V. Amerike!
p. 116-159
Texte intégral
«L’America è il futuro. L’America significa libertà.
Tutti in America hanno qualche parente».
«L’ebreo che vuole andare in America
non si mette a studiare l’inglese.
Sa già come arrangiarsi nel paese straniero.
Parlerà lo yiddish,
la lingua geograficamente, se non numericamente, più diffusa di tutte».
«[…] in America vi sono uomini più ebrei
degli ebrei: mi riferisco ai negri».1
Con i viatici di Joseph Roth torniamo quindi alla peculiare situazione americana. Dal 1881 al 1925 arrivarono negli Stati Uniti tre milioni e mezzo di ebrei, provenienti in larga maggioranza dalla Russia e dalla Polonia. Per quasi tutti la lingua d’uso era lo yiddish. Sul fronte del teatro la prima notizia di uno spettacolo in yiddish in America è del 1882, protagonista un giovanissimo Boris Tomashefsky, allora soltanto un dilettante allo sbaraglio, ma talmente dotato da diventare immediatamente un divo. Nel 1884 arrivò negli Stati Uniti Joseph Lateiner e subito si propose con la propria compagnia di cui era capocomico e drammaturgo. Con lui, a conferma della abituale struttura familiare del teatro yiddish, vi era la moglie Izela.2 Lateiner e la sua compagnia – che comprendeva attori dotati e brillanti come Maurice Heine,3 Moses Silbermann e Sophia Karp – recitarono dapprima sulla scena dell’Oriental, incarnando spregiudicatamente lo spirito commerciale del teatro yiddish. Con l’arrivo di Horowitz, fin dall’inizio drammaturgo del Rumanian Opera House, e i suoi sodali, tra i quali vi erano Sigmund Mogulesko e David Kessler, e poi della compagnia-famiglia degli Adler si completa il quadro della prima ondata di teatro yiddish americano, quella che secondo il parere di molti fornì i migliori attori. Jacob Adler e Sigmund Mogulesko erano entrambi caratteristi, il primo più portato per la tragedia, il secondo per la commedia. Mogulesko era considerato un «genio naturale» (Hapgood), un attore dotato di una spontaneità inossidabile con la quale suppliva alla mancanza di educazione e di una dimensione intellettuale, anche se non di rado era portato a una disinvolta manipolazione dei testi e dei ruoli.
1Gli inizi del teatro yiddish nella tanto sognata Amerike vanno inquadrati nel più generale fermento culturale e politico di quegli anni. Nel 1897 Abraham Cahan fondò il «Forverts» (Avanti), ovvero un «Jewish Daily Forward»4 di orientamento socialista che avrebbe raggiunto negli anni le duecentomila copie di diffusione. Dal 1902 esisteva un Partito Socialista statunitense, che dopo dieci anni contava quasi duecentomila iscritti. Il «Forverts» suscitò, dopo il 1912, molte critiche per suo moderatismo e per la sua indulgenza nei confronti dello shund, nonché per il suo yiddish semplificato e americanizzato, il cosiddetto potato yiddish. Comunque il giornale manifestò per un certo periodo entusiasmo e speranza per la Rivoluzione d’Ottobre ( «Una nuova luce è sorta in Russia», titolava), contribuendo a indurre persino una migrazione inversa (tra il 1917 e il 1920 oltre ventimila ebrei ritornarono in Russia, a volte subendo, durante la guerra civile, i pogrom scatenati dai russi bianchi). Ma, come precisa I.B. Singer,
Abe Cahan si rese ben presto conto di avere commesso un errore […] Coloro che vi scrivevano – per la maggior parte esperti di tutti i movimenti radicali di Russia – scoprirono i delitti di Stalin molto prima che il mondo democratico ne venisse a conoscenza.5
Nel 1915 si contavano a New York un milione e quattrocentomila ebrei, che costituivano quasi il quaranta per cento della popolazione e risiedevano soprattutto a Manhattan, nel Lower East Side, dove nel 1910 funzionavano almeno cinque teatri yiddish, e a Brooklyn. Tra il 1920 e il 1930 ne arrivarono circa altri trecentocinquantamila.
2Il brillante giornalista-scrittore non ebreo Hutchins Hapgood offre in un libro del 1902 un quadro ricco di sfumature sull’emigrazione ebraica nel Lower East Side di New York, dall’autore definito «ghetto».6 Il capitolo intitolato La scena fa comprendere in una sessantina di pagine, fitte di aneddoti e ritratti degli artisti, di descrizioni dei teatri e del pubblico, quale fosse l’importanza del teatro nella vita quotidiana della metropoli più significativa del melting pot, ossia del rimescolamento di tradizioni, costumi e culture, in una vivace dialettica tra conservazione, ricerca identitaria e trasformazione.
3I tre teatri yiddish della multietnica Bowery – il People’s Theatre, il Windsor e il Thalia – erano frequentati da ogni sorta di spettatori, dai rabbini ai militanti anarchici passando per tutte le componenti sociali del variegato mondo dell’emigrazione. I più poveri e culturalmente sprovveduti, spesso a disagio con la lingua del paese ospite, costituivano la maggioranza del pubblico, ma anche gli intellettuali e gli artisti partecipavano attivamente all’intensa vita teatrale. Il pubblico variava anche a seconda delle serate: i primi quattro giorni della settimana erano riservati ai membri di associazioni e sindacati, che si contavano a centinaia nell’East Side ed erano caratterizzati dal luogo di provenienza (vi era per esempio un Vilnius Club) o dall’orientamento politico (anarchici, socialisti, comunisti ecc.), e persino i giornali organizzavano i propri spettatori. Tutto ciò avveniva con profitto reciproco, poiché le associazioni compravano partite di biglietti a basso prezzo dai teatri e li rivendevano, in pratica imponendoli, ai propri soci con un leggero margine di guadagno. Dal venerdì, invece, normalmente serata di gala, alla domenica il biglietto era acquistabile liberamente. Non pochi spettatori erano lavoratori che ricevevano un misero salario di circa dieci dollari la settimana e ne spendevano cinque per il teatro, ma erano incoraggiati a farlo perché si riteneva che fossero risorse sottratte a cattive abitudini più pericolose come il bere. Attorno agli spettacoli fiorivano diverse attività commerciali come la vendita dei testi e delle musiche delle canzoni, di cartoline e manifesti, nonché di bibite, caramelle e dolciumi. Le sale erano quasi sempre piene, persino il sabato, a dispetto dell’interdetto ribadito dagli ortodossi, in realtà senza troppo vigore. Anche le donne e i bambini frequentavano i teatri.
4Il comportamento del pubblico era molto vivace, senza risparmio di commenti e fischi durante la rappresentazione, nonché con accese discussioni durante gli intervalli. Sui sipari erano affissi annunci pubblicitari e ritratti degli attori più noti; i programmi di sala contenevano non solo notizie sullo spettacolo (sempre di più, con il passare del tempo, anche in inglese, per favorire la ricezione di coloro che non comprendevano lo yiddish) ma anche, oltre naturalmente alla pubblicità, vari articoli e poesie di questo tono: «Tomashefsky! Grande artista! / Nessun elogio è abbastanza per te; / Tutti quanti ti sono amici fedeli. / Di tutte le stelle sei sempre il re». Lo stesso accadeva per Jacob Adler e gli altri beniamini. Gli attori ricambiavano l’entusiasmo e la devozione del pubblico, nel loro gergo chiamato «Mosè», lasciandosi avvicinare nei bar che frequentavano con consorti e colleghi. A fronte di capocomici spesso autoritari, comunque attenti ai propri interessi, gli attori erano organizzati in sindacati e frequenti erano gli scioperi per ottenere aumenti di paga e il miglioramento delle condizioni di lavoro.
5I due drammaturghi più popolari intorno all’anno 1900 erano Joseph Lateiner, già suggeritore con Goldfaden poi scopertosi autore e abile capocomico, e il Professor Moyshe Horowitz. Molti aspiranti autori si proponevano continuamente alle compagnie, sempre interessate a scoprire nuovi testi. Per “esaminarli” si era escogitato un originale sistema che consisteva nel mostrare loro i costumi della compagnia invitandoli a ispirarsi per definire precisamente i personaggi, ma soprattutto nel chiedere loro di illustrare in scena i rispettivi copioni mentre il capocomico e gli altri membri della compagnia li osservavano dalla galleria. Gli attori scritturati a volte dovevano procurarsi un sigaro da fumare in scena almeno il venerdì, se il personaggio lo richiedeva, anche affrontando i rumorosi rimproveri degli spettatori che si fingevano scandalizzati dalla trasgressione dell’interdetto imposto in occasione del Sabbath.
6I testi tenevano conto degli orientamenti del pubblico e d’altra parte gli spettatori di diverse tendenze sceglievano oculatamente gli spettacoli in base alle tematiche trattate. Numerosi erano i drammi “culturali”, realizzati, almeno teoricamente, secondo i dettami del realismo russo e incentrati soprattutto sui contrasti generazionali, e quelli a sfondo storico. Il capofila della drammaturgia e dello stile più contemporanei era Jacob Gordin, l’autore «più forte e importante» già secondo Hapgood, mentre Horowitz e Lateiner erano orgogliosamente conservatori e sfornavano decine di copioni dagli schemi ritornanti, al punto che gli attori confessavano candidamente come non fosse necessario imparare a memoria la parte ma solo afferrare la situazione e la propria funzione nella trama, dato che le battute erano riprese dai copioni precedenti dei due. Horowitz, che non a caso si faceva chiamare «Professore», pretendeva di essere un’autorità anche dal punto di vista intellettuale, si considerava il vero autore yiddish e criticava aspramente gli innovatori come Gordin. Lateiner era meno intellettuale e più “romantico” e si era specializzato soprattutto negli adattamenti di vecchie opere e melodrammi. I due erano favoriti, a quell’altezza di tempo, dall’assenza di una critica preparata e da un pubblico mediamente ignorante, così che nessuno ne rilevava i molti plagi. Tra gli autori più saccheggiati vi erano Shakespeare e Schiller, utilizzati come pretesti e “rivestiti” di costumi ebraici. Horowitz sosteneva con protervia che il pubblico non avrebbe saputo apprezzare i drammi originali e si arrogava il merito di diffonderli “clandestinamente”. Si ricorda per esempio l’Amleto con il quale Thomashevsky si contrappose al felice debutto shakespeariano di Adler con Il Re Lear yiddish di Gordin e l’Otello. Il suo Amleto iniziava con la festa di nozze tra la madre e lo zio del protagonista. Claudio era qui il rabbino di uno shtetl che non aveva avvelenato il fratello ma lo aveva fatto morire di crepacuore seducendone la moglie. L’usurpatore tentava di fare condannare Amleto come terrorista nichilista e, smascherato, veniva deportato in Siberia. La scena finale si svolgeva al cimitero, dove Amleto, secondo gli usi ebraici, veniva unito in matrimonio alla defunta Ofelia e poi moriva a sua volta di crepacuore. Non mancavano però le novità dettate dalle nuove condizioni di vita in America, come i cosiddetti «drammi di pistola». Nel complesso Horowitz e Lateiner costituivano un’alternativa al realismo, da loro definito uno «spaccio di orrori», e si presentavano come i paladini dell’autentico teatro yiddish. L’anarchico Hapgood, simpatizzante della causa opposta, sostiene che i loro attori fossero in genere di scarso livello e, come i loro avversari, definiva i loro copioni «drammi cipolla», cioè concepiti soltanto per far piangere gli spettatori, basati sulla manipolazione e ignoranti della storia.
7Dei tre teatri della Bowery, il People’s era considerato da Hapgood il meno caratteristico in senso ebraico, perché secondo lui faceva di tutto per assomigliare alle sale di Uptown, “traducendone” gli spettacoli – ossia riprendendone i testi e imitandone le messinscene – e cercando i propri spettatori tra i nouveau riches o comunque tra coloro che volevano integrarsi pienamente nella società americana. Fra i tratti innovatori del People’s vi erano l’esclusione dei bambini piccoli dal pubblico e la grande sala decisamente più pulita degli altri due. Negli studi a lui dedicati si vede come la strategia dell’attore-capocomico Jacob Adler, soprannominato la Grande Aquila, fosse in realtà assai più complessa: in quegli anni il suo Mercante di Venezia yiddish ebbe un tale esito da indurre i teatri di Broadway a proporgli una versione ad hoc, in inglese, incontrando il rifiuto dell’attore.
8La primadonna della sua compagnia, in quel momento, era la molto apprezzata Sophia Karp,7 attrice che aveva conosciuto l’apice del successo sulla scena di Thomashevsky. Sophia Karp era una splendida sedicenne quando era stata notata da Goldfaden a Galaţi (Romania) e arruolata come prima donna del teatro yiddish. La compagnia allora era composta da Goldfaden, Israel Gradner e Sokher Goldstein, i quali nei primi tempi cercavano di piazza in piazza gli altri attori necessari per completare la distribuzione. Per superare l’opposizione della famiglia, la ragazza sposò il diciottenne Sokher Goldstein,8 unico scapolo della compagnia, e cambiò nome. Ottenne immediatamente una grande affermazione personale nell’operetta “drammatica” L’intrigo di Goldfaden, segnalandosi per le sue eccezionali doti di cantante. Dopo un anno di allontanamento dalla scena dovuto agli intrighi dei suoi familiari, Sophia tornò nella compagnia per l’insistenza soprattutto di Mogulesko, inducendo colei che Israel Gradner aveva chiamato per sostituirla, cioè la propria moglie Annette Gradner, ad andarsene. Dopo il bando zarista del 1883 Sophie girò a lungo e recitò persino a Londra nel teatro di Adler, poi si stabilì a Iaşi, dove il marito morì, e sposò l’attore Max Karp. Si trasferì negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta, chiamata da Maurice Heine, il quale forse voleva in tal modo liberarsi dalla propria moglie-primadonna di cui pativa l’idolatria del pubblico. Le due attrici dapprima recitarono insieme, poi Sophia lasciò l’Oriental per il Rumanian, seguita da Max Karp, che le aveva dato l’ultimo cognome. Il Rumanian era in quel momento il regno di Horowitz, oltre che di Sigmund Mogulesko. All’arrivo di Goldfaden e con la conseguente decisione del teatro di affidargli la messinscena di Bar Kochba gli attori proclamarono uno sciopero, il primo nella storia del teatro americano, che si concluse con la sconfitta di tutti, soprattutto di Goldfaden, al quale nessuno versava i diritti d’autore. Sophie e il suo nuovo marito trovarono rifugio all’Oriental e poi, perdonati dagli scioperanti, al Poole’s con Heine come direttore. Dopo questo episodio Sophia Karp, adorata dal pubblico, lavorò per lo più con Thomashevsky e fu tra i soci fondatori del Grand Theater nel 1903. Prima di allora l’attrice-cantante si era segnalata in una Rachele di Horowitz, dove la sua canzone Eli, Eli, tratta da un salmo biblico e cantata da una ragazza che sta per essere lapidata nella piazza del mercato conquistò una tale fama da diventare una sorta di inno nazionale della Diaspora. Il suo declino fu molto triste, sia perché come interprete era associata alle operette di Horowitz e Lateiner, che allora cominciavano a non piacere più, sia perché per resistere al cambiamento di proprietà del Grand Theater si ridusse a vivere in camerino, al freddo, contraendo una polmonite fatale che la stroncò nel 1904. Il suo fu il primo funerale di massa di un artista teatrale.9
Secondo Hapgood il Thalia era il migliore dei tre teatri della Bowery. Provvisto di una compagnia di alto livello, il teatro era considerato il tempio del realismo, ovvero soprattutto di Gordin. Tra le attrici si distingueva la giovane Berta Kalich, mentre primo attore era David Kessler, del quale Hapgood dice che era «uno dei migliori nei drammi realistici e uno dei peggiori come giovane amante romantico»; tra i giovani si stava facendo largo Morris Moshkovich, il quale però, a dispetto della propria intraprendenza – dapprima attivo nelle proteste contro gli impresari e poi socio di un teatro che amministrava molto rigidamente – non diventò mai la star che avrebbe voluto.10 A sedici anni aveva cominciato a recitare in russo al Teatro Mariinskij della sua città, Odessa, poi, sotto la guida dell’attore russo Andrej Burlak, si era inserito in una compagnia amatoriale, fin quando non era emigrato con la famiglia in America, dove aveva fatto diversi lavori mentre tentava di riprendere la carriera di attore. Nel 1893 fu notato da Gordin e Adler, i quali finalmente gli offrirono la possibilità di passare al professionismo. Il debutto con Adler, tuttavia, fu infelice, perché Moshkovich non padroneggiava lo yiddish; la sua fortuna cominciò con lo spettacolo successivo, Il prete ebreo di Gordin, ma non al punto da rendergli possibile di lasciare il lavoro in fabbrica (più avanti risolse la questione economica aprendo un bar). Negli anni seguenti e fino al 1908 fu un acclamato interprete gordiniano, ma recitò anche in versioni yiddish di Ibsen e Strindberg con Keni Liptzin, David Kessler, Dina Feinman, Leon Blank e altri fra i maggiori attori del tempo. Partecipò a diverse tournée, recitando anche in inglese, in Gran Bretagna, Sudafrica e Australia. La sua autobiografia fu pubblicata a puntate dal «Forverts» a partire dal 1929, dopo la sua morte.11
9La compagnia del Windsor era considerata da Hapgood complessivamente la più debole, a causa del suo basso tasso di realismo e per la scarsità di opere a sfondo storico e “culturale”, nonostante comprendesse alcuni buoni attori come la cantante e attrice Regina Prager. A Leopoli, la sua città, Prager ricevette un’educazione musicale, diventando corista. Aspirava alla carriera di cantante d’opera, ma essendosi rivelata una buona attrice fu convinta da Goldfaden a restare nella compagnia, in cui fu protagonista di Shulamit e Bar Kochba. Il compositore Josef Rumshinsky ricorda il suo «stile di vita introspettivo, religioso e modesto» come un probabile limite per la sua carriera nel modo dello spettacolo. In ogni caso, dal 1893 fu primadonna del teatro yiddish di Leopoli diretto da Yankev Ber Gimpel e due anni dopo godeva di una tale fama da essere chiamata a New York per recitare al Windsor. Qui ottenne un grande successo, tanto da rivaleggiare con Bertha Kalish, venne chiamata dagli impresari concorrenti e il suo relativo declino cominciò quando con le più giovani Jennie Goldstein12 e Molly Picon13 iniziò a cambiare il modo di recitare prima che il repertorio, e la sua voce con impostazione da operetta non incontrava più il gusto corrente. Fu in scena, comunque, sempre in ruoli di primo piano, fino alla stagione 1929-30.14
10Il corrosivo Horowitz definiva lo Adler del People’s, non un attore ma un «caricaturista» e di Gordin pensava che i suoi dialoghi fossero «efficaci», mentre i drammi nel loro complesso erano solo «cattive caricature della vita». Invece Hapgood – che non fece in tempo a registrare nel proprio libro il declino del regno di Horowitz e Lateiner – considerava Adler «il più autorevole esponente tra gli attori realistici del ghetto».
11Grande era dunque la rivalità tra i tre teatri, anche se in linea generale si può dire che il People’s e il Thalia – dai quali Horowitz era considerato «un rapinatore di roba vecchia» – fossero alleati contro il Windsor. I relativi pubblici erano organizzati in vere e proprie tifoserie (i cosiddetti patriotn) sempre in polemica tra loro, sempre creative nelle manifestazioni di ammirazione dei propri beniamini e di contestazione degli attori delle altre fazioni. Però attrici e attori non di rado si spostavano da un teatro all’altro e le sbandierate scelte stilistiche e di repertorio non erano certo rispettate rigorosamente.
12Il progressivo miglioramento della scena yiddish newyorchese nel primo ventennio del nuovo secolo fu dovuto a molti fattori. Tra questi, fondamentale, la consapevolezza politica soprattutto degli ebrei più poveri – la stragrande maggioranza della comunità –, stimolata anche dai concomitanti eventi europei. Ciò portò, tra l’altro, alle nascita di nuove formazioni politiche. Nel 1919 nasceva a Chicago l’American Communist Movement, che vedeva crescere in fretta i propri iscritti mentre i socialisti diminuivano notevolmente, e nel 1922 fu fondato il Workers’ Party, un’alleanza presto egemonizzata dai comunisti. Un giornale che la sosteneva, oltre al «Forverts», era il «Frayhayt», che diffondeva soltanto quattordicimila copie ma era di grande qualità e godeva di un enorme prestigio tra i giovani. Le sezioni comuniste fungevano da “case del popolo”, con ampie sale sempre dotate di palcoscenico e bar-ristoro. Vedremo come in questo contesto sia stata possibile un’esperienza alta e duratura come quella dell’Artef, teatro filocomunista raffinato e popolare al tempo stesso.
13Negli anni Venti, alla progressiva elevazione culturale e politica del pubblico yiddish (e non solo) corrispondeva una qualità mediamente alta delle proposte sceniche, a fronte della quale gli esponenti di una critica ormai più matura parlavano addirittura di una complessiva superiorità della scena yiddish rispetto all’industria teatrale di Broadway. Un critico del «New York Times», recensendo uno spettacolo diretto e interpretato da Jacob Ben-Ami, affermava che «nessun attore della scena in lingua inglese possiede un’arte all’altezza di quella mostrata da Ben-Ami nel Sansone e Dalila» e concludeva con queste parole:
Il Jewish Art Theatre continua a creare un “effetto di realtà” [ovvero a realizzare un teatro realistico e moderno, ndr] come nessun teatro di Broadway è ancora riuscito a fare. I suoi attori sembra abbiano studiato il vero volto della realtà meglio di chiunque altro. Sembra che ciò sia ottenuto senza alcun metodo specifico. È qualcosa che dipende da una intuizione e che vale di per sé.15
Jacob Ben-Ami, originario di Minsk. L’attore aveva dimostrato un precoce interesse per il teatro cui diede corpo in vari modi, tra l’altro cantando fuori scena in occasione di alcuni spettacoli russi. All’età di diciassette anni era stato ammesso al Teatro Russo Statale come figurante e dall’anno successivo aveva recitato in piccoli ruoli. Poi era passato a compagnie maggiori come quella di Peretz Hirshbeyn a Odessa, per la quale fu anche regista. A Vilnius diresse il Club amatoriale del teatro yiddish, nucleo della futura Vilner Trupe. Soggiornò anche a Londra, nel 1912, invitato dal Feinman’s Artistic Temple, un teatro che ebbe soltanto sei mesi di vita, e infine proseguì per gli Stati Uniti su invito della compagnia di Sara Adler. Anche il Feinman’s fu costretto a chiudere a metà stagione e Ben-Ami, divenuto membro del sindacato degli attori, fu scritturato da Maurice Schwartz per L’eterno errante scritto e diretto da Osip Dymov. Nel 1914 andò in tournée con Keni Liptzin e nel 1915 tornò con Thomashefsky, il quale però per due anni gli affidò soltanto piccoli ruoli, quindi si unì alla compagnia di Lieberman dove, nel repertorio melodrammatico diretto da Sigmund Weintraub, si fece notare in ruoli di primo piano. Nel 1917 fu ingaggiato da Schwartz all’Irving Place Theatre, dove interpretò tra gli altri uno degli spettacoli di maggior successo della casa, Faraway Corner, ma poi, insoddisfatto dei metodi del capocomico, formò una propria compagnia, lo Yiddish kunst-teater, sostenuto da Louie Schnitzer e il cui regista era Emanuel Reicher. Nel repertorio figuravano Negozi vuoti e Campi verdi di Hirshbeyn, vari atti unici di Sholem Asch, Con la corrente di Sholem Aleichem, Gente e Il Messia silenzioso di Pinski, Bronx Express di Dymov, Gente sola di Hauptmann, La potenza delle tenebre di Lev Tolstoj e l’adattamento del Sansone e Dalila di Sven Lang che abbiamo già citato. Con queste prove si conquistò una fama di artista rigoroso e impeccabile, al punto di venire considerato un modello per le giovani generazioni. Nella stagione 1920-1921 cominciò a recitare in lingua inglese e a dirigere alcuni spettacoli, ciò fino al 1929, con saltuari ritorni sulla scena yiddish come guest star: nella stagione 1926-1927 fu attore e regista all’Irving Place Theatre (rinominato Dos neye yidishe kunst-teater, The New Yiddish Art Theatre) e propose La nave dei santi di Evreinoff, diretto dall’autore, Il negozio, da Leyvik, un testo suo e di Jacob Mestel, poi Dal mondo dei morti, copione di Berkovitch dall’Idiota di Dostoevskij e un nuovo Sansone e Dalila. A Broadway in effetti ottenne un solo grande successo molto più tardi, nel 1959, interpretando Il decimo uomo, monologo di Paddy Chayefsky ispirato al Dibbuk e riambientato a Long Island nel 1950. Lungo l’arco della sua lunga carriera interpretò anche diversi film e fece molte tournée in Europa, Sudafrica, America Latina e Stati Uniti. Fu in scena fino al 1972.16
14Dunque prima dell’arrivo di Stanislavskij (1923) e della “nuova fondazione” del teatro americano indotta dagli artisti russi, il teatro yiddish costituiva la punta di diamante di un teatro capace di parlare del presente, con un’alta qualità sia nella recitazione che nella messinscena. Questa qualità, tuttavia, non consisteva nella semplice trasposizione delle tradizioni teatrali europee nel nuovo contesto, ma originava da una reinvenzione totale, come dimostra il triste epilogo americano di Goldfaden e Sholem Aleichem, i due padri nobili della drammaturgia yiddish diventati rappresentanti del passato del popolo yiddish e non del suo presente.
15Comunque sia, l’avventura americana di Sholem Aleichem è ricca d’insegnamenti non solo sugli ideali e i progetti culturali dell’autore ma anche sul contesto culturale, economico e politico nel quale milioni di ebrei in fuga dall’Europa avevano trovato approdo. Negli Stati Uniti allora si entrava senza passaporto o visto, ma soprattutto ci si andava perché il Paese appariva come il regno delle possibilità e della libertà, in pratica un surrogato della Terra Promessa. Naturalmente la realtà che gli emigranti trovavano nella tanto agognata Amerike e la nazione che hanno contribuito a creare, la prima superpotenza mondiale del Novecento, sono riconducibili a un quadro e a una storia molto complessi.
16Sholem Aleichem era giunto la prima volta a New York alla fine del 1906, sperando di trovare una nuova patria e di mettersi definitivamente al riparo dall’antisemitismo che caratterizzava soprattutto ma non solo l’impero zarista. Il teatro era al centro del suo interesse per una serie di motivi che lo portarono persino a rifiutare una offerta economica favolosa dell’editore del nuovo giornale «The Jewish American», il miliardario William Randolph Hearst, che agiva così soltanto per accattivarsi a fini elettorali l’opinione pubblica ebraica. Il teatro necessario per Sholem Aleichem sarebbe dovuto essere però molto diverso da quello esistente. Grande ammiratore dei classici – da Gogol´, Ostrovskij e gli altri autori russi, di Shakespeare, Molière e Ibsen, e dei moderni Gor´kij, Čechov e Hauptmann, con i quali aveva preso confidenza a Kiev, dove aveva lungamente vissuto –, Sholem Aleichem intendeva rivolgersi innanzitutto agli ebrei, riprendendo le loro tradizioni e i loro ricordi nella prospettiva della fondazione di una nuova cultura. Voleva investire tutto il suo già consolidato prestigio di scrittore in una riforma moderna condotta nel segno di un realismo poetico e folklorico, di una drammaturgia nobile e popolare e di un’arte scenica di alto livello. Aveva manifestato il suo impegno progressista sul versante drammaturgico già nel 1887, con l’atto unico Un dottore, satira su una famiglia di nuovi ricchi proibita dalla censura zarista con il pretesto della blasfemia. L’arrivo di Sholem Aleichem a New York nel 1907 fu preceduto dall’eco del grande successo ottenuto da un suo testo recitato a Varsavia in traduzione polacca, dunque per un pubblico potenzialmente illimitato. Qualche anno dopo Un dottore, l’autore aveva composto una commedia in quattro atti, Yaknohaz, nella quale appariva per la prima volta il personaggio di Menachem Mendel, l’eterno perdente che sogna di diventare milionario e tenta tutte le strade possibili, comprese le nuove, per allora, speculazioni di borsa.
17A New York la stampa aveva accolto con grande clamore il «Mark Twain ebraico», ma le sue forse intempestive dichiarazioni assai critiche nei confronti del teatro yiddish scontentarono molti: lo scrittore dichiarava di volerlo portare al livello delle esperienze di punta europee, ma la sua collaborazione con il giornale conservatore «Yiddishes Tageblatt» gli alienò molte simpatie tra i progressisti, preparando il terreno al naufragio delle sue successive proposte drammaturgiche.
18Appena giunto a New York, Sholem Aleichem fu sollecitato, con un anticipo di mille dollari ciascuno, dagli attori capocomici Jacob Adler e Boris Thomashevsky a fornire loro un copione. Si mise dunque al lavoro in corsa contro il tempo. Adler attendeva un copione tratto da Yokhenoz, che diventò Shmuel Pasternak l’imbroglione, mentre per Thomashevsky adattò il proprio primo racconto e gli diede come titolo il nome del protagonista, Stempenyu. Erano entrambi soggetti pensati per un pubblico yiddish alle prese con i “tempi moderni” e allo stesso tempo bisognoso di fare i conti con le proprie storie e tradizioni. Sholem Aleichem era molto dotato come attore, quando leggeva i propri racconti o i copioni era davvero avvincente, e tutti quanti, normali spettatori o raffinati professionisti, glielo riconoscevano.
19Stempenyu era ambientato in una piccola città dell’est europeo del xix secolo e rievocava l’ambiente dei cantori liturgici e dei musicisti klezmer, sempre presenti ai matrimoni e in altre occasioni festive. I klezmorin potevano anche essere validi musicisti, ma non riuscivano ad avere successo in altri ambienti, per cui spesso si riducevano allo stato di bohémien vaganti, e i loro comportamenti trasgressivi, specie nei confronti della morale sessuale, li rendevano marginali rispetto alle comunità ebraiche. Stempenyu, il protagonista, è una specie di libertino che seduce la giovane Rokhele, trascinandola così in un peccato gravissimo, ma poi se ne innamora. In questo caso il soggetto rievocativo e nostalgico si mescolava al tema della libertà artistica e morale che costituiva la principale rivendicazione di molti giovani ponendoli in conflitto con il contesto familiare e comunitario. Shmuel Pasternak invece trattava un argomento relativamente nuovo, quello dei piccoli speculatori con pochi mezzi, disposti a tutto pur di realizzare il sogno di arricchirsi, una mentalità che Sholem Aleichem aveva conosciuto bene allo stato nascente, in Russia, e che ora gli sembrava ossessivamente prevalente nel contesto americano.
20Un accordo tra i due capocomici aveva stabilito che le prime si tenessero lo stesso giorno, il 1 settembre 1907. Il drammaturgo fece la spola tra i due teatri ed era molto soddisfatto delle reazioni del pubblico – nel caso di Adler, attore essenzialmente tragico, il teatro rimbombava per le risate come mai era accaduto prima –, ma temeva le reazioni della critica yiddish, secondo lui ideologicamente settaria e non troppo onesta. Infatti le recensioni furono tutt’altro che positive: lo «Idishe tageblat» e il «Morgn zhurnal», espressione della classe media di orientamento religioso, espressero blandi pareri favorevoli, mentre la stampa di sinistra fu addirittura feroce. Cahan, il carismatico direttore del «Forverts» nonché scrittore frustrato, scrisse che L’imbroglione era un disastro in tutti i sensi e non parlò di Stempenyu soltanto perché era amico di Thomashevsky. Louis Miller, direttore del comunista «Vahrhayt», si vantò di essersene andato a metà spettacolo, nonostante l’ottimo Adler, mentre il critico teatrale dello stesso giornale dichiarò di non trovare nel proprio vocabolario insulti adeguati. «Der arbeter» si limitò a dire che se Sholem Aleichem valeva qualcosa come romanziere era però un fallimento come drammaturgo.
21Il «Morgn zhurnal» spiegò, a beneficio dei propri pochi lettori, che questi pareri nascevano dalle dispute ideologiche interne alla comunità e ai suoi organi di stampa. I giornali di sinistra, inoltre, erano da tempo sostenitori di Jacob Gordin, il quale era anche, in quel momento, un abile promotore di se stesso, oltre che un blasonato militante, e considerava Sholem Aleichem un pericoloso concorrente. Il principale argomento di disputa era l’interpretazione dell’istanza realista di cui entrambi gli autori si volevano portatori. La figlia di Sholem Aleichem nelle proprie memorie si fa forse eco delle opinioni del padre quando sostiene che Gordin
era limitato dalla sua scarsa conoscenza della vita ebraica e da uno yiddish giornalistico, estraneo alla lingua viva del popolo. Il dramma di Gordin [in questo caso Dio, uomo e diavolo] era un prodotto artificiale nella situazione drammatica e nellla psicologia dei personaggi.17
Oggi la distanza temporale permette di comprendere che vi era soprattutto una certa inadeguatezza o un ritardo delle compagnie, le quali, escludendo pochissimi attori, non erano in grado di dare corpo alle sfumature e alle finezze dei testi. Inoltre i due protagonisti-registi erano intervenuti pesantemente sui copioni, tagliandoli e manipolandoli nel senso dell’involgarimento; nel corso del tempo, poi, soprattutto lo spregiudicato Thomashevsky scaricò tutte le colpe sull’autore – dopo che questi era già morto – e attribuì tutti i meriti a se stesso, mentendo persino sui rapporti economici intercorsi tra loro. In città, i sostenitori di Sholem Aleichem accusavano Gordin di proporre personaggi per niente somiglianti agli ebrei, nei suoi rifacimenti dei classici, mentre i sostenitori di Gordin accusavano Sholem Aleichem di inclinare verso il semplicismo, la corrività e i facili effetti.
22Il grande successo internazionale incontrato dai due copioni di Sholem Aleichem due decenni dopo dimostra che l’autore era troppo avanti rispetto alla professione teatrale del tempo. D’altra parte, Sigmund Mogulesko, allora attore con Thomashevsky, aveva subito detto che se la compagnia avesse rappresentato il testo anche con la metà della bravura dimostrata da Sholem Aleichem nel leggerlo avrebbero ottenuto un grande successo.
23La novità della concezione teatrale di Sholem Aleichem consisteva anche nella sua attenzione all’aspetto vocale. Essendo, potremmo dire, un performer che scriveva testi, concepiva i copioni come strutture organizzate su base musicale. Soprattutto Stempenyu presupponeva un teatro musicale in senso pieno, non solo per la presenza di numerose canzoni popolari ma per tutta la sua scansione drammaturgica e fino alle singole parole. Soltanto nella Russia degli anni Venti i registi e gli attori compresero questa poetica e il critico Yekhezkl Drobrušin, drammaturgo del Goset, riconosceva a Sholem Aleichem di aver «creato il suo teatro attraverso la letteratura e non la letteratura attraverso il teatro» .
24Entrambi gli spettacoli furono costretti a chiudere dopo due settimane, causando un notevole danno economico ai rispettivi teatri. Negli stessi giorni Sholem Aleichem si vide rifiutare da un giornale le sue prime storie di Motl, un personaggio e una serie di racconti destinati a un successo mondiale postumo. In mancanza di altre iniziative l’autore e la moglie furono costretti a ripartire per l’Europa, dopo essersi fatti prestare i soldi per il viaggio. Sholem Aleichem, naturalmente, era molto triste per tutto ciò, ma si curava scrivendo: nei periodi di maggiore difficoltà diede vita ai suoi testi più belli.
25Passarono circa otto anni prima che lo chiamassero nuovamente a New York e negli Stati Uniti, dove le comunità ebraiche si erano nel frattempo meglio organizzate, e siccome in Europa non si profilava alcuna possibilità operativa concreta, nonostante i molti e diversi tentativi, in Sholem Aleichem si riaccese la speranza di una soluzione definitiva dei problemi personali e familiari nel paese che si confermava essere la principale nuova patria degli ebrei.
26Nel 1914, a guerra iniziata, lasciò due figli a Copenhagen, per motivi di salute ed economici, e partì con la moglie e le altre due figlie. Sholem Aleichem aveva cinquantacinque anni e anche le sue condizioni di salute erano assai precarie, essendo affetto da tubercolosi, un male incurabile a quel tempo. La comunità ebraica aveva raccolto alcuni fondi e ciò, assieme a qualche prestito, lo mise in condizione di affrontare la nuova avventura. La guerra fece sì che il viaggio durasse due settimane dato che il mare, specie in certe zone, era cosparso di mine. Dalla prima classe Sholem Aleichem scendeva tutte le volte che poteva in terza per ascoltare i racconti degli altri ebrei migranti, che lo riconoscevano e si aprivano volentieri al «Mark Twain ebraico». E scriveva. Quando il piroscafo si fermò in quarantena nella baia di New York salirono a bordo giornalisti e i membri di un comitato di accoglienza creato apposta per lui; quando finalmente sbarcò fu accolto da una folla di popolo festante dalla quale erano però totalmente assenti sia i notabili della comunità, soprattutto quelli di origine tedesca, sia gli artisti, gli intellettuali e i giornalisti. Il suo secondo arrivo non faceva notizia.
27In quei pochi anni erano intervenuti molti cambiamenti: circa altri ottocentomila ebrei erano arrivati dall’Europa orientale, tra di essi si contavano molti socialisti e rivoluzionari anti-zaristi, e la leadership politica ebraica era ormai concentrata in America. Il sentimento antizarista era in contrasto con l’apprezzamento per lo schierarsi della Russia contro l’impero austro-ungarico e complicava molto il quadro politico, mentre gli Stati Uniti restavano per il momento neutrali.
28Una immediata delusione aspettava la famiglia. I quattro vennero sistemati in due piccole stanzette d’albergo e quando uno studente della Columbia University si recò a invitare lo scrittore per una conferenza, egli lo convinse immediatamente ad aiutarli nella ricerca di un appartamento, anche perché nessuno di loro parlava inglese.
29Il primo incontro pubblico a pagamento avvenne in una sala di millequattrocento posti, stracolma, e quel denaro consentì di ripagare le spese del viaggio avanzando una piccola somma. In quell’occasione Sholem Aleichem lesse i racconti di guerra che aveva ascoltato in terza classe. Uno di questi finiva con il dialogo tra due soldati ebrei in trincea. Uno domanda all’altro: «Perché non punti il fucile?» e l’altro risponde: «Ma lì di fronte c’è gente!».
30Bisognava risolvere il problema del sostentamento e questa volta non si poteva contare sul teatro, almeno non subito, visti i precedenti. I quotidiani yiddish erano tutti aperti ai contributi letterari. Sholem Aleichem li conosceva, era tendenzialmente più attratto dai tre giornali progressisti, che avevano un pubblico più numeroso tra i giovani, donne e uomini: il «Forverts», socialista, diretto da Abraham Cahan, anche scrittore e critico letterario, era il più diffuso, «Vahrhayt», il più radicale, era diretto dal pittoresco Louis Miller, mentre il liberal-borghese «Der tog», era diretto da Herman Bernstein. In quel momento «Vahrhayt» attraversava una crisi di consenso perché sosteneva gli Alleati, Russia zarista compresa, e gli esuli non lo comprendevano. Restavano gli altri due. La scelta era difficile perché quello escluso avrebbe poi sistematicamente ignorato l’autore. «Der tog» offriva cento dollari la settimana per due racconti o testi, «Forverts» solo settantacinque perché a tanto ammontava lo stipendio del suo direttore e non lo si poteva superare. Il motivo più valido per non scegliere «Forverts» fu però un altro: Cahan era anche un autore frustrato, come s’è detto, che prima sosteneva e poi cercava di distruggere colui che a suo parere gli poteva fare ombra, tant’è che aveva riservato un trattamento simile a un autore del calibro di Sholem Asch18 prendendo a pretesto il dissenso per le sue posizioni “filo-cristiane”.
Scrittore yiddish tra i più prolifici e interessanti, Sholem Asch, anche se appartato e poco incline a promuoversi, fu un drammaturgo soltanto in seconda battuta e all’inizio della sua lunga carriera. Era originario di Kutno, villaggio della Russia polacca. La sua era una famiglia chassidica e lui era il più giovane di dieci figli. Imparò da sé il tedesco leggendo la Bibbia tradotta da Moses Mendelssohn e coltivò i propri interessi secolari contro il parere della famiglia. Per questo lasciò il villaggio e si trasferì nella cittadina di Włocławek,19 dove si guadagnava da vivere facendo lo scrivano per la gente più povera, cominciando così a conoscerne le vicende e i desideri. Anche per lui fu decisivo l’incontro, avvenuto nel 1900 a Varsavia, con Peretz, del quale seguì il consiglio di scrivere in yiddish. Nella capitale polacca Asch pubblicò il suo primo racconto, Moyshele, poi, nel 1902, un volume di storie ebraiche, e nel 1903 uno di storie yiddish. In essi descriveva i diversi mondi di cui aveva fatto esperienza, compreso quello degli intellettuali che vivevano in estrema povertà. Peretz aiutava come poteva quei giovani e riuscì a evitare ad Asch il servizio militare.
31Il matrimonio del 1903 con Mathilde (Madzhe) Shapiro portò un certo benessere e gli consentì di dedicarsi alla scrittura. Infatti nel 1904 apparve a puntate una sua prima opera maggiore, A shtetl, e scrisse il dramma Con la corrente, sulla perdita della fede da parte della gioventù, subito messo in scena in polacco a Cracovia. Sullo stesso tema seguirono nel 1906 L’era del Messia e, nel 1913, Gli eredi. Nel 1907 Asch terminò il suo dramma più famoso, Il dio della vendetta, scelto e diretto in tedesco da Max Reinhardt a Berlino, con Rudolph Schildkraut come protagonista. Il testo, che racconta del tenutario di un bordello che cerca di fare un patto con Dio per mantenere pura la propria figlia, sollevò uno dibattito molto aspro ma fu replicato a lungo; tuttavia quando, nel 1923, fu messo in scena in inglese a Broadway, lo spettacolo fu chiuso dalla polizia a causa della scena lesbica tra una prostituta e la figlia del proprietario del bordello. Il contrasto tra sessualità e spiritualità tornava nel suo copione del 1908, mai messo in scena, sul falso messia Shabetai Tsevi (Sabbatai Zevi).20 Da qui il primo dei suoi interventi pubblici su questi temi e la sua insistita riprovazione di tradizioni come la circoncisione rituale.
32Dopo la sua prima visita in Terra d’Israele nel 1908, Asch scrisse una serie di scene con il titolo generale di Erets Yisroel (1911) e partecipò a un convegno a Czernowitz per sostenere la causa della lingua yiddish, dopo il quale – con Peretz, Reyzen e Nomberg – intraprese un viaggio nelle zone di residenza ebraiche dell’est europeo per cercare gli appoggi e i fondi necessari. Tra il 1909 e il 1910 Asch fu negli Stati Uniti per raccogliere materiali e impressioni per i lavori futuri. A partire dal 1913, ormai nella piena maturità, pubblicò due lunghi romanzi, Maria e La strada verso se stessi. Per la prima volta nella letteratura yiddish vi erano tra i protagonisti alcuni ricchi ebrei di Pietroburgo messi a confronto con i derelitti dell’Ucraina. Naturalmente l’autore simpatizzava per i secondi, anche se non rinnegando le proprie convinzioni conservatrici e stigmatizzando la prospettiva rivoluzionaria come fondamentalmente anti-ebraica.
33Lo scoppio della prima guerra mondiale lo colse residente a New York, intento a mettere insieme una collezione di arte ebraica. Qui Asch divenne un editorialista regolare di «Forverts», risolvendo così anche i problemi di sopravvivenza. Impegnato nella vita pubblica, oltre che nella produzione giornalistica e letteraria, ma senza più cimentarsi come drammaturgo, Asch pubblicò il “romanzo sociale” di gusto naturalistico Motke il ladro (1916), ambientato tra gli ebrei poveri di Varsavia e degli shtetl, nei quali si svolgeva la carriera del suo amorale protagonista, e a ruota il romanzo Zio Moses (1918), che stigmatizzava la corruzione delle tradizioni per adattarsi ai costumi del nuovo paese. I pogrom avvenuti durate la guerra gli ispirarono il dramma Santificazione del Nome (1919), ambientato nell’Ucraina e la Polonia del xvii secolo. Alla fine della guerra Asch era tornato in Europa e nel 1923 si stabilì a Varsavia. Qui completò La strega di Castiglia (1921), La madre (1925), ambientato in America, Sentenza di morte (1924) e Il ritorno di Chaim Lederer (1927), romanzi i cui protagonisti rifiutano il successo mondano per cercare una felicità più sostanziale negli ideali perduti.
34Nel 1920, a quarant’anni, era ormai famoso e celebrato, tanto che fu realizzata un’edizione in dodici volumi delle sue opere. Nel 1932 fu eletto presidente onorario dello Yiddish Pen Club. Ma sollevò una controversia con l’accettazione della “Medaglia Restituta” conferitagli dal Maresciallo Józef Piłsudski, il capo del regime polacco non proprio rispettoso degli ebrei.
35Tra il 1921 e il 1931 pubblicò l’imponente trilogia Prima del diluvio che quasi subito fu tradotta in diverse lingue. Ognuno dei tre volumi era intitolato a una città (Peterburg/Pietroburgo, 1929, Varshe/Varsavia, 1930, e Moskve/Mosca, 1931). Il Bildungsroman si svolgeva negli anni attorno alla Rivoluzione del 1917 e l’io narrante era quello del giovane figlio di un immensamente ricco mercante che attraversava quei tumulti storici conoscendone tutti i protagonisti e finiva con il dedurne l’inevitabilità della rivoluzione bolscevica, che tuttavia sarebbe stata un rimedio peggiore del male. Nonostante la sua ideologia conservatrice, Asch creò una nuova tendenza, adottata da molti scrittori e basata sulla rappresentazione di una pacifica vita agricola e di un chassidismo impermeabili agli sconvolgimenti del tempo. Ciò anche per consolare in parte gli ebrei a fronte dell’antisemitismo montante in Europa. Colui che dice i Salmi (1934) riassumeva i motivi poetici già precedentemente esposti nella figura “francescana” di un giovane innocente capace soltanto di recitare i Salmi. Molti considerano Colui che dice i Salmi la sua opera migliore e più influente, per esempio nei confronti di Isaac Bashevis Singer.
36Alla medesima altezza di tempo, Asch pubblicò Prigionieri di Dio, racconto ambientato in Francia, e, dopo un secondo viaggio in Terra d’Israele, Il canto della valle (1938), idealizzazione del sionismo giovanile. Un altro racconto, Nell’abisso (1937) si poneva nella stessa linea di “resistenza culturale”.
37Per tutta la vita Asch fu tormentato dalla contrapposizione tra giudaismo e cristianesimo, insensata in quanto secondo lui Gesù era un ebreo osservante. Trattò questo tema in L’uomo di Nazareth, che cominciò a uscire a puntate, in yiddish, mentre Hitler dava inizio alla persecuzione degli ebrei. Non fu compreso da molti suoi lettori: il «Forverts», cioè Cahan, per esempio, rifiutò di continuare a pubblicare il romanzo e lo attaccò duramente. Asch continuò comunque ad approfondire questo tema con L’apostolo, romanzo su San Paolo pubblicato in inglese nel 1943. I suoi detrattori lo accusarono di apostasia e lui rispose con un saggio e un altro racconto, questa volta sulla madre di Gesù, Maria (1949).
38Nei suoi ultimi dieci anni di vita Asch tornò ai temi ebraici con East River (1946), sugli ebrei assimilati di New York, Il roveto ardente (1946), raccolta di brevi storie sulle atrocità naziste, e Mosè (1951), un ritratto del profeta come rivoluzionario. L’ultimo suo romanzo completo fu Il profeta (1955), su Isaia. Come per tutti i precedenti lavori di Asch, anche queste ultime sue opere suscitarono un fiero dissenso ideologico e al tempo stesso un profondo apprezzamento per la sua scrittura con la quale conferiva un vigore realistico all’idealismo di stampo romantico.
39Trascorse gli ultimi anni alla periferia di Tel Aviv e dopo la sua morte la sua casa è stata trasformata in un museo.
40Come si sarà compreso, Asch è decisamente più importante come scrittore che come drammaturgo e la sua influenza è legata alla distinzione tra la postura ideologica conservatrice e una scrittura innovativa ed efficace. Questa la convinzione di Isaac B. Singer:
Bisognava anche riconoscere che Shalom Asch aveva provocato una sorta di piccola rivoluzione, affrontando temi che fino ad allora erano stati considerati tabù, ma era comunque rimasto un primitivo. Almeno, così la pensavo allora e così la penso ancora oggi. I suoi racconti incarnavano le emozioni del provinciale cui è stato mostrato per la prima volta il gran mondo e che lo descrive al ritorno nella città di origine.21
Resta da chiedersi più precisamente come questo schema funzioni nel caso del suo dramma più significativo, Il dio della vendetta. Il quadro, a prima vista, è quello tipico del teatro yiddish “critico”, ovvero presenta i contrasti che esplodono in una famiglia che affronta le contraddizioni della modernità, quadro che accomuna la maggior parte di quella drammaturgia al genere noto nell’Italia del secondo dopoguerra come fotoromanzo, che comportava l’esposizione di tematiche molto popolari e brucianti in un presente immediato e tuttavia presto obsolete, sia per il superamento dei problemi, sia per il linguaggio. Il dramma di Asch appartiene a quel genere e al tempo stesso se ne differenzia, estremizzando i due aspetti.
41Il dio della vendetta presenta una coppia di ebrei che sono usciti dalla povertà aprendo un bordello, ma vorrebbero comprare un futuro diverso alla propria unica giovane figlia. A questo scopo commissionano una Torah manoscritta da collocare nella camera della ragazza e sperano, assegnandole una ricca dote, di trovarle un marito che la porti in un altro ambiente sociale. Ma la giovane Rifkele frequenta segretamente il bordello situato nel piano interrato della loro casa per incontrarsi con una prostituta di cui è innamorata, Manke. I genitori scoprono la cosa quando Rifkele fugge di casa per sottrarsi al matrimonio combinato da un rabbino ipocrita e complice del padre. Proprio il rabbino scopre l’accaduto e, dopo che la ragazza è riportata a casa con la forza, arriva per presentare la famiglia del ragazzo, tenuta all’oscuro di tutto. Ma a questo punto è Yekel, il padre, ad avere un impulso di folle sincerità, mostrando la giovane discinta, sospingendola nel bordello e restituendo la Torah.
42Come si vede, anche l’ovvio paragone con La professione della signora Warren di G. B. Shaw rileva la crudezza di Asch (si consideri anche la data dell’opera) e fa comprendere perché essa fosse così interessante per le compagnie e il pubblico e al tempo stesso così difficile da gestire in quegli anni. Il dio della vendetta fu tradotto e rappresentato in molte lingue, sempre sollevando scandalo: come si è detto, l’intera compagnia di un riallestimento a Broadway del 1923 fu arrestata e processata per oscenità. In Italia l’opera segnò il debutto della giovanissima Paola Borboni, nel 1916 con la compagnia di Alfredo De Sanctis, fece discutere molto e non ebbe una lunga vita, ma lasciò un segno profondo nella cultura teatrale del tempo, generalmente assai più prudente. Anche in tempi più recenti Il dio della vendetta è, assieme a Dibbuk, il testo del repertorio yiddish più rappresentato nel mondo.22
Torniamo ora a Sholem Aleichem. Lo scrittore scelse di collaborare con «Der tog». Il denaro così guadagnato gli consentiva di trascorrere alcuni periodi a Lakewood, una località salubre del New Jersey, ma fece l’errore di pubblicare il proprio indirizzo newyorchese e centinaia di persone lo andavano a trovare. Erano visite talvolta fastidiose e inopportune, ma lui, sempre curioso, le utilizzava per attingere materiale, registrava la descrizione di molti luoghi di vita e di lavoro nei quali poi ambientava i propri racconti. E fu anche, non di rado purtroppo, vittima di raggiri e malintesi: per esempio gli organizzarono un ciclo di conferenze senza fare pubblicità negli ambienti ebraici e fu un fallimento; quando invece l’organizzazione era corretta le sale erano sempre strabordanti. Nella primavera del 1915 un fantomatico mediatore gli propose di girare un film e lui si impegnò nella sceneggiatura delle storie di Motl (facendosi aiutare per l’inglese) fin quando scoprì che il progetto era del tutto inconsistente. Intanto si dedicò a scrivere la propria autobiografia23 e riuscì a spostarsi in un nuovo appartamento nel Bronx, meno rumoroso e più confortevole del precedente. Nell’estate del 1915 scrisse la commedia La grande vincita, sperando che venisse allestita da Adler o da Thomashefsky, e trascorse parte dell’estate a Belmar, sulla costa atlantica, frequentando molti artisti e rivoluzionari, tra cui i colleghi Asch e Hirshbeyn. Nello stesso periodo attendeva l’arrivo dei figli Misha e Emma da Copenhagen. Invano. Misha, già malato, morì prima di partire e per lo scrittore tutto cominciò a precipitare. «Der tog» non aveva soldi e cambiò direttore, lui si rifugiò nella scrittura, che gli dava forza, e si recava spesso in sinagoga ad ascoltare l’amato cantore Yossele Rosenblatt.24La grande vincita ovvero 200.000 (rubli, in origine), la somma che il protagonista crede di avere vinto alla lotteria e che gli cambierà la vita, è un copione che inizialmente non interessò a nessuno; solo dopo la sua morte ebbe un grande successo in diversi paesi, persino al Goset di Mosca, protagonista Solomon Michoels; a New York venne messo in scena da Maurice Schwartz nel 1921. In quel momento Sholem Aleichem collaborava con «Vahrhayt», che lo aveva accolto a braccia aperte, e il «New York World» pubblicava dall’inizio del 1916 alcuni suoi racconti tradotti in inglese: le storie di Motl figlio del cantore. Sembravano accenni di nuove possibilità, ma erano soltanto un’illusione. Quasi come ripiego dopo avere constatato l’impossibilità di essere rappresentato, lui avrebbe voluto realizzare un’edizione delle sue opere in inglese per proporre a un vasto pubblico personaggi già leggendari come Menachem Mendel, Tevye il lattivendolo, Motl, ecc. Cercava finanziatori tra i milionari ebrei di origine tedesca e venne indirizzato infine verso il magnate Jacob Schiff, ma questi rifiutò un primo progetto. Sholem Aleichem, con altre mediazioni, partì nuovamente all’attacco, inutilmente. Fu il suo ultimo tentativo, interrotto dalla morte che lo colse a cinquantasette anni, la stessa età del padre e del nonno. Una morte affrettata e resa amara da tutte le disavventure e le umiliazioni subite. Verso la fine vi fu persino l’episodio di una conferenza pagata con assegno a vuoto.
43Dopo avere partecipato ai festeggiamenti per il proprio compleanno, non riuscì più a uscire dalla sua stanza, dove giocava a carte con il genero, il quale per consolarlo lo lasciava vincere. Ma lui ripeteva: «Perduto, perduto». Il 13 maggio 1916 morì. Al suo funerale partecipò una folla immensa, mai vista, cento, forse duecentomila persone. Negli anni seguenti vide la luce la prima raccolta delle sue opere, ventotto volumi che coprono circa la metà della sua produzione, ancora in attesa di un riconoscimento internazionale adeguato.
Qualche considerazione meritano il libro e il personaggio più popolari di Sholem Aleichem.25 Con il titolo Tevye il lattivendolo26 lo scrittore raccolse otto racconti pubblicati separatamente nell’arco di circa vent’anni. Ognuno di essi è un monologo del protagonista Tevye (che forse sarebbe più giusto definire casaro, visto che non si limita a vendere latte ma produce burro, panna e formaggio) che si rivolge allo scrittore raccontandogli la propria vita e al tempo stesso chiedendogli la massima discrezione. Tevye vive in una fattoria vicina a una località di villeggiatura frequentata da benestanti russi ed ebrei, con la moglie Golde e le loro sette figlie ( «Con sette figlie c’è poco da ridere»). Con un tono lieve, cechoviano, Sholem Aleichem “trascrive” ciò che gli racconta Tevye, facendo ridere di cuore il lettore per molti brani, anche drammatici, e commuovendolo quanto esprime i sentimenti più intimi del personaggio in circostanze tristi, non di rado tragiche. Sholem Aleichem era un eccellente attore e i racconti, spesso arricchiti da fitti e assai movimentati dialoghi, gli servivano da copioni e canovacci per le sue esibizioni teatrali, sempre di grande successo anche in teatri con duemila spettatori (e naturalmente senza alcuna protesi tecnologica). E questo spiega perché, pur essendo più un letterato che un drammaturgo, dalle sue opere sono stati ricavati moltissimi copioni teatrali in tutto il mondo.
44Nel primo monologo e capitolo Tevye racconta come è diventato un produttore di latte, burro, panna e formaggio. Con un carretto tirato da un «cavallino» piuttosto anziano e debole, il nostro si arrangiava trasportando ogni sorta di cose, mentre la sua modesta fattoria produceva, con la supervisione della moglie e delle figlie più grandi, qualche verdura. Nel complesso la famiglia era molto povera, sempre sull’orlo della fame, anzi non di rado oltre, finché un giorno, avendo riportato a casa due ricche signore che si erano perdute nel bosco, Tevye è lautamente compensato, tra l’altro con una vacca che, assieme a quell’altra che può comprare con il denaro ricevuto, gli consente di cambiare mestiere e vita, giacché i suoi prodotti sono eccellenti e molto richiesti dai villeggianti.
45Il capitolo serve tra l’altro a presentare il protagonista principale (anche se, come in ogni feuilleton che si rispetti, ogni puntata ripropone tutti i caratteri essenziali dei personaggi) e il lettore comprende subito qual è il rapporto che l’autore stabilisce con lui. Tevye è un uomo che ha conosciuto soltanto la povertà ma che è sempre riuscito a sopravvivere con dignità, ciò anche grazie alla sua filosofia e alla frequentazione assidua delle Sacre Scritture, nelle quali trova la spiegazione di ogni cosa. Per lui la catarsi (la soluzione) si dà a priori, perché tutto ciò che accade è espressione di un disegno divino da comprendere e accettare: il suo è il modo conservatore di intendere la tradizione ebraica, mentre quello più progressista consiste nell’interpretazione continua, dalla quali si ricavano (soltanto e forse) catarsi transitorie. L’autore è un ebreo moderno, forse agnostico, sicuramente portatore di una visione sociale e progressista in politica, ma è anche qualcuno che crede in chi crede; perciò rispetta e interroga il proprio personaggio per comprenderlo e cambiare insieme a lui, senza mai mostrare nei suoi confronti superiorità o biasimo. La corrente di ironia che scorre tra questi due poli, vicini e lontani insieme, dà vita al grottesco leggero e tragico di Tevye, che è poi quello di Sholem Aleichem (una sorta di socialismo dal volto umano che attinge principi e persino modelli di comportamento dalla Torah e dal Talmud). Agli occhi degli altri, ebrei e non, Tevye è un personaggio strambo, anzi un po’ pazzo, che spara a raffica citazioni dei sacri testi e quando non ne trova di pertinenti se le inventa in una lingua inesistente. È buono e fino a prova contraria crede a tutti e in qualsiasi cosa gli si dica.
46Ecco dunque che nel secondo capitolo incontra il lontano parente Menachem, un luftmensch che lo convince ad affidargli tutti i suoi risparmi, prospettandogli guadagni favolosi sui nuovi mercati finanziari. Menachem naturalmente perde tutto e infine suscita la sua pietà e persino il suo stesso pentimento per aver creduto di poter guadagnare denaro senza lavorare. Uno degli aspetti più affascinanti dei dialoghi di questo autore è la loro speciale intensità che induce i personaggi, soprattutto Tevye in questo caso, a cambiare idea, a uscirne diversi da come sono entrati.
47Zeitel, la figlia maggiore, è la protagonista del terzo monologo. Chiesta in moglie da un ricco macellaio, la ragazza è invece innamorata di un giovane semplice, un povero sarto al quale il padre finirà per concederla in sposa (ingannando la moglie con un finto incubo di fantasmi). Tevye è triste per questo esito, vista la misera e la dura vita che i due effettivamente conducono, nonostante Zeitel dichiari ostinatamente di essere felice. Purtroppo gli eventi successivi riguardanti le altre figlie gli procureranno dolori ben più forti.
48Dopo Zeitel è la volta di Hodel. Anche lei molto bella ma anche colta, ama soprattutto Gorkij27 e «scrive e legge yiddish e russo, e divora i libri come se fossero gnocchi». Anche lei è chiesta in sposa da un uomo ricco e a quel punto rivela di avere un altro amore, Percik, un giovane che «si tormenta con lo studio». Percik è un rivoluzionario bolscevico e cospiratore e Tevye, pur ammirandolo, non lo capisce ( «Sei un po’ crudele verso i ricchi», gli dice), ma finisce con il cedere, per rispetto della ragazza, che comunque si sposa prima di chiedere l’assenso dei genitori. Percik parte subito dopo il matrimonio per una missione e dopo un certo tempo si viene a sapere che si trova prigioniero in Siberia, dove Hodel vuole raggiungerlo. La scena della ragazza in partenza, che la famiglia non vedrà mai più ma dalla quale riceverà lunghe lettere, è tra le più strazianti e tenere. Padre e figlia trascorrono le ultime ore insieme in un dialogo silenzioso e immerso in una natura dispensatrice di bellezza e di potenziale e tradita serenità.
49Nell’episodio riguardante la terza figlia, Chave, il povero Tevye si deve confrontare nientemeno che con il pope del villaggio (il suo Peppone, a giudicare dai loro scambi verbali assai accesi). Chave è innamorata di un goy, un non ebreo, e ha accettato di convertirsi; per questo è scappata di casa e si è rifugiata dal pope. La ragazza ormai, consigliata dal fidanzato, legge soprattutto Gorkij e quando si confronta con il padre lo mette in crisi con tutti i suoi “perché?” opposti alle citazioni bibliche ( «Smettila! Se cominciamo con perché questo e perché quello, non s’arriva mai alla fine»). Tevye non accetta di mettere in discussione il proprio mondo e non gli resta che ripudiare la figlia, considerandola morta, anzi peggio che morta, perduta all’amore, anche se sempre secondo un disegno divino di cui anche lui però in certi momenti dubita: «Che cosa vuol dire ebrei e non ebrei? E perché Dio ha creato ebrei e non ebrei? E se essi sono stati creati dallo stesso Dio, perché si separano gli uni dagli altri…?». Sembra essere, questo, anche l’interrogativo che si pone Sholem Aleichem. Certo, Tevye, come un Don Camillo ebraico, dialoga con Dio, non dubita di lui però lo interroga e interloquisce ( «Sii un po’ ragionevole!», «Abbi pietà dei poveri!»), chiedendogli anche ragione delle disgrazie che costellano la sua vita. E qualche volta lo mette all’angolo con logica implacabile, salvo però arrendersi e accettare, sempre accettare il fine giusto e buono, anche se talvolta misterioso, di ciò che accade.
50Dopo alcuni anni Tevye incontra di nuovo lo scrittore e gli racconta di Spinze, la quarta figlia, il cui destino supera nella disgrazia tutti quelli finora ricordati. Nella Cortina d’Ampezzo ucraina il figlio viziato di una ricca vedova s’innamora della ragazza e tanto insiste con Tevye da persuaderlo infine del proprio sincero sentimento. Il povero lattivendolo per un attimo si illude che almeno una delle sue figlie sarà felice e lui finalmente agirà nel mondo come un milionario benefattore. Ma presto la situazione precipita. Dopo una preoccupante attesa Tevye viene convocato dal fratello della vedova – nel frattempo sparita con il ragazzo – che gli propone una somma di denaro per dimenticare la faccenda e non sollevare uno scandalo. Tevye se ne va senza pronunciare una parola e sulla via del ritorno scopre che Spinze si è suicidata gettandosi nel fiume. «Ah, grand’Iddio, creatore del mondo! Perché mi punisci, per quali peccati?!» è l’espressione che gli viene al cuore immediatamente, ma più avanti conclude: «E sono meno irritato con Dio – con Dio mi sono in un certo senso riconciliato – che con gli uomini. Perché gli uomini devono essere cattivi, quando potrebbero essere buoni?».
51Sono passati ancora circa tre anni quando Tevye incontra nuovamente Sholem Aleichem e lo aggiorna su ciò che è accaduto nel frattempo. È il loro ultimo incontro, che questa volta non si conclude con il solito appello a non scrivere di lui.
52L’adorata moglie Golde, con la quale Tevye ha alcuni bellissimi scambi di battute fulminanti che ricordano il migliore Goldoni, è morta. La quinta figlia, Beilke (delle due rimanenti non si parla più) è proposta in sposa dal sensale Efroim a un milionario che è uno zoticone arricchito in cerca di legittimazione e quindi cerca di circondarsi di bellezza e di acquistare una certa “nobiltà”, naturalmente con pessimi risultati, sia estetici (la sua casa è piena di orologi e di specchi) sia sentimentali, poiché la ragazza accetterà per convenienza, a differenza delle sorelle, e finirà per essere una donna infelice, benché ricca e apprezzata dal volgare Pedozur. Questi convoca Tevye per chiedergli di sparire, un po’ perché si vergogna di lui e un po’ perché vuole far credere al mondo di avere sposato una donna di alto rango. Beilke tace, «ferma come un albero, non una goccia di sangue in viso», e solidarizza con il marito, anche se al momento del congedo piangerà tra le sue braccia (Tevye: «Non erano lacrime di dolore, erano lacrime di rimorso, di chi si sa in peccato»). Tevye finisce con l’accettare il denaro per andarsene in Terra d’Israele. Questo è ciò che comunica allo scrittore, concludendo: «Tutto mi addolora e di tutto io avrò desiderio laggiù!».
53Così finisce la storia che nessuna trasposizione teatrale e cinematografica ha saputo rendere rispettandone i contenuti e il suo stile tragico e comico, il suo peculiare grottesco. Qui non è possibile citare per esteso i tanti brani di comicità irresistibile scaturiti da questo Bertoldo ebraico, o forse, meglio, questo umile santo folle della campagna ucraina con una famiglia e un lavoro, questo Švejk di Boiberik.28 Tevye si impone costantemente di «comportarsi da uomo», il che significa per lui tacere anziché reagire platealmente, e mai mostrare i propri sentimenti, salvo crollare di tanto in tanto per la triste sorte delle figlie oppure, unica occasione di pianto irrefrenabile, alla morte della moglie. La sua vita è come un racconto senza direzione né fine, costantemente posto a confronto con il testo-madre, la Bibbia, poiché è la vita che imita il libro, non viceversa come in altre tradizioni: ogni vita, sicuramente la sua, secondo l’autore, è una trascrizione o traduzione o riscrittura della Bibbia. Sholem Aleichem dà voce ai sogni a occhi aperti di Tevye ( «Tutto il mondo è un sogno!»), riesce a tradurre in scrittura la velocità dei suoi pensieri, oltre che le sue fantasie e le sue tentazioni, come il tema ritornante del “diventare milionario” e non dimentica di sottolineare che cosa significa la natura per il lattivendolo: la campagna è un luogo sacro, nel quale gli esseri umani dimorano nel rapporto inestricabile tra la sopravvivenza e la trascendenza. Tevye si stende sull’erba fresca e odorosa, cibo per le sue mucche che lo ricambiano con un ottimo latte, e si sente felice, anzi, in Paradiso.
Jeremy Dauber dedica un capitolo all’inizio della carriera di scrittore di Sholem Aleichem.29 Nel 1890, dopo il fallimento della propria attività nella finanza e la fuga dai creditori, non gli resta che puntare sull’attività di scrittore per guadagnarsi da vivere. Scrive in yiddish per avere un pubblico vasto e il suo primo grande personaggio è Menachem Mendel, ossia uno sviluppo del prototipo comico della tradizione. All’inizio la satira di Sholem Aleichem era rivolta contro il mondo che aveva conosciuto bene, quello della finanza, dei soldi che generano soldi. Nel capitolo seguente Dauber racconta come Sholem Aleichem conobbe il vero Tevye, nel 1894, a Boyarke, la località nella quale si trovava in villeggiatura con la già numerosa famiglia.30 Dopo questo incontro il neoscrittore decise di iniziare una serie su Tevye, ispirandosi ai racconti che questi gli aveva effettivamente fatto, ma trasfigurandolo (il vero Tevye non aveva figli, secondo alcuni, o due figlie, secondo altri). Sholem Aleichem scrisse subito la prima storia, Il premio (dove non appare alcuna figlia), nel quale si spiega come Tevye diventi lattivendolo.31 Anche il Tevye originale era un cultore, a suo modo, delle Sacre Scritture e Sholem Aleichem era in grado di seguirlo grazie alla propria prodigiosa conoscenza della Bibbia. Dopo il 1890 Sholem Aleichem articolò la propria scrittura in quattro generi: monologhi, storie di bambini, racconti di vacanze e racconti dello shtetl immaginario Kasrilevke.32 I monologhi sono i più importanti, almeno dal punto di vista quantitativo: i loro personaggi-narratori si rivolgono a un interlocutore che non di rado è lo stesso Sholem Aleichem. Questo genere è preminente in quanto derivava dal successo dell’autore come narratore-performer.
Quando stava per tornare a New York, nel 1914, Sholem Aleichem voleva proporre a Jacob Adler un adattamento teatrale delle storie di Tevje, ritenendo che lui e la moglie Sara fossero perfetti per i ruoli del lattivendolo e di Golde. Jacob Weitzner, nel suo libro dedicato al rapporto tra Sholem Aleichem e il teatro, riferisce di avere esaminato i manoscritti di tre diverse stesure dell’adattamento e di aver appurato che la terza è quella licenziata dall’autore per la pubblicazione.33 Il dramma in quattro atti si intitolava Tevye il lattivendolo e l’autore si compiaceva del fatto che non avesse niente a che fare con i testi “facili” allora più in voga sulla scena yiddish in quanto presentava un ebreo comune, con cinque figlie, un uomo onesto che pativa molte difficoltà e disgrazie. L’asse della trama era l’episodio riguardante Chave – la figlia che per sposare un goy fugge da casa e si converte al cristianesimo –, completandolo con il suo ritorno-conversione (eco, in questa versione, della Ruth biblica). Sholem Aleichem scrisse anche un’ultima storia, Vattene, riflessa nel finale del dramma, ora diverso, che diventa al tempo stesso aperto e assai poco ottimista: il sipario calava su Chave che, dopo molte incertezze, aveva lasciato il marito e riabbracciava il padre in partenza per la Terra d’Israele; ma non si capiva se Tevye la perdonava oppure no perché continuava a non rivolgerle la parola, però quando Zeitel diceva addio a Chave, interveniva per rivolgerle un «Dio sia con te». Sholem Aleichem in sostanza voleva che fossero gli spettatori a decidere se Tevye perdona e riaccetta la figlia: «Mettetevi al posto di Tevye e ditemi in tutta onestà e in modo chiaro che cosa avreste fatto…». Adler comunque non credeva che questo genere di storie potessero funzionare con il pubblico e sia pure, come sempre, dispensando mille complimenti a Sholem Aleichem, si mostrava reticente. Qualcuno lo riferì allo scrittore e questi non spedì mai la proposta definitiva, preferendo completare, oltre al copione, una versione per una futura pubblicazione e due possibili adattamenti cinematografici.
La prima versione teatrale del testo ad andare in scena fu quella di Maurice Schwartz nel 1919, per la seconda stagione del Nuovo Yiddish Art Theatre (Dos neye yidishe kunst-teater). Il genero di Sholem Aleichem, Isaac Dov Berkowitz,34 primo custode e curatore dei suoi scritti aveva riordinato il copione inedito apportandovi alcuni significativi cambiamenti, acutizzando il contrasto tra il protagonista e i goy, trasformando Fedya, il marito di Chave, in un rabbioso antisemita e aggiungendo il personaggio di Padre Aleksej, un pope supponente che aveva orchestrato la fuga e la conversione della giovane. Per la versione in forma di racconto lungo, o romanzo, Sholem Aleichem aveva scritto il capitolo finale intitolato Vattene il cui senso era quello di ribadire l’impossibilità di vivere in Russia per gli ebrei e come per loro fosse normale non avere una patria; l’amarezza tuttavia era temperata dal ritorno di Chave all’ebraismo. Ma poiché in precedenza i lettori erano stati congedati da Tevye in partenza per la Terra d’Israele, nella nuova trama lo scrittore, tra l’altro, faceva morire Motl, il marito di Zeitel, evento che induceva Tevye a tornare sui propri passi per aiutarla e assistere i nipoti. Si raccontava anche della bancarotta del marito di Beilke, della paura per un pogrom annunciato e dell’editto zarista che cacciava gli ebrei dagli shtetl. La vicenda di Chave si concludeva con il suo ritorno, per commentare il quale Tevye faceva riferimento a Ester e all’Ecclesiaste. E anche qui non si capiva se Tevye accettava o no la figlia e il finale aperto riporta ciò che il lattivendolo dice allo scrittore: «Lei cosa avrebbe fatto?», dopo di che, dandogli tempo per pensarci, se ne va. Non è improbabile che Sholem Aleichem con maggiore consapevolezza e Maurice Schwartz più istintivamente volessero esprimere attraverso le figure di Tevye e Chave e il rapporto tra loro l’idea di un pentimento che comporta un ritorno fisico e al tempo stesso una reintegrazione nell’identità, vale a dire il senso del percorso storico compiuto dal popolo ebraico: ritorno in Terra d’Israele e a Dio come approdo a una pienezza etica e morale. Schwartz, pur seguendo abbastanza fedelmente l’andamento del copione, mostra alcune significative differenze dal “bianco e nero” di Berkowitz, come le sfumature aggiunte al personaggio del pope e al marito di Chave.
54La documentazione sullo spettacolo è scarsa e ovviamente non esiste alcun materiale audiovisivo. Se ci si affida alla critica del tempo si deve registrare l’accusa rivolta a Schwartz di essere il cantore di una retorica della nostalgia e dell’osservanza religiosa. Ammesso, con riserva di future verifiche, che ciò fosse vero, resta il fatto che il film di vent’anni dopo interpretato e diretto da Schwartz, pur ricalcando, sembra, quel copione teatrale, conferma anche la propria interpretazione poetica malinconica, che sospende ogni certezza: «Dio, dove sei?», mormora Tevye a un certo punto.
55La sceneggiatura in yiddish di Tevye è firmata da Schwartz, mentre il prolifico e assai noto sceneggiatore Marcy Klauber figura come titolare dell’adattamento. Tevye era stato anticipato dal film dello stesso Schwartz, Barriere infrante (ma Khavah nell’originale, 1919),35 assai fedele, con i limiti del muto e della durata, all’adattamento dell’autore.36 Sholem Aleichem aveva preparato anche, nel 1914, due sceneggiature per altrettanti film muti con Tevye protagonista, mai realizzati.37
56Il Tevye38 del 1939 fu girato in studio a New York e in una fattoria di Jericho, a Long Island, nel momento in cui l’invasione nazista della Polonia annunciava la guerra. La trama è incentrata soprattutto sui capitoli riguardanti Chave e Vattene, ma qui il finale è ancora diverso: gli ebrei sono espulsi dal loro shtetl e Chave, che ha abbandonato il marito e la nuova religione, torna con i suoi e con loro riparte esule. Da notare ancora che nella sceneggiatura il ritorno al giudaismo di Chave ( «Noi siamo un mondo a parte») è contrassegnato ora dal riferimento alla Ester biblica, simbolo più esplicito dell’orgoglio ebraico. Negli interventi sulla sceneggiatura ma soprattutto come attore Schwartz mette in crisi ogni sentimentalismo e possibile messaggio riduttivo, vale a dire nostalgico, del film, nonostante sia proprio questo il rimprovero che gli viene rivolto dal «Forverts». Weitzner cita in proposito la recensione di tale Fogelman, il quale sosteneva che i racconti e il copione teatrale di Sholem Aleichem non si prestavano a una versione cinematografica e pertanto il film era assai debole e poco significativo; per questo Schwartz era da considerare, in quanto autore, colpevole, mentre come attore, precisava inoltre il critico, non si sarebbe potuto immaginare di meglio. La sua conclusione era che si trattasse di «uno dei miglior film yiddish mai visti». La vistosa contraddizione tra l’inizio e la fine dell’articolo lascia perplessi, come se fosse stato scritto in realtà da due persone di parere opposto. Ma tant’è.39
57In ogni caso, anche la recensione di «Forverts» conferma che il senso del film dipende soprattutto dai mezzi dell’attore. Lo splendido “recitar-cantando” di Schwartz, tanto nelle preghiere che nel linguaggio quotidiano, così come la sua fisicità al tempo stesso vulcanica e placata, derivano certamente dalla tradizione, ma qui non hanno il sapore della nostalgia bensì quello dello sconcerto per una fine senza alternative credibili.
58La versione di Schwartz è decisamente la più interessante ma anche la più controversa nella storia della critica. Un recente e illuminante saggio di Marat Grinberg,40 sollecita un processo di rivalutazione del film (e con esso dello spettacolo popolare yiddish, oggi ricordato più nelle parole dei suoi spregiatori che studiato seriamente) e gli attribuisce un valore «innovativo e sovversivo»41 nonostante sia immerso in un coacervo di contraddizioni. Secondo Grinberg «Tevye is both a deliberate (mis) translation of its source (s) and the film in equivocal and uneasy dialogue with its epoch» .42 In effetti questo film girato alla vigilia di una guerra mondiale lascia intendere come Dio non protegga Tevye e con lui tutto il popolo ebraico, così manifestando un anticonformismo forse difficile da accettare, soprattutto in quegli anni, ma tragicamente autentico e profetico. Eppure fu attaccato con rudezza, soprattutto dal «Morgn Frayhayt», che scriveva: «[Tevye] non aderisce per niente allo spirito e all’essenza della scrittura di Sholem Aleichem» e ripiega verso un «puzzolente e volgare sciovinismo ebraico», per poi concludere: «Lasceremmo volentieri l’arte di “massacrare” interi popoli ai nazisti». Il rifiuto dell’intelligenza e il dissennato masochismo di una certa sinistra non perdono mai l’occasione di mettersi in bella mostra!
59Tra gli storici di oggi Dan Miron puntualizza che già «in Tevye der milkhiker, Sholem Aleichem esprimeva la critica più coraggiosa della “eroica” etica umanista che domina la cultura ebraica moderna, secolare e soprattutto nazionalista».43 E Schwartz, sulla base di questa consapevolezza, forse non intellettualmente affinata, si trovava di fronte a un doppio problema, in quanto voleva mostrare un Tevye giustamente nazionalista ( «Andremo nei boschi, tra le bestie, meglio e più sicuri che qui, tra loro che erano i nostri migliori amici»), il quale, una volta cacciato dal villaggio, decide di andare con ciò che resta della famiglia non in America ( «Non capisco la loro lingua e loro non capiscono la mia») bensì in Terra d’Israele, e al tempo stesso un Tevye partecipe dalla mediocrità di certo ebraismo come quello stigmatizzato da Miron, dunque un personaggio contraddittorio eppure, nella splendida performance dell’attore, “vero” e perciò capace di esprimere un ebraismo vitale, critico e insieme propositivo. Il suo Tevye è ricco di sfumature, come dimostra il film che chiunque può vedere. Schwartz è stato uno dei lettori più sensibili e spregiudicati di Sholem Aleichem e un attore che più di molti altri ha saputo “attualizzare” il proprio personaggio, esprimendo la difficoltà di essere ebrei in un mondo che sembra basato su principi etici e morali opposti e al tempo stesso il suo diritto, anzi il suo essere indispensabile al mondo, anche a quello del futuro. In realtà la differenza dell’interpretazione di Schwartz dipende dal suo essere un attore pienamente immerso nella tradizione teatrale yiddish.
Il 1938 è anche l’anno in cui Tevye il lattivendolo va in scena a Mosca, con Michoels come regista (scenografia di Isaak Rabinovič e musiche di Lev Pulver) e protagonista in quella che sarebbe stata la sua ultima prova d’attore. Tevye fu lo spettacolo che segnò il momento di massima pressione e sospetto sul Goset e il tentativo del teatro, dopo l’eccezionale affermazione del Re Lear, di compiacere gli opinionisti del regime. L’adattamento di Yekhezkl Dobrušin e Nokhem Oyslender, che attingeva in larga misura dai monologhi, rifletteva un preciso punto di vista ideologico. Nel programma di sala del Goset si legge che il testo di Sholem Aleichem presenta il «modo di vita patriarcale della famiglia ebraica» e non riesce a spiegare «le contraddizioni che si sviluppano con i nuovi rapporti sociali».44 L’autocensura del Goset si spinse fino a eliminare ogni accenno critico nei confronti dei (personaggi) non ebrei e lo spregiudicato intervento drammaturgico si fece al prezzo di una distanza incolmabile dalla poetica dell’autore. Alisa Solomon, nel proprio denso volume sulla storia del Violinista sul tetto aggiunge che il «dogma inerte» di cui si faceva eco Michoels sconfinava nel ridicolo, per esempio quando sembrava che il rivoluzionario bolscevico Percik avesse guadagnato Tevye alla causa del materialismo storico.45 In una registrazione audio dello spettacolo conservata presso il Museo della Diaspora di Tel Aviv si può ascoltare un Michoels enfaticamente melodrammatico, mentre i suoi compagni sembrano imitarlo in un estremo tentativo di adesione al realismo socialista, che esigeva eroi positivi a tutto tondo e senza antagonisti (in scena), nonché una roboante propaganda dell’Unione Sovietica come paradiso del socialismo realizzato. Lo spettacolo ebbe un esito triste e minore, registrato come tale dal pubblico del tempo anche se invece magnificato dalla critica, in particolare da Peret Markiš,46 il quale scrisse che Michoels rappresentava «il nuovo ebreo socialista», sempre nel vano tentativo di testimoniare in favore dell’ortodossia del Goset e insieme della propria. D’altronde il principale risultato che ogni mossa del Goset doveva realizzare era quello di tenere in vita il teatro e questo pallido e contraffatto Tevye doveva contribuire allo scopo. A Zuskin era stato offerto un ruolo, ma l’attore stava ancora troppo male e si chiamò fuori. Nel teatro si accese una vivace discussione su questo stato delle cose, in bilico tra sporadici successi e mille possibili esplosive debolezze. Gli interventi di Zuskin vennero comunque fraintesi e l’attore si trovò isolato. Michoels non era un direttore dal polso fermo e, trovandosi al centro di mille sollecitazioni e beghe sollevate da attrici e attori, amministrativi e tecnici, spesso reagì con decisioni che sollevarono il malcontento generale in quanto non sembravano ispirate a una logica di giustizia comunitaria.47
Anche Habima installato in Terra d’Israele propose Tevye il lattivendolo nel 1943,48 ovvero nel suo momento di maggior attenzione per la drammaturgia yiddish. La regia era assicurata dai membri del collettivo, che decidevano in assemblea anche la distribuzione degli spettacoli. In questo caso Yehoshua Bertonov e Shimon Finkel si alternavano nei panni del protagonista, interpretandolo molto diversamente, mentre Aaron Meskin era il Pope e Hanna Rovina, in alternanza con Hanale Händler, era Chave. I.D. Berkowitz, genero di Sholem Aleichem e già adattatore autorizzato del copione, era il drammaturgo del teatro: la sua versione in ebraico, oltre confermare i cambiamenti già segnalati, era pesantemente letteraria, come la critica non mancò di rilevare. Qui Chave, alla fine, tornava alla propria famiglia riconvertendosi proprio perché disgustata dall’antisemitismo degli ortodossi.49 Nonostante l’insistenza di Berkowitz, che arrivava a scrivere dettagliate istruzioni per gli attori, i registi e poi gli attori di Habima intervennero sia sul testo sia attraverso la recitazione per restituire alla vicenda la sua ricchezza di sfumature. Così gli interpreti superarono per mezzo della recitazione lo schematismo ideologico di Berkowitz e fecero di questo spettacolo uno dei maggiori successi del teatro, ripreso e migliorato in diverse stagioni.
Gli allestimenti di Tevye in Polonia nel 1956 e 1970 sono da ricordare per come i rispettivi realizzatori articolarono il rapporto tra il testo di Sholem Aleichem e i diversi momenti della Polonia comunista del secondo dopoguerra. Una prima messinscena si ebbe nel 1946 con la regia di Moishe Lipman,50 cui seguì nel 1956 un nuovo adattamento di Chevel Buzgan,51 anche protagonista, e nel 1970 il medesimo adattamento per la regia di Juliusz Berger.52 Buzgan aumentò il numero di figlie coinvolte nella vicenda teatrale. La scelta di Chave non costituiva più, assieme all’opposizione del padre, l’asse centrale del dramma, e il luftmentsch Menachem Mendel acquistava un certo ruolo, intervenendo in due scene. Tra le altre vicissitudini filiali veniva valorizzata quella di Belkye, la ragazza andata in sposa al nuovo ricco, mentre in un improbabile finale propagandistico Chave inneggiava al Sole dell’avvenire. Qui Tevye non era un “filosofo” odiatore dei goy, ma un bigotto per il quale la conversione di Chave rappresentava una tragedia simbolica della fine di un’era e di una civiltà. In questo adattamento era Chave l’eroe positivo, l’ebrea dell’era socialista. Per Berger, invece, quella di Tevye era da considerarsi una intelligenza intuitiva e per questo il regista cercò, in parte intervenendo sul testo ma soprattutto lavorando con gli attori, di riavvicinarsi al senso conferito alla storia da Sholem Aleichem.
Fiddler on the Roof53 è il titolo del musical che ha avuto, dal 1964 a oggi, molte migliaia di repliche e allestimenti in tutto il mondo, seguito dal film con lo stesso titolo,54 altro successo planetario. Lo spettacolo ha suscitato immediatamente molte obiezioni per la sua edulcorazione della vita ebraica negli shtetl e per il tono bonario e sentimentale che lo caratterizza, critiche minoritarie, tuttavia, a fronte di un trionfo confermato inequivocabilmente dai numeri. La trama, in questo caso, è incentrata sul tentativo di Tevye di applicare la tradizione, ovviamente per come lui la intende, alla vita della propria famiglia, che invece è sottoposta alle pressioni di un mondo che sta cambiando velocemente e radicalmente. Le tre figlie maggiori vogliono sposarsi per amore e rifiutano gli uomini scelti dal padre o proposti dal sensale, e così facendo si allontanano dalla famiglia. La vicenda si conclude con l’editto zarista che caccia gli ebrei dai propri villaggi. Quando i suoi se ne vanno dal villaggio, Chave e il marito comunicano alla famiglia della ragazza che stanno partendo per Cracovia perché per loro è insopportabile l’idea di rimanere con coloro che trattano in questo modo altri esseri umani. Motl e Zeitel sono diretti anch’essi in Polonia, ma con l’idea di guadagnare il necessario per poi andare negli Stati Uniti. Anche Golde e le due figlie più piccole stanno partendo per l’America. E il “violinista sul tetto” li segue. Come si vede, la drammaturgia del musical e del film era assai edulcorante e muoveva all’incontro di un pubblico in cerca di buoni sentimenti e di un finale moralmente assolutorio, così da esorcizzare la questione ebraica ed esaltare il valore universale della “soluzione americana”.
60La differenza tra il progetto drammaturgico e il sentimento di una realtà ben più complessa era dovuta innanzitutto, in questo caso, al protagonista Zero Mostel,55 il quale, pur eseguendo le previste canzoni accattivanti e talvolta folkloristiche di maniera, recitava con un ardore e una tale gamma di sfumature da sottolineare l’amarezza della storia e l’irrisolta questione dell’impatto degli ebrei arrivati dall’Europa orientale con l’antropologia capitalista degli Stati Uniti. E lo stesso avvenne con Theodore Bikel, che gli succedette per circa duemila repliche.56
61Pur essendo sempre ambientato nella Russia Imperiale all’inizio del Novecento, il musical presenta un adattamento ancora diverso. Per esempio al tempo del capitolo Lekh-Lekho, la moglie di Tevye, Golde e il marito di Zeitel, Motl, sono entrambi morti (anche Sprinze è morta, se stiamo al capitolo che la riguarda). Inoltre, dopo aver saputo dell’espulsione degli ebrei, Chave lascia il marito russo-ortodosso per tornare alla famiglia originaria e condividere con loro l’esilio. Anche il finale di Sholem Aleichem era diverso, come abbiamo visto.
62Per il film il regista Norman Jewison scelse l’attore Chaim Topol,57 già protagonista della versione londinese, secondo lui più adatto di Mostel, che non gli piaceva perché «mancava di realtà» ed era «troppo grosso, troppo americano».58 D’altra parte i produttori e alcuni loro consiglieri temevano che lo spettacolo potesse essere considerato «eccessivamente ebraico» dal grande pubblico, mentre alcuni critici lo giudicarono troppo culturalmente asettico, middlebrow [semplicistico, modesto] e superficiale.59 E Philip Roth, sul «New Yorker» lo definì brutalmente uno «shtetl kitsch». Nel film i personaggi del funzionario di polizia russo e del marito di Chave sono simpatici invece che brutali e crudeli come li aveva descritti Sholem Aleichem, le cui storie finivano con Tevye solo, la moglie morta e le figlie perdute. Nel Fiddler on the Roof la famiglia rimane integra e parte speranzosa per l’America. Con questi astuti accorgimenti lo spettacolo conquistò il pubblico del tempo e fruttò agli investitori ben millecinquecentosettantaquattro dollari per ogni dollaro investito. E vinse, negli anni, una messe di premi. Le riprese e le tournée, le produzioni professionali e amatoriali in tutto il mondo, persino le parodie, non si contano. Ancora oggi nei soli Stati Uniti si registrano circa cinquecento allestimenti amatoriali l’anno.
63In Italia Il violinista sul tetto è stato proposto nel 2003 con la regia e l’interpretazione di Moni Ovadia, “artista totale” di origine sefardita ma divenuto uno dei massimi divulgatori al mondo della cultura yiddish. La produzione è stata realizzata con venticinque interpreti anziché i sessanta di Broadway e rispettando il copione originale, nonché aggiungendo «danze tradizionali russe ed ebraiche» e traducendo in yiddish le canzoni. Ciò mentre l’impianto registico era molto differente da tutte le versioni precedenti in quanto, pur rispettoso della «lezione stilistica del teatro yiddish» era sviluppato «secondo le direttrici di una poetica teatrale sperimentate in questi anni. Centro di questa poetica è la presenza di musicisti in scena con una funzione drammaturgica e recitante. I musicisti-attori costituiscono una sorta di coro-popolo che interagisce con i personaggi veri e propri sia come personaggio corale che come contrappunto individuale in un continuo rimando di presenze ed emozioni». L’idea centrale dell’operazione – sottolineava Ovadia – era quella di
rileggere l’opera alla luce della tradizione teatrale europea, in un’edizione basata sull’elemento folkloristico e tradizionale della cultura yiddish. La parte strumentale è affidata a un orchestra dal vivo sul palco con i tradizionali elementi in uso nelle orchestre klezmer dell’epoca (fisarmoniche, violini, clarini…).60
Come si vede, il cambiamento all’insegna dell’avanguardia teatrale (Moni Ovadia pensava soprattutto a Tadeusz Kantor, del quale è stato collaboratore) scaturisce da una preoccupazione filologica, ovvero dalla consapevolezza che
uno dei grandi contributi al musical, questa nuova scena germinata nel secolo breve è sicuramente quello del teatro yiddish. Esso porta con sé una rottura dei generi e delle separazioni schematiche di stile o di uso dei mezzi espressivi. Testo, musica, recitazione parlata, canto, recitar-cantando, gesto, danza, rito, convivono sul palcoscenico con l’anarchia della pari dignità.
L’ambizioso tentativo di Ovadia era quello di creare un «grande poetico e commovente affresco della storia di una piccola comunità ebraica nella Russia pre-rivoluzionaria» ed è da considerarsi riuscito, almeno stando agli autori che se ne sono occupati a fondo;61 mentre la questione dell’incontro tra istanze teatrali delle avanguardie e tradizione teatrale yiddish rimane decisamente aperta.62
Notes de bas de page
1 J. Roth, Ebrei erranti cit., pp. 94, 98, 103.
2 Anche lei era originaria di Iaşi. Attrice di secondo piano, senza particolari doti né specialità, seguì il marito in America e le capitò talvolta di trovarsi in produzioni importanti, per esempio nel 1894 con Boris Thomashefsky al Thalia, dove si rappresentava Il matrimonio insanguinato, drammone del marito sulla strage degli Ugonotti o più avanti in un Guglielmo Tell di Schiller. Cfr. The Museum of Family History, ad vocem: <http://www.museumoffamilyhistory.com/yt/lex/L/lateiner-izela.htm>.
3 Cfr. Museum of Family History, ad vocem: <http://www.museumoffamilyhistory.com/yt/lex/H/heine-chaimovich-morris.htm>. Heine, capocomico in Russia, aveva sposato Sara Levitskaya, con la quale dopo il bando zarista del 1883, emigrò a New York. Ebbero due figli, Joseph e Max. Divorziò da Sara nel 1990 e lei diventò Sara Adler nel 1991. Fu attivo nel teatro yiddish e in vari paesi per oltre vent’anni, poi regista di cinema fino al 1929-1930, quando diresse lo Yiddish Prospect Theatre nel Bronx.
4 Abraham, detto Abe, Cahan era arrivato a New York nel 1882 da Vilnius. Poco dopo avere fondato «Forverts» e l’omonima casa editrice, nel 1898, se ne allontanò per quattro anni a causa di forti dissapori politici interni. Richiamato, assunse i pieni poteri editoriali e diresse con pugno di ferro per decenni il quotidiano, molto diffuso e influente. Tra i suoi meriti quello di avere ospitato sistematicamente i racconti e gli interventi di Isaac Bashevis Singer, primo e unico autore yiddish a ricevere il Premio Nobel per la letteratura (1978). Cfr. Wikipedia, ad vocem: <http://en.wikipedia.org/wiki/Abraham_Cahan>, e Jewish Virtual Library, ad vocem: <http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/biography/cahan.html>.
5 I. B. Singer, Ricerca e perdizione cit., p. 88.
6 H. Hapgood, The Spirit of the Ghetto, ediz. orig. 1902, Harvard University Press, Cambridge, MA 1967. Hapgood si professava anarchico individualista e seguace del filosofo tedesco Max Stirner. Assai noto nei circoli radicali della New York di fine Ottocento, si guadagnava da vivere scrivendo sul «Commercial Advertiser». Prima di The Spirit of the Ghetto aveva scritto una Autobiography of a Thief, e successivamente alcuni romanzi (Story of a Lover, Types from City Streets, An Anarchist Woman e infine The Spirit of Labor), oltre a un curioso atto unico, Enemies, con la moglie Neith Boyce.
7 Secondo Sharon Power, Yiddish Theatre Actresses cit., pp. 84-107: 99 segg., Karp incarna nel teatro yiddish il tipo della primadonna per eccellenza, insieme a Sara Adler, Jennie Goldstein e soprattutto Clara Young, vale a dire un carattere egocentrico e capriccioso, tendente a manipolare gli altri e geloso dei loro minimi successi.
8 Cfr. Wikipedia, ad vocem: <http://en.wikipedia.org/wiki/Sokher_Goldstein>. Goldstein era un modesto artigiano prima di diventare cantante con Israel Grodner (o Gradner) (cfr. Wikipedia, ad vocem: <http://en.wikipedia.org/wiki/Israel_Grodner>). Goldfaden vide i due a Iaşi e scrisse per loro un copione in due atti. Nello spettacolo Grodner interpretava un chassid e Goldstein la sua giovane moglie. Goldstein recitò anche nella commediola Un mucchio di legna, sempre di Goldfaden, che lo scritturò nella propria prima compagnia, dove era il secondo attore; ma quando, poco dopo, Grodner, Mogulesko e Spivakovski formarono le rispettive compagnie, Goldstein recitò con loro, cambiando di frequente. Nel 1879 sposò colei che sarebbe diventata Sophia Karp. La loro figlia Rosa Karp fu anch’essa attrice. Goldstein morì nel 1887 a Odessa.
9 Cfr. Bright Star of Exile cit., pp. 41-42 e infra.
10 Cfr. Museum of Family History, ad vocem: < http://www.museumoffamilyhistory.com/yt/lex/M/moshkovitch-morris.htm>.
11 Cfr. la nota biografica di Caraid O’Brien sulle pagine web (Second Avenue Online) della New York University dedicate al teatro yiddish (<http://2ndave.nyu.edu>).
12 Cfr. Shulamith Z. Berger, Jennie Goldstein, in Jewish Women’s Archive: <http://jwa.org/encyclopedia/article/goldstein-jennie>.
13 Joann Green, Molly Picon, in Jewish Women’s Archive: <http://jwa.org/encyclopedia/article/picon-molly>.
14 Cfr. il sito Yiddish Music, ad vocem: <http://yiddishmusic.jewniverse.info/pragerregina/index.html>. Alcune sue incisioni sono incluse in varie antologie discografiche rintracciabili su Amazon.
15 Ralph Block, Jacob Ben-Ami. A Great Actor, «New York Times», 14 dicembre 1919.
16 Cfr. The Museum of Family History, ad vocem: <http://www.museumoffamilyhistory.com/yt/lex/B/ben-ami-jacob.htm> e per quanto riguarda la carriera cinematografica di Jacob Ben-Ami si veda l’International Movie Data Base: <http://www.imdb.com/name/nm0070003>.
17 Maria Waife-Goldberg, My Father, Sholom Aleichem, Sholom Aleichem Family Publications – Robert V. Waife, New York 1999, p. 218.
18 Cfr. Joseph Sherman, Asch, Sholem, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 13 luglio 2010: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Asch_Sholem>; The Museum of Family History, ad vocem: <http://www.museumoffamilyhistory.com/yt/lex/A/asch-sholem.htm> e cfr. Ben Siegel, The Controversial Sholem Asch: An Introduction to His Fiction, Bowling Green University Popular Press, Bowling Green, OH 1976.
19 Marcin Wodziński, Włocławek, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe 4 novembre 2010: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Włocławek>.
20 Michał Galas, Sabbatianism, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe 13 ottobre 2010: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Sabbatianism>.
21 I. B. Singer, Ricerca e perdizione cit., pp. 81-82.
22 Ricordiamo in proposito il recente (2015) allestimento da parte della drammaturga Paula Vogel e la regista Rebecca Taichman con il titolo di Indecent allo Yale Repertory Theatre. Dell’evento riferisce ampiamente J. Berkowitz su DYTP, Interview: Indecent Playwright Paula Vogel and Rebecca Taichman:
<https://web.uwm.edu/yiddish-stage/interview-indecent-playwright-paula-vogel-and-director-rebecca-taichman>.
23 Sholem Aleichem, Funem yarid, scritta negli anni 1914-1916, tradotta in inglese da Curt Leviant con il titolo From the Fair, Viking, New York 1986.
24 Incontreremo ancora la figura di questo cantore nel volume sul cinema yiddish, dove fu una presenza importante. Cfr. Wendy Heller, Cantors, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 3 agosto 2010: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Cantors>, e Wikipedia, ad vocem: <http://en.wikipedia.org/wiki/Yossele_Rosenblatt>.
25 Cfr. Jeremy Dauber, The Worlds of Sholem Aleichem. The Remarkable Life and After-life of the Man Who Created Tevye, Nextbook Schocken, New York 2013; Maria Waife-Goldberg, My Father, Sholom Aleichem cit.; Jacob Weitzner, Sholem Aleichem in the Theater, Symposium Press, Nothwood Middlesex 1994; Gennady Estraikh e altri, a cura di, Translating Sholem Aleichem: History, Politics, and Art, Legenda, London 2012 e (in ebraico) Dan Miron, Sholem Aleichem. A critical essay, Massada, Israel 1970.
26 Si cita qui Shalom Alechem, La storia di Tewje il lattivendolo, trad. di Lina Lattes, pref. di Gad Lerner, Feltrinelli, Milano 2000. Il libro è un tipico caso di trascuratezza editoriale per un titolo considerato secondario, nonostante l’enfatica e superficiale prefazione. Più accurate le edizioni Adelphi, che però pubblicano altri titoli (e traducono il nome dell’autore con Sholem Aleykhem). Il romanzo epistolare su Menachem Mendel è un purtroppo introvabile: Shalom Aleichem, Menachem Mendel, trad. di D. Leoni, Marietti, Genova 1986. Qui Memachem in una fitta corrispondenza con la moglie Sheine Sheindl riferisce delle proprie tragicomiche avventure nei ghetti dell’Europa orientale alla ricerca del benessere e del riscatto sociale. A Mendel, giocatore in borsa, mediatore di terreni e matrimoni, scrittore fallito, risponde la moglie con genuino buon senso. Sullo sfondo vi è il sogno di un’Amerike luogo della ricchezza e delle facili fortune, terra promessa alla quale infine approderà anche Mendel.
27 Lo stesso Gorkij in una lettera a Sholem Aleichem negli anni Dieci gli rivela di aver riso fino alle lacrime leggendo le storie di Motl, figlio di Paysie il cantore (cfr. Maria Waife-Goldberg, My Father, Sholom Aleichem cit., p. 221).
28 Questi nomi segnalano alcune somiglianze letterarie, non le possibili influenze, che vanno ricercate semmai nella cultura russa e in questo senso il primo nome da fare è senz’altro quello di Nikolaj Gogol´ (Dostoevskij: «Siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol´»), cui seguono quelli di Ivan Turgenev, di Anton Čechov e di Maksim Gorkij. Sholem Aleichem era anche un ammiratore di Charles Dickens.
29 J. Dauber, The Worlds of Sholem Aleichem cit., cap. 10, pp. 88-98.
30 Cfr. ivi, cap. 11, pp. 99-105.
31 Con la pubblicazione del Premio (1901) il monologo diventò la “forma madre” per Sholem Aleichem, il quale nel 1905 scrisse quattro delle nove storie che dovevano essere comprese in Tutto Tevye il lattivendolo: a Il premio seguivano Oche (1902), Chiamata alle armi (1902), Ginnasio (1902), Settantacinquemila (1902), Bruciato (1903), Avviso (1904), Giuseppe (1905), Khabne (1905), nonché il complesso e confuso racconto Tre vedove (1907).
32 Cfr. Sholem Aleichem, Kasrilevke, Bompiani, Milano 1962.
33 J. Weitzner, Sholem Aleichem in the Theater cit., pp. 76-79.
34 Berkowitz era uno scrittore attivo dal 1903. Nel 1906 conobbe e sposò a Vilnius la figlia di Sholem Aleichem. Nel 1910 pubblicò un primo volume di racconti. Arrivò negli Stati Uniti assieme al suocero, nel 1914, fu anche editore e s’impegnò nella traduzione dei testi di Sholem Aleichem in ebraico. Emigrato in Palestina nel 1928, fino alla morte fu autore di diversi adattamenti teatrali di quei testi del suocero per Habima.
35 Barriere infrante (o Broken Barriers), tratto dallo spettacolo teatrale di Schwartz, fu diretto da Charles Davenport. Tra i protagonisti vi erano il cantante d’opera Giacomo Masuroff e Elihu (Alex) Yeneholz.
36 Lo Internet Movie Database (Imdb) segnala altri film ispirati dal testo di Sholem Aleichem: un film tedesco del 1962 intitolato Tevya e le sue figlie; il film israeliano Tuvia e le sue sette figlie del 1968, e due film russi, Tevye il lattivendolo del 1985 e Vattene! del 1991.
37 J. Weitzner, Sholem Aleichem in the Theater cit., pp. 96-100.
38 Locandina ufficiale di Tevye: scritto e diretto da Maurice Schwartz, tratto dal testo teatrale di Sholem Aleichem, musica di Sholom Secunda, montaggio di Sam Citron, direttore della fotografia Larry Williams, prodotto da Harry Ziskin. Attori: Maurice Schwartz, Rebecca Weintraub, Miriam Riselle, Leon Liebgold, Paula Lubelski, Vicki Marcus, Betty Marcus, Helen Grossman, Julius Adler (1906-1994), David Makarenko. In yiddish con sottotitoli in inglese (nell’edizione del National Center for Jewish Film, 1981), durata 96 min.
39 J. Weitzner, Sholem Aleichem in the Theater cit., pp. 106-107.
40 Marat Grinberg, Rolling in Dust: Maurice Schwartz’s Tevye (1939) And Its Ambiguities, «Shofar: An Interdisciplinary Journal of Jewish Studies», 32, 2, Winter 2014, pp. 49-72. Grinberg è professore associato di russo al Reed College, Portland, ed è autore di uno studio sul poeta Boris Slutsky ( «I am to be read not from left to right, but in Jewish: from right to left»: The Poetics of Boris Slutsky, Academic Studies Press, Waltham, Mass. 2013).
41 Ivi, p. 50.
42 Ibid.
43 Don Miron in Marat Grinberg, Rolling in Dust: Maurice Schwartz’s Tevye cit., p. 67.
44 Cit. da Alisa Solomon, Wonder of Wonders. A Cultural History of Fiddler on the Roof, Metropolitan Books - Henry Holts and Company, New York 2013, pp. 46-48.
45 Cfr. Olga Litvak, Khave and Her Sisters: Sholem-aleichem and the Lost Girls of 1905, «Jewish Social Studies», 15, 3, Spring/Summer 2009, pp. 1-38.
46 Cfr. Avraham Novershtern, Markish, Peretz, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 15 dicembre 2010: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Markish_Peretz>, e J. Veidlinger, The Moscow State Yiddish Theater cit., pp. 119 segg. Markiš fu poi processato, condannato e fucilato assieme a Veniamin Zuskin, nel 1952.
47 Si vedano in proposito i capp. 5 e 6 di J. Veidlinger, The Moscow State Yiddish Theater cit.
48 Cfr. Emanuel Levy, The Habima: Israel’s National Theater 1917-1977. A Study of Cultural Nationalism, Columbia University Press, New York 1979, p. 122 segg.
49 La vicenda degli allestimenti di Tevye da parte di Habima, come di tutte le altre versioni del testo è raccontata più dettagliatamente delle altre da J. Weitzner nella sua Sholem Aleichem in the Theater cit., pp. 74-110.
50 Cfr. Małgorzata Leyko, Polish State Yiddish Theater, Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 11 ottobre 2010: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Polish_State_Yiddish_Theater> e Museum of Family History, ad vocem: <http://www.museumoffamilyhistory.com/yt/lex/L/lipman-moshe.htm>. Mojżesz Lipman (Moishe Lipmann) era prima della seconda guerra mondiale un noto attore del teatro e del cinema yiddish (interpretò inoltre Calibano nella Tempesta diretta da Leon Schiller nel 1938 e Sender nella versione cinematografica del Dybbuk diretta da Michał Waszyński nel 1937). Dal 1946 al 1948 fu direttore del teatro yiddish di Łódź.
51 Cfr. M. Leyko, Polish State Yiddish Theater cit. e Museum of Family History, ad vocem: <http://www.museumoffamilyhistory.com/yt/lex/B/buzgan-chevel.htm>. Chevel Buzgan, attore della Vilner Trupe, dal 1939 al 1949 direttore del teatro ebraico Soleil in Argentina, al suo ritorno in Polonia si unisce al Teatro Ebraico diretto da Ida Kaminska, dapprima a Łódź e poi a Varsavia. Cfr. Państwowy Teatr Żydowski im. Esther Rachel Kamińskiej. Przeszłość i teraźniejszość, Szczepan Gąssowski, a cura di, PWN, Warszawa 1995.
52 Cfr. M. Leyko, Polish State Yiddish Theater cit. Juliusz Berger da giovane recitò al Teatro Drammatico di Wrocław con Ida Kaminska, che lo aveva voluto nella propria compagnia. Dopo avere imparato lo yiddish (che, provenendo da una famiglia ebraica assimilata, non conosceva) si unì al Teatro Statale Ebraico pur continuando a collaborare con i teatri polacchi di Wrocław, Varsavia e Gdynia. Cfr. Państwowy Teatr Żydowski cit.
53 Il titolo Fiddler on the Roof si riferisce alla figura dipinta molte volte da Marc Chagall, ma al pittore lo spettacolo non piacque per niente (cfr. Robert Brustein, Fiddle Shtick, «The New York Review of Books», 18 dic. 2014, 61, 20, pp. 82-83). Lo spunto era costituito dal testo di Arnold Perl intitolato Tevye and his Daughters, il copione era di Joseph Stein, la musica di Jerry Bock e Sheldon Harnick, la regia e le coreografie di Jerome Robbins, le scene di Boris Aronson, i costumi di Patricia Zipprodt, protagonista Zero Mostel. Oltre al citato volume di A. Salomon, cfr. Wikipedia, ad vocem: <https://it.wikipedia.org/wiki/Fiddler_on_the_Roof>.
54 Il violinista sul tetto, film del 1971 diretto da Norman Jewison, tratto dall’omonima commedia musicale, soggetto e sceneggiatura di Joseph Stein, musiche di Jerry Bock e John Williams, scenografie di Robert F. Boyle e Michael Stringer, protagonista Topol.
55 Durante le prove dello spettacolo Zero Mostel polemizzava costantemente con Robbins, colpevole ai suoi occhi per avere testimoniato di fronte alla Commissione per le attività antiamericane e di essere un ebreo che non osava dichiararsi come tale, mentre lui era apertamente fiero della propria appartenenza. Altri attori ebbero a criticare Robbins per il suo autoritarismo. Cfr. Wikipedia, ad vocem: <https://en.wikipedia.org/wiki/Zero_Mostel>.
56 Cfr., oltre ai libri citati, il sito di Theodore Bikel (<http://www.bikel.com>) e Wikipedia, ad vocem: <https://it.wikipedia.org/wiki/Theodore_Bikel>.
57 Topol, Tevye nel film del 1971, è stato anche protagonista in molte riprese dello spettacolo nei vent’anni seguenti.
58 A. Solomon, Wonder of Wonders cit., p. 254.
59 Ivi, pp. 353-355. Solomon riferisce in dettaglio le reazioni della critica. Su questo versante non è interessante soffermarsi sul coro di elogi quanto piuttosto sulle riserve espresse dai critici più accorti. Ebbene, le loro riserve si possono considerare riassunte in espressioni come «Fiddler with no Jews» oppure «Goym on the Roof» e derivano dal rifiuto altrettanto ideologico della nostalgia per una «identificazione ebraica» che pone questioni di sentimento e per il grande musical d’argomento storico. In realtà Fiddler on the roof è stato un sintomo e uno stimolo importante del processo di assimilazione degli ebrei americani che in quegli anni era al suo culmine, tanto è vero che i critici della generazione successiva lo considerano un monumento alla Jewishness perduta.
60 Il programma dello spettacolo si trova ora sul sito dell’artista: <http://www.moniovadia.net/it/opere-e-parole/teatro/425-il-violinista-sul-tetto-2002.html>.
61 Cfr. P. Bertolone, Moni Blues cit. e M. De Marinis, Il teatro di Moni Ovadia cit.
62 Lo spettacolo di Moni Ovadia è visibile integralmente su Youtube: <https://www.youtube.com/watch?v=4p8BLamRHXc>.
Le texte seul est utilisable sous licence Creative Commons - Attribution - Pas d'Utilisation Commerciale - Pas de Modification 4.0 International - CC BY-NC-ND 4.0. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Da Odessa a New York
Una Grande Aquila, un re dello shund e altre stelle vagabonde
Antonio Attisani
2016
Cercatori di felicità
Luci, ombre e voci dello schermo yiddish
Antonio Attisani et Alessandro Cappabianca (dir.)
2018