caratterizza i rapporti tra gli esseri umani. Laddove vi sono fenomeni o idee astratte fa sempre nascere una immagine concreta, spesso si tratta di un uomo piccolo, che ha esigenze limitate e obiettivi circoscritti. Per ritrarre un individuo del genere sarebbe fuori luogo utilizzare la fiamma della satira, sarebbe come sparare ai passerotti con un cannone, è sufficiente accontentarsi di una “pistola giocattolo”, lo humor. Questo però non significa che quando nel campo visivo di Zuskin entra un fenomeno sociale importante l’attore non trovi colori abbastanza brillanti e originali per rappresentarlo; al contrario, il suo temperamento ha una vasta gamma, che va dal patetico alla satira più spietata. Le caratteristiche del suo talento lo spingono sempre verso ciò che è concreto, non è un caso che per i suoi lavori cerchi sempre modelli viventi. Probabilmente ha bisogno di conoscere nome, cognome e patronimico della persona a cui può ispirarsi per l’interpretazione del ruolo che deve realizzare. Per questo, quando inizia un nuovo lavoro, dopo la lettura dell’opera fa sempre un disegno a matita del volto che la sua immaginazione associa al personaggio che deve creare. Disegna in modo molto espressivo. Se capita che nei suoi ricordi o incontri non ci siano impressioni abbastanza chiare e concrete per realizzare e interpretare quel ruolo, cerca a lungo e con tenacia una persona che gli faccia da modello.
85Così accadde con il ruolo del falegname Navtal in Il processo è iniziato. Essendo di passaggio nella città di Vinnycja si era recato nel famoso quartiere Ierusalimka. Raccontava che, dopo alcune passeggiate, aveva in effetti trovato il “modello” di cui aveva bisogno. La stessa cosa successe anche durante il lavoro su Stanislav in Quattro giorni e infine nel lavoro sul Fool del Re Lear. In questo caso il compito era più difficile, ma Zuskin trovò improvvisamente una soluzione. Il primo prototipo del suo Fool shakespeariano fu nientemeno che lo scrittore Jurij Oleša. Ovviamente Zuskin ne trasformò completamente il carattere, probabilmente aveva perfino rinunciato a questa prima impressione, ma aveva funzionato. L’importante non è che essa ci sia stata, ma che Zuskin ne avesse bisogno… Secondo me tali metodi caratterizzano il mondo interiore dell’attore-creatore.
86Le caratteristiche dell’individualità attoriale di Zuskin si sono rivelate molto efficaci nel lavoro su Shakespeare. Una delle particolarità che rende l’arte shakespeariana così forte, eterna e potente consiste secondo me nel fatto che il drammaturgo ha gettato coraggiosamente il ponte della comprensione umana tra Scilla e Cariddi, tra il macrocosmo e il microcosmo, tra ciò che è universale e ciò che è molto concreto; nella sua arte questi due aspetti si trovano in perfetta unione. Da un lato presenta un mondo umano molto modesto, quello di un interno o l’esterno angusto di una viuzza di una città di epoca feudale. Anche la questione politica riaffiora spesso, Lear dice: «Tu, giovane amore conteso tra i vigneti di Francia e i pascoli di Borgogna»,25 paesi interi sono caratterizzati per mezzo di immagini della vita quotidiana. Vi troviamo però anche una storia d’amore abbastanza prosaica come quella tra Romeo e Giulietta, l’eterna tragedia e l’eterno poema dell’amore. In questo modo, nella sua arte Shakespeare combina ciò che è astratto con ciò che è molto concreto, di conseguenza l’attore deve essere in grado di penetrare la filosofia profonda dell’arte shakespeariana ed essere capace di immaginare i personaggi in modo molto concreto. In Re Lear il personaggio del Fool è molto concreto. La saggezza empirica del Fool contrasta con la riflessione sintetica di Lear. Ecco perché in quest’opera la tendenza di Zuskin alla massima concretezza è stata fondamentale. Il personaggio del Fool è diventato rilevante e concreto. Il Fool di Zuskin ha iniziato subito a suonare come un contrappunto alla melodia di base di Lear.
87Parlando con Radlov, Zuskin si soffermava spesso sulla questione della sfumatura nazionale del Fool. Di questo personaggio voleva sottolineare alcuni tratti ebraici. Per Zuskin questo desiderio era più che naturale, poiché conosceva l’ambiente ebraico meglio di tutti: traeva le impressioni più importanti e acute dalla sua infanzia, dalla sua città natale e dalla sua famiglia. Radlov riteneva che il Fool dovesse avere un doppio effetto, non doveva essere soltanto inglese, sarebbe stato meglio farlo diventare un buffone inglese ebreo. Così fu deciso.
88Nella recensione al Re Lear, Litovskij scrisse che per Zuskin il Fool era stato una ripetizione di ruoli già interpretati. Secondo me è un’opinione errata, non si trattava di una ripetizione del passato ma del ricorso a una serie di metodi che costituiscono l’essenza della sua metodologia attoriale in uno dei ruoli più difficili del repertorio mondiale. Tali metodi, utilizzati in un ruolo nuovo e di grande responsabilità, risuonavano in modo completamente inedito.
89Avrei voluto esporre i miei metodi di lavoro sulla creazione del personaggio di Re Lear in modo cronologico, partendo da quando è apparso per la prima volta. Ho già scritto di una di queste tappe del lavoro che riguarda le visioni. Queste apparvero durante la lettura e lo studio del materiale. Nelle mie visioni, in qualità di “immagini ausiliari”, erano comparsi il Geova della Bibbia, il re della fiaba di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore e altri che ora non ricordo. Ancora prima della lettura del testo in teatro e della distribuzione dei ruoli, prima delle conversazioni con il regista, come mi capita spesso, avevo intravisto alcune azioni del futuro personaggio.
90Questo è stato l’ingresso nel mondo plastico del personaggio, nel mondo dei gesti e dei movimenti di Lear. Ricordo in modo molto preciso il gesto comparso per primo: il re passa la mano sul proprio capo scoperto come se volesse toccare la corona ormai perduta. Conoscevo questo gesto già dal 1932, anche se lo spettacolo ha debuttato nel febbraio nel 1935. Se le mie visioni, che creano l’atmosfera del personaggio, erano soltanto impalcature del futuro edificio del ruolo, questo gesto è stato il primo mattone dell’edificio. Ma questo gesto esisteva ancora prima, per conto proprio, la motivazione giunse in seguito, quando coincise con un momento dell’azione scenica. Inizialmente sapevo soltanto che da qualche parte nel testo, parallelamente alle sofferenze di Lear, nella ottava o nona pagina della partitura, c’era questo lento movimento della mano che cerca sul capo, che poi si trasforma in un palmo di mano che pone una domanda e resta perplesso.
91Il secondo gesto che ricordo molto bene è nella scena in cui Lear, dopo essere stato esiliato e inseguito dalle guardie di Goneril, la incontra nuovamente. Radlov aveva costruito la scena in questo modo: Lear doveva avvicinarsi a Goneril andandole molto vicino, quasi addosso. Qui, in questa distanza limitata avevo immaginato la reazione plastica di Lear. Fissa Goneril, non credendo ai propri occhi, passa la mano sul volto di lei come per verificare la sua impressione e insieme a questo gesto dice a bassa voce ciò di cui è consapevole per la prima volta. Dice: «Mi stai facendo impazzire. Per favore, smettila» ;26 e aggiunge: «Eppure sei la mia carne, il mio sangue, mia figlia. O forse non sei altro che un male della mia carne» .27 Al posto di una immagine allegorica dell’uomo, in questo momento si ha la percezione di qualcosa di molto concreto e materiale. Lear passa entrambe le mani sul proprio volto come se desiderasse togliere un velo dai propri occhi, guarda ancora una volta se c’è ancora oppure no. Gli ultimi residui della ragione lo abbandonano, scivolandogli tra le dita. Per la prima volta compare il pensiero: «Se è così, sto impazzendo».
92Dopo questo gesto ne nacque un altro. Il gesto dell’attore acquisisce risonanza soltanto quando completa il pensiero. Il primo gesto della mano che cerca si trasforma in un palmo che pone una domanda. Mentre il gesto con cui cerca di togliere il velo dagli occhi e lascia passare i residui della ragione, in cui si trovavano le vecchie idee sul mondo, si trasforma in un gesto del polso con cui sembra scacciare qualcosa. Così Lear cerca di scacciare Goneril e con lei tutto il vortice di pensieri che gli ha suscitato. Rinunciando a Goneril rinuncia agli spaventosi pensieri che potrebbero portarlo alla follia.
93In seguito, quando arrivano insieme Regan e Goneril è come se lo colpissero due frecce, percepisce nuovamente che tutte le sue idee sulla vita e sulle persone stanno crollando. Questo significa che tutta la vita è stata vissuta invano? E che tutta la sua saggezza non vale un soldo? Sono domande terribili per Lear, così terribili che improvvisamente inizia a sentire il caos, il disordine sotto la calotta del proprio cranio. Allora conficca tre volte le dita nella propria testa come fossero frecce e dice: «Sto impazzendo». Nello stesso momento sente che il suo cuore è colto da un forte dolore, non mette però la mano sul cuore, non batte con le dita, con il palmo o con il pugno sul petto, con la punta delle dita disegna una croce, come se con questo gesto lo tagliasse. Questi due gesti dovevano mostrare tutta la sofferenza di Lear.
94Racconto in modo così dettagliato questi gesti perché si sono trasformati in Leitmotiv che comparivano più volte nello sviluppo della tragedia. Quando pronuncia il giudizio su Goneril, il cui ruolo è interpretato da una sedia vuota, Lear si passa nuovamente la mano sul volto, come per togliersi un velo dagli occhi. Quando chiede di aprire il corpo di Regan soltanto per vedere come sia il suo cuore e capire quali motivi abbiano causato una malattia del genere al cuore di un essere umano e quale carne crudele sia cresciuta intorno ad esso, ripete lo stesso gesto della scena con le figlie, è come se tagliasse il proprio cuore con un movimento delle dita che disegnano una croce. Dunque, tra i metodi che mi hanno aiutato a disegnare l’immagine di Lear possiamo assegnare un posto d’onore ai gesti. Ne ho ricordati soltanto alcuni, erano molti di più, ma elencarli tutti non ha senso, la mia idea è chiara anche così.
95Devo sottolineare che quando ho iniziato a lavorare sul personaggio di Lear avevo grossi dubbi sul mio aspetto fisico. Essendo di bassa statura non potevo trasmettere una immagine di nobiltà neanche tenendo alta la testa, né con l’aiuto di movimenti monumentali. Pensavo che sarebbe stato più naturale trasmettere la nobiltà con un movimento piccolo ma appariscente. Nella prima scena, quando tutti sono in piedi e abbassano il capo nel salutare il re, lentamente Lear, come se ignorasse i presenti, li conta tutti con un dito e con un piccolo movimento della mano: Goneril con il marito, Regan con il marito. Nota che manca la quinta persona, non c’è Cordelia. Conta nuovamente i presenti e fa un gesto con la mano, dov’è Cordelia? Gli indicano che la figlia prediletta si è nascosta per gioco dietro il trono e quando la trova compare per la prima volta un suono, una debole risata di Lear. Ridendo fa un segno di diniego con l’indice a Cordelia e come per metterla in imbarazzo dice: «Fate entrare il Duca di Borgogna e il Re di Francia».28
96A dire la verità, inizialmente ero in imbarazzo: si può aprire una grande tragedia, un’opera di Shakespeare con una risata debole e insignificante? Decisi che la questione aveva una importanza puramente formale. Penso che all’inizio il pubblico non debba presentire che Lear vivrà una tragedia. Bisogna mostrare un cielo limpido per fare sì che in seguito in questo cielo le nuvole della tempesta si vedano più chiaramente. Anche questa debole risata si è trasformata in un Leitmotiv della tragedia. Lo ha accompagnato lungo tutta la sua vita, dal momento di quella gioia leggera per lo scherzo di Cordelia fino alla terribile scena del giudizio sulle due figlie, quando Lear, estenuato, non riesce a pronunciare neanche una parola. La risata non era prevista né dal testo di Shakespeare né dal regista. Io sentivo la necessità interiore di questa risata e la utilizzavo diverse volte. Nel momento più teso della vita di Lear, nell’ora delle sue grandi disgrazie risuona improvvisamente questa risata leggera. Per quale motivo? Perché ora, quando tutti i valori sono distrutti, tutte le convinzioni di una volta sono andate perdute, Lear improvvisamente ricorda un piccolo valore, unico e certo, che ha dato per scontato per tutta la vita: Cordelia.
97Nell’ultima scena, prima di morire, come preparandosi a un lungo viaggio in cui non si possono portare molte cose, Lear esala l’ultimo respiro con questa risata, come se volesse portare con sé anche questo valore che ha costellato tutta la sua vita. Qui però la risata non è più così frivola, allegra e leggera, anzi, è difficile capire se si tratti di una risata o di un pianto. Anche questo suono ha un ruolo di Leitmotiv che rivela il pensiero inespresso di Lear, che ha trovato una persona vera soltanto nella bellissima Cordelia. Per una corretta presentazione del pensiero filosofico della tragedia mi sembrava necessario ricorrere a questo metodo, ovvero non utilizzare la parola ma il suono.
98Ho utilizzato il suono anche nella scena della tempesta, l’ho già raccontato. In questa scena, dicendo di essere: «cane di rabbia»,29 Gertner-Edgar iniziava ad abbaiare mostrando la parola “cane” e fingendosi pazzo. Anche il mio Lear si mette ad abbaiare scimmiottandolo e le parole si mescolano con il suono, perché in questo momento si afferma che l’uomo è una povera bestia biforcuta non migliore del cane… L’immagine del cane accompagna Lear per tutto lo spettacolo, per esempio nella scena del processo immaginario alle figlie nella casa di campagna grida: «Cani, cani, dei cani mi stanno aggredendo da tutte le parti. Anche i cuccioli, adesso, mi abbaiano dietro».30 Le parole sono nuovamente accompagnate dall’abbaiare, che sottolinea la nuova verità di Lear, ovvero che l’uomo è una povera bestia biforcuta. In questo modo il suono che accompagna il testo diventa per me l’espressione di certe idee, non serve per surrogare il testo ma per approfondirlo e renderlo più potente.
99Anche se per me sono mezzi estremamente importanti, né il gesto né il suono erano determinanti nella somma dei metodi che utilizzavo. Cercando di penetrare il più profondamente possibile l’idea di Shakespeare, ho studiato in dettaglio i modi di dire che l’autore utilizza nelle proprie opere. È straordinario quanto sia preciso. Molto spesso parole che possono sembrare del tutto prive d’interesse, a una lettura attenta acquisiscono improvvisamente un grandissimo significato.
100Faccio un esempio. Regan propone al re di tornare da Goneril, nelle orecchie del re echeggiano le parole: «Tornate da mia sorella. E chiedetele scusa».31 Una grande parte della battuta, che è quasi un monologo, è dedicata a questo “tornare indietro”. Dietro queste parole, a parte il loro significato letterale, c’è un significato figurato: tornare alle idee ormai abbandonate, a ciò in cui Lear non crede più, no, è impossibile! Il monologo, riportato in modo approssimativo, risuona più o meno così: «Ritornare da lei? Dimezzare la scorta? No. Piuttosto abiuro ogni abitare, piuttosto vado a vivere come un vagabondo, con i lupi, a combattere contro la natura, esposto ai colpi del bisogno».32
101Tornare indietro. La miseria è difficile, ma tornare indietro è più difficile: «Ritornare con lei! Dimmi piuttosto di diventare lo schiavo di questo verme (Indica Oswald)».33
102Ammetto che Shakespeare utilizza questa espressione ( «Ritornare da lei») soltanto due volte. Senza rovinare il verso di cinque sillabe, sono riuscito a ripetere queste parole per altre due volte, per sottolineare come questa idea perfori il cervello di Lear e quale significato acquisisca ai suoi occhi. La miseria è difficile, ma è più difficile tornare indietro, ecco il significato filosofico di questo monologo. Mi sembrava importante sottolineare l’impossibilità di Lear di tornare al vecchio ordine delle cose. È indispensabile studiare in modo approfondito il linguaggio immaginifico di Shakespeare, ma questo studio non porta da nessuna parte se l’attore non è capace di trasformare le idee che ha compreso in una forma scenica precisa e chiara.
103Esporrò la mia comprensione utilizzando la stessa parte del testo scenico. Da molto tempo, nella pratica attoriale esiste un metodo che definirei “della spirale vocale”. Utilizzando questo metodo, l’attore inizia il monologo a voce molto bassa poi, rinforzando gradualmente la voce, realizza una specie di crescendo vocale. In questo caso il crescendo mi è servito. La spirale vocale, come pensavo, dovrebbe sottolineare le parole di Regan «Tornate da mia sorella», che possono sembrare semplici, che risuonano nella mente di Lear come una ossessione. Ripetendo queste parole per quattro volte avevo la possibilità di passare da una frase all’altra con una intensificazione, in modo che l’ultima frase suonasse come un grido, come un colpo di frusta. Ho utilizzato la “spirale vocale”, che aiuta a sottolineare e a far emergere l’idea di base e a conferire un carattere convincente al testo, in diversi momenti. Utilizzo questo metodo quando Lear maledice Cordelia, rinunciando a lei. Sarebbe opportuno ricordare alcuni metodi attoriali classici. Uno di questi metodi vocali a suo tempo era diventato una particolarità distintiva di Pavel Orlenev. L’attore raggiungeva un effetto vocale particolare utilizzando i sovratoni della propria voce, non le tonalità di base, tonalità che andavano oltre la sua voce. Potrei indicare anche attori contemporanei che hanno adoperato il metodo di Orlenev come un modello per la pronuncia del testo. In Zar Fëdor Joannovič I. M. Moskvin pronuncia la frase «Arinuška, sono o non sono lo zar?» utilizzando il metodo “vicino alla propria voce”. Molto simile a questa pronuncia era a volte la voce di Illarion Pevtsov. Con modalità leggermente diverse anche Michail Čechov ha utilizzato questo modo di pronunciare le parole. Anche io mi sono sentito autorizzato a farlo in alcuni passaggi del ruolo di Lear: per esempio nella scena del suo primo incontro con Regan e il Duca di Cornovaglia, dopo che Goneril lo ha mandato in esilio.
104Si potrebbe presumere, e con fondamento, che per la sua posizione, per il suo potere assoluto, per il sentimento di impunità acquisito nei lunghi anni del suo regno, Lear dica a tutti direttamente ciò che pensa e sente in quel momento. Così si sarebbe potuto presumere, mi sembrava però che Lear non sempre mostrasse i suoi veri sentimenti e pensieri. Spesso non dice ciò che sente né ciò che pensa. Perché? Ovviamente non perché teme le conseguenze che la verità detta in faccia potrebbe avere. Spesso si comporta in un certo modo e non in un altro e dice una cosa e non un’altra per il desiderio di sperimentare e di verificare qualcosa, per scoprire qualcosa degli altri. Quando maledice Cordelia e la caccia, volevo che il pubblico non comprendesse fino in fondo i motivi di questo comportamento, desideravo che si chiedessero se Lear lo fa con una intenzione o soltanto perché si è arrabbiato.
105Allo stesso modo, nel momento in cui Lear, cacciato dal castello di Goneril, arriva da Regan, pronuncia la sua prima frase: «Buongiorno a voi» non perché l’etichetta di corte lo richiede; con questa frase vuole nascondere il proprio timore di ricevere da Regan lo stesso trattamento, sa che sarà cacciato anche da qui. Fa il furbo, allontana il momento della conclusione per vedere come si comporterà Regan, per cui io pronuncio le parole «Buongiorno a voi»34 (a cui Regan risponde: «Sono contenta di vedere Vostra Maestà»)35 e la successiva frase del re: «Ti credo. E so anche perché. Se tu non fossi contenta, dovrei divorziare dalla tomba di tua madre, per adulterio»,36 utilizzando il metodo “vicino alla propria voce”, ovvero con una pronuncia “soffiata”. Quindi non invento i miei metodi e utilizzo l’esperienza di chi è venuto prima in modo abbastanza consapevole, non me ne vergogno, ma ovviamente utilizzo i loro metodi per scopi concreti e determinati.
106La vita dei personaggi di Shakespeare non si sviluppa mai su un solo piano. Non c’è alcun dubbio sul fatto che la sua melodia non sia monocorde. Il compito dell’attore consiste nel saper sentire questo risuonare delle diverse tonalità e melodie, a volte separate una dall’altra da un intervallo abbastanza importante.
107Ecco Lear che guarda il Conte di Gloucester accecato; cerca di ricordare dove potrebbe averlo già visto e ricorda proprio ciò che ora manca a Gloucester, i suoi occhi. «Ricordo molto bene i tuoi occhi», dice. Lo stesso Gloucester viene a scoprire la verità su Edmund e Edgar soltanto dopo avere perso la vista. Diventato cieco, “inizia a vedere”.
108Lear ha commesso un errore grave, che cambia la sua vita fino a quando è in possesso della ragione, ma è nella follia che trova la verità. Lear e Cordelia sono in arresto, hanno le mani legate, sono rinchiusi in carcere, e proprio in questo momento lui ritrova finalmente Cordelia e insieme a lei scopre il senso e il valore della bellezza della vita. Proprio qui, con le mani legate, sulla strada verso il carcere, Lear appare più libero che mai.
109Infine, la morte di Lear. Prova dispiacere nel lasciare la vita? A me sembrava che lasciasse il mondo come un illuminato, con la consapevolezza di avere vissuto gli autentici sconvolgimenti dell’esistenza, comprendendo in punto di morte la verità e il significato della vita. Sono convinto che Shakespeare non avesse riflettuto su questo, ma le ultime parole di Lear non mi sembrano casuali: «Vedi? Guardala. Guardale le labbra» ;37 si riferisce alla bocca di Cordelia, alla bocca che per la prima volta gli ha detto quella crudele ma necessaria verità.
110Il suono, nelle diverse tonalità della partitura del testo shakespeariano, separate l’una dall’altra da intervalli dal significato profondo che esprimono sensazioni opposte, richiede l’utilizzo di doti e metodi attoriali eccezionali. Per esempio ritenevo necessario trovare una forma scenica in grado di rappresentare la follia di Lear per far sì che il pubblico notasse in modo molto netto il confine che separa la pazzia, con tutte le sue fantasie, dalla realtà di una giusta concezione del mondo. Il testo deve suonare contemporaneo e convincente nel modo più assoluto, con una piccola distrazione musicale. Le parole del testo potevano non essere legate tra loro dalle congiunzioni, perfino laddove c’erano questi legami essi dovevano essere nascosti, così che il pensiero di Lear apparisse in modo intermittente e a scatti. Lungo tutto lo sviluppo del suo pensiero doveva in ogni caso essere messa in risalto una forte logica interiore.
111Nella scena della follia bisognava innanzitutto trovare per Lear un tono che esprimesse la lotta e la protesta. Nella mente di Lear ha luogo una rivolta, ecco perché qui pronuncia frasi esteriormente staccate una dall’altra ma strettamente connesse da un significato logico e filosofico. Esse devono risuonare a volte come affermazioni decise, altre come una protesta, altre ancora come affermazioni solenni e silenziose, che testimoniano un risveglio. Tutto ciò doveva ricordare la luce di un cielo che torna chiaro in seguito a una tempesta.
112Nell’ultima scena, quando Lear entra con le mani legate, non devono risuonare la disgrazia e la malinconia. Al contrario, qui secondo me è necessaria la massima commozione, anche sul piano vocale. Voglio dimostrare che Lear lascia la vita con la consapevolezza di una verità acquisita. E mi sembrava giusto iniziare a cantare proprio prima di morire. Mi sembrava anche che negli ultimi momenti, quando la mano di Lear tocca la fronte di Cordelia, insieme al suo ultimo respiro, Lear mandasse un bacio a lei e al mondo intero.
113Ho già accennato al fatto che la scena della maledizione di Goneril è scritta in toni quasi biblici. L’unica distinzione tra le maledizioni dei profeti biblici e quelle di Lear consiste nel fatto che quelle dei profeti sono profezie. Lear dice: «Ascoltami divina! Se tu avessi deciso di rendere feconda questa donna, non farlo. Riempile il ventre di sterilità» ;38 mentre il profeta avrebbe detto: «Il cielo maledirà il tuo ventre». Le maledizioni di Lear si distinguono da quelle di Geremia o Isaia nel momento in cui deve avere luogo la punizione. Maledicendo Goneril, Lear esige che il mondo debba immediatamente stare dalla propria parte, i profeti invece erano più pazienti, credevano nel castigo futuro. Tra i profeti Lear probabilmente somiglia maggiormente a Ezechiele, il profeta più “carnale”, che pensava sempre con categorie basse e materiali. Spinto dal desiderio di mostrare che la miseria e il disonore sono la migliore dimostrazione del servizio a Dio, si vestiva di stracci e mangiava escrementi. Le maledizioni di Lear somigliano a quelle di Ezechiele. Per questo, quando pronuncia la maledizione, essa risuona in modo maestoso,39 è solenne come nei profeti, ma il gesto che accompagna le parole della maledizione deve essere il più carnale possibile. Quando parla del ventre, si colpisce continuamente il ventre, in sala si sente a lungo il suono dei suoi colpi.
114Per i quattro atti della tragedia possiamo distinguere quattro stili, quattro ritmi e di conseguenza quattro timbri vocali. Per me i più difficili dal punto di vista fisico sono i ritmi delle scene delle maledizioni e della tempesta. Ho provato a prendermi il polso dopo queste scene, arrivava a centotrenta o centoquaranta e per molto tempo non tornava normale. Durante il lavoro sul ruolo mi hanno aiutato molto alcuni “compagni immaginari”. Che cosa intendo per compagni immaginari? Il primo compagno era la corona perduta. A volte il suo ruolo è interpretato dalla mano sinistra. Ogni tanto Lear alza la mano sulla fronte priva di corona, a volte con disperazione, altre con perplessità, passa con la mano sulla testa senza corona, cercandola. Solo nell’ultimo atto della tragedia, quando la sua coscienza si è rasserenata, questo gesto diventa inutile, come la corona stessa. Il secondo compagno immaginario è la continua sensazione di Cordelia smarrita. Questo è interpretato da una risata debole ma spensierata come quella di un bambino e dalla testa abbassata con tensione, come se cercasse Cordelia che si è nascosta dietro il trono o dietro il cancello. Infine il terzo compagno sono le lacrime di rancore, che affiorano per la prima volta, poiché viene da pensare che sul trono Lear non abbia mai pianto. Per la prima volta in ottanta anni i suoi occhi bruciano per le lacrime di rancore, cerca queste lacrime anche nel Fool e in Kent. Guarda gli occhi accecati di Gloucester e li tocca con le dita, come per controllare che siano asciutti. Quest’azione è interpretata con la punta delle dita ed è compiuta diverse volte. Ogni tanto controlla: «Vedete, non piango»…
115La continua sensazione di fenomeni della vita del personaggio rende il suo comportamento, le sue parole e la sua vita molto efficaci. Questi compagni mi seguono continuamente durante tutto lo spettacolo. Credo che i compagni immaginari siano necessari all’attore. Non è assolutamente necessario che il pubblico li conosca o li individui, come non è necessario sapere come il violinista tocchi l’arco per fare uscire diversi suoni dal violino. È importante soltanto per i professionisti.
116Per quanto riguarda l’utilizzo di metodi attoriali specifici, è interessante ricordare come è stata costruita la scena del giudizio nei confronti di Goneril e Regan. Nel cervello annebbiato del re compare la decisione di emettere una sentenza su Goneril e Regan. I movimenti di scena sono costruiti nel modo seguente: Lear sposta da una parte il finto folle Edgar e dall’altra parte l’imbarazzato Kent, lui si mette al centro. Mi sembrava che per un attimo avesse immaginato di essere con la sua corte, sul trono, decidendo il giudizio e la punizione. Per questo sembra che salga le scale della corte e si siede su uno sgabello assumendo le fattezze di uno che si accomoda sul proprio trono. Poi, con un movimento abituale, come nel primo atto, conta tutti con il dito e indica al Fool il posto che solitamente era il suo, per terra ai piedi del re. In questo modo, la scena ripete la mimica della scena del primo atto, compresa la risata con cui aveva cercato Cordelia dietro il trono. Solo che adesso, convintosi che Cordelia non c’è, Lear perde la ragione ed è in questa condizione che continua a recitare il giudizio. Giudica Goneril, il cui ruolo è interpretato da uno sgabello vuoto. Qui la sua voce, il gesto, le sue mani che scivolano sul volto, ripetono la melodia che risuonava nella scena della maledizione di Goneril. Giudica Regan rivolgendosi al Fool in quel momento seduto al posto di Regan. Quando pronuncia il nome della figlia, le mani di Lear colpiscono il volto del Fool e si ripete nuovamente il gesto creato per la scena dello scontro con Regan. Lear ha nuovamente la sensazione di essere ingannato, torna a pensare che l’uomo sia una povera bestia biforcuta, parla nuovamente di cani che lo aggrediscono e riprende ad abbaiare. Ecco che vorrebbe aprire il cuore di quella Regan immaginaria e quando colpisce con il pugno credendo di avere un coltello, la sua mano è fermata da Edgar. La scena ricorda quella dello scontro tra Lear e Kent nel primo atto. Improvvisamente alza la testa di Edgar e gli dice di considerarlo uno dei suoi cento cavalieri e passa la mano sul suo collo come se gli mettesse una collana. Cerco di compiere questo gesto in modo simile a quello compiuto dal re francese quando ha ricevuto Cordelia in moglie. Infine Lear guarda come se cercasse Cordelia e inizia a ridere. Fa un movimento con la mano come se volesse accarezzare qualcuno e infine c’è un bacio: tutto ciò deve mostrare che ricorda Cordelia, anche se nel testo non si parla di lei.
117Questa scena puramente mimica è necessaria per mostrare la trasformazione che Lear ha subito.
118Ecco quelle che sono probabilmente le questioni e le soluzioni più interessanti emerse durante il mio lavoro sul ruolo di Lear. So per esperienza che molte altre soluzioni arriveranno in seguito, con il pubblico, durante lo spettacolo.
1191936
Notes de bas de page
1 Notti egiziane, lo spettacolo con la regia di Tairov al Teatro da Camera del 1934, era un montaggio delle Notti egiziane di Puškin, Cesare e Cleopatra di Shaw e Antonio e Cleopatra di Shakespeare.
2 In seguito, in Conversazione sulla creazione scenica contemporanea dei personaggi tragici di Shakespeare, a proposito della regia di Amleto al Teatro Vachtangov, Michoels avrebbe detto: «Shakespeare deve essere presentato in una luce nuova. Ma ciò significa che a Shakespeare devono essere attribuite qualità nuove? Significa che sarebbe stato necessario trasformare Shakespeare, fare come il regista Akimov al Teatro di Vachtangov con la regia di Amleto, in cui il paradosso e il trucco regnavano sovrani, in cui Shakespeare è stato sottomesso ad astruse speculazioni intellettuali, in cui Ofelia diventa una ragazza di strada e Amleto uno studente ubriacone che combatte per il trono e per il potere? Tali sperimentazioni e “creazioni” shakespeariane sono inaccettabili». La Conversazione ha avuto luogo presso la VTO il 29 febbraio 1940, lo stenogramma della conversazione è stato pubblicato su «Raccolta shakespeariana», VTO, Moskva 1958, pp. 462-478.
3 Edizione di riferimento: William Shakespeare, King Lear / Re Lear, a cura di Paolo Bertinetti, note al testo di Renato Rizzoli, trad. di Emilio Tadini, Einaudi, Torino 2004, p. 12.
4 Georg Brandes (1842-1927), danese di origine ebraica, è stato un critico, scrittore e storico della letteratura e della cultura molto conosciuto in Unione Sovietica. Nel 1904 fu autore di una prefazione al Re Lear (W. Shakespeare, King Lear, William Heinemann, London 1904).
5 W. Shakespeare, King Lear / Re Lear cit. p. 12.
6 Ivi, p. 15.
7 Ivi, p. 17.
8 Ivi, p. 95.
9 Ibid.
10 Ivi, p. 177.
11 Ivi, p. 193.
12 Ivi, p. 231.
13 Ibid.
14 S. E. Radlov ha messo in scena l’Otello di Shakespeare nel 1927 al Teatro Accademico del Dramma di Leningrado, nel 1932 al Teatro Molodoj di Leningrado e nel 1935 al Malyj di Mosca.
15 Recensione di O. Litovskij al Re Lear, pubblicata sulla «Pravda» il 27 aprile 1935. La traduzione e l’analisi della recensione è proposta nel capitolo IV.
16 W. Shakespeare, King Lear / Re Lear, cit., p. 223.
17 Ivi, p. 231.
18 Ivi, p. 223.
19 Ivi, p. 15.
20 Ibid.
21 Ivi, p. 367.
22 Ivi, p. 231.
23 Ivi, p. 229.
24 Ivi, p. 231.
25 Ivi, p. 17.
26 Ivi, p. 187.
27 Ibid.
28 Nel 1940, in Conversazione sulla creazione scenica contemporanea dei personaggi di Shakespeare, Michoels ha raccontato del primo ingresso in scena di Lear sottolineando alcuni dettagli interessanti: «Posso certamente dirvi anche delle difficoltà. Potete capire che né io né nessuno della mia famiglia ha mai avuto alcuna esperienza regale. È vero che si dice che un mio omonimo sia stato uno zar, Solomon, ma anche considerandola una parentela, sappiamo qualcosa della sua saggezza e niente dello zar che è stato. Parlando seriamente, vi dico che nella mia figura non vi è niente di regale (che fortuna hanno alcuni miei colleghi-attori!). Forse bisognerebbe fare come dice Barnay [Ludwig Barnay, Memorie, Berlino 1903; ne furono pubblicati alcuni estratti in traduzione russa in «Biblioteca di teatro e arte», luglio 1904, vol. 14]: «Lear esce. Lo fa orgogliosamente e a testa alta». Mentre io, che alzassi la testa oppure no, non riuscivo. Ho dovuto partire al contrario. Ho dovuto accettare la mia altezza, le mie capacità, alcune stranezze della mia struttura fisica. Un uomo che ha meno di ottant’anni. Il suo entourage si era conservato nel tempo: la musica, le dame di corte, i cavalieri, gli inchini. Entra Goneril, entra Cordelia, entra il Fool. E come vuole la tradizione degli spettacoli di Shakespeare, in assenza del re, il Fool si siede sul trono. Anche noi non abbiamo tralasciato questo dettaglio e inaspettatamente lo sfarzo è scomparso. Non c’è musica, le dame restano immobili in un inchino ininterrotto, entra in scena una individuo piccolo, anziano, che non presenta alcun segno di potere o di grandezza, niente. Guarda, conta, manca Cordelia. Ordina a tutti di sedere, siede anch’egli, conta nuovamente, manca Cordelia; si sarà nascosta da qualche parte dietro il trono. A che cosa serviva tutto ciò? Se lo fate entrare in tutta la sua regale grandezza, con tutti i suoi paramenti, si sottolineerà la sua grandezza, la sua imponenza, di certo in un attimo apparirà un re, ma scomparirà il saggio. La cosa più importante era sottolineare l’idea…» (Raccolta shakespeariana, VTO, Mosca 1958, pp. 462-478).
29 W. Shakespeare, King Lear / Re Lear cit., p. 229.
30 Ivi, p. 255.
31 Ivi, p. 179.
32 Ivi, p. 185.
33 Ivi, p. 187.
34 Ivi, p. 175.
35 Ibid.
36 Ivi, p. 177.
37 Ivi, p. 437.
38 Ivi, p. 99.
39 In italiano nel testo.
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