VI. Uno spettacolo del secolo
p. 112-145
Texte intégral
1Quando tra addetti ai lavori si deve deliberare, per gioco o seriamente, quale sia stato lo spettacolo teatrale più importante del ventesimo secolo, il più votato risulta di solito Il revisore nella versione di Mejerchol´d. Nella decina di testa entrano i nomi di Tadeusz Kantor, Jerzy Grotowski, Peter Brook, Giorgio Strehler, Robert Wilson e, più rapsodicamente, altri. Mai sono citate le massime realizzazioni granovskiane del Goset, così come non si ricordano Solomon Michoels e il suo Lear. Ciò accade soltanto per una mancanza di conoscenza, poiché i documenti che ci restano e le reazioni dei contemporanei, così autorevoli e pressoché unanimi, non consentirebbero di escludere le opere del Goset da quel gruppo.
2Anche per il Re Lear, come per il Revisore, disponiamo soltanto di poche sequenze filmate che comunque consentono una riflessione più approfondita di quella resa possibile dai soli documenti scritti.1
3Se il Re Lear può essere considerato tra gli esiti maggiori di Michoels e del teatro yiddish moscovita ciò dipende dal concorso di diverse circostanze che intrecciano motivi storici e vicende individuali.2 Cominciamo con il ricordare che il testo shakespeariano era entrato nella vita di Michoels come evento iniziatico, incontro fatale della prima giovinezza. L’estroverso liceale ebreo di Riga ne aveva trovato il testo russo nella biblioteca paterna e recitò in classe l’ultimo monologo del superbo e infelice sovrano che conquista la propria “illuminazione” al culmine della tragedia da lui stesso innescata. L’emozione creata da quella recitazione aveva portato alla “condanna” promulgata dal professore e dai compagni a diventare attore contro ogni aspettativa del suo ambiente d’origine, attore in quanto capace di trasfigurare artisticamente il proprio vissuto e la singolarità del proprio sguardo sul mondo. Michoels diventò un attore professionista nel 1919, appena dopo la Rivoluzione d’Ottobre, inizialmente un attore destinato a mettersi al servizio di un grande regista e a intraprendere in quelle straordinarie circostanze storiche un difficile cammino di emancipazione, per poi ritrovarsi, dopo la defezione di Granovskij nel 1928, a capo del teatro, gravato di pesanti responsabilità politiche e amministrative, nonché oggetto di pressioni e di sospetti da parte del regime stalinista che esigeva un teatro yiddish più patriottico e ideologicamente omologato ai dettami del realismo propagandistico. Il 1930, anno contrassegnato dal suicidio di Majakovskij, episodio dal forte sapore simbolico nella parabola del comunismo reale, segnò in Russia l’inizio della fine per tutte le avanguardie, con il loro portato di critica e di ironia, di colore e di vitalità, e tutti i teatri furono sempre più costretti a privilegiare i grigi drammi sovietici imposti per legge. Michoels e i suoi colleghi dovettero mettere in scena diversi drammi di questo tipo, in genere scritti da giovani ebrei, sempre popolati di buoni comunisti che trionfavano sui cattivi. Lo fecero cercando di arricchire dialetticamente la narrazione e artisticamente la scena,3 ma il loro tentativo di riscatto produceva risultati insoddisfacenti per tutti, innanzitutto per gli attori stessi, e non di rado provocava l’irritazione della stampa di regime a causa della loro scarsa “credibilità” e delle inevitabili falsificazioni della storia coeva, amplificate dalla scena: a quei tempi la recensione di un giornale importante poteva avere il valore di una sentenza che successivamente la burocrazia si incaricava di eseguire, sia attraverso la censura diretta4 sia con metodi amministrativi, per esempio tagliando i contributi pubblici o boicottando il teatro tramite “disfunzioni” nella vendita dei biglietti.
4A questa situazione Michoels reagì cercando di intensificare la produzione di testi “classici”, non solo yiddish. Ma non era un’impresa facile. Negli anni Trenta si registrò in Unione Sovietica un revival shakespeariano,5 o meglio alcuni testi del Bardo furono definiti «più che accettabili» (sic!) da una circolare del Comitato Centrale per il Repertorio del 1929. Tra essi figurava Re Lear. Inutile dire che quasi tutte le nuove traduzioni e le messinscene shakespeariane erano basate su forti tensioni allegoriche (basti pensare a uno dei casi più noti, l’Amleto tradotto da Boris Pasternak) e in questo modo inducevano una interrogazione preoccupata circa il duro presente staliniano e la sempre più remota possibilità di sottrarsi alla cappa di piombo del realismo socialista. Ovviamente nei programmi di sala e nelle dichiarazioni ufficiali queste trasgressioni erano velate dal riferimento alla società feudale e alle lotte per il potere rappresentate da Shakespeare come se si trattasse dei connotati di un passato ormai superato. Ciò vale anche per diversi passaggi dei testi teorici di Michoels. Ma tutti gli spettatori erano in grado di comprendere il contrario, la verità, vale a dire come quel mondo intermedio tra fiaba e mito risuonasse nel presente.
5All’enorme fatica per creare le condizioni favorevoli all’allestimento del Re Lear, subentrarono poi i tormentati rapporti tra Michoels e i vari collaboratori dell’impresa, senza dubbio anche a causa della sua inedita interpretazione della tragedia. Michoels dev’essere considerato il primo autore dello spettacolo non solo in quanto responsabile della scelta del testo e protagonista, ma anche perché seguì da vicino ed ebbe l’ultima parola su tutti gli aspetti dell’allestimento, dalla traduzione in yiddish alla scenografia, dalle musiche alla regia, per cui non sarebbe sbagliato affermare che tutti i relativi titolari che figurano in locandina furono in effetti suoi collaboratori.
6La produzione fu messa ufficialmente in prova nel marzo del 1934. La traduzione era stata affidata al poeta Shmuel (russo: Samuil) Galkin,6 Aleksandr Tyšler7 era incaricato di disegnare scene e costumi, Lev Pul´ver8 si occupò delle musiche e delle canzoni, e Sergej Radlov9 fu chiamato infine come responsabile della messinscena.
Il lavoro sulla traduzione
Michoels: «[…] si era molto discusso sulla creatività di Galkin. Qualcuno trovava il suo modo di scrivere reazionario, proprio perché i suoi versi a volte ricordavano lo stile biblico. Era sciocco pensare che Galkin fosse un poeta reazionario perché nella sua creatività trovavano continuità le migliori tradizioni della letteratura ebraica antica. Consideravo questo suo talento particolarmente prezioso per la traduzione del Re Lear. […] Una tonalità da Ecclesiaste è presente in tutta la concezione filosofica di Lear: il suo nichilismo che lo costringe a lanciare una cinica sfida all’amore, alla fedeltà e alla sincerità, la tendenza a una straordinaria concentrazione di colori, tutto ciò induce senza dubbio a confrontare i personaggi di Shakespeare con quelli della Bibbia. Ovviamente dal punto di vista letterario. In questo senso Galkin si rivelò il migliore traduttore del Re Lear. Durante il lavoro però bisognava tenerlo sotto controllo, perché la sua passione travolgente per lo “stile biblico” avrebbe potuto oscurare altre particolarità altrettanto importanti dello stile di Shakespeare. In particolare dovemmo discutere molto sulle parti in prosa della tragedia. Galkin non riusciva in alcun modo a comprendere la prosa shakespeariana e queste parti sono rimaste le più deboli della sua traduzione. […] Galkin non riusciva ad afferrare le differenze tra i giambi di cinque piedi e la prosa di Shakespeare. Discutere con lui era molto difficile, anche perché nella sua traduzione ritmico-prosaica c’erano molti buoni risultati poetici» (Il mio lavoro sul “Re Lear” di Shakespeare cit.).
… sulla scenografia
«[…] Fu il suo primo lavoro al nostro teatro. […] Tyšler fa parte di quegli artisti che si fidano soprattutto della propria percezione interiore, molto soggettiva e straordinariamente raffinata. Legge la pièce una sola volta e poi segue completamente la prima impressione. Penso che durante la lettura non veda neanche le parole, che davanti ai suoi occhi appaia immediatamente lo spazio scenico, è come se leggesse lo spazio. Questa ovviamente è una capacità estremamente preziosa per un pittore. A volte però… […] Il primo bozzetto della scenografia era straordinariamente simile a quello per il Riccardo III. Probabilmente sia nel Lear che in Riccardo III (lavorava contemporaneamente su queste tragedie), Tyšler vedeva “Shakespeare in generale”. I disegni ricordavano qualcosa di molto lontano, simile a una fiaba o a una leggenda. Ma in qualche modo questo bozzetto si riallacciava a ciò che pensavo. Il bozzetto ritraeva due piattaforme poggiate su piedini corti e affilati. Su queste piattaforme stavano due cavalli uno di fronte all’altro coperti da una groppiera. Le teste dei cavalli sostenevano due piattaforme superiori simili a balconi. […] Tyšler spiegava che i cavalli richiamavano la popolarità di Shakespeare e la primitività dell’epoca ritratta. Nella scenografia Tyšler cercava di trasmettere lo spirito del vecchio teatro shakespeariano immaginato come un balagan ambulante. Devo confessare che questa bozza preoccupò sia me che Radlov. […] Eravamo del tutto concordi nel desiderio di creare uno spettacolo profondamente realistico. Il progetto di Tyšler non coincideva in alcun modo con questa intenzione, a tal punto che rischiava di provocare un contrasto tra noi. Tyšler chiese a Radlov quale sarebbe dovuto essere, secondo lui, il Leitmotiv della scenografia. Con fermezza Sergej Ernestovič affermò che per lui l’elemento principale era il cancello del castello che si chiude alle spalle di Lear. In questo modo Radlov formulò molto concretamente il compito del pittore. L’immagine del ponte levatoio doveva creare l’impressione di una separazione tra Lear e il castello e doveva sottolineare che Lear era diventato un esiliato, che si era allontanato e aveva tagliato con tutto ciò che gli era familiare. Questa immagine era così chiara e convincente che Tyšler accettò di preparare un nuovo modello. […] Volevamo rendere l’espulsione uno dei momenti più importanti dello spettacolo. […] Inizialmente Tyšler non era d’accordo, ma improvvisamente “vide” l’opera in modo nuovo e preparò subito un nuovo modello di scena, immediatamente accettato sia da Radlov che da me. Avevamo di fronte un edificio in mattoni, le cui mura, quando necessario, si aprono come un cancello. All’interno ci sono due sale, una di colore nero, l’altra rosso scuro. Le scale che portavano in queste sale potevano trasformarsi in ponti levatoi. Le statue e le immagini corrispondevano allo spirito del Rinascimento. Il castello presentava un insieme molto particolare di interno ed esterno. Per il pubblico si chiudeva con un sipario, sul cui sfondo alcuni episodi della tragedia potevano svolgersi in proscenio. Il sipario era di due tessuti, uno nero e uno rosso, su ognuno erano ricamate porte e drappi. […] Per la scena della tempesta, Tyšler non riusciva a trovare una soluzione. Pensava di avere realizzato il proprio compito e che il resto andasse fatto dal teatro senza la sua collaborazione. Poi, cedendo alle richieste del regista realizzò meccanicamente ciò che gli era richiesto: appese un velluto nero, facendoci passare una nuvoletta e mise al centro della scena anche un albero rinsecchito e caduto. […] Più tardi Tyšler passò ai costumi. Penso che i costumi dello spettacolo fossero molto indovinati. […] Nella prima scena Lear indossa un abito nero con decorazioni in oro e sopra un mantello su cui sono apposte alcune corone, come stelle su un cielo scuro. Nell’incontro con Goneril, che lo caccia, indossa un mantello più modesto del primo, a significare la passata grandezza del re… Quando Lear è nella foresta, il mantello è ormai appeso come uno straccio su una spalla sola, il colletto è aperto e il petto è nudo. Nella capanna Lear non indossa il mantello. […] lo porta su un braccio come per confermare che «l’uomo è un povero animale bipede», oppure, come dice lui stesso: «Povere mie creature, questi stracci non vi potranno in alcun modo salvare dal tuono, dalla tempesta». Durante l’incontro con il Conte di Gloucester nemmeno il colletto c’è più. Il re mostra con innocenza il proprio corpo seminudo. Ma ecco Lear nella tenda di Cordelia. Cordelia con grande fatica cerca di non avvicinare a sé il padre-re, vestito come nella prima scena. Lear prigioniero, infine, indossa soltanto il colletto dorato, non ha né mantello né corona e le sue mani sono legate. In queste condizioni riceve il più duro colpo infertogli dal destino, ovvero la perdita di Cordelia e infine la propria morte. Così variava il costume di Lear nelle diverse fasi dello sviluppo del personaggio. Devo precisare che tutti i cambi di dettaglio del costume fanno parte del lavoro dell’attore» (Il mio lavoro sul “Re Lear” di Shakespeare cit.).
… e sulla musica
«Per me come attore è stato molto utile anche il lavoro con il compositore. Nel nostro teatro la musica occupa da molto tempo un posto d’onore. Quando svolgiamo ricerche di una particolare espressività spesso trasformiamo le parole in una canzone, trasformiamo le azioni sceniche in musicali. Ma utilizzare questo metodo nelle tragedie di Shakespeare era impossibile. Nelle pièce shakespeariane la musica deve mantenere una funzione ausiliaria e di servizio. I momenti musicali più importanti dello spettacolo sono quelli dei corni da caccia, delle marce, dei cerimoniali, della battaglia, dell’inseguimento di Edgar, della canzoncina del Fool citata nel testo, della musica che risuona durante il risveglio di Lear. Shakespeare ha persino una battuta rivolta all’orchestra. «Suona ancora», dice il medico, quando attende che il re si risvegli. […] Ero convinto però che l’imitazione della tempesta con l’aiuto di suoni e rumori sarebbe stata in contraddizione con lo stile del nostro spettacolo. Per me la scena della tempesta è il momento culminante dell’illuminazione filosofica di Lear. Mi sembrava che l’imitazione della pioggia e del tuono con l’aiuto del suono, come gli effetti di luce per i fulmini e i lampi, avrebbero distratto il pubblico, lo avrebbero ostacolato nel percepire l’idea centrale di questa scena. Per quanto riguarda la rappresentazione musicale della tempesta devo ammettere che inizialmente ero tentato di farla, poi decisi che questi metodi sarebbero stati sostanzialmente estranei a Shakespeare. Forse mi sbagliavo. Mi sbagliavo sicuramente quando, andando con l’immaginazione al teatro dei tempi di Shakespeare, pensai che la tempesta non fosse rappresentata ma recitata dagli attori. La mia fantasia suggerì immediatamente un’idea abbastanza seducente, che per fortuna fu subito bruscamente rifiutata da Radlov. Mi era venuta l’idea di mostrare che in fondo non c’è alcuna tempesta, che la tempesta ha luogo più nell’immaginazione di Lear che nella steppa intorno a lui. Mentre in realtà, così pensavo, c’è brutto tempo, piove, e la gente, come sempre, cerca un rifugio. La vera tempesta ha luogo soltanto nell’immaginazione di Lear, il quale con passione si rivolge al vento, sogna che il vento ripulisca tutto ciò che incontra sulla sua strada, sogna che la pioggia anneghi la terra intera e che il diluvio della tempesta spazzi via il male. Lear, così immaginavo, desiderava la tempesta, desiderava che la natura fosse furiosa e che protestasse così come faceva la sua anima. Ma poiché la vera tempesta in realtà non c’è, i devoti e i fedeli al re, il Conte di Kent e il Fool, la rappresentano gonfiando le guance, urlando e rumoreggiando forte. Le “impalcature” che ho costruito intorno all’immagine di Lear per arrivare al culmine andavano bene, ma sarebbe stato un grave errore lasciarle nello spettacolo, prima di tutto perché Shakespeare aveva previsto la tempesta nel proprio testo: essa coincide e accompagna lo stato d’animo esaltato del re, non è frutto della sua fantasia. Per di più la tempesta inasprisce le emozioni di Lear e incalza i suoi sentimenti. […] Penso comunque che la questione legata alla funzione della musica nei momenti centrali dello spettacolo shakespeariano non sia stata risolta fino in fondo. […] Secondo me le migliori invenzioni del compositore L. M. Pul´ver sono le canzoni del Fool e la musica per la scena dello scontro tra Edgar e Edmund. Pul´ver ha un talento molto raffinato per quanto riguarda la musica di scena. Anche lui, però, come Tyšler e Galkin, è sempre influenzato dalla prima impressione dell’opera. Pul´ver è molto forte nelle parti in cui per la musica ci sono premesse sceniche esplicite. Questo non deve stupire: ha iniziato a fare musica a nove anni come suonatore girovago per i matrimoni e solo in seguito, quando è diventato un grande musicista, ha suonato nelle orchestre dei teatri, al teatro d’opera ucraino e poi al Bol´šoj a Mosca. […] In questo spettacolo era però limitato nelle sue possibilità, la sua musica non doveva illustrare eventi o momenti centrali nello sviluppo dell’azione drammaturgica, ma soltanto alcuni episodi “di parata”, per esempio l’ingresso cerimoniale dei cortigiani, il ritorno del re dalla caccia e altro. Nel Re Lear la musica ha un posto più modesto rispetto agli altri spettacoli del nostro teatro» (Il mio lavoro sul “Re Lear” di Shakespeare cit.).
Quella del regista fu una scelta particolarmente sofferta. Dapprima Michoels si era rivolto a Les´ Kurbas, un innovatore del calibro di Mejerchol´d e Vachtangov, figura tuttora poco conosciuta in Occidente ma che sta riemergendo nella storiografia per la sua effettiva rilevanza nel panorama teatrale russo primonovecentesco.10 Invitato da Michoels, il regista ottenne dapprima il permesso di recarsi a Mosca per discutere del Lear, ma fu arrestato alla fine del 1933 e inviato in un campo di lavoro11 dove più tardi riuscì a realizzare alcuni spettacoli tra cui una Dama dalle camelie – dunque prima che lo facesse Mejerchol´d – passata alla leggenda, facendosi odiare ancora di più dalle autorità, per finire fucilato per ordine diretto di Stalin assieme a un migliaio di artisti e intellettuali alla fine del 1937. Non sapremo mai se Michoels si sarebbe inteso con Kurbas sulla interpretazione del Lear.12 Certo è che il direttore del Goset interruppe le trattative con gli altri due registi successivamente interpellati: Nikolaj Volkonskij,13 che proponeva di mettere in rilievo la mitologia pagana della tragedia, e Erwin Piscator che intendeva trasferire la vicenda nella Palestina biblica.14 Infine si rivolse a Sergej Radlov, altro regista che si muoveva sul filo del rasoio, benché in quel momento fosse sulla cresta dell’onda per una messinscena innovativa di Romeo e Giulietta e per l’Otello15. Radlov, mentre bisticciava con Michoels sull’impostazione del Lear, persino ritirandosi più volte dall’impresa, studiava lo yiddish.16 La sua convinzione che «il teatro è arte indipendente, distinta e autonoma dalla letteratura, e l’interprete può agire sul pubblico senza parole, con il suono emotivo della sua voce e con i movimenti del corpo»17 costituiva però un’affinità sostanziale con Michoels e i due finirono per accordarsi sull’interpretazione del testo,18 dando vita a uno spettacolo che, contro tutte le previsioni,19 finì per conquistare gli osservatori di tutto il mondo per la novità e la strabiliante qualità dell’interpretazione complessiva e sua personale.20 Tra le testimonianze più autorevoli vi è quella di Gordon Craig. Il grande regista inglese, dapprima molto diffidente, aveva reagito all’invito chiedendo un posto in ultima fila, per poter uscire quando lo desiderava, senza dare nell’occhio e disturbare il pubblico, ma dopo il primo atto si sedette in prima fila e tornò cinque-sei volte a vedere lo spettacolo, dichiarando poi che quello era «l’unico modo di leggere la tragedia che potesse farne risuonare la contemporaneità» e confessando di avere avuto la potente sensazione di ascoltare «uno Shakespeare che avesse scritto in yiddish», nonché, infine, di avere assistito a uno dei due o tre spettacoli più importanti della propria vita.21
7Qui siamo al nucleo della questione. Cosa significava “contemporaneità” nell’Unione Sovietica degli anni Trenta, quando il realismo socialista era appena stato proclamato estetica di Stato ed era in pieno svolgimento la liquidazione fisica degli eretici? Michoels si trovava alla testa di una istituzione teatrale sospetta e ormai precaria (benché la sala fosse quasi sempre piena, i bassi prezzi dei biglietti non compensavano i contributi pubblici già in diminuzione), in difficoltà con un repertorio yiddish che spesso appariva “non politicamente corretto”, soggetto a continue pressioni perché si rappresentassero i mediocri autori stalinisti, in difficoltà con il suo “gnosticismo chassidico”, una poetica sostanzialmente materialistica ma che al funzionariato culturale sovietico appariva misticheggiante (o, dal 1949, “cosmopolita”), cioè a dire borghese e reazionaria. In questa situazione la sua «comprensione della tragedia – come ammetteva lui stesso – era diversa dalla tradizione e non corrispondeva in alcun modo alle recenti interpretazioni di Lear».22 Michoels credeva che l’attualità del testo potesse risuonare senza manipolarlo, estraendone con i mezzi della scena il senso più riposto, ossia confidava che la sua funzione filosofica e allegorica derivasse dal fatto che «questa tragedia di Shakespeare ricorda sotto molti aspetti le vicende bibliche» :23
Dopo essere stato sul trono per molti anni, Lear inizia a credere di essere un eletto […] e decide di contrapporsi al mondo scherzando: «E allora, figlie mie, quale di voi potrò dire che mi ama di più – non solo per natura, ma per merito? Con lei sarò più generoso». Già il fatto che avesse deciso di pagare per una lusinga dimostra che non le considera parole d’amore. Per lui le proprietà e le ricchezze che ha deciso di dividere non valgono più niente […].
Il re mette in atto la spartizione secondo una «intenzione maturata in precedenza».
8Presentando in questo modo la posizione del re all’inizio della tragedia si comprende perché Cordelia lo faccia adirare: lei, così giovane e priva di esperienza, scrive Michoels, ha «il coraggio di affermare che la verità ha più valore dell’adulazione» e «contrappone la propria volontà a quella di Lear» dimostrandogli «che davanti a questo sentimento impallidiscono tutti i valori di questo mondo, ovvero quelli terreni. Cordelia ha il coraggio di affermare che esistono altri valori al mondo oltre a quelli conosciuti da Lear», per esempio per lei l’amore offre un’altra prospettiva d’azione rispetto alla saggezza politica. Lear, insomma, prende una decisione che crede giusta, la sua è una falsa verità che a causa di questo incidente diventa un capitale esperimento di verità, esperimento che diventa tragico: «dopo tutte le sofferenze, Lear finalmente comprende di essersi sbagliato e quando si convince che la visione del mondo di Cordelia è giusta e coraggiosa, ha già perso la figlia. Soltanto alla fine del testo, in seguito alla tempesta interiore e al crollo di tutti i suoi sistemi filosofici, approda a un’isola di salvezza…», ritrova la figlia che si era immolata e conquista una nuova visione del mondo, una «nuova ideologia più progressista e giusta» (secondo il linguaggio di circostanza). Michoels poi aggiungeva: «Bisognava passare attraverso una tempesta e dure prove interiori per tornare alla conoscenza delle basi della natura oggettiva», e concludeva così: «Penso che questo fosse l’unico modo di leggere la tragedia per farla risuonare in modo contemporaneo».
9La potente allegoria in tal modo creata (e sostenuta contro le interpretazioni proposte dagli autorevoli registi interpellati) poneva alcune questioni non da poco: il potere può realizzare il bene collettivo, ovvero, esiste il potere di fare il bene oppure il bene è estraneo al potere? Come può la natura umana, così avvelenata dall’ossessione del possesso, orientarsi verso il benessere individuale e collettivo, materiale e non? Ciò era possibile perché il regale protagonista shakespeariano, come per altri versi Otello, per Michoels in effetti rappresentava “Ognuno”, ovvero la totalità e la potenzialità dell’essere umano; Cordelia, proprio come Desdemona per Otello, rappresenta lo spirito che l’eroe dell’errore non comprende. Pur essendo innocente nelle intenzioni è comunque colpevole d’ignoranza. Otello e Lear gettano via la “perla” e vivono l’esperienza della caduta, commettendo un peccato di presunzione e di wishful thinking. La rinuncia al regno da parte di Lear è l’espressione di una falsa saggezza che in realtà scatena la fine del mondo a noi predetta passando per la discordia e le lotte per il possesso.
10Le figure della tragedia sono schierate su due fronti: quello del bene (Cordelia, Edgar, il Conte di Kent, il Fool o Buffone del Re e, alla fine, il Duca di Albany), che nell’errare intraprende un cammino di iniziazione alla saggezza, e quello del male (Goneril, Regan, Edmund, il Duca di Cornovaglia),24 interessato soltanto a difendere il proprio avere e disposto a sbranare chiunque gli si opponga, senza riguardo nemmeno per i legami di sangue. Non vi è alcun moralismo in questa visione che intreccia vicende individuali e storia, perché il bene e il male sono presenti in tutti e pertanto è la tragedia nel suo complesso a rappresentare la totalità dell’individuo.25 L’opera è la figura di un “Uno” dilaniato e contraddittorio che erra alla ricerca della felicità. Con questi espliciti sottintesi il riferimento alla tirannide stalinista non è diretto, né casuale o forzato: Stalin e i suoi accoliti avevano la presunzione di essere nel giusto e pensavano di fare il bene per mezzo della violenza. A questo aveva portato la Rivoluzione. Quella di Michoels era dunque una postura filosofica26 che attraverso il filtro dell’autobiografia e dell’azione teatrale (laddove questa non illustra, ma “inquadra” il testo shakespeariano) diventava forma. Nessun “realismo”, qui, semmai una diversa idea di “socialismo”. La filosofia michoelsiana partoriva una fiaba paurosa, non un assioma ideologico ma una interrogazione difficile e angosciosa anche perché molti degli artisti di cui stiamo parlando avevano sinceramente creduto nella rivoluzione e avrebbero preferito, come molti altri, vederla realizzata anziché tradita. Tutti comprendevano che il comportamento del re autocrate e il suo consegnarsi a una cerchia di adulatori incapaci alludeva al culto staliniano della personalità, che l’espulsione della figlia che dice la verità rimandava a ciò che stava accadendo nei palazzi del potere sovietico, ma la riflessione più sostanziale andava oltre i riferimenti immediati. In profonda sintonia con Shakespeare, il quadro riproposto dal Goset era assai più complesso: Lear non è un vecchio e strambo tiranno, è un ego ipertrofico che sbaglia nel pensare che il potere coincida con la saggezza e fallisce clamorosamente, ferendo a morte i migliori tra i suoi amici e congiunti.
11L’atteggiamento di Michoels era dunque quello di una radicale interrogazione. L’attore-autore (tale si definisce nel testo sul Lear) voleva cercare di comprendere. Lo stesso Lear a un certo punto della sua anabasi scopre gli effetti del potere su larga scala, ovvero che sono sempre i più poveri e indifesi a pagare e invoca, tardivamente ormai, un potere diverso, che li rispetti. Ogni elemento della messinscena michoelsiana contribuiva alla vitale complessità dell’allegorica fiaba crudele. Dalla scenografia e i costumi, dalla musica e i canti alla recitazione, tutto richiamava la chiave fiabesca: all’apertura del sipario gli spettatori vedevano la copertina decorata di un grande libro che veniva aperto da due inservienti, all’interno di esso vi erano due piani, in alto il trono e i più intimi del re (il Fool, Cordelia, Kent e Edgar), in basso i frequentatori della trasfigurata reggia medievale, un maniero decorato da figure, sculture e oggetti che denotavano insieme potere e barbarie, ricchezza e ostentazione, se non volgarità. Era una scenografia semplice e suggestiva, popolata di figure carnevalesche, corpi grotteschi di un libro di fiabe che apparivano e scomparivano dietro sipari-pagina dipinti, agitando bandiere e armi. Tutto ciò, lungi dal cancellare il testo, lo amplificava, così che diverse battute e i vibranti silenzi che altrimenti sarebbero passati inosservati si scolpivano nella mente degli spettatori. Questo fenomeno, rilevato da tutti gli osservatori del tempo, poteva essere creato soltanto da un teatro in prevalenza gestuale e musicale ( «Il gesto dell’attore acquista il suo pieno significato quando amplifica il pensiero» ripeteva Michoels). In questo senso bisogna sottolineare almeno due elementi cardine dell’interpretazione: il rapporto tra Michoels-Lear e Zuskin-Fool (figura che “continua” con quella di Cordelia in una circolarità di senso che abbraccia tutto l’arco dello spettacolo, oltre che la biografia degli attori) e la partitura di “gesti-ritornello” dell’attore-poeta-filosofo Michoels.
12Si è già detto che Michoels e Zuskin erano due “gemelli elettivi” nell’arte e che spesso, come abbiamo avuto modo di constatare, questo loro essere due in uno e uno in due determinava radicali interventi nella messinscena degli spettacoli in cui recitavano insieme, non di rado anche modificandone il testo. Non fu questo il caso del Lear, dove erano il Re, colui che dovrebbe essere il titolare del potere e della saggezza, e il Fool, il presunto pazzo e buffone di corte, irridente per professione: manifestazioni speculari o simmetriche di una medesima individualità. Tutto ciò è chiaro anche nel testo shakespeariano, laddove il Fool dice al sovrano: «Saresti un ottimo buffone» ( «Thou would’st make a good fool»), indicando così un tema centrale. Il regista Radlov collaborò appieno, come per diversi altri aspetti, alla riproposizione di questa “poetica di coppia”, nella quale molti scorgevano una confutazione dell’arrogante presunzione stalinista di dividere il mondo in buoni e cattivi, rossi e bianchi, noi e loro.27 Nelle sue note, Michoels sembra echeggiare il Michail Bachtin “polifonico” quando afferma che la drammaturgia shakespeariana «non è mai una monodia ed è responsabilità dell’attore sentire le differenti note che compongono un personaggio».28
13Si diceva dei Leitmotiv gestuali e sonori. L’ultima fase di preparazione del Re Lear cominciò per Michoels tre anni prima dell’andata in scena, nel preciso momento in cui scoprì il gesto di toccarsi la testa in cerca della corona senza trovarla. Lo si può definire “ritornello”, ricorrendo a un concetto di Gilles Deleuze, in quanto segno sempre uguale e insieme sempre nuovo, rivelatore di un senso e di un percorso. Nel gergo michoelsiano questi gesti prendono il nome di «compagni immaginari»:
Che cosa intendo per compagni immaginari? Il primo compagno era la corona perduta. A volte il suo ruolo è interpretato dalla mano sinistra. Ogni tanto Lear alza la mano sulla fronte priva di corona, a volte con disperazione, altre con perplessità, passa con la mano sulla testa senza corona cercandola. Solo nell’ultimo atto della tragedia, quando la sua coscienza si è rasserenata, questo gesto diventa inutile, come lo è la stessa corona. Il secondo compagno immaginario è la continua sensazione della perdita di Cordelia. Questo significato è interpretato per mezzo di una risata debole ma spensierata come quella di un bambino e dalla testa abbassata con ostentazione, come se cercasse una Cordelia nascosta dietro il trono o dietro il portone. Infine il terzo compagno sono le lacrime di pentimento, comparse per la prima volta, poiché viene da pensare che sul trono Lear non abbia mai pianto per questo. Per la prima volta in ottant’anni i suoi occhi bruciano per una lacrima di pentimento e in seguito cerca la stessa lacrima anche nel Fool e in Kent. Guarda gli occhi accecati di Gloucester e li tocca con le dita, come per controllare che non vi siano lacrime. Questo movimento è interpretato con la punta delle dita, questo gesto è compiuto diverse volte, anche quando non ne parla. Ogni tanto controlla: «Vedete, non piango»…
Il gesto compiuto da Lear quando scopriva che ora, senza corona, gli altri lo trattavano diversamente, era stato «il primo mattone di questo edificio»29 e costituiva una punteggiatura nella sintassi dell’azione scenica. Lo stesso o quasi vale per le mani (le mani di Michoels, come per altri versi quelle di Zuskin, meriterebbero un saggio a parte!) o meglio, nel caso di Lear, per le dita. L’attore stesso, nel suo testo qui citato, ricorda come utilizzasse anche il movimento e il battito delle dita. In questo modo procedeva a una sorta di versificazione dell’azione fisica, nel quadro di uno spettacolo concepito come una musica costante e totale, benché discreta.30
14Il piccolo uomo dall’aspetto insignificante che era Michoels non avrebbe mai potuto trasformarsi, neanche volendo, in un Lear imponente e vegliardo come da convenzione, ma il vero motivo della rinuncia alla barba-maschera (anche in questo caso alla base di contrasti con i registi e i recensori) era un altro: il Lear della fine deve apparire come colui che, insieme alla vera saggezza, ha conquistato una sorta di “giovinezza”, di vita vera. Al trucco l’attore preferì l’invenzione di azioni poetiche chiarificatrici, come quell’altro “ritornello”, la strana risata che appariva in tutti i momenti culminanti della recitazione, che a volte si accompagnava a un singolare latrato di cane, così da marcare alcune svolte, momenti di comprensione e illuminazione anche dolorosa, come nel finale sul corpo inerte di Cordelia.
15Ma restiamo per ora all’inizio. In una delle sequenze filmate disponibili si vede il sipario aprirsi su un accordo dell’orchestra e agli spettatori apparire una parete di tela dipinta che simula un palazzo. Da una porta entrano in scena tre cortigiani, uno dei quali è Edgar che annuncia l’arrivo del re. La tela si alza al suono di una marcia che sentiremo più volte e appare un’alta costruzione in mattoni che due inservienti muniti di lunghe aste aprono come fosse la copertina di un libro. Tutto ciò che si vede, in effetti, è nello stile delle illustrazioni di un libro di fiabe. Ora siamo di fronte alla corte di Lear: il livello del palcoscenico si popola dei convitati, mentre il piano alto, con al centro il trono, è vuoto. Due scale collegano, a mo’ di ponte levatoio, l’alto e il basso. La corte è decorata con altorilievi di figure umane e diversi altri segni, secondo una logica per niente realistica. Dietro al trono vi è una sorta di finestra dalla quale si affacceranno di volta in volta presenze umane e oggetti significativi; intorno al trono si predispongono i più intimi del re: il Fool, Cordelia e Kent. Tutti guardano verso la piccola entrata laterale da cui dovrà entrare Lear. Ed ecco che la musica solenne s’interrompe e appare il sovrano, riconoscibile per la corona e l’attenzione che gli rivolgono gli altri, non certo per il suo abito quasi monacale e il suo portamento ordinario. Tutti quanti si inchinano e mentre lui gira intorno al trono per prendere posto, il Fool si siede ostentatamente al suo posto. Lear non fa altro che prenderlo per un orecchio e spostarlo, come si farebbe per il discolo di una shtetl, poi, ancora in piedi, conta enumerandoli con piccoli scatti delle dita gli ospiti (i mariti delle prime due figlie e i due pretendenti della più piccola), mentre il Fool lo scimmiotta con il suo scettro di burla, poi si siede e tutti i convocati restano in piedi in semicerchio. È un vecchio dagli occhi stanchi, il suo labbro inferiore è, come sempre, sporgente e appesantito di scetticismo, un re che non ha bisogno di dimostrarsi autorevole, essendolo per convenzione. La sua però non è umiltà, è superbia che nasce da un errore di valutazione, come s’è detto e si sta per vedere. In ogni caso sa che contano le azioni, non le parole. Mentre Cordelia gli tiene affettuosamente la mano sinistra, Lear ordina: «Portatemi la mappa e vi farò sapere come ho diviso in tre parti il nostro regno».
16Dopo il suo primo discorso Lear scende per ascoltare le risposte di Regan e Goneril, le loro strane dichiarazioni d’amore, pronunciate in un tono formale, che lui accoglie indietreggiando, sospettoso e già intimorito. Poi, di nuovo sul trono, Lear si rivolge a Cordelia: «Cosa puoi dirmi, tu, perché io ti dia un terzo del regno più ricco di quelli delle tue sorelle?» e così dicendo si toglie la corona e si protende verso la ragazza. «Niente, mio signore» è la risposta. Ora è lei a non toccare più il padre. Gli astanti ridono come se si trattasse di uno scherzo; ma la risata del Fool non è diplomatica come quella degli altri, è più esagerata, inquietante, come a tentare di coprire qualcosa che non si deve capire, tanto che il re lo interrompe con un gesto indispettito. «Niente? – dice Lear, e rimettendosi la corona sul capo aggiunge – Dal niente viene niente» ( «Nothing will come of nothing»).31
17L’azione muta che ha preceduto l’annuncio della divisione del regno in tre parti è uno dei segni forti dell’intero spettacolo. Un silenzio enigmatico circonda le cose, le parole e le azioni.32 Lear si presenta come un personaggio pacatamente imprevedibile, un uomo saggio e dotato di molta ironia, un filosofo messosi al cospetto di un pubblico cui vuole insegnare o dimostrare qualcosa. Comunque la sua posa regale è grottesca perché esprime un atteggiamento che pertiene, al di là della pseudo saggezza, a un ragionare senza speranza di essere compreso. La tragedia, qui, è tale non perché Lear sia un vecchio dissennato che smembra il proprio regno, ma per il suo atto di acquisizione della conoscenza attraverso l’esperienza, e per l’erranza cui lo condanna la sua gnosi sprezzante. Il potere gli ha fatto credere di possedere un sapere superiore agli altri e di trovarsi al centro dell’universo, negando il valore delle cose materiali: la sua è una inerzia intellettuale che gli deriva dall’avere posseduto in abbondanza ed essere sempre stato servito da tutti. Su queste basi dà inizio alla prova estrema, crede di dimostrare che dando via tutto ciò che possiede resterà se stesso. Mentre parla, il Fool sdentato, alla sua destra, lo guarda a bocca aperta, dapprima cercando di sorridere e poi nascondendo il volto per non mostrare al mondo ciò che ha compreso, mentre alla sua sinistra è incorniciato da Cordelia, prima obliqua verso di lui in atteggiamento affettuoso, poi sempre più distante. Il discorso iniziale del re è insieme solenne e ironico, aiutato in questo anche dalla scenografia: nell’apertura posta giusto sopra il trono i due araldi con la tromba sembrano trasfigurati ora in due teschi sbilenchi.
18Lear ha diverse reazioni: dapprima impugna una spada, terrorizzando lo scrivano dell’atto di spartizione, poi sembra dirigerla verso la corona posta sull’atto stesso e infine contro il buon Kent che lo supplica di rientrare in sé.
19Quindi accade ciò che sappiamo. Lear scoprirà la gracilità della propria presunta saggezza e diventerà un poveraccio, un esule che scoprirà il mondo com’è, assai diverso da come lo sognava. E si scopre impotente. Questo Lear non è semplicemente un arrogante che ha perso il controllo di sé, è un filosofo scettico che ripercorre la verità crudele dell’Ecclesiaste (testo assai caro all’attore, assieme al Cantico dei cantici, un altro classico dei chassidim), è un Giobbe che non comprende quale sia il proprio peccato e la ragione superiore delle proprie sofferenze. Il mondo gli appare non tanto assurdo quanto malfatto, una creazione sbagliata. Comunque sia, da quel momento ha inizio la sofferenza autentica, l’erranza alla fine della quale imparerà per davvero. All’inizio si era dichiarato disposto a pagare in ragione dell’amore dimostratogli, comportandosi da nichilista, ora comincia a comprendere qualcosa di diverso, ovvero che l’amore e il rispetto acquistati con il potere e il denaro non valgono granché, anzi sono semi di odio. Sa benissimo che Cordelia è sincera mentre Goneril33 e Regan sono ipocrite, vede ciò che vede il pubblico, ma procede con l’esperimento, vuole portarlo fino in fondo. Nella vicenda è attivo: quando Cordelia parla, lui non reagisce freddamente come con le altre due figlie, le porge invece la corona e di fronte alla sua resistenza contro l’ipocrisia, scoppia in una risata lacerante di stupore e disappunto. Lear si accorge che il gioco si sta rivolgendo contro di lui. È offeso dal rifiuto che minaccia il suo esperimento. Pur apprezzando l’indipendenza e la saggezza della figlia minore, il suo piano esige che ora debba essere punita, perciò procede nella cerimonia, divide il regno in due e aspetta di vedere quale dei pretendenti prenderà in moglie la ragazza senza dote. Poi cerca di non mostrare contentezza per la scelta disinteressata del Re di Francia, anche se gli sfugge una risatina di approvazione.
20Lear ha sfidato il mondo dichiarando che il possesso non fa le qualità dell’uomo, ha sfidato la realtà e la storia e ora scoprirà la crudeltà del mondo reale. Quando il risveglio è iniziato, non si può tornare indietro. In questo quadro la sconfitta della bontà è al tempo stesso una prova dell’esistenza della bontà, o almeno della sua possibilità. Crolla rovinosamente la sua falsa idea, però in questo modo si apre una più autentica possibilità di comprensione, assai più significativa dell’iniziale movente individualistico. Ciò che gli accade costituisce la premessa alla scoperta che, al di là del ruolo sociale ricoperto, ogni essere umano è soggetto alle medesime leggi. Ecco l’attualità di cui parlava Craig: la fiaba iniziatica di Lear era calata di fatto nella storia dell’Unione Sovietica degli anni Trenta.
21Il cammino che inizia da quel momento non si svolge nella vecchiaia e in direzione della morte ma, pur nella sofferenza sua e di tutti i suoi simili, procede verso l’illuminazione, la rinascita e la vita nuova, conquista che per Lear arriva sulla soglia della tomba, allorché, come annotava Michoels, «dalle vette della sua grande, grigia saggezza tutti gli ideali del bene e tutte le forze del male sembrano insignificanti».
22Però tutto avviene gradualmente, attraverso diverse tappe, e per entrambi i partiti. Nella scena quarta del primo atto, quella del ritorno dalla caccia con i suoi cavalieri, Michoels ritraeva un Lear che canta allegramente e nel successivo confronto con Goneril cerca di essere calmo, sereno, di trasformare in scherzi le affermazioni ostili della figlia, anche se comincia a dubitare di se stesso: «C’è qualcuno che possa dirmi chi sono?» ( «Who is it that can tell me who I am?»). La voce di Michoels era quasi sempre bassa e ciò implicava uno sforzo enorme da parte dell’attore per rappresentare quest’uomo che medita sulle cause del male, chiedendosi: «Ma perché la natura mette al mondo un cuore così duro?» ( «Is there any cause in nature that make these hard hearths?») e sapendo di rischiare la caduta nella follia più per questa ossessione della verità che per i dispiaceri.
23Nella quarta scena del secondo atto, quando Goneril arriva al castello del Conte di Gloucester per unirsi a Regan, Michoels ricorreva a un altro gesto per contrassegnare un cambiamento nel pensiero di Lear. È molto vicino a Goneril e la guarda intensamente. Incredulo, si passa le mani davanti al viso come per mettere alla prova la sua vista. Parla con molta calma di qualcosa che gli appare per la prima volta quando dice, rivolto a Goneril: «Mi stai facendo impazzire. Per favore smettila. […] Eppure sei la mia carne, il mio sangue, mia figlia». ( «I prithee, daughter, do not make me mad. […] But yet thou art my flesh, my blood, my daughter»). Lear di nuovo porta velocemente entrambe le mani davanti al viso, come per rimuovere un velo dagli occhi e capire se davvero il mondo è come lo vede. Con le mani vorrebbe gettare via ciò che resta della ragione. È il primo varco aperto sulla irreversibile illuminazione finale. Le sue false idee sono innestate nella ragione e lui per distaccarsene deve perdere la ragione. Goneril e Regan ordinano la riduzione del suo seguito. Lear rimane acquattato, attonito e abbattuto tra le due figlie, cercando disperatamente di capire cosa gli sta accadendo. Tutta la sua concezione del mondo sta crollando e Lear si ritrova ridotto allo stato di oggetto. Ora è nel tragico, ma cerca di essere ironico.
24Il vero inizio della sua illuminazione filosofica è la tempesta, un evento che Michoels mostrava consistere in una rinascita tragica, al colmo dell’angoscia e della sofferenza. Michoels descriveva la tempesta interiore di Lear e la sua scoperta del mondo reale in questi termini: «Dopo ottant’anni di vita piange per la prima volta e capisce di avere ignorato le sofferenze dei più sfortunati» – «Povere creature, quanto poco mi sono preoccupato di voi. Povera gente, dovunque voi siate, con addosso i vostri quattro stracci, tutti ossa, con questa tempesta… Come fate? Non ci ho mai pensato, io, a voi» ( «Poor naked wretches, whereso’er you are. […] I have ta’en too little care of this») – provando compassione per coloro che il destino ha trattato così male. E arriva a comprendere che vi sono al mondo valori che esistono indipendentemente dalla sua percezione. Edgar invece si finge pazzo per salvarsi e imita gli animali. Michoels-Lear sottolineava la differenza tra quella finta pazzia e la propria, autentica. Edgar latra e abbaia perché quello è il linguaggio delle relazioni umane, Lear fa lo stesso, ma non allo stesso modo e con lo stesso scopo, non sta fingendo la pazzia, vuole mostrare che la lingua degli umani non è in grado di esprimere la consapevolezza dell’uomo come «povero, nudo animale bipede» che lui ha conquistato.34 Questa visione espressa dal latrato non costituisce comunque l’approdo del suo viaggio. Soltanto dopo la tempesta interiore e il crollo della sua artificiosa filosofia precedente compie alcuni passi decisivi verso la salvezza autentica.
25L’illuminazione finalmente guadagnata si manifesta più tardi, dapprima nel quarto atto, quando ritrova Cordelia, ma i suoi effetti si vedono nel quinto atto, quando Lear e la giovane figlia vengono trascinati come prigionieri dopo la sconfitta dell’esercito di Cordelia. Era, questa, una scena cruciale per Michoels, l’ultima occasione per mostrare la rigenerazione del personaggio, che infine appariva con il cadavere di Cordelia tra le braccia. Per mostrare il lungo viaggio percorso dal re, Michoels e Radlov fecero iniziare questa scena esattamente come la prima: la marcia militare che di colpo svanisce, un lungo silenzio, padre e figlia con le mani legate e uniti dalla stessa corda, uno di fronte all’altro. All’inizio, però, Lear era dimesso e quasi invisibile, mentre ora incede con vera solennità regale, accordando il passo con Cordelia e guardandola fissamente, il suo volto è raggiante, la guarda come si guarda la verità. Anche se sono in pericolo mortale, Lear sorride: ha scoperto cosa significano amore e devozione. Per questo i due s’incamminano tranquilli verso la prigione, pronti a cantare insieme e raccontarsi storie. È un’illusione di lieto fine. Lear si sente libero come non mai e ora, invece di “abbaiare”, dice a Cordelia: «No, no, no, no! Voglio andare in prigione» ( «No, no, no, no! Come, let’s away to prison»), esprimendo una immensa gioia.
26Il vero finale viene dopo questo trionfo. Quando Lear perde Cordelia – assassinata da coloro che hanno preso il potere – comprende che il prezzo della sua saggezza tardiva è la morte della figlia adorata. Per mostrare la sua vittoria Michoels/Lear posava Cordelia per terra, le parlava e ripeteva la strana risata dell’inizio. Per Lear è come avere riconquistato il trono, un trono più autentico di quello del passato, e di nuovo allora conta tutti i presenti, ride cercando Cordelia dietro lo scranno e non trovandola a quel punto sembra impazzire: tocca ostile il volto di una Goneril inesistente, come aveva fatto all’inizio, e si gira verso il Fool, riferendosi a Regan, per dire: «Ma perché la natura mette al mondo un cuore così duro?». Alza un immaginario coltello per guardarle nel cuore, ma Edgar gli ferma il braccio. La sequenza ripete ciò che era avvenuto tra Lear e Kent nel primo atto, quando Lear gli aveva afferrato la mano dicendo: «Voi, signore, sarete uno dei miei cento cavalieri», poi fa lo stesso gesto del Re di Francia quando aveva preso Cordelia in moglie. La risata finale del re è il riconoscimento della verità spirituale di Cordelia, di ciò che cercava dietro gli arredi del suo potere e che è rimasto nascosto così a lungo. Adesso Lear deve saldare il proprio debito. Michoels così descrive la morte: «Lear esala l’ultimo respiro con questa risata, come se volesse portare con sé in un mondo migliore anche questo valore che ha costellato tutta la sua vita, qui però la risata non è più così frivola, allegra e leggera, ed è persino difficile capire se si tratti di una risata o di un pianto». È il ritornello finale che rivela i suoi pensieri inespressi: ha trovato la vera umiltà solo in Cordelia. Ancora Michoels: «Per una corretta presentazione del pensiero filosofico espresso dalla tragedia mi è sembrato necessario ricorrere a questo metodo e non utilizzare la parola ma il suono».35 Come in una composizione musicale tutti i motivi precedentemente ascoltati tornano assieme nell’epilogo della composizione scenica.
27Michoels deponeva delicatamente il corpo di Cordelia per terra, Kent era dietro di lui, tutti gli altri personaggi erano schierati a formare uno sfondo, prendeva il suo viso tra le mani, si ritraeva un poco, poi le girava intorno a quattro zampe e le si avvicinava con il viso fino a sussurrarle con forza: «Cordelia!», come a insufflarle il respiro e svegliarla. Lei non reagiva e lui la scuoteva brevemente, quindi liberava un lungo, profondo lamento: «Aaaah!», tenendo la mano destra davanti al viso e alla bocca, la sinistra all’altezza della fronte priva di corona. I suoi gesti, ora, erano quasi a scatti, molto geometrici, di gusto espressionista si direbbe, eppure si sente l’animale, il capro che “canta” quando vede la lama che sta per sgozzarlo. La giovane giaceva esanime e il padre incredulo la scrutava muovendosi gattoni, poi si girava verso gli altri e rivolto a Kent: «Chi sei tu?» . «Sono il tuo servitore Kent» è la risposta. Fissava la figlia esanime quasi gridando «Cordelia, Cordelia, ah, ah!» e scuotendola. Dopo di ciò, mentre si stendeva accanto a lei, Michoels rivolgeva a Kent l’ultima battuta: «L’hanno impiccata, la mia sciocchina! Niente vita, niente vita! Che cosa? Un cane, è vivo, un cavallo, un topo. E tu non respiri più? Non tornerai più, mai, mai, mai! Per piacere, sbottonami qui. Grazie. Vedi? Guardala. Guardale le labbra. Guarda, ti dico! Guarda» ( «And my poor fool is hang’d! no, no, no life! / Why should a dog, a horse, a rat, have life, / and thou no breath at all? Thou’lt come no more, / never, never, never, never, never! / Pray you, undo this button: thank you, Sir. / Do you see this? Look on her, look, her lips, / Look there, look there»), quindi intonava nuovamente la canzoncina di caccia e poggiava la schiena per terra, aiutato pietosamente da Kent. Emetteva un lungo lamento e la sua mano si dirigeva verso la figlia senza più guardarla, le toccava le labbra e la fronte con la punta delle dita portandole quindi alle proprie labbra e per baciarle. Questo gesto, che poteva sembrare una trovata teatrale, era la parafrasi del gesto simile compiuto nella tradizione dall’ebreo che rientra in casa, baciandosi la punta delle dita e toccando con esse il mezuzah affisso allo stipite.36 Il riferimento si poteva cogliere o meno (nel documentario citato le figlie confessano di avere compreso questa e altre cose del padre soltanto dopo l’emigrazione in Israele, dove le tradizioni sono vive), ma è un fatto che oltre al gesto di estremo congedo Michoels voleva dare il senso del passaggio di entrambi i personaggi da un mondo a un altro e del loro arrivo nella vera “casa”.
28Per sintetizzare i motivi per cui questa realizzazione scenica può essere annoverata tra le maggiori del Novecento diremo innanzitutto che il Re Lear non andrebbe considerato come un’impresa individuale, perché in questo caso – come spesso accade – il genio di un artista è stato un catalizzatore di motivi, un precipitato di storia e di molte biografie che tutte insieme sono confluite nella creazione di un’opera assai circostanziata e al tempo stesso di respiro universale. Un collettivo di artisti, pur operando in una situazione di estrema difficoltà e di reale pericolo, ha intrapreso una coraggiosa sperimentazione per realizzare un’impresa che appariva a priori impossibile: allegorizzare un messaggio che doveva essere al tempo stesso chiaro e cifrato, anche se si trattava nient’altro che di un umile spettacolo teatrale, che muovendo da affermazioni di buon senso poneva domande nuove e difficili sul potere e le possibilità di scelta alla portata di ognuno. Tutti i collaboratori e tutti gli elementi di questo spettacolo raccontavano, attraverso un testo classico di particolare pregnanza, l’autobiografia collettiva di uomini e donne i quali avevano sperato che la conquista del potere da parte della Rivoluzione permettesse di percorrere il cammino verso la Terra Promessa e invece avevano constatato che si era scatenata una peste, una peste che rivelava la crudele verità della natura umana e inaugurava, forse, alla fine di un tunnel di terrore e dolore, a un altro esperimento di verità e di conoscenza. E dovremmo riconoscere che quegli artisti riuscirono nell’impresa, ottenendo un grande successo popolare (il Re Lear del Goset fu visto da oltre ottocentomila spettatori la cui larga maggioranza non conosceva lo yiddish) e culturale attraverso una forma non immediatamente censurabile, con un’opera che tuttavia fece crescere l’odio dell’apparato staliniano nei loro confronti, un odio che dovette inventare altri pretesti per eliminarli.37
Michoels a proposito di Zuskin nel Re Lear
Zuskin aveva una collocazione particolare nel nostro lavoro su Shakespeare. Zuskin è un attore dal talento straordinariamente brillante. La natura gli ha dato molto, in primo luogo ha un grande fascino. Il fascino, come ha notato Stanislavskij «è il dono più grande che sia mai stato dato a un attore». Il temperamento di Zuskin attribuisce più importanza all’intuizione che alla logica. Il mondo interiore, il mondo dei sentimenti e delle percezioni, ha per lui un ruolo fondamentale, e proprio questa qualità fa sì che la sua arte sia diventata straordinariamente popolare. Attingendo i colori dalle proprie sensazioni, Zuskin non si occupa mai di scavare dentro se stesso. Non si tratta in alcun modo di una autoanalisi ipertrofica, essa è una percezione viva e sensibile della realtà oggettiva. Per lui ogni persona, come ogni fiore per un’ape, è una goccia di un miele particolare. L’artista Zuskin assorbe questa goccia e la porta nel proprio alveare. La prima cosa che Zuskin nota in una persona è ciò che vi trova di commovente; la seconda è ciò che una persona ha di buffo e che la rende viva. Per Zuskin l’aspetto buffo è ciò che distingue una persona viva da una morta. In genere il senso dell’umorismo è molto forte in Zuskin, il suo humor è sempre espresso con tonalità liriche. Utilizza raramente l’arma tagliente della satira; questo non perché abbia una grande condiscendenza nei confronti dell’uomo; essendo attore dalla testa ai piedi, incarna ciò che appartiene alla comunità degli esseri umani. Laddove vi sono fenomeni o idee astratte fa sempre nascere una immagine concreta dell’uomo. Spesso quest’uomo è molto piccolo, ha necessità e scopi limitati. Per disegnare un individuo del genere sarebbe fuori luogo utilizzare la fiamma della satira, sarebbe infatti come sparare ai passerotti con un cannone. Qui è sufficiente accontentarsi di una “pistola giocattolo”, lo humor.
Questo però non significa che quando nel campo visivo di Zuskin si trova un fenomeno sociale importante, l’attore non trovi colori abbastanza brillanti e originali per rappresentarlo; al contrario, il suo temperamento ha una vasta gamma, che va dal patetico alla satira demolitrice. Le caratteristiche del talento di Zuskin lo spingono sempre verso ciò che è concreto, non è un caso che per i suoi lavori cerchi sempre modelli viventi. Probabilmente ha bisogno di conoscere nome, cognome e patronimico della persona cui può ispirarsi per l’interpretazione del ruolo che deve realizzare. Per questo, cominciando un nuovo lavoro, dopo la lettura dell’opera, fa sempre un disegno a matita del volto che la sua immaginazione associa al personaggio che deve creare. Disegna in modo molto espressivo. Se capita che nei suoi ricordi o incontri non ci siano impressioni abbastanza chiare e concrete da realizzare e interpretare in questo ruolo, cerca a lungo e con tenacia una persona che gli possa servire da modello.
Così accadde con il ruolo di Navtal il Falegname nella pièce Il processo è iniziato (Sud’ idiot). Essendo di passaggio nella città di Vynnica si era recato nel famoso quartiere Ierusalimka. Raccontava che, dopo una serie di passeggiate, per caso aveva trovato il “modello” di cui aveva bisogno. Così gli accadde anche durante il lavoro su Stanislav in Quattro giorni e infine nel lavoro sul Fool del Re Lear. Nell’ultimo caso il compito era più difficile, ma Zuskin trovò improvvisamente una soluzione. Il primo prototipo del suo buffone shakespeariano in Re Lear fu nientemeno che lo scrittore Jurij Oleša.38 Ovviamente Zuskin ne trasformò completamente il carattere, probabilmente aveva perfino rinunciato a questa prima impressione, che tuttavia aveva funzionato. L’importante non è che ci sia stata, ma che Zuskin ne avesse bisogno… Secondo me tali metodi caratterizzano in modo decisivo il mondo interiore dell’attore-creatore.
Le caratteristiche dell’individualità attoriale di Zuskin si sono rivelate molto efficaci nel lavoro su Shakespeare. Una delle particolarità che rende l’arte shakespeariana così forte, eterna e potente consiste secondo me nel fatto che Shakespeare ha gettato coraggiosamente il ponte della comprensione umana tra Scilla e Cariddi, dove scorrono le cose, ovvero tra il macrocosmo e il microcosmo, un ponte tra ciò che è universale e ciò che è molto concreto. Nell’arte di Shakespeare entrambi gli aspetti si trovano in perfetta unione. Da un lato presenta il mondo umano molto modesto, come lo si trova in un interno o nell’esterno angusto di una qualche viuzza in una città feudale. Nelle opere di Shakespeare anche la questione politica riaffiora spesso. Lear dice: «Tu, giovane amore conteso tra i vigneti di Francia e i pascoli di Borgogna». Interi paesi sono caratterizzati da Shakespeare con immagini familiari della vita quotidiana. Ma questo soltanto per certi versi, per altri da una storia d’amore abbastanza prosaica come quella tra Romeo e Giulietta emerge l’eterna tragedia, l’eterno poema dell’amore.
In questo modo, ripeto, nella sua arte Shakespeare unisce ciò che è generale con ciò che è molto concreto. Di conseguenza l’attore shakespeariano deve essere in grado di penetrare la filosofia profonda dell’arte di Shakespeare e allo stesso tempo deve avere un’immaginazione molto concreta dei suoi personaggi. Nel Re Lear il personaggio del Fool è molto concreto. La saggezza empirica del Fool contrasta con la riflessione sintetica di Lear. Ecco perché proprio in quest’opera di Shakespeare la tendenza di Zuskin alla massima concretezza è stata fondamentale. Il personaggio del Fool è diventato rilevante e concreto. Il Fool di Zuskin ha iniziato subito a suonare come un contrappunto alla melodia di base di Lear.
Parlando con Radlov, Zuskin si soffermava spesso sulla questione della sfumatura nazionale [ebraica] del Fool. Di questo personaggio voleva sottolineare alcuni tratti ebraici. Per Zuskin questo desiderio era più che naturale, poiché meglio di tutti conosceva l’ambiente ebraico: traeva le impressioni più importanti e acute dalla sua infanzia, dalla sua città natale e dalla sua famiglia. Sergej Ernestovič Radlov riteneva che il Fool dovesse avere un doppio aspetto; non doveva essere solamente un Fool inglese, sarebbe stato meglio farlo diventare un Fool inglese-ebreo. Così fu deciso.
Nella recensione al Re Lear Litovskij ha scritto che per Zuskin il Fool è stato una ripetizione del passato. Ritengo che questa opinione sia errata. Non si trattava di una ripetizione del passato ma del ricorso a una serie di metodi che costituiscono l’essenza della metodologia attoriale di Zuskin in uno dei ruoli più difficili del repertorio mondiale. Questi metodi, utilizzati in un ruolo nuovo e di grande responsabilità, risuonavano in modo completamente inedito.
L’anno 1935 trascorse intensamente.
29Durante le repliche del Re Lear Zuskin continuava a elaborare il proprio Fool davanti agli spettatori. Allo stesso tempo, costretto a scappare dal teatro senza passare da casa, correva alla stazione e prendeva il treno notturno per Leningrado, dove avevano luogo le riprese del film Cercatori di felicità.39 Alla fine delle riprese correva a prendere il treno per tornare a Mosca appena in tempo per togliersi la barbetta del suo Pinja. Così l’attore ricordando il Re Lear:
Quando alcuni anni fa con Michoels facevamo il Lear, non ricordo dopo quante repliche, Michoels mi disse: «Ti osservo e noto alcune tue intonazioni impreviste». Queste intonazioni impreviste possono durare per dieci o quindici repliche. È vero che se si interpreta consecutivamente lo stesso spettacolo ciò è difficile. È meglio se si recita ogni tre o quattro giorni. Il Lear l’ho interpretato quattro o cinquecento volte e ancora lo interpreto con lo stesso interesse. Ci sono però altri ruoli che per me sono morti velocemente. In Lear ho sempre la sensazione di recitare sul filo del rasoio. C’è una scena in cui non dico neanche una parola. Una volta durante questa scena ho sentito una risata in platea laddove questo non doveva accadere. Mi sono tormentato pensando a perché il pubblico avesse reagito in quel modo e mi sono reso conto di avere fatto un movimento più brusco del necessario e che era stato questo a provocare la reazione. Dal punto di vista dell’orgoglio dell’attore fa piacere – il pubblico reagisce – ma dal punto di vista dello spettacolo nel suo complesso ciò è inammissibile. Come avevo potuto permettermi di occupare uno “spazio più grande” del dovuto?
Nel precisare che resoconto più compiuto sull’interpretazione del Fool è quello fornito dallo stesso Zuskin (Il Fool del Re Lear) nel citato volume di memorie della figlia e per sottolineare come questa prova dell’attore fosse considerata equivalente, se non addirittura superiore, a quella di Michoels possiamo richiamare qui una testimone d’eccezione come Aleksandra Granovskaja:
Lear è molto interessante ma il Fool lo è ancora di più [...] Zuskin-Fool. Non ho mai visto un Fool simile, eppure ho assistito a molti Re Lear: ce n’erano di migliori rispetto a Michoels e soprattutto di peggiori, naturalmente, poiché il Lear di Michoels era ricco di interiorità e sul piano concettuale, era un intellettuale [...] Ma Zuskin era unico! Era leggero come un respiro. Era il cuore di Lear, la sua anima [...] Ma non si arrendeva mai. Non si arrendeva a niente e nessuno perché aveva sempre la grazia dell’armonia. Era la sua armonia a pervadere i suoi dialoghi, le sue canzoni. Ogni piccola cosa che faceva era parte di un tutto [...] I due erano un forte Lear e un instancabile Fool. Ho assistito a questa tragedia in Inghilterra, Francia e Germania, ma un Fool simile non l’ho mai visto.40
Notes de bas de page
1 YouTube propone un frammento di 4’.40” (<http://www.youtube.com/watch?v=AU838zh5ysw>), su cui torneremo, mentre altre brevi sequenze tratte da diversi documentari fanno presagire l’esistenza di fondi archivistici che a loro volta potrebbero riservare qualche sorpresa, anche se tutte le fonti attestano che si tratta di pochi minuti. Fondamentale è anche il documentario The King and the Fool, autore e regista Yossi Turisky, 40’, Tel Aviv 1990, prod. Beth Hatefutsoth.
2 Naturalmente tra gli studiosi circolano opinioni diverse. Si consideri per esempio quanto afferma Vladislav Ivanov (Goset cit., p. 441): «Nella storia del teatro sovietico il Goset occupa un posto di rilievo essenzialmente grazie al Re Lear con Solomon Michoels come protagonista, il che mi sembra poco gentile e sbagliato. Le discussioni sul tragico destino di questo teatro e dei suoi attori principali tendono a condizionare l’analisi degli esiti creativi, ma è soprattutto con la sperimentazione di Granovskij che si raggiunsero gli esiti più alti [...] È impossibile ignorare la sua “matrice” e il suo stile, la sua creazione di ciò che in una prospettiva storica è definito “teatro totale”. La sua interpretazione dell’arte teatrale come ritmo, conquistò l’Europa».
3 Si consideri in proposito, per esempio, questa dichiarazione di Zuskin sui ruoli che non amava: «Erano ruoli schematici. Per me è più interessante mostrare attraverso il personaggio la vita interiore di un uomo, la sua battaglia, il suo superamento degli ostacoli. È un peccato che nella maggior parte delle pièce contemporanee questo non ci sia, è un difetto di molti dei cosiddetti personaggi positivi. […] Per questo molti personaggi sovietici devono essere resi con maggiore concentrazione, devono essere colti più in profondità rispetto a come sono descritti. […] A me sono cari i ruoli intimi, lirici, umani e soprattutto il personaggio dell’uomo umiliato e offeso, innamorato della vita, che non per colpa sua incontra certi ostacoli». Una presa di posizione poco prudente, benché forse non resa pubblica, dato che dalla fine del 1946 vigeva ufficialmente la teoria dell’ «aconflittualità» secondo la quale la scena sovietica doveva mostrare esclusivamente il conflitto tra personaggi «buoni» e «migliori», sconfessata soltanto nel 1952. Cfr. Isr.
4 La rappresentazione era autorizzata da una commissione di censura del Ministero dell’Educazione che si presentava alla prova generale e poi si chiudeva in una stanza con Michoels, mentre tutti gli attori aspettavano nella sala sottostante e cercavano di decifrare l’andamento della discussione dal rumore dei passi di Michoels. Quando infine il direttore riappariva annuendo scoppiava un applauso liberatorio.
5 Cfr. M. Lenzi, La natura della convenzione cit., pp. 162-167 e il cap. L’ondata shakesperiana degli anni Trenta in Isr.
6 Cfr. la nota 42 del cap. iv.
7 Cfr. la nota 43 del cap. iv.
8 Cfr. la nota 21 del cap. iii.
9 Radlov è un’altra figura imprescindibile del “sinistrismo” teatrale. In contatto con Mejerchol´d già prima dell’Ottobre, allorché era stato assiduo collaboratore della rivista «Ljubov´k trem apel´sinam», nel 1919 il maestro gli aveva lasciato la guida dei Kumaspec (sigla per “Corsi di arte degli allestimenti scenici”), da lui fondati l’anno prima, quando aveva esordito nella regia allestendo una propria versione ritmica de I Menecmi di Plauto. Tra il 1920 e 1922 inaugurò a Pietrogrado un Teatr chudožestvennogo divertissmenta (Teatro del Divertimento Artistico; in seguito reintitolato Teatr narodnoj komedii [Tnk; Teatro della Commedia Popolare]) dove attori e artisti circensi agivano congiuntamente in allestimenti di classici (Shakespeare, Molière, Calderón de la Barca), scenari della Commedia dell’Arte e copioni appositamente redatti da Radlov. Il Tnk fece così da anello di congiunzione tra gli Studi mejerchol´diani pre-ottobreschi, i «montaggi delle attrazioni» di Ejzenštejn e la stagione biomeccanica di Mejerchol´d. Nel gennaio 1922 aprì i battenti la Teatral´no-issledovatel´skaja masterskaja Radlova (Laboratorio di Ricerca Teatrale di Radlov): dedicato all’approfondimento teorico-pratico di questioni della «scienza teatrale» (spazio scenico, movimento scenico, principi della mizanscena, improvvisazione verbale), il laboratorio avrebbe condotto alla fondazione della facoltà registica del Leningradskij institut sceničeskich iskusstv (Istituto d’arte scenica di Leningrado), poi evoluto in LGITMiK. Cfr. Isr, e, per il complesso della sua carriera, Dav Zolotnistky, Sergei Radlov: The Shakespearian Fate of a Soviet Director, Routledge, London & New York 1998, ma cfr. anche i diversi, puntuali paragrafi che gli dedica M. Lenzi, La natura della convenzione cit.
10 Les´ Kurbas (1887-1937), che intendeva il comunismo in modo molto diverso da quello dominante e per questo fu spesso oggetto di critiche feroci, si era rovinato definitivamente nel 1930, quando, obbligato a mettere in scena Dyktatura (russo: Diktatura) di Ivan Mykytenko (russo: Mikitenko), un testo che giustificava la politica che avrebbe portato a una carestia causa di milioni di morti in Ucraina, non seppe resistere a se stesso e lo trasformò in un’opera tragica e satirica, perdendo così l’ultima occasione per salvare il suo teatro e la sua persona. Fu espulso dal teatro Berezil’ (letteralmente “marzolino”, con riferimento alla primavera e alla rinascita) e l’invito di Michoels costituiva per lui una possibile occasione di riscatto. Cfr. Erica Faccioli, Nikolaj Michajlovič Foregger (1892-1939). Dal simbolismo al realismo socialista, Bulzoni, Roma 2007, pp. 248-250; e Id., All’origine del modernismo teatrale ucraino: appunti su Les’ Kurbas, «eSamizdat», V, 3, 2007; Repeticija majbutnogo: la memoria di Kurbas secondo Nelli Kornijrnko, «Art’o» 26, 2008; Les Kourbas: passé, présent, futur entre esthétique contemporaine et européanisme, «Chroniques slaves», 4, 2008.
11 A Kurbas, che condivideva la prigionia con molti artisti e uomini di cultura, fu affidata l’organizzazione di un “Samodejatel’nyj teatr” ( “Teatro autoattivo”). Cfr. anche: <http://en.wikipedia.org/wiki/Les_Kurbas> (in inglese) e <http://www.wumag.kiev.ua/index2.php?param=pgs20072/108>.
12 Nel testo citato Michoels non accenna a Kurbas perché in quel momento non avrebbe potuto farlo senza autoaccusarsi di collusione con un nemico del popolo.
13 Nikolaj Osipovič Volkonskij (1890-1948), regista russo sovietico, aveva lavorato al teatro di Kommissarževskij (1914-1918), al Malyj (1919-1931) e al Music-hall (1932); aveva messo in scena alcuni spettacoli al Teatro Korš (1920-1921, 1926- 1927) e al Teatro Kommissarževskaja (1922-1926). Gli spettacoli di Volkonskij si erano segnalati per le innovazioni registiche caratterizzate dallo stile della «buffonata brillante», dall’eccentricità e il grottesco. Volkonskij sperimentava molto, aspirava a sintetizzare generi diversi dell’arte teatrale, sapeva intrecciare le convenzioni del teatro con l’arte del varietà e quella circense.
14 Cfr. Daniel C. Gerould, Literary Values in Theatrical Performances: “King Lear” on Stage, «Educational Theatre Journal», XIX, 3, Oct. 1967, pp. 311-321. Di Erwin Piscator (1893-1966) cfr. Il teatro politico, intr. di Massimo Castri, Einaudi, Torino 2002.
15 Vi si fa cenno nella nota 16.
16 Anche la sorte di Radlov (1892-1958) fu amara: deportato nel 1943 dai nazisti con la propria compagnia, alla fine della guerra rientrò a Mosca e fu condannato, con la moglie Anna, a dieci anni di deportazione per collaborazionismo e tradimento; dopo di ciò riprese a lavorare, tra l’altro mettendo di nuovo in scena il Lear a Riga nel 1954. Fu riabilitato nel 1957 e morì l’anno successivo.
17 Una controprova del sostanziale, non compromissorio accordo raggiunto tra l’attore e il regista si ebbe nello stesso 1935. Il 10 dicembre Radlov fu autore di un memorabile Otello al Malyj di Pietrogrado. Il ruolo del protagonista era affidato a Aleksandr Ostužev (1874-1953), grande attore che nel 1910 aveva perso improvvisamente l’udito e da allora era stato confinato a interpretare piccoli ruoli. Con lui Radlov propose una visione del testo assai personale e in un certo senso parallela a quella del Lear: il suo Moro non era un rude soldato di ventura bensì un campione di candore morale e intellettuale, simile al vecchio monarca, che si veniva a trovare in rotta di collisione con la “barbarie” cinica e raffinata di Venezia e ne era travolto, suggellando così una parabola sull’emarginazione nella quale anche il regista si riconosceva. Critici e pubblico furono unanimi nel decretare un bruciante successo a quell’unicum attoriale e poetico e nel lodare la recitazione musicale di quella voce fuori dell’ordinario, paragonando l’attore a Tommaso Salvini. Cfr. Isr.
18 J. Veidlinger ricorda lo scetticismo di quasi tutti gli attori tragici del tempo sulla possibilità che Michoels interpretasse Lear, e di alcuni recensori, pochi in verità, circa la sua riuscita (The Moscow State Yiddish Theater cit., p. 141). Assai interessante è una dichiarazione di Michoels sulla modalità della sua discussione con Radlov, che passava attraverso la pratica della scena: «[…] la nostra discussione era creativa e di principio. Decidemmo che le riflessioni teoriche non ci avrebbero portati da nessuna parte, come direttore mi assunsi l’impegno di dividere in sequenze i primi atti della tragedia e di mostrargli in scena ciò che immaginavo. Quando arrivò, gli mostrai ciò che avevo fatto (non si trattava ancora della struttura che è rimasta nello spettacolo), lui fu d’accordo. Avevamo trovato una lingua comune. Così superammo il conflitto. In seguito nacque una piena intesa e il lavoro procedette bene» (Il mio lavoro sul “Re Lear” di Shakespeare cit.)
19 Sempre Veidlinger dà ampia testimonianza delle reazioni critiche pressoché unanimemente positive, persino da parte dei giornali più legati al regime, i cui recensori ancora potevano permettersi di fingere di non capire di quale mondo il Lear michoelsiano fosse il rappresentante.
20 Craig si trovava a Mosca – per la prima volta dopo il proprio rovinoso esperimento con l’Amleto al Teatro d’Arte – per il IV Festival Annuale di Teatro, dedicato a Shakespeare. Ebbe anche a dire: «Dal tempo del mio maestro, il grande Irving, non ricordo una performance d’attore che mi abbia toccato profondamente come Michoels nel ruolo del re Lear» (cit. da Nahma Sandrow, Vagabond Stars. A World History of Yiddish Theatre, Syracuse University Press, Syracuse 1996, p. 241, enfasi nostra); la fonte è l’intervista Tri razgovora s Gordonom Kregom, «Sovetskoe iskusstvo», 5 aprile 1935, nella quale Craig aggiunge che «Zuskin è un Fool eccellente, un personaggio non secondario rispetto a Lear e del tutto indipendente». Ricordiamo che un libro su Shakespeare del regista Grigorij Kozincev (1905-1973) si sarebbe intitolato Naš sovremennik Vil’jam Šekspir (William Shakespeare, nostro contemporaneo), Iskusstvo, Mosca 1962, e citava entusiasticamente Michoels, mentre la traduzione inglese, del 1966, suonava come Shakespeare: Time and Conscience (invece il libro di Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo apparve in polacco nel 1964 con il titolo Studi su Shakespeare).
21 Questa citazione e tutte le seguenti, fino a diversa indicazione, sono tratte dal testo di Michoels Il mio lavoro sul “Re Lear” di Shakespeare (1936), in Sbr e in traduzione a cura di C. D’Angelo.
22 A questo proposito è interessante ricordare un dialogo tra il giovane Isaac Singer e una sua amante nella Varsavia ebraica degli anni Trenta: «[…] “Continui a credere in Dio?”. “Certo”. “Se esiste, è un commediante. Tutto questo mondo è un grande scherzo. C’è mai stato un filosofo o un teologo che abbia affermato che Dio è un commediante?”. “Nelle Scritture sta scritto: ‘Colui che siede in cielo riderà’”. “Nella Bibbia c’è tutto, e se non c’è nella Bibbia, c’è in Shakespeare”» (Ricerca e perdizione cit., pp. 134-135).
23 Edizione italiana di riferimento: W. Shakespeare, King Lear / Re Lear, a cura di P. Bertinetti, note al testo di R. Rizzoli, trad. di E. Tadini, Einaudi, Torino 2004.
24 Tra le recenti realizzazioni del Re Lear, a memoria del sottoscritto, soltanto quella dell’attore-regista Leo de Berardinis, del 1998, presentava caratteri analoghi a quella del Goset, mentre la lettura di Kott, e poi le regie di Peter Brook e Giorgio Strehler riproponevano una interpretazione esistenzial-nichilistica che avvicinava il testo all’orizzonte del teatro dell’assurdo. Su de Berardinis cfr. eventualmente A. Attisani, Pronti al silenzio – Leo de Berardinis, in Actoris Studium. Album # 1. Processo e composizione nella recitazione da Stanislavskij a Grotowski e oltre, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2009, pp. 251-258. Aggiungiamo che però nel complesso della riflessione di Brook su Shakespeare si notano alcune convergenze profonde con la percezione di Michoels, laddove si legge per esempio: «Shakespeare è un modello di teatro che ingloba Brecht e Beckett, ma li sorpassa entrambi. Ciò di cui abbiamo bisogno nel teatro post-brechtiano è di trovare un mezzo per progredire che ci riconduca a Shakespeare. In Shakespeare l’introspezione e la metafisica non infiacchiscono nulla. Al contrario. È attraverso l’opposizione inconciliabile tra teatro grezzo e teatro sacro, attraverso un grido atonale di registri discordanti che noi riceviamo le impressioni indimenticabili e conturbanti dei suoi lavori. È perché le contraddizioni sono così violente che bruciano in noi così ardentemente» (P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni, Roma 1998, p. 94).
25 Questa mi pare sia anche l’opinione di D. Gerould, Literary Values in Theatrical Performances cit.
26 Il fatto che il singolo sia composto di diverse parti non significa che queste si compensino e si equilibrino, anzi. Ricorda Zuskin: «Tra i ruoli importanti devo annoverare quello del Fool in Re Lear, in cui interpretavo la tragedia dell’impotenza. Il Fool è un grande conoscitore dell’animo umano, un saggio che conosce bene gli uomini ma che non può in alcun modo aiutare il re. Questa circostanza corrisponde a uno dei momenti più difficili della mia vita personale» (enfasi nostra).
27 Il sottoscritto non ha trovato tracce di una conoscenza diretta degli scritti di Bachtin sul carnevale, il corpo grottesco e la polifonia da parte di Michoels e della sua cerchia, ma Harshav (The Moscow Yiddish Theater cit., p. 183) segnala un fatto molto significativo: «[…] Bachtin viveva a Vitebsk in quegli anni e il suo allievo Pavel Medvedev era a capo dell’assessorato alla cultura della città e collaborava con Chagall». Da ciò si può supporre che i concetti bachtiniani potrebbero essere stati conosciuti, nella cerchia del Goset.
28 Il mio lavoro sul “Re Lear” di Shakespeare cit. Nel testo, Michoels aggiunge: «Il secondo gesto che ricordo molto bene è nella scena in cui Lear, salvatosi in esilio e dall’inseguimento di Goneril, la incontra nuovamente. Radlov aveva costruito la messa in scena in questo modo: diceva che Lear doveva avvicinarsi a Goneril andandole molto vicino, quasi addosso. Qui ho immaginato una reazione plastica di Lear, il quale fissava Goneril, poi, non credendo ai propri occhi, passava la mano sul volto di lei come per verificare la sua impressione e insieme a questo gesto diceva a bassa voce una cosa di cui era consapevole per la prima volta: “Ti prego, figlia, non farmi impazzire, tu sei la mia bambina”; e aggiungeva: “Tu sei sangue del mio sangue e allo stesso tempo sei una piaga sul corpo di un padre”. Invece di una immagine allegorica dell’uomo, in questo momento appare la percezione di qualcosa di molto concreto, materiale, e Lear passa entrambe le mani sul proprio volto come se desiderasse togliere un velo dai propri occhi […] Per la prima volta compariva il pensiero: “Se è così, sto impazzendo”. Dopo questo gesto ne nacque un altro. Il gesto dell’attore acquisisce risonanza soltanto quando completa il pensiero. In questo modo il primo gesto della mano che cerca si trasforma in un palmo che pone una domanda, mentre il gesto con cui cercava di togliersi il velo dagli occhi e con cui lasciava andare i residui della ragione, in cui si radicavano le sue vecchie idee sul mondo, si trasformava in un gesto del polso con cui sembrava scacciare qualcosa. Con questo gesto Lear cercava di scacciare Goneril e con lei tutto il vortice di pensieri che gli aveva suscitato. […] Sono domande terribili per Lear, così terribili che improvvisamente inizia a sentire il caos sotto la volta del proprio cranio. Allora conficca tre volte le dita nella propria testa come fossero frecce e dice: “Sto impazzendo”. Nello stesso momento sente che il suo cuore è colto da un forte dolore, ma non mette la mano sul cuore, non batte con le dita, con il palmo o con il pugno sul petto, con la punta delle dita disegna una croce, come se con questo gesto lo tagliasse. Questi due gesti dovevano mostrare tutta la sofferenza di Lear. […] Così, quando giudica Goneril, il cui ruolo è interpretato da una sedia vuota, Lear passa nuovamente la mano sul volto, come per togliersi un velo dagli occhi. Quando Lear vorrebbe entrare nel petto di Regan soltanto per vedere come sia il suo cuore e capire quali motivi abbiano causato una tale malattia del cuore umano e quale carne crudele sia cresciuta intorno ad esso, ripete nuovamente lo stesso gesto della scena con le figlie, come se tagliasse il proprio cuore in più parti con un movimento delle dita che disegnano una croce. Dunque tra i modi che mi hanno aiutato a tratteggiare la figura di Lear i gesti hanno un posto d’onore. Ne ho ricordati soltanto alcuni, erano molti di più […]».
29 A partire da questo rigore drammaturgico, il meno musicale degli spettacoli del Goset fu probabilmente quello che più di tutti esprimeva lo “spirito della musica”, anche sul piano della recitazione: «Per i quattro atti della tragedia possiamo distinguere quattro stili, quattro ritmi e di conseguenza quattro timbri vocali. Per me i più difficili, dal punto di vista fisico, sono i ritmi delle scene della maledizione e della tempesta. Ho provato a prendermi il polso dopo queste scene, arrivava a centotrenta o centoquaranta e per molto tempo non tornava normale» (Il mio lavoro sul “Re Lear” di Shakespeare cit.). A sostegno di tale interpretazione convochiamo Peter Brook: «L’esperienza umana che non si può ridurre a concetti si esprime attraverso la musica. Di qui nasce la poesia, poiché nella poesia esiste un rapporto estremamente sottile tra il ritmo, il tono, la vibrazione e l’energia, che conferisce a ogni parola, nel momento in cui è pronunciata, il senso, l’immagine e, nello stesso tempo, quest’altra dimensione estremamente possente che viene dal suono, dalla musica del verbo» (P. Brook, Dimenticare Shakespeare?, pref. di G. Banu, Guida, Napoli 2005, p. 28).
30 «A dire la verità, inizialmente ero in imbarazzo: si può iniziare una grande tragedia, un’opera importante di Shakespeare con una risata debole e insignificante? Decisi che la questione aveva un’importanza puramente formale. Penso che all’inizio sia necessario non dare in alcun modo al pubblico la possibilità di presagire che Lear vivrà una tragedia. Bisogna mostrare al pubblico un cielo limpido per fare sì che in seguito in questo cielo veda le nuvole della tempesta in modo molto acuto». Lenzi ricorda in proposito che è il principio ejženstejniano dello otkaznoe dviženie ( “movimento di rifiuto”), presto tradotto e assimilato dalla pedagogia teatrale russa. «Anche la debole risata di Lear si è trasformata in un Leitmotiv della tragedia. Lo aveva accompagnato lungo tutta la sua vita, dal momento di quella gioia leggera quando assiste agli scherzi di Cordelia fino alla terribile scena del giudizio sulle due figlie, quando Lear, estenuato, non riesce a pronunciare neanche una parola. La risata non era prevista né dal testo di Shakespeare né dal regista. Io sentivo la necessità interiore di questa risata e la utilizzavo diverse volte. Nel momento più teso della vita interiore di Lear, nell’ora delle sue pesanti disgrazie risuona improvvisamente questa risata leggera. Per quale motivo? Perché ora, quando tutti i valori di una volta sono stati distrutti, tutte le convinzioni di una volta sono andate perdute, Lear improvvisamente si ricorda di un valore unico e certo, resistente per tutta la vita: Cordelia. Nell’ultima scena, prima di morire, come preparandosi a un lungo viaggio in cui non si possono portare molte cose, Lear trae l’ultimo respiro con questa risata, come se volesse portare con sé in un mondo migliore anche questo valore che aveva accompagnato tutta la sua vita; qui però la risata non è più frivola, allegra e leggera, ed è persino difficile capire se si tratti di una risata o di un pianto. […] Per una corretta presentazione del pensiero filosofico della tragedia mi sembrava necessario valersi di questo metodo, ovvero non utilizzare la parola ma il suono, anche nella scena della tempesta. […] pronunciando la frase: “Sono arrabbiato come un cane”, Gertner-Edgar iniziava ad abbaiare, mostrando la parola “cane” e fingendosi pazzo. Anche il mio Lear si metteva ad abbaiare scimmiottandolo e le parole si mescolavano con l’abbaiare, perché in questo momento affermava che l’uomo è soltanto un pietoso animale bipede non migliore del cane… L’immagine del cane accompagna Lear per tutto lo spettacolo, per esempio nella scena del giudizio sulle figlie nella taverna grida: «Cani, cani, i cani mi stanno aggredendo da tutte le parti». […] In questo modo il suono che accompagna il testo diventa per me l’espressione di idee precise. Il suono è utilizzato non per sostituire il testo ma per approfondirlo, per attribuirgli un carattere più collettivo e per renderlo più potente» (Il mio lavoro sul “Re Lear” di Shakespeare cit.).
31 La sequenza video presente su YouTube inizia in realtà con Michoels in camerino che riceve la parrucca da un inserviente. Vediamo il suo cranio calvo con lunghi capelli bianchi e non troppo pettinati sui lati. Sembra che abbia la barba non rasata. Probabilmente il suo volto è già coperto da un fondotinta. Si trucca con la matita accentuando le occhiaie, le pieghe ai lati degli occhi e il naso. Quando calza la corona la sua espressione cambia istantaneamente, forse a uso della macchina da presa, l’attore sgrana gli occhi e il suo viso sembra allargarsi. Poi appare una didascalia con il titolo e l’anno di produzione. Seguono alcuni momenti della scena iniziale e del finale, qui di seguito descritti in dettaglio.
32 Scriveva Zuskin in un proprio articolo sul Re Lear (cfr. I viaggi di Veniamin cit.): «Amo stare in scena in silenzio, odio il testo che non contiene nulla di per sé, elimino tutto ciò di cui si può fare a meno, molto spesso chiedo di cancellare qualche monologo e di sostituirlo con una parola o un gesto. Penso che in scena la pausa o il silenzio possano essere molto eloquenti. Per questo amo interpretare il Fool in Re Lear: per tutto il primo atto resta in silenzio, soltanto alla fine canta una canzone».
33 Così Michoels ricorda Rotbaum, interprete di Goneril, nel suo Il mio lavoro sul “Re Lear” di Shakespeare cit.: «Rotbaum si è formata come attrice con Reinhardt. Indubbiamente una delle figure più interessanti nella storia del teatro contemporaneo, Reinhardt non soltanto è il creatore di un modo di concepire la regia teatrale e di una scuola, è anche uno sperimentatore eclettico, che ha praticato i generi teatrali più diversi, iniziando dalla tragedia classica con Edipo re e arrivando alla drammaturgia contemporanea di Sudermann, e ai più diversi metodi di direzione. Per questo i rappresentanti di numerose scuole teatrali assai differenti tra loro si presentavano come discepoli di Reinhardt e tutti avevano buoni motivi per definirsi tali. Alla scuola di Reinhardt, Rotbaum ha acquisito uno degli insegnamenti più circoscritti, in cui tutta l’attenzione dell’attore era focalizzata sulla pronuncia della parola. Considerava come proprio ideale non l’azione scenica o il gesto, ma soltanto la declamazione. Per questo motivo Rotbaum, mantenendo una completa immobilità dei polsi, appesi come rami, compie tutto il tempo vigorosi movimenti con la testa, sottolineando il significato della parola. Nella tragedia di Shakespeare questo freno del gesto ha creato una certa monumentalità e del personaggio di Goneril ha rivelato con particolare intensità la superbia e il particolare atteggiamento cinico con cui Goneril faceva soffrire il padre. Se all’immagine di Goneril creata da Rotbaum si fosse aggiunta la mobilità, sarebbe diventata frettolosa e povera. In questo caso il difetto di una abitudine dell’attrice ha portato a un grande risultato».
34 Così Michoels, sempre nel suo Il mio lavoro sul “Re Lear” di Shakespeare cit.: «Con Jakov Gertner, che nella tragedia interpretava il ruolo di Edgar, accadde qualcosa di simile [a Rotbaum]. Il ruolo di Edgar è tra i più complessi nel Re Lear; è scritto come in contrappunto rispetto a ciò che accade a Lear, aiuta a far emergere l’essenza di Lear. Ciò è visibile soprattutto nella scena della finta pazzia di Lear. Quando si cerca di riflettere su questa scena, di determinare in quale momento scenico Lear vada “fuori di testa”, viene spontaneo fermarsi sul suo incontro con il finto pazzo Edgar. C’è qualcosa di tragico nel fatto che Lear veda nell’Edgar che finge una persona vera. “Ecco una persona vera!”, esclama Lear quando vede il corpo nudo, sporco e roso dal vento del vagabondo. Anche se in questa scena il comportamento di Lear crea la finzione della pazzia, ciò accade soltanto perché Lear vive un processo tormentoso di trasformazione dei propri valori. Crollano tutte le sue precedenti visioni della vita; e per quanto in questo momento il comportamento di Lear non sia amichevole, in fondo è naturale e organico. Per quanto riguarda Edgar, egli semplicemente recita il ruolo del folle, finge per ingannare gli altri e per salvarsi dal patibolo, che a quei tempi per la legge inglese era il destino di ogni vagabondo. Probabilmente la vicenda del re sconvolge Edgar e a un certo punto la sua finta follia diventa vera. È anche probabile il contrario: forse a questo punto desidera gettare la maschera del folle, ma la situazione lo costringe a fingersi ancora pazzo. Qualcosa di simile si ripete quando incontra il padre, e un’altra volta ancora quando finalmente comprende la pesante accusa mossa da Edmund. In un modo o nell’altro però è importante sottolineare la finzione, l’arte della follia di Edgar. Gertner è un attore dotato, anche se il suo aspetto esteriore non è clamoroso. La sua voce è abbastanza brutta, la sua musicalità è mediocre, sente il ritmo della musica in modo superficiale. Il destino non gli ha permesso di ricevere una formazione adeguata, in cambio però gli ha dato una grande forza di volontà e una straordinaria capacità di lavoro. È un autodidatta. Tutto ciò che sa, lo ha imparato grazie alla sua “autoformazione”. E sa molte cose, anche se le sue conoscenze sono empiriche, incomplete. Come la maggior parte degli attori del nostro teatro, Gertner si riferisce a modelli dal pensiero inerte. Non ha la capacità di universalizzare. Da molto tempo prima del ruolo di Edgar aveva messo a punto il proprio metodo, che naturalmente ha utilizzato anche nel lavoro su Edgar. Questo metodo non sempre si dimostra giusto, ma in Shakespeare ha portato a un buon risultato. Non possedendo un carattere attoriale autentico, spesso Gertner lo surroga con uno sforzo della voce. Ama parlare a voce alta, a volte senza che ve ne sia una precisa necessità. Il secondo difetto di Gertner è la mancanza di sviluppo del personaggio. Rende tutti i dettagli del ruolo ugualmente importanti, per questo il ruolo manca di volume, di rilievo, non ha luci e ombre. Fin dal primo momento interpreta sulla nota più alta (ovvero banalmente parla a voce molto alta) e per questo non può più “crescere” e non sviluppa la parte estrinseca del ruolo. Nel gesto di Gertner, come per la maggior parte degli attori del nostro teatro, domina l’aspetto illustrativo. Quando per esempio pronuncia la parola «io», involontariamente la sua mano si muove verso il petto, quando dice la parola «testa», il gesto anticipa il mostrare dove si trova la testa della persona. Se invece pronuncia la parola «giuro», alza due dita. Questi gesti illustrativi ovviamente indeboliscono la parola. Tali gesti appaiono negli attori del nostro teatro a causa della mancanza di fiducia nei confronti del pubblico. Gli attori non sono sicuri che il pubblico capisca la propria madrelingua [lo yiddish], perciò le parole vengono “completate” dal gesto, a volte perfino le parole conosciute non soltanto dal pubblico ebraico. Secondo me i gesti illustrativi non hanno alcuna utilità. Il gesto non deve “aiutare a parlare”, deve aiutare a ragionare. Il gesto deve aiutare ad agire, non deve essere un commento alla parola pronunciata. È molto significativo che lavorando sul personaggio di Edgar abbia deciso di illustrare non soltanto il gesto ma anche il discorso. Edgar dice la battuta: «Sono pigro come un maiale, sono furbo come una volpe, sono arrabbiato come un cane». Qui ha il compito di interpretare la finta follia. Alla parola «maiale», Gertner grugniva, alla parola volpe si muoveva con agilità, illustrando con questo movimento l’abilità e la “sinuosità” della volpe, alla parola cane iniziava ad abbaiare. Il paradosso però stava nel fatto che nel ruolo di Edgar questo metodo era più che azzeccato: una abituale debolezza dell’attore diventava la sua forza, un’arma precisa. Ricordo che in modo assolutamente consapevole avevo iniziato a abbaiare anch’io, non in modo illustrativo però, perché a differenza di Edgar, Lear non recita la follia ma è come se volesse dimostrare che il linguaggio umano non è in grado di esprimere la nuova verità che ha appena appreso: l’uomo è soltanto un animale bipede. L’abbaiare del cane, intrecciatosi al testo shakespeariano, risuona dalla labbra di Lear come una nuova verità filosofica: «Ecco questo folle che abbaia, è una persona vera, mentre noi tre, il re, il Fool e il Conte di Kent siamo “niente”».
35 Michoels: «Il suono sincrono alle diverse tonalità della partitura shakespeariana, separate l’una dall’altra da intervalli dal significato profondo, che esprimono sensazioni opposte, richiede l’utilizzo di doti attoriali eccezionali. Per esempio ritenevo necessario trovare una forma scenica in grado di rappresentare la follia di Lear per far sì che il pubblico notasse in modo molto netto il confine che separa la follia con le sue fughe dalla realtà da una lucida visione del mondo. Il testo deve suonare contemporaneo e convincente nel modo più assoluto, anche ricorrendo a piccole distrazioni musicali. Le parole del testo non dovevano essere legate tra loro da interiezioni o congiunzioni, perfino laddove questi legami c’erano dovevano essere nascosti, così che il pensiero di Lear apparisse in modo intermittente e a scatti. Lungo tutto lo sviluppo dell’azione doveva essere messa in risalto una stringente logica interiore» (Il mio lavoro sul “Re Lear” di Shakespeare cit.).
36 Piccolo astuccio contenente una pergamena su cui sono trascritti alcuni passi della Sacra Scrittura. Secondo il comando dato da Dio in Deuteronomio VI, 9, il mezuzah viene appeso allo stipite destro della porta di casa, per consacrarla e porla sotto la protezione divina.
37 Fino dagli anni Trenta circola la leggenda di una frequentazione Stalin-Michoels, secondo la quale l’attore avrebbe recitato in privato per il dittatore e gli sarebbe stato amico e insegnante. Tale leggenda non è basata su alcun elemento concreto ed è smentita categoricamente dalla figlia; forse è nata o è stata alimentata da un racconto dello scrittore Mendel Man. Tra i libri che la riprendono vi è quello citato di Léon Leneman, il quale riferisce diversi altri episodi significativi ma non sempre accertati nel dettaglio. Per esempio nel dicembre del 1947 il generale Kaganovič avrebbe occupato il palco d’onore con altre autorità e disseminato il teatro di guardie del corpo. In quell’occasione Michoels, nei panni di Lear gli si sarebbe rivolto dicendo: «Trema dunque, per tutti i crimini che hai commesso e che tieni segreti!» suscitando un brivido nel pubblico. Leneman si dilunga anche sull’amicizia tra Michoels e Kačalov, il principale attore del Teatro d’Arte di Mosca – la cui frequentazione di Stalin è invece accertata – raccontando che questi avrebbe avvertito il collega che Stalin in realtà detestava lui e tutti gli ebrei e che l’appellativo di «saggio Salomon» con cui lo nominava in pubblico e in privato era in realtà derisorio perché tratto dal racconto di Anton Čechov La steppa, dove un pope cita un ebreo da caricatura che diverte la gente al mercato parlando male degli altri ebrei. Stalin sarebbe stato tra gli spettatori del Re Lear, come è ribadito in una sapiente e gustosa fiction drammaturgica dallo scrittore cileno Gaston Salvatore nel dramma Stalin, Einaudi, Torino 1988.
38 (1899-1960). Per quanto riguarda i rapporti tra il grande scrittore e drammaturgo odessita e il mondo ebraico cfr. Nils Åke Nilson, Jurij Oleša, in Storia della letteratura russa, III: Il Novecento – La Rivoluzione e gli anni venti, Einaudi, Torino 1990, pp. 485-495.
39 Iskateli sčastja (Urss, 1936), ing. Seekers of Happiness, Cercatori di felicità. Sceneggiatura: Grigori Kobets, Iogan Zeltser. B/N, 84’, russo con sottotitoli in inglese (copia restaurata da The National Center For Jewish Film, 2007). Regia: Vladimir Korsh-Sablin, Iosif Shapiro. Attori: Veniamin Zuskin (Pinja Kopman), Mariya Blyumental-Tamarina (Dvoira), S. K. Yarov (Korney), L. A. Shmidt (Rosa), A. M. Karev (Natan), N. K. Valyano (Lyova), L.M. Taits (Basya Kopman), Iona Byi-Brodsky (Shlyoma), Boris Zhukovbsky (il padre di Korney). Produzione: Belgoskino, Sovexportfilm.
40 A. Arzach-Granovskaja, Vospominanija cit., pp. 134-135, 137.
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