IX. Ricordi e note di Zuskin1
p. 164-178
Texte intégral
Un attore risponde a se stesso
1Un ruolo mi riesce soltanto quando lo vedo mentalmente e lo lego a un volto concreto. È molto probabile che il personaggio così creato non sia affatto somigliante a una persona reale, ma per me questa persona diventa un “faro” nel lavoro sul personaggio.
Andava in scena lo spettacolo Il bandito Boytre. Il contenuto dello spettacolo è il seguente: un uomo molto ricco ha una figlia della quale si è innamorato un povero orfano. L’uomo ricco, per togliere di mezzo l’indesiderato pretendente, così da evitare che ottenga la mano della figlia, con un imbroglio lo fa chiamare per il servizio militare. Il personaggio torna quando la data del matrimonio della sua amata è già stabilita. Facendosi passare per un musicista entra in casa del ricco durante la festa. Nel terzo atto rimane in silenzio, ma è un atto molto importante per scoprire l’essenza del personaggio.
Nelle ricerche del materiale per il personaggio di Boytre avevo ricordato una figura della mia infanzia. Avevamo un lontano parente del quale non si parlava in presenza dei bambini. Un giorno arrivò a casa nostra un uomo molto alto, con una grande barba rossa e gli occhi tristi. Quando chiesi a mia madre chi fosse, esitò. Era il matrimonio di alcuni parenti. Questa persona era rimasta in solitudine sotto un albero. Notai che sulla sua barba era caduta una lacrima e disse: «Anch’io avrei potuto farlo». Venni poi a sapere che era stato condannato ai lavori forzati per calunnia e aveva espiato la propria pena, ma tutti lo evitavano. Questo ricordo fu il mio punto di partenza per creare il personaggio di Boytre. Vedevo una persona umiliata e offesa, rifiutata dalla cerchia dei familiari e dalla società intera; cercavo di trasmettere il modo in cui viveva in modo lirico e intimo, di renderlo più umano. Non ero partito dal suo mondo esteriore ma dal suo mondo interiore. Volevo mostrare un uomo mediocre, piccolo, costretto dalle circostanze ad azioni inusuali. […]
Recentemente, nello spettacolo La sposa capricciosa avevo il ruolo di un sempliciotto da operetta. È stato molto difficile trovare la caratterizzazione per questo ruolo, ma ritengo che in scena tutto debba essere espresso con mezzi teatrali, per cui la caratterizzazione deve essere realizzata con mezzi teatrali. Cercando questo personaggio dovevo trovarne il modo di camminare e la figura. Andavo all’operetta, osservavo attori come Iaron e Volodin. Ma ho costruito il mio ruolo in modo definitivo solamente quando sono capitato in una casa di riposo e tra i presenti ho visto l’attore di un teatro di periferia, un comico caratterista. I lineamenti del suo volto e la sua calvizie, tutto mi mostrava come dovesse essere il mio personaggio. Quando lavoro su un ruolo cerco di “trasportare” dal mondo che mi circonda tutto ciò che può avere a che fare con il ruolo. Quindi, se il materiale mi è familiare è più semplice, mentre mi è più difficile laddove “non sono a casa”. Per esempio, il lavoro sul vaudeville francese Il milionario, il dentista e il mendicante mi è stato più difficile rispetto a personaggi di ebrei, che in me sono molto presenti, e ciò anche se sono stato a Parigi, ho visto persone di quel tipo e conosco la letteratura francese, Balzac, Maupassant, Flaubert, Hugo.
La creazione del personaggio è un processo lungo. Pensando al mio ruolo vedo la figura in movimento, ma la mia immaginazione del personaggio termina quando vedo un volto vero che per me diventa un «modello».
Nello spettacolo Misura punitiva (un copione di Bergel´son sui primi anni della guerra civile) interpretavo un medico provinciale di allora, che dice a tutti: «Io sono uno che sta in disparte. La politica non mi interessa». In realtà però agisce in modo dannoso per la rivoluzione. Quando mi fu assegnato il ruolo iniziai a pensare a questa persona basandomi su ciò che mi avevano dato l’autore e il regista, mi misi a cercare questa immagine nella letteratura russa, in cui è molto diffusa. Ecco che un giorno, riflettendo sul ruolo, ricordai la scuola di Penza e il nostro insegnante di matematica: aveva sempre la bocca semiaperta, i baffi e la barbetta da tricheco. Questo mi portò immediatamente a trovare l’aspetto per il ruolo. Quando lavoro sul ruolo ho assolutamente bisogno di realizzare miei schizzi dell’aspetto esteriore, del costume e del trucco. Se lo scenografo-costumista accetta le mie proposte, gli chiedo schizzi ancora più dettagliati.
Non posso arrivare al personaggio da una soluzione puramente esteriore. No. Prima di tutto è necessario che il “seme” del personaggio sia stato compreso correttamente. Nella ricerca del “seme del ruolo” sono il più ortodosso discepolo di Stanislavskij. In questo per me il suo insegnamento è il più convincente. Ora mi accorgo di comprendere maggiormente Stanislavskij rispetto a prima.
Sono sufficienti i gesti e le intonazioni che compaiono spontaneamente nel processo di lavoro sul ruolo? No. Devono essere elaborati fino alla fine. Tra tutte le possibili varianti bisogna sceglierne una. Questa è la cosa più difficile. Faccio molta attenzione al corpo e penso che l’attore debba sviluppare bene il proprio corpo, per fare in modo che quando padroneggia il personaggio non debba pensare a come fare un movimento o un altro. Non aspiro all’efficacia esteriore dei gesti. Il gesto è anch’esso un senso implicito. È un “senso implicito in azione”, se così si può dire, per questo ha grande importanza. Preferisco non imparare i movimenti fino alla fine, lascio molto spazio al gesto che può nascere in modo spontaneo. Durante il lavoro non utilizzo lo specchio e lo considero dannoso. Il lavoro dell’attore è un’arte sintetica nel senso più profondo e autentico della parola. Ne fanno parte la musica e il movimento plastico, e cerco di ottenere l’effetto necessario con mezzi diversi. Non ho preferenze per nessuno degli elementi che ne fanno parte, cerco di fare in modo che tutto sia omogeneo.
Che significato ha per me il primo incontro con gli elementi dello spettacolo, con gli oggetti di scena e con le luci? All’inizio tutto ciò mi infastidisce, poi ci si abitua. Fin quando non diventa familiare, tutto ciò è fastidioso. Anche il costume. Sono già abituato a provare con i miei vestiti e tutto ciò che è nuovo suscita una reazione. Per questo motivo a volte mi alleno in anticipo per alcuni dettagli del mio aspetto esteriore. Se per esempio in scena mi serve una pipa, nella vita vado sempre in giro con la pipa. Aiuta.
La sensazione della creazione del personaggio arriva alla fine del lavoro, come un risultato. A portare a questa sensazione in modo che nel ruolo tutto “irradi luce” può essere qualche dettaglio del trucco o del costume. Ritengo che per l’immagine scenica [sceničeskij obraz], il costume non sia soltanto una presentazione estetica esteriore. Se indosso o utilizzo l’accessorio di un personaggio o di un altro, indipendentemente da me, ricevo le posture del corpo legate al costume.
Nel mio lavoro conta molto anche la luce. Se in scena le luci sono di una gamma chiara, è una cosa; se sono di una gamma scura, è un’altra. Dalla luce dipende molto. Per questo fino alla prova generale io giro sempre “intorno”, non prendo il mio ruolo “di petto”. Più è grande l’attore con cui lavori, più ricevi. Ho avuto fortuna, in scena il destino mi ha messo continuamente in contatto con S.M. Michoels. Quando devo andare in scena con Michoels sono di umore festoso e allegro.
Durante le prove guardo sempre come recitano i miei compagni. Se nello spettacolo due attori interpretano lo stesso ruolo, tengo sempre in considerazione quello con cui dovrò andare in scena quella sera.
Quali sono le mie richieste nei confronti dei partner? Più il partner è complesso, profondo, brillante e interessante, più il mio personaggio si arricchisce.
Ecco perché è una tortura lavorare con attori privi di talento. In quei casi sento che il mio lavoro potrebbe essere molto più profondo e interessante. Quando vedete che davanti a voi si trova un attore che porta con sé l’atmosfera del personaggio assegnatogli, quando sentite un personaggio pieno di vita, siete costretti a rispondergli allo stesso modo. Quando però questo non avviene, quando il collega vi guarda con occhi vuoti è difficile comunicare con lui. Ecco perché desidero sempre lavorare con un attore come Michoels, un grande attore dal quale posso imparare.
Il mio lavoro sulla parte continua anche dopo la prima. Per quanto abbia lavorato sul ruolo in prova, tutto dipende dal mio incontro con il pubblico. Sono io a creare il ruolo, ma il pubblico può determinare alcune modifiche. Se per un attore tutto è stabilito una volta per tutte, con il pubblico non ci sarà alcun contatto.
Ora il mio lavoro sul ruolo è diventato più veloce. In passato durante lo spettacolo mi sembrava sempre di camminare sull’orlo di un precipizio e per questo volevo lavorare molto di più prima dello spettacolo. Ora, avendo acquisito una certa esperienza, preferisco tempi di lavoro più veloci.
C’è una regola che cerco di rispettare: mi sembra che per migliorare l’attore non debba continuare a provare fino alla fine. Deve lasciare qualcosa per una interpretazione spontanea durante lo spettacolo, qualcosa di fresco, di non ancora fissato. Nella maggior parte dei casi mantengo il disegno in modo molto preciso, non cambio i movimenti di scena (possono essere gli stessi per cinquecento repliche), ma ogni volta cerco di rinfrescare l’interpretazione con qualche dettaglio.
A volte il lavoro sul ruolo che segue la prima comporta alcune modifiche nel disegno del ruolo.
Penso che in scena l’attore debba sentirsi libero, non nel senso che deve uscire in vestaglia, ma che deve mantenere la propria libertà, per non permettere che qualche imprevisto possa confonderlo.
C’è stato un tempo in cui mi sentivo molto legato: mi sembrava di avere dimenticato il testo e mi emozionavo molto. Ora mi sento molto più libero. Prima gli errori casuali di un partner in un movimento di scena potevano scompaginare la mia interpretazione, una parola detta in modo diverso mi creava una certa agitazione. Ora invece quegli errori mi offrono occasioni di improvvisazione. Il lavoro su un personaggio può durare anni. Gradualmente si sovrappongono momenti brillanti e colori nuovi. Quando lo spettacolo è pronto ed è già stato interpretato, mi chiedo spesso perché non sono riuscito ad aggiungere un nuovo dettaglio, una cosa nuova? […]
In genere, quando si interpreta un ruolo per un certo periodo e poi se ne rilegge il testo, si trova sempre qualcosa di nuovo, di diverso. La vita personale dell’attore è fortemente legata alla sua arte; ha un rapporto talmente diretto con il lavoro creativo che diventa impossibile separarle. Per questo in un certo arco di tempo il ruolo si percepisce in modo nuovo.
Il personaggio [obraz] può diventare gradualmente più profondo. Posso partire da una immagine [obraz]2 per andare verso la percezione dell’epoca, della sua atmosfera e di conseguenza rappresentare il personaggio in modo nuovo, posso partire dal particolare per arrivare al generale. Se prendiamo I viaggi di Beniamino Terzo, la cosa migliore che io abbia fatto, più ci penso e più mi si rivelano le sue profondità. Inizio a vedere questo personaggio in modo più chiaro e a immetterci una più matura comprensione della vita.
Com’è il mio stato d’animo il giorno dello spettacolo e durante lo spettacolo? Quando vado allo spettacolo cerco di pensare al ruolo, lo tengo a mente, cerco di pensare ai suoi momenti salienti.
A volte capita di andare in scena e di entrare immediatamente nel ruolo. Ciò accade quando nel ruolo ci si sente liberi. A volte capita che all’inizio dello spettacolo si sia in buona forma e che improvvisamente un qualche dettaglio distragga e abbia inizio la caduta. Mi succede così nella scena della steppa nel Lear: ho la sensazione che non finisca mai. Questo si può spiegare con la mia stanchezza dopo i primi due atti. Così vive un ruolo fatto e elaborato durante uno spettacolo.
Se esco dal ruolo, cerco di concentrarmi il più possibile, di non pensare a niente, di non guardare il pubblico. In scena in genere ascolto le mie intonazioni e mi controllo. Non posso dire che sia la regola, ma succede molto spesso. Mi metto al posto dello spettatore, mi osservo.
Nell’intervallo posso parlare di cose estranee allo spettacolo, questo non mi ostacola nell’entrare nel personaggio.
Può capitare che durante l’interpretazione in qualche modo io esca dai limiti previsti? Molto raramente. Sono momenti di grande slancio.
Una volta, quando interpretavo il bandito Boytre, prima del finale, quando il mio personaggio racconta di sé, durante il monologo, iniziai a piangere. Allo spettacolo c’era una persona che conoscevo bene, una grande autorità per me. Mi disse che aveva disapprovato quando avevo pianto, perché avevo perso il controllo di me stesso. Ci sono momenti in cui ci si dedica totalmente al lavoro, ma accade raramente.
Per questo il ruolo diventa più convincente? Senza dubbio. Esiste questa regola: tutto ciò che si fa deve essere il più convincente possibile per se stessi. Se si entra in un ruolo, se ci si dedica totalmente a esso, allora sarà convincente anche per il pubblico. È vero che a volte possono esserci alcune eccezioni: ci si agita e lo spettatore resta freddo.
Se vivo i sentimenti del personaggio in scena? A volte, non in tutti i ruoli. Amo molto gli anziani e le anziane, e nei primi tempi interpretavo soprattutto questi personaggi. Mi piace la saggezza della persona anziana. I ruoli di Rabbi Akib in Bar Kokhba e dell’anziano insegnante in Arn Friedman mi sono molto cari. In tutti i ruoli cerco di trovare qualità che mi sono affini.
Come influisce sull’interpretazione il mio stato d’animo personale? Quando sono di cattivo umore ho voglia di passare ad altro, per dimenticare il mio dolore. Questo vale per la tragedia, il dramma e la commedia.
A volte capita che raccontare di sé al pubblico con le parole non sia possibile. Dipende dal ruolo. Ci sono situazioni in cui c’è qualcosa che mi tormenta e questo entra nel ruolo, per esempio in Stelle vagabonde. Perché il compito dell’arte è mostrare la realtà, ma con gli strumenti dell’arte.
Sono un insicuro e quando mi assegnano un ruolo non sono mai sicuro di farcela. A volte dico al regista che il ruolo non è stato abbastanza provato. Questo non è dovuto a un’eccessiva modestia o alla volontà di mettersi in mostra, no, è una profonda convinzione, che sorge in un primo momento. Per la paura sono fuggito dal primo spettacolo amatoriale. Dopo molti anni di lavoro in scena è successa la stessa cosa: mi sembrava di essere una nullità e di essere capitato in teatro per caso. Questo sentimento mi ha accompagnato tutta la vita. Per questo ho lasciato la scena un paio di volte. Quando vedevo un bravo attore, questo mi opprimeva: mi dicevo che non avrei mai potuto recitare in quel modo. Lo sento anche adesso. Quando preparo il ruolo o mi trovo in scena, penso sempre che cosa direbbero Stanislavskij o Nemirovič-Dančenko se vedessero ciò che ho fatto. In genere, a essere sincero, ho paura della scena, ho paura del pubblico. Ogni volta iniziare mi è molto difficile. Non amo partecipare ai recital. Quando capita, preferisco non esibirmi in frac ma con un costume, con il trucco e con tutto ciò che ha a che fare con l’attore.
Amo da sempre interpretare nell’intimità, vicino allo spettatore. Penso che da questo punto di vista il Teatro d’Arte sia un teatro meraviglioso. Mentre nel grande Teatro dell’Opera di Odessa è stato difficile recitare. La cosa migliore è recitare nello spazio del proprio teatro, a cui si è abituati.
C’è stato un tempo in cui andavo in scena come al patibolo, anche se il mio lavoro aveva grande successo (per esempio nella Strega). Più interpretavo e meglio era accolto il mio lavoro, più in me c’era paura e più cresceva il senso di responsabilità; mi sembrava di non poter soddisfare le richieste.
I momenti di soddisfazione piena per il lavoro sono molto rari. Arrivano ogni tanto, per esempio quando un frammento che non andava improvvisamente si sblocca. Questi sono i momenti migliori. Può capitare sia durante le prove che durante uno spettacolo, ma di solito non sono soddisfatto di me.
Perché succede? Più l’attore diventa anziano, più sale la scala della propria maestria, meno soddisfazione ne trae.
Più si diventa anziani, più si è esigenti con se stessi. Grazie al fatto di essere diventato abbastanza maturo nel mio lavoro (sono già venticinque anni che sono in scena), preferisco sentire una critica buona e utile piuttosto che complimenti superficiali e privi di valore: «Ah, che bello!». L’attore matura con l’età.
Sempre nella breve “autobiografia” stilata nel 1946 e inedita fino alla pubblicazione del libro di Ala, Zuskin sente il bisogno di delineare la sua storia d’attore a partire dall’infanzia: «Mio padre radunava noi bambini e ci leggeva gli indimenticabili racconti per l’infanzia di Aleichem. […] Il mio infinito amore per il grande Aleichem, lo scrittore che mi è più caro e la cui arte mi ha nutrito per tutta la vita, risale a quel tempo». Poi, tra gli scrittori preferiti cita Dostoevskij ( «Più di tutti ho amato Delitto e castigo»), cui seguono Peretz, Lev Tolstoj, Dickens, Balzac; tra i drammaturghi cita soltanto Anton Čechov.
1Sì, dunque, il teatro di attori come Michoels e Zuskin nasceva in un orizzonte di testi, però sempre affrontati con la consapevolezza che comprenderli a fondo e riproporli al pubblico contemporaneo comportava una responsabilità creativa equivalente alla scrittura, o meglio, una “composizione scenica” che sempre, naturalmente in misura variabile a seconda del testo originario, comporta una riscrittura drammaturgica. È questo un dato identitario della cultura teatrale russa del tempo, tale da non essere mai enfatizzato dai Nostri, e che di conseguenza rischia di sfuggire al lettore di oggi.
2Zuskin tiene a precisare, in termini molto pragmatici legati al mestiere della scena, che «non si può ignorare il testo, ma la natura del teatro consiste nel “gioco”;3 per questo, se possibile, è necessario sostituire il monologo con momenti recitativi, con pause o gesti, con i movimenti del corpo». E aggiunge: «Qualunque opera letteraria io legga, che si tratti di una pièce, di un racconto o di un romanzo (ma anche della cronaca dei quotidiani!), la leggo da attore. Non posso leggere semplicemente per informarmi di ciò che si racconta nell’opera. Mi interesso alle persone che vi sono rappresentate, cerco di immaginarle, le avvolgo di una certa “aria” [vibrante], cerco di capire il mondo interiore di queste persone e di scoprire le cause e l’essenza della loro personalità». L’applicazione costante di cui parla l’attore non è tanto l’ «arte dell’osservazione» di brechtiana memoria, esercitata piuttosto per strada e nei luoghi pubblici,4 ma un attento riscontro delle azioni compiute dai vari personaggi e della interrelazione tra loro. Il protocollo è confermato fino dal primo approccio ai testi drammaturgici: «Durante la lettura della pièce di cui mi è stato affidato un ruolo, per me ha più significato lo spettacolo come qualcosa di intero, non il mio ruolo. Non vedo me stesso nel ruolo, ma lo spettacolo nel suo insieme. Leggo il testo alcune volte, cerco di capire e trovare il significato fondamentale degli eventi. Prima di tutto assimilo l’intera pièce…». Questo atteggiamento, naturalmente, assunse diverse sfumature nel corso del tempo. Nel caso di Zuskin, con la maturità, il rispetto per il testo assume la forma seguente:
Un tempo ripetevo spesso il testo. Ora non penso al testo. Sono giunto alla conclusione che non sia necessario imparare esattamente il testo fino alla fine. Mi sento più a mio agio (ovviamente se non si tratta di un testo poetico). Desidero sempre sentire il testo in modo vivo. Prima, quando mi sembrava che una parola non fosse stata pronunciata correttamente, avevo la sensazione che tutto fosse stato rovinato e mi tormentavo molto. Ora questo non mi preoccupa più. Probabilmente mi sono talmente rinforzato nel mio lavoro che ho capito: la parola detta non è la cosa essenziale, è importante ciò che voglio esprimere con quella parola.
Nel nostro teatro passiamo un periodo di lavoro a tavolino abbastanza lungo e a me piace. In genere amo soprattutto il processo del lavoro sulla parte che precede lo spettacolo, perché è un momento di “raccolta” creativa. Per me il periodo più interessante e tormentato del lavoro sul ruolo è quello della preparazione delle “bozze” dei ruoli da interpretare.
Posso stare a tavolino e lavorare sul susseguirsi logico delle azioni, sulla scoperta del testo o del testo implicito, mentre posso lavorare sull’intonazione delle mie battute soltanto quando conosco lo spazio fisico. L’intonazione nasce insieme al movimento. Per questo finché non padroneggio tutto il mio “patrimonio” non posso soffermarmi su una certa intonazione. A volte qualche movimento di scena può darmi un suggerimento in un frammento o in un altro, così arrivo a trovare una nuova intonazione.
Ovviamente avere un metodo non significa precludersi soluzioni molto personali, come per Zuskin (e Ejzenštejn) il disegno: «Nel mio lavoro preparatorio sul personaggio, quando più o meno inizio a sentire il ruolo, disegno l’aspetto della persona che compare di fronte a me. Di solito disegno con la matita. Faccio le mie innumerevoli bozze finché non mi fermo su un volto in particolare. E quando trovo questo volto cerco di restare legato a ciò che ho trovato. Disegno la persona in diverse posture, ma soprattutto disegno il volto, l’espressione della persona o un qualche dettaglio». Tuttavia il dato generale da sottolineare con forza consiste nel fatto che si sta delineando la figura di un attore completo, di un operatore culturale ben diverso dall’interprete teatrale com’è generalmente inteso nella nostra tradizione recente. E questo presuppone una pratica rigorosa di altre discipline e linguaggi, tuttavia inutile senza una forte passione. In proposito Zuskin era molto chiaro:
Nella mia crescita come attore la musica ha avuto un grande ruolo, soprattutto la musica popolare. Peretz ha lasciato un aforisma splendido: «La musica è al di là delle parole». Le canzoni, soprattutto quelle popolari, possono commuovermi. Amo molto čajkovskij per la sua liricità. Più di ogni cosa però amo le canzoni popolari. Amo follemente le canzoni russe accompagnate dalla fisarmonica. Su di me l’impressione più forte la fa la musica ebraica non professionale. Ricordo di avere sentito violinisti bravissimi durante l’infanzia, ma più di ogni altra a commuovermi era la musica ebraica più semplice: i musicisti klezmer che suonavano ai matrimoni, che non conoscevano le note e non potevano mai ripetere la stessa melodia, e nonostante ciò la loro interpretazione era davvero straordinaria.
Amo utilizzare la musica nel mio lavoro. Quasi ogni mio ruolo ha un Leitmotiv, e quasi sempre canto qualche canzone. Mi sembra che le canzoni contribuiscano a creare una maggiore apertura del personaggio. Mi sembra che cantare una canzone a volte sia molto più forte che recitare un monologo. In generale nel personaggio amo l’intimità lirica e in questo la musica aiuta.
Un attore di questo tipo non sottovaluta la funzione della regia, anzi. La faccenda, qui, si fa complessa e più che le formule contano le esperienze. Ecco quella di Zuskin:
Ho iniziato a occuparmi del lavoro di regia dal 1935- 1936. Ho fatto gli spettacoli Herschele Ostropoler, Il sarto stregato, Freylekhs, La famiglia (in collaborazione con P. A. Markov al Teatro di Nemirovič-Dančenko), e poco tempo fa ho preparato una serata di “ritratti”. Come regista dedico molta attenzione al varietà.5 Il varietà mi affascina, anche se richiede la massima espressività nell’interpretazione dell’attore. Oltre a questo, ho messo in scena alcuni spettacoli di fine corso a scuola. Faccio tutto ciò soltanto come attore, dal punto di vista dell’attore, non scopro nessuna “America”.
Nel mio impegno registico mi ha appassionato soprattutto il lavoro con l’attore. Mi interessano però anche il lavoro con il compositore delle musiche e con lo scenografo. In generale nel lavoro come regista è affascinante vedere come sono creati i personaggi, come “si riempiono” di significato vivo e di contenuto. I movimenti di scena hanno un senso implicito ed è interessante scoprirlo. Come regista vedo bene il movimento del personaggio, ma vedo vagamente la sagoma dello spettacolo. Per questo non riuscirò mai a essere un regista.6 Più di ogni altra cosa a me interessa l’attore in scena, che io sia il regista o il pedagogo, mi interessa soprattutto questo. Come regista chiedo sia agli studenti che agli attori con cui lavoro la massima iniziativa.
È accaduto che mi trovassi a essere regista di uno spettacolo in cui io stesso recitavo (Il sarto stregato e Freylekhs). È stato molto difficile. Quando è il regista a recitare spesso si rende conto di non essere nel personaggio, ma di guardare come stanno recitando gli altri. Probabilmente in queste situazioni mi ha salvato il fatto di riuscire a reagire prontamente sul piano artistico.
Mi sembra che l’attore che svolge un’attività pedagogica e registica trovi poi più senso anche nel proprio lavoro di attore. Dopo la mia esperienza con la regia, la mia percezione dello spettacolo è cambiata. Quando arrivo a uno spettacolo, guardo come sono realizzati un frammento o un altro, e non riesco a liberarmi dello sguardo da regista, che mi accompagna. Ora sento maggiormente l’aspetto registico dello spettacolo.
Anche la trasmissione del sapere teatrale è vitale. Quando e se giunge alla maturità l’attore ha qualcosa da trasmettere, e insegnare è il modo per non smettere di studiare. Zuskin conferma:
Nella mia attività teatrale il lavoro pedagogico occupa un posto decisamente importante. […]
Per occuparmi con successo della mia attività pedagogica devo conoscere molto bene le persone con le quali ho a che fare. Ecco perché sono molto rigoroso sia nell’ammissione degli studenti sia con ogni allievo durante le mie lezioni. Cerco di ottenere che ognuno parli nella lingua che gli è peculiare. Nel lavoro unisco la teoria alla pratica. Al primo corso si studiano gli elementi del lavoro dell’attore sulla parte, il secondo anno si lavora su autori specifici e il terzo si realizzano frammenti e parti di opere drammatiche, il quarto è dedicato allo spettacolo finale.
Nel mio primo approccio con i giovani cerco di descrivere tutta la complessità del lavoro dell’attore, la difficoltà del percorso a cui ci si dedica. Cerco di educare gli studenti all’amore per il teatro, per il loro lavoro e a essere molto esigenti con se stessi. Soltanto una persona educata, un degno cittadino del proprio paese può fare l’attore. Inizio con i fondamentali principi etici propri dell’attività dell’attore e continuo a farlo per tutti e quattro gli anni. Spingo gli studenti a frequentare i teatri, poi parliamo di ogni singolo spettacolo. Il secondo anno propongo di ripetere qualche etjud eseguito il primo anno, il terzo lo stesso, così che si rendano conto della strada che hanno fatto.
Amo il lavoro pedagogico, allo stesso tempo lo temo, perché richiede molta responsabilità, mi ci appassiono molto e non disturba il mio lavoro come attore. Mi dà molto. Posso mettermi alla prova. Attraverso il lavoro pedagogico deduco alcune leggi per me.
Nel lavoro con gli studenti cerco di evitare le dimostrazioni: l’attore deve sapere in ogni istante perché compie una certa azione, gli studenti devono avere un atteggiamento consapevole nei confronti del personaggio. L’attività pedagogica mi arricchisce, ogni lezione richiede un’adeguata preparazione. Nel lavoro pedagogico più di ogni altra cosa mi entusiasma l’attimo della creazione, quando vedo che lo studente ha capito qualcosa, questo mi dà grande gioia.
La pratica di linguaggi diversi come il cinema (oggi ci si riferirebbe anche alla televisione e alla radio) è positiva per un attore che ne distingua le specificità e impari a riportare poi sulla scena i dati di esperienza che la riguardano:
Lavorare nel cinema è più difficile rispetto al teatro, anche perché tutto il ruolo è fatto di pezzettini. All’inizio si gira il finale, tre mesi dopo si fa l’inizio del film… Ciò che salva è conoscere molto bene il proprio ruolo. Ho interpretato il Fool nel Lear cinquecento volte. Nel caso in cui mi chiamassero improvvisamente a una prova, potrei interpretare ogni frammento senza preparazione, perché il personaggio è radicato in me. Deve essere così anche al cinema.7
In teatro a volte è necessario fare un gesto ampio, tenendo conto del pubblico, mentre al cinema il lavoro dell’attore ha un carattere più interiore perché è l’obiettivo a ingrandire e rinforzare. In teatro è necessario “formare” alcuni aspetti dell’espressività, mentre nel film questo non accade, perché l’immagine sarà ingrandita molte volte. Qui sono richiesti altri metodi per realizzare la maestria dell’attore. Per il cinema preparo il ruolo come faccio per il teatro, ma la realizzazione è diversa.
Il lavoro nel cinema ha dato qualcosa al lavoro teatrale? Molto. L’arricchimento dell’attore ha luogo proprio grazie alla loro diversità. A volte dopo le riprese ci si rende conto che entrando in scena in teatro si fa ciò che si è appena fatto in un film. Nel cinema tutto deve essere più naturale, quando ci si trova di fronte all’obiettivo alcuni metodi di interpretazione legati alla tecnica del lavoro teatrale vanno eliminati. Per un attore di teatro essere ripreso in un film è un problema tutt’altro che insignificante. In teatro, quando entro in scena, sento il respiro del pubblico. Esso emoziona l’attore. Nel cinema non c’è niente di tutto questo. Si recita di fronte a un pubblico immaginario. Perciò penso che l’immaginazione di un attore cinematografico debba essere più sviluppata rispetto a quella di un attore di teatro.
***
Dopo essere stato torturato e avere confessato colpe inverosimili, sue e di altri, Veniamin Zuskin tentò ripetutamente di raccontare ai giudici la propria vita e di spiegare da quali principi etici fosse mosso, nonostante sapesse che comunque sarebbe stato condannato a morte. In quel frangente sentiva il bisogno di lasciare una testimonianza sulla sua vita d’attore, come aveva fatto con il suo curriculum, molto dettagliato dal punto di vista tecnico e personale: un atto apparentemente incongruo in quella situazione. Infatti i giudici, per niente interessati alle sue considerazioni sulla professione, lo invitavano ripetutamente a essere breve. Forse Zuskin pensava anche agli archivi, con la speranza che un giorno la sua “difesa” sarebbe stata resa nota. Le pagine del suo curriculum, comunque, nel tono sembrano rivolte piuttosto ai suoi colleghi, specie i più giovani. Sia come sia, le sue considerazioni hanno la tonalità evidente della sincerità: l’ultimo Zuskin è davvero l’attore che parla attraverso le fiamme del rogo che lo sta uccidendo, come avviene metaforicamente nel famoso testo di Antonin Artaud. E ci consegna un documento d’inestimabile valore, unico nella storia della letteratura teatrale. Il valore di queste pagine è costituito anche da un senso di mistero. Perché Zuskin, ormai dentro e oltre la disperazione, sentiva il bisogno di parlare dei recessi più intimi del mestiere d’attore e di come il senso di una vita e di una ricerca si possano concretizzare in un artigianato? Sono pagine che non nascondono i dubbi, la sofferenza e le contraddizioni che caratterizzano la professione, ma che ricordano anche il senso di pienezza per le scoperte e le trasformazioni che di tanto in tanto costellano i processi, dimostrando come il teatro sia, a certe condizioni, una prassi della filosofia. Il mistero comunque resta e resiste a qualsiasi lettura storica o filologica. Anzi potremmo dire che la percezione di questo mistero vivo sia la sensazione più luminosa che trasmettono quelle pagine, che da profondamente autobiografiche diventano universali. Nel quadro dell’ultima meditazione, il lavoro dell’attore non è qualcosa che porta alla costruzione di un ego sempre più forte; l’osservazione e l’ “imitazione” del mondo, degli altri, orienta semmai verso una differente logica identitaria: non un singolo “io” ma una moltitidine di relazioni. Sembra che così facendo Zuskin si sia chiesto e abbia compreso che quel tribunale stava eseguendo la condanna a morte di un’intera cultura, di un popolo, di un mondo, il suo, ma anche di una “umanità” che comprendeva gli stessi giudici. «È una tortura lavorare con attori privi di talento», afferma Zuskin in uno dei passaggi citati. Forse è questa la vera tortura che gli ha inflitto il regime: i suoi giudici erano attori privi di talento e lui ha dimostrato cosa sia un vero attore.
3La storia di Michoels e Zuskin è finita in tragedia, ma la loro vita di attori è ricca di insegnamenti, vero e proprio monumento a un’etica rigorosa e a una raffinata tecnica di lavoro teatrale, di necessità sempre inedita. Se è stato giusto cominciare dalla fine, dagli eventi che mettono ogni lettore di fronte alle inevitabili prese di posizione ideologiche e politiche, altrettanto giusto era porre l’accento sul lascito poetico dei due “gemelli”, perché i principi che si possono desumere dai loro compimenti artistici sono e saranno validi per chiunque si dedichi al teatro come strumento e luogo di una “sincerità” che forse non arriverà mai a coincidere con la verità assoluta ma che sicuramente aiuta a smascherare la falsa coscienza che ingombra il presente e forse a comprendere quale sia il senso più autentico, o almeno più efficace, del fare artistico.
Notes de bas de page
1 Tutte le citazioni seguenti sono tratte dal “curriculum” di V. Zuskin riproposto da A. Zuskin Perelman in appendice a I viaggi di Veniamin cit.
2 Il termine obraz è utilizzato in questo caso prima nell’accezione attoriale e poi nel suo significato generale.
3 Cfr. la nota 1 del cap. v e la nota 11 del cap. viii.
4 In un altro passaggio infatti precisa: «Quando lavoro sul ruolo ho l’abitudine di passeggiare per strada. Guardo attentamente i volti delle persone. A volte un dettaglio, una intonazione sentita per caso mi danno qualcosa. Spesso osservo la gente sul tram, a volte nei discorsi altrui trovo l’intonazione che mi serve. Come un’ape che raccoglie il polline da tutti i fiori, raccolgo vari elementi separati, poi dalla memoria riemergono momenti diversi e un giorno trovo ciò che stavo cercando: “Eccolo!”. Ma prima deve passare un certo tempo…».
5 Con il termine “varietà” (estrada in russo) si indica uno spettacolo fatto di frammenti diversi, di “numeri” se vogliamo, con testi e stili dissimili, a volte anche ispirati a scene di copioni recitati anche, in altre occasioni, nella loro integrità. Si è già visto l’esempio del “sarto” diventato il numero di Zuskin a partire dal suo provino di ammissione. In senso più generale estrada comprende l’arte circense, foranea (balagan), cabaret, intrattenimento, teatro di strada, ecc.
6 “Postanovščik” ( “allestitore”) può essere sinonimo di “režissër”. Nell’organizzazione interna dei teatri, specie a partire dagli anni Trenta, è stato spesso utilizzato, anche a causa della sovrabbondanza di personale, ed esplicitato nelle locandine degli spettacoli, a indicare una figura artisticamente e/o organizzativamente sovraordinata ad altri “režissëry”, di solito più giovani, ai quali era affidata una mansione marcatamente esecutiva. Zuskin sembra alludere alla figura registica che nelle “mizansceny” si occupa dell’aspetto complessivo dello spettacolo concentrandosi più sui movimenti scenici dell’insieme e sulle soluzioni scenotecniche che sul lavoro con i singoli attori.
7 Interessante in proposito la connessione proposta da Peter Brook tra il teatro di Shakespeare e il cinema: «Fin dagli esordi il cinema scoprì il principio del cambiamento di prospettiva; in ogni angolo del mondo il pubblico accettò senza alcuna difficoltà la grammatica del campo lungo e del primo piano. Shakespeare e gli elisabettiani fecero una scoperta simile. Si avvalsero dell’interazione tra un linguaggio quotidiano e uno più elevato, tra prosa e poesia, per variare la distanza psicologica tra il pubblico e il tema trattato. L’importante non è la distanza in sé, ma il continuo spostamento tra i diversi piani» (in Il punto in movimento. 1946-1987, Ubulibri, Milano 1988, p. 47).
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