Scrivere di sé è come riassumere la storia dell’universo: il rapporto tra finito e infinito in F.W.J. Schelling
p. 81-99
Texte intégral
1. Introduzione. Filosofia e autobiografia
1L’obiettivo che si pone questo breve saggio consiste nel mettere in luce le caratteristiche peculiari del legame tra finito e infinito nel pensiero filosofico di Schelling a partire dalla seguente tesi interpretativa: il pensiero di Schelling è un pensiero prevalentemente autobiografico, il cui sviluppo nel corso del tempo è condizionato dal principio – maturato man mano dal filosofo tedesco – che vi sia una limpida equivalenza tra filosofia e autobiografia.
2Ora, non c’è apparentemente nulla di più contro-intuitivo che affrontare il tema del rapporto tra finito e infinito a partire dall’equivalenza tra filosofia e autobiografia. In realtà, proprio questa equivalenza ci permette di capire in maniera cristallina, in primo luogo, il modo in cui va considerato il concetto di Assoluto nel pensiero schellinghiano; in secondo luogo, quali sono le caratteristiche del rispecchiamento reciproco tra finito e infinito, quale significato assume la finitezza nella produzione scientifica del filosofo di Leonberg, nonché quale ruolo debba ricoprire la filosofia per non tradire se stessa. L’esigenza di sottolineare il carattere autobiografico del pensiero schellinghiano comporterà, all’interno del saggio, un breve excursus dedicato al significato che appartiene al concetto di autobiografia.
3Prima però di addentrarci nella tematica indicata, occorre fare una premessa metodologica basilare, con la quale mettere in discussione alcuni luoghi comuni di natura storico-filosofica che riguardano specificamente la filosofia schellinghiana. Solitamente due sono i cliché storico-filosofici che contraddistinguono la filosofia del pensatore di Leonberg: 1) Schelling è un Proteo della filosofia, una sorta di camaleonte incerto del pensiero classico tedesco a causa dei molteplici lifting a cui sottopone il suo pensiero; 2) Schelling è colui che traghetta il soggettivismo idealistico di Fichte nel sistema metafisico di Hegel. Con il suo interesse specifico per il tema della natura e dell’oggetto in senso lato, egli dovrebbe ipoteticamente rappresentare, infatti, l’antitesi alla tesi fichtiana del soggetto, motivo per cui Hegel ritiene che il suo razionalismo metafisico possa sintetizzare in sé Fichte e Schelling, entrambi meritevoli soltanto di aver preparato il terreno per l’avvento hegeliano.
4Camaleonte e traghettatore. L’immagine di Schelling come Proteo della filosofia deriva dalla classica divisione di comodo della sua bibliografia in differenti fasi storiche, ciascuna ben delineata e distinta dalle altre: la fase fichtiana (i primi scritti), la filosofia della natura (dal 1797 al 1800 circa), la filosofia dell’identità (dal 1801 al 1805 circa), la filosofia della libertà (dal 1806 al 1820 circa), la filosofia positiva, che racchiude in sé gli studi sulla mitologia e sulla rivelazione e che va dal 1820 agli ultimi anni della sua vita. Ma è veramente plausibile sezionare il suo percorso filosofico in questa maniera così rigida e schematica? Esistono davvero la filosofia della natura e la filosofia della libertà come due entità distinte, messe in comunicazione dalla filosofia dell’identità? Lo scetticismo nei confronti di questo modo semplicistico di riassumere il pensiero schellinghiano ha molteplici ragioni. Innanzitutto, il filosofo tedesco scrive le sue opere in un lasso temporale molto ampio: comincia nel 1794 e smette solo in prossimità della sua morte, intorno al 1854. Sessanta anni di opere, pubblicate o lasciate incomplete. Soprattutto, sessanta anni durante i quali ogni individuo affronta un percorso di crescita e di sviluppo personale. Ciò che si pensa e si scrive a diciotto anni difficilmente rimane immutato sessanta anni dopo. Anzi, se così fosse, sarebbe indice di una scarsa apertura mentale e di un’altrettanta modesta predisposizione alla maturità.
5Anche la relazione filosofica con Hegel va letta tenendo bene a mente la cronologia schellinghiana: egli, infatti, muore ben ventitré anni dopo Hegel e, durante questo periodo, continua a tenere lezioni e a scrivere, conoscendo le dottrine hegeliane e cercando di oltrepassarle, al punto da attirare l’attenzione di un anti-hegeliano di ferro come Kierkegaard. È certamente vero che, dopo il 1809, smette quasi di pubblicare e, comunque, le sue teorie più significative sono già state date alla luce. Ma ciò non significa che termini il processo del suo sviluppo teorico, un processo che – di fatto – tiene anche conto della filosofia di Hegel, cercando tra l’altro di contrapporvisi. Riduttiva pare, dunque, la lettura di Fichte e di Schelling come due autori che anticipano Hegel e che vengono da lui superati, in quanto filosofo della sintesi superiore tra soggetto e oggetto.
6Mettere in discussione questi due cliché storico-filosofici significa interpretare la filosofia di Schelling tenendo bene a mente la compenetrazione tra teoria e autobiografia, seguendone i diversi rivoli speculativi e le rielaborazioni successive a critiche o a dubbi provenienti dai suoi amici e colleghi e non sottovalutando quanto l’esperienza personale influisca sull’elaborazione di un sistema che cerca di spiegare la dialettica tra finito e infinito1.
2. Filosofia come narrazione: l’autoanalisi dell’Assoluto e l’individuo come eterno frammento
7Nei Weltalter, mentre sta descrivendo le caratteristiche proprie dell’uomo come microcosmo e sta mostrando come il termine “microcosmo” sia utile per evidenziare la corrispondenza tra tutti i processi della vita umana, da quelli inconsci a quelli pienamente consci, e tutti i processi della vita universale, Schelling afferma: «certo è che chi fosse in grado di scrivere la storia della propria vita, a cominciare dalle sue radici più profonde, con ciò stesso avrebbe brevemente riassunto tutta la storia dell’universo»2.
8Come è risaputo, i Weltalter sono un progetto ambizioso e, al tempo stesso, letale per Schelling: si tratta, infatti, di un’opera mastodontica che, in tre libri, dovrebbe tratteggiare il passato, il presente e il futuro del mondo sulla base delle conoscenze filosofiche, mitologiche e teosofiche acquisite nel corso degli anni. Un progetto che naufraga a causa delle paure e delle incertezze maturate dal suo autore, il quale lo rielabora costantemente, scrivendo frammenti, abbozzi e brevi testi, fra loro sconnessi, riferiti – generalmente – al solo libro relativo al passato. Centinaia di pagine che, pur offrendoci molto materiale prezioso, restano sfilacciate e disomogenee.
9Ora, quest’idea secondo la quale colui che fosse in grado di scrivere la storia della propria vita riassumerebbe, al tempo stesso, tutta la storia dell’universo segue, di poche pagine, l’introduzione alle diverse stesure incompiute dei Weltalter, un’introduzione il cui obiettivo principale consiste nel giustificare la creazione di una “filosofia narrante”, di una “filosofia intesa come narrazione”. Come osserva Gianni Carchia, tale introduzione non adempie al classico compito di presentare i temi che verranno di lì a poco affrontati, ma si configura come «una autonoma, specifica trattazione sulla natura del filosofare, quasi una vera e propria “filosofia della filosofia”»3. L’introduzione ai Weltalter si pone come obiettivo quello di spiegare al lettore che il compito della filosofia consiste nell’esplicitare – con uno specifico metodo espositivo – il rapporto tra mito e dialettica, tra narrazione e conoscenza, evidenziando come l’aspirazione della scienza a divenire narrazione coincida con l’anelito messianico alla realizzazione dell’Assoluto4. E ciò emerge se ci soffermiamo con attenzione soprattutto sulle prime celeberrime righe:
Il passato viene saputo, il presente viene conosciuto, il futuro viene presagito. Il saputo viene narrato, il conosciuto viene esposto, il presagito viene profetizzato5.
Abbiamo tre corrispondenze specifiche: passato-sapere-narrare, presente-conoscere-esporre e futuro-presentire-profetizzare. La corrispondenza passato-sapere-narrare mostra che il passato si può sapere, non conoscere, e che ciò che è saputo si può narrare, non esporre. Ad accomunare il sapere e il narrare, legandoli al passato, è il concetto di ricostruzione, concetto che, implicando un movimento a ritroso, è estraneo al presente che si può solo conoscere ed esporre. Ora, la corrispondenza passato-sapere-narrare, delineata dal ruolo basilare della ricostruzione, cela in sé l’idea schellinghiana che la filosofia debba essere propriamente pensata come una sorta di autobiografia universale: essa coincide, cioè, con l’autoanalisi che l’Assoluto fa di sé e che Schelling ha il compito di riportare su carta – compito che è alla base del progetto dei Weltalter. Nel tentativo di tratteggiare il passato, il presente e il futuro del mondo è l’Assoluto che, autoanalizzandosi, deve scrivere di sé e la filosofia deve coincidere con la sua attività autobiografica; anzi, non ci può essere pensiero filosofico che non sia di fatto autobiografico, proprio perché non c’è altro protagonista nella realtà al di fuori dell’Assoluto.
10L’autobiografia universale o autoanalisi che l’Assoluto fa di sé non può essere – tuttavia – tale senza incrociarsi e intrecciarsi con l’autobiografia individuale, quindi con lo scrivere di sé da parte di un individuo che, tanto imperfetto quanto unico essendo quell’individuo compreso insieme agli altri nell’Uno-Tutto, di fatto rappresenta l’Assoluto nella sua totalità. Come evidenziato poco sopra, l’uomo quale microcosmo sta a indicare che tutti i processi della vita umana, da quelli inconsci a quelli pienamente consci, sono pienamente corrispondenti ai processi della vita universale. Ogni singolo individuo non è, in altre parole, che un eterno frammento dell’Assoluto, ma un frammento che, proprio in quanto tale, lo racchiude interamente nella sua vita in modo unico e irripetibile6. Pertanto, l’individuo in grado di ricostruire e, quindi, scrivere la storia della propria vita, a cominciare dalle sue radici più oscure e profonde, è altrettanto capace di riassumere tutto quello che c’è essendo frammento eterno del Tutto.
11L’Assoluto è l’unico protagonista della storia, poiché coincide con tutto ciò che c’è; l’individuo, imperfetto perché singolo, si dissolve nell’Assoluto come suo eterno frammento ma, proprio per questo suo carattere di singolo eterno frammento, egli manifesta il suo essere unico e irripetibile: contiene, infatti, l’Assoluto in se stesso e la sua storia biografica coincide con quella dell’universo. L’intero percorso filosofico schellinghiano – fortemente influenzato dal romanticismo tedesco – segue questo schema, che ritorna più volte sotto forme differenti o per mezzo di metafore e immagini variegate. Nelle Fernere Darstellungen aus dem System der Philosophie (1802), Schelling osserva – per esempio – che «tutte le cose fenomeniche, sebbene sommamente imperfette, sono immagini dell’intero [originario] e, pur nella forma particolare in quanto tale, tendono a riprodurre l’universo»7. Nell’aforisma 157, contenuto negli Aphorismen zur Einleitung in die Naturphilosophie (1806), leggiamo: «ogni anima conosce l’infinito, conosce tutto, ma in modo oscuro. Se si percepisce il mugghiare della foresta durante la tempesta, si ode il fruscio di ogni foglia, ma mescolato a quello di tutte le altre, senza poterlo distinguere. Tale è il rumorio e il tumulto del mondo nella nostra anima»8. Nel dialogo Clara (1810), invece, il filosofo tedesco scrive:
[…] soltanto non comprendo fino in fondo perché, se noi diveniamo interamente un’unica cosa con il divino, ne debba necessariamente seguire la perdita di ogni esistenza particolare. Infatti, la goccia nell’oceano, benché non si distingua più dalle altre, è pur sempre una goccia, e la singola scintilla nel fuoco o il singolo raggio di sole (se mai ne esista uno) sono sempre questa piccola scintilla e questo raggio, anche se non è possibile coglierli nella loro particolarità9.
Emerge, soprattutto tenendo conto di quest’ultima metafora della goccia nell’oceano, un’oscillazione problematica tra il carattere indifferenziato di tutti gli “eterni frammenti” inglobati nell’Uno-Tutto o Assoluto, il solo protagonista della storia dell’universo, e il carattere personalissimo di ogni singolo frammento, nella cui unicità si rispecchia in maniera irripetibile la totalità dell’Assoluto. Tale oscillazione problematica accompagna la difficoltà – tipicamente schellinghiana – di tenere unite e, al tempo stesso, separate la libertà e la necessità, la personalità e l’unitotalità. Porre l’accento sul carattere autobiografico della filosofia schellinghiana può essere utile, pertanto, per affrontare queste difficoltà e per capire il complesso rapporto tra il finito e l’infinito, tra il singolo individuo e il Tutto.
12Ora, perché mai dalla corrispondenza passato-sapere-narrare ricaviamo l’idea della filosofia come autobiografia universale? E perché mai non ci può essere autobiografia universale che non si intrecci con quella individuale, imperfetta ma al tempo stesso inglobante tutto ciò che c’è? Per rispondere a questi quesiti è utile un breve excursus per mezzo del quale comprendere il legame tra filosofia, narrazione e autobiografia.
3. Il racconto retrospettivo della memoria: l’autobiografia
13L’autobiografia è un genere letterario che il critico francese Philippe Lejeune definisce «un racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità»10. Una delle parole ricorrenti, ogniqualvolta si fa riferimento al genere letterario dell’autobiografia, è ricostruire o ricostruzione: lo sguardo retrospettivo è un sguardo che ricostruisce. Se si limita a costruire, non può essere logicamente uno sguardo retrospettivo, dunque uno sguardo autobiografico. Il contenuto dell’autobiografia consiste in una parte relativamente lunga di vita trascorsa, che quindi è irrimediabilmente passata, considerata però come totalità, in cui la correlazione dei singoli fatti ed episodi ricostruiti ha luogo secondo un particolare ordine o una determinata finalità. Il carattere organico e teleologico della vita oggetto dell’autobiografia distingue l’autobiografia dagli annali, cronaca o elenco relativamente non organizzati di gran parte degli avvenimenti di una fetta peculiare di esistenza. Il fatto che rappresenti la vita di una persona come evoluzione serve invece a distinguerla dal ritratto, in cui le caratteristiche principali di un individuo sono sintetizzate, rappresentate in modo fisso, immutabile.
14Un altro elemento tipico dell’autobiografia è la memoria che è a fondamento dello sguardo retrospettivo-ricostruttivo, quindi della scelta degli avvenimenti di una vita passata, mettendone in ombra altri. Lo sguardo retrospettivo che ricostruisce, con cui si identifica l’autobiografia, si fonda sulla memoria: l’autobiografia, allora, narra di un’esistenza al passato da ricostruire a partire dalla memoria e dal ricordo. Essa, pertanto, si distingue dal diario: l’autobiografia rappresenta la vita come qualcosa di passato e di concluso, il diario invece fissa gli avvenimenti di volta in volta, in ordine cronologico.
15Da questa particolare prospettiva del racconto autobiografico, che guarda retrospettivamente a un passato da ricostruire, deriva anche una particolare tensione tipica di questo genere letterario: se è vero che il soggetto e l’oggetto della rappresentazione autobiografica coincidono per definizione, tuttavia l’io narrante è diverso dall’io narrato, in quanto si trova a vivere non solo in un’epoca posteriore, ma anche alla fine di un ciclo o di un’evoluzione che è oggetto appunto della sua narrazione e rielaborazione. C’è in mezzo il costante divenire della vita, che è indipendente dal volere dell’io narrante, che impedisce la coincidenza tra io narrante e io narrato e che pone l’io narrante in una posizione valutativa rispetto a quella dell’io narrato. Posizione che è inoltre obbligata a fare i conti sia con ciò che la memoria offre sia con ciò che invece nasconde riguardo all’io narrato. Questa è la problematicità che caratterizza l’autobiografia: “l’autobiografia è il racconto retrospettivo della memoria che un individuo ha della propria vita”11.
16Ma questa “propria vita”, intrecciandosi con la vita generale, la cui caratteristica è il divenire costante, non ha mai un carattere definitivo, almeno fino a quando siamo vivi. La stessa struttura della memoria è una struttura sempre vivente e mutevole, in divenire e interpretante, mai conclusa. Non sembra cioè possibile raggiungere l’obiettivo che si pone chi scrive di sé: dare una forma definitiva e di totalità a ciò che viene ricostruito nell’autobiografia. L’autobiografia è per definizione provvisoria, poiché il bilancio del passato, ricostruito man mano, è condizionato ancora dall’orizzonte aperto delle attese, giacché l’autobiografo è – appunto – ancora all’interno del precario turbinio vitale, coinvolto nella trama della sua vita e dunque privo della capacità di uno sguardo retrospettivo onnicomprensivo. In altre parole, è l’orizzonte delle attese a non permettere al bilancio del passato di assumere una forma definita una volta per tutte. Un qualsiasi avvenimento ancora da venire – per esempio, una menomazione fisica o un’azione particolarmente eroica o, al contrario, un comportamento vile – può ridimensionare, o comunque collocare sotto una luce interpretativa differente, i fatti che lo hanno preceduto. Tutta la forza della vita, di fatto, è racchiusa nell’orizzonte aperto e precario delle attese, dal quale trae il proprio sostentamento e la propria definizione.
17Solo la morte può conferire una forma definitiva alla vita. E contro questa legge l’autobiografo si arrende, consapevole di poter imporre alle proprie esperienze una forma che è soltanto provvisoria, modellata attraverso il dialogo con la propria memoria e che fallisce dinanzi alla possibilità di dare un taglio definitivo a ciò che narra.
4. Vitalismo mistico e pedagogia della morte: l’incompiutezza come descrizione dell’esistenza
18Cosa abbiamo imparato da questo conciso excursus? In primo luogo, autobiografia significa essenzialmente disporre di uno sguardo retrospettivo che ricostruisce. L’autobiografia implica cioè lo sguardo retrospettivo-ricostruttivo e mira a dare totalità e carattere definitivo al tempo vissuto. In secondo luogo, l’autobiografia deve fare i conti con il divenire costante della vita intesa come processo, quindi con la vita individuale che si intreccia con quella universale, dunque con l’impossibilità della coincidenza perfetta tra io narrante e io narrato. In terzo luogo, il carattere definitivo al racconto di sé è dato solo dalla morte, aspetto altamente problematico visto che dopo la morte non c’è più un io narrante che possa dare forma ultima all’io narrato.
19Ora, riprendiamo il discorso finora svolto su Schelling e proviamo a legarlo a questi tre punti.
a) Autobiografia significa essenzialmente disporre di uno sguardo retrospettivo che ricostruisce. L’autobiografia implica cioè lo sguardo retrospettivo-ricostruttivo e mira a dare totalità e carattere definitivo al tempo vissuto.
20Quando Schelling menziona la corrispondenza passato-sapere-narrare mette in primo piano il duplice concetto di retrospezione-ricostruzione. Ritorna costantemente, soprattutto nelle pagine dei Weltalter, l’idea della filosofia perfetta come narrazione nel senso di un pensiero genealogico che “getta uno sguardo” sull’origine remota, ricostruisce attraverso il ricordo e la memoria ciò che sta alle spalle e si pone all’ascolto di una storia che non può che provenire dalle radici della natura12. La filosofia non è mai costruzione razionale, ma ricostruzione metafisica. Il legame tra ricostruzione e memoria in riferimento alla natura del filosofare è costante.
21Nel momento in cui la filosofia diviene sapere definitivo del passato, quindi una sua narrazione, si ha al tempo stesso la conoscenza e l’esposizione del presente, nonché il presentimento e il profetizzarsi del futuro. Nelle pagine dei Weltalter sembra che la realizzazione della corrispondenza passato-sapere-narrare sia la sola a rendere possibile la conoscenza e l’esposizione del presente e dunque il presentimento e il profetizzarsi del futuro. Compito che, come già detto, si prefigge Schelling quando decide di intraprendere l’impegnativa impresa della descrizione delle età del mondo. Ma i Weltalter restano incompiuti, arenandosi ad alcuni frammenti relativi al passato. Non certo per caso. L’obiettivo di realizzare pienamente la corrispondenza passato-sapere-narrare, in vista delle altre due corrispondenze, è un compito gravoso, letale, che è praticamente impossibile.
b) L’autobiografia deve fare i conti con il divenire costante della vita intesa come processo, quindi con la vita individuale che si intreccia con quella universale, dunque con l’impossibilità della coincidenza perfetta tra io narrante e io narrato.
22Schelling crede che l’autobiografia sia il racconto della memoria che l’Assoluto ha di sé. Proprio qui ha luogo un black out, quello legato al carattere vivente e processuale della vita, per definizione mai definitiva: la storia che si intende narrare, come quella del biografo di sé, è una storia in divenire, in perenne sviluppo, quindi imperfetta, frammentata e non conclusa una volta per tutte, poiché in attesa di compimento. L’assenza del compimento ultimo non consente al passato di essere riconosciuto in quanto tale una volta per tutte. Nella filosofia di Schelling è infatti centrale l’idea della vita, che coincide con l’Assoluto, come processo, divenire, perenne mancanza, incompiutezza, per cui essa implica il rapporto costante tra la ricostruzione e la memoria, anch’essa struttura vivente e in divenire, e ambisce al tutto concluso, che è l’ambizione stessa del biografo di sé e che esige una stasi ultima. Nel System des transzendentalen Idealismus (1800), Schelling ci ricorda che
il carattere fondamentale della vita consiste nel suo essere una sequenza che ritorna in se stessa, fissata e mantenuta da un principio interno; e così come la vita intellettuale, di cui è l’immagine, ossia l’identità della coscienza, viene serbata unicamente dalla continuità delle rappresentazioni, analogamente la vita può essere serbata solo dalla continuità dei movimenti interni; e così come l’intelligenza, nella successione delle sue rappresentazioni, lotta costantemente per la coscienza, la vita similmente va pensata in un conflitto permanente contro il corso della natura, o nello sforzo di affermare contro di esso la sua identità13.
Dall’immagine della vita come sequenza che ritorna a se stessa e in conflitto permanente contro il corso della natura, nonché come “schema della libertà”, dal momento che si rivela nella natura, evinciamo tre sue caratteristiche fondamentali e ineludibili: la sua priorità assoluta, per cui la vita non è mai concepita in funzione delle sue forme vitali. Non è, cioè, il vivente ciò a partire da cui è possibile definire la vita ma è la nuda vita ciò a partire da cui è possibile definire e determinare il vivente. La sua progressione continua, per cui essa è passaggio o evoluzione interna al vivente la quale si esplica in una serie crescente di livelli di libertà culminanti nella coscienza umana, a sua volta in costante evoluzione per la particolare dialettica vigente tra interno ed esterno nell’uomo. Infine, la sua radicale difettosità: la carenza e la disarmonia provenienti dal conflitto permanente che la vita attua per sussistere contro il corso della natura, quindi contro se stessa, fa sì che il vivente (la natura), lungi dall’avere carattere sistematico, sia sottoposto a un logorante processo di evoluzione, variazione e metamorfosi, sfuggendo a qualsivoglia regola o legge logico-matematica della ragione umana.
23Vita è processo e mai prodotto: l’essere strutturalmente ed essenzialmente processo implica una continua perturbazione dell’equilibrio, quella lontananza dallo stato di quiete cui tende ogni materia e ogni prodotto. Vita è indeterminazione perpetua. La vita per affermare se stessa costantemente fugge dalla staticità della compiutezza, si nutre di mancanza e – in realtà – accentua il bisogno di mancanza, ricerca la condizione di mancanza, la quale va superata in una condizione successiva a sua volta mancante rispetto a quella ulteriormente successiva. Ecco perché la vita nutre in sé la malattia quale sua fondamentale componente, giacché è il rapporto dialettico della malattia con la salute a rendere possibile il perdurare costante dell’attività organica frenetica e della lotta della vita contro il corso della natura, il cui esaurimento coincide con la morte, l’autentica compiutezza in quanto venir meno della mancanza e del bisogno14.
24Queste caratteristiche del vivente spingono Isaiah Berlin a sostenere che la filosofia di Schelling sia – di fatto – una specie di vitalismo mistico:
Per lui la natura era anch’essa qualcosa di vivo, una sorta di autocreazione spirituale. Ai suoi occhi, il mondo comincia a esistere in uno stato di inconsapevolezza bruta, e gradatamente perviene alla coscienza di sé. Muovendo, com’egli dice, da inizi quanto mai misteriosi, dall’oscura, inconscia volontà in via di sviluppo, s’innalza a poco a poco all’autocoscienza. La natura è volontà inconscia; l’uomo è volontà pervenuta alla coscienza di sé. La natura esibisce vari stadi della volontà: ciascuno stadio della natura è la volontà in un qualche stadio del suo sviluppo. Dapprincipio ci sono le rocce e la terra, che sono la volontà in uno stato di totale inconsapevolezza […] Quindi la vita entra gradatamente nelle rocce e nella terra, dando luogo alle forme vitali originarie: le prime specie biologiche. Poi arrivano le piante, e dopo di esse gli animali – il progressivo formarsi dell’autocoscienza, il progressivo pulsare della volontà verso la realizzazione di un qualche tipo di fini. La natura persegue qualcosa, ma non sa di che cosa si tratta. L’uomo comincia a lottare, e diventa consapevole di ciò cui tende il suo sforzo. […] Se ogni cosa nella natura è vivente, e se noi stessi siamo semplicemente i suoi rappresentanti dotati di maggiore autoconsapevolezza, la funzione dell’artista è di scavare in se stesso, e soprattutto di scavare nelle forze oscure e inconsapevoli che si muovono dentro di lui, e di portarle alla coscienza mediante la più tormentosa e violenta lotta interna. Questa è la dottrina di Schelling. La natura fa lo stesso. In seno alla natura si svolgono lotte. Ogni eruzione vulcanica, ogni fenomeno, ad esempio il magnetismo e l’elettricità, viene interpretato da Schelling come la lotta per l’autoaffermazione di forze cieche, misteriose, che nell’uomo diventano semiconsapevoli15.
Berlin mette implicitamente in luce la dialettica tra autobiografia universale e autobiografia individuale, a partire da questa sorta di vitalismo mistico che riassume la filosofia della natura schellinghiana. Ma, leggere queste parole, tenendo conto delle caratteristiche che il filosofo attribuisce al concetto di vita, significa anche comprendere che il fallimento è dietro l’angolo: l’aspirazione della filosofia a realizzarsi come narrazione di un passato saputo, quindi come autobiografia universale dell’Assoluto, si scontra con il carattere provvisorio e processuale della vita, la quale dovrebbe smettere di divenire e quindi diventare un fatto concluso per permettere la realizzazione della corrispondenza passato-sapere-narrare. Pertanto, se è la corrispondenza passato-sapere-narrare a dare un senso a quella presente-conoscere-esporre, nella condizione in cui la vita è in divenire e quindi non è conclusa, occorre partire dal presente per ritrovare il passato. Occorre anteporre la dialettica alla narrazione. «Ciò evidenzia immediatamente – scrive Carchia a proposito del progetto dei Weltalter – la difficoltà di fondo dell’impresa in cui Schelling sta per cimentarsi: la sua filosofia vuol essere sapere, dunque narrazione, di un passato, dentro una storia che, poiché ancora in divenire, imperfetta, in attesa di compimento, non consente che il passato si lasci riconoscere in quanto tale. Da qui l’ambiguità di una filosofia che per ora può solo aspirare a essere narrazione e che, per questo è obbligata a fare ricorso alla dialettica»16.
25La dialettica è, infatti, lo strumento intellettuale della conoscenza del presente, che va esposto, per rimediare alle carenze costanti della vita in divenire, fino a quando questa non perverrà a conclusione. Il senso proprio della dialettica è quello di uno strumento momentaneo per trasformare la filosofia in narrazione e quindi per condurci all’autobiografia universale dell’Assoluto. L’equivalenza tra filosofia e autobiografia universale è un progetto che va conquistato e che non si può di fatto realizzare hic et nunc. La dialettica è legata alla corrispondenza presente-conoscere-esporre ed è provvisoria; essa è quanto di meno autobiografico ci possa essere.
26Se consideriamo la dialettica come separata dal carattere processuale della vita, quindi non intesa come strumento obbligatorio ma puramente momentaneo, la filosofia è costretta a fermarsi alla sola corrispondenza presente-conoscere-esporre, senza presupporre un suo passato da ricostruire. La sola dialettica ci fa conoscere, quindi esporre, un presente intorpidito senza passato, una natura senza un fondamento, quindi un conscio privo di inconscio. In tal modo, la dialettica è un mero meccanismo astratto, fermo all’analisi formale dei protocolli, il quale non coglie il carattere processuale – “vivente” – della vita, fermandosi alla sterilità di un resoconto antropocentrato. In ciò consiste propriamente la rappresentazione, che caratterizza la filosofia trascendentale di stampo soggettivistico: essa, appiattendosi sulla dialettica, non è in grado di arrivare alla vera scienza «proprio perché ignora la genesi dell’Io nel Non-Io, ignora cioè storia e natura, caratterizzandosi come filosofia priva di vita»17. Non comprende che l’essere non è costruito dal pensiero, ma è fornito al pensiero, il quale lo deve ricostruire. Scrive Schelling a proposito: «l’immagine finora invalsa della scienza è stata quella secondo cui essa sarebbe una mera sequenza, un mero sviluppo di nozioni e di idee sue proprie. L’immagine esatta è, invece, che in essa si presenta lo sviluppo di un essere vivente e reale»18. Ogni filosofia che non ne tiene conto, quindi ignora il divenire e la processualità con cui si identifica il vivente, può essere considerata come un semplice abuso del prezioso dono della parola e del pensiero.
27La differenza schellinghiana tra buona filosofia e cattiva filosofia si comprende attraverso la differenza tra salute e malattia: come la salute nella vita di tutti i giorni è fondata sulla progressione, sul divenire della vita e la malattia corrisponde esattamente all’improvviso blocco di tale progressione, a un presente che fa fatica ad uscire dall’istante (malattie dello sviluppo), così la filosofia salubre è quella che sa che il suo compito è aderire alla processualità della vita in vista della narrazione finale come un raccontar di sé. La filosofia deve unire i mezzi di conoscenza del presente (l’esposizione) a una continua ricostruzione del passato (narrazione), fino a quando non ci sarà più la necessità dell’esposizione e rimarrà la sola narrazione-ricostruzione19.
28Il carattere autobiografico proprio della filosofia è strettamente legato al valore fornito al passato come intimità, interiorità, inconscio. Pertanto, separare la dialettica del presente dalla narrazione del passato significa avere uno sguardo limitato, che si limita cioè all’astrattezza concettuale e impersonale del protocollo, dell’analisi formale senza l’appoggio di quel passato, la cui ricostruzione è a fondamento della conoscenza del presente. La filosofia trascendentale non capisce che non ci può essere esplicito (conoscenza e non sapere) senza implicito (inconscio che è sapere e non conoscenza). «La maggior parte degli uomini – conclude Schelling – si distolgono da ciò che è nascosto nel loro intimo, non meno che dalle profondità della vita in generale, evitando di gettare lo sguardo sugli abissi di quel passato che in loro si comporta anche troppo come presente»20.
29La difficoltà suprema del pensiero per Schelling consiste – alla luce di quanto detto – nell’essere in movimento e in quiete, dentro e fuori la storia, calato nel particolare ma anche spettatore di tale particolare: «non a tutti è dato sapere la fine, a pochi di vedere i primi inizi della vita, a meno ancora di pensare in maniera esaustiva l’Intero, dal primo momento all’ultimo delle cose»21. E, come detto, il concetto di auto-descrizione proprio del filosofare lega l’universale all’individuale, l’infinito al finito. La storia universale si ricapitola in quella dell’individuo.
30Il collegamento tra l’autobiografia universale e quella individuale è contenuto in questo tipo di ragionamenti, tenendo anche conto del carattere proprio dell’Assoluto quale Uno-Tutto, quale anima universale che raggiunge ogni singolo individuo, che unisce il grande e il piccolo, che tiene insieme il macrocosmo con il microcosmo: «all’uomo va riconosciuto un principio che è esterno e superiore al mondo; altrimenti come potrebbe l’uomo, unica fra tutte le creature, ripercorrere il lungo cammino evolutivo dal presente fin nella più profonda notte del passato?»22. Qualche anno prima, in Philosophie und Religion (1806), Schelling evidenzia l’impossibilità di cogliere l’Assoluto tramite definizioni, concetti e astrazioni, ma principalmente per mezzo di un’intuizione: «questa intuizione non può essere data in modo universale, simile a quella di una qualsiasi figura geometrica, ma è qualcosa di particolare e caratteristico per ogni anima, come l’intuizione della luce per ogni occhio: si ha qui una rivelazione soltanto individuale, eppure altrettanto universale in quest’individualità, quanto lo è la luce per il senso empirico»23.
31Ecco perché è certo che chi fosse in grado di scrivere la storia della propria vita, a cominciare dal suo fondamento, con ciò stesso avrebbe brevemente riassunto tutta la storia dell’universo.
b) Il carattere definitivo al racconto di sé è dato solo dalla morte, aspetto altamente problematico visto che dopo la morte non c’è più un io narrante che dà forma ultima all’io narrato.
32Il compito dell’autobiografia, dare un senso definitivo e totale alla narrazione di sé, si può realizzare paradossalmente soltanto dopo la propria morte, tenendo conto delle caratteristiche specifiche della vita. E ciò vale a livello individuale come a livello universale. L’uomo-microcosmo, l’uomo-eterno frammento di Schelling è, a differenza del soggetto fichtiano e della res cogitans cartesiana, il prodotto perennemente instabile e asimmetrico della realtà che lo circonda. È un soggetto “scabroso”, quello – per esempio – di cui parla Žižek in riferimento a Badiou24, costretto a servire una “verità” che sempre lo trascende. Il rispecchiamento reciproco tra finito e infinito, all’interno di una realtà in cui l’unico protagonista è l’Assoluto coincidente con la vita stessa, fa sì che l’autonoma attività umana nel processo di formazione personale sia controbilanciata, in altre parole, dalla dipendenza da fattori ambientali ed esistenziali esterni.
33L’antropologia di Schelling è, in un certo qual modo, il precedente metafisico di quel rapporto di dipendenza/indipendenza dell’uomo dall’ecosistema sociale e dall’ecosistema naturale, a cui fa riferimento Edgar Morin quando descrive le rivoluzioni biologiche ed ecologiche del xx secolo25. Un precedente metafisico, poiché la dialettica tra auto-poiesi ed etero-determinazione nell’uomo è condizionata da irrequietezze primordiali e mitologiche che evidenziano la concezione panteistica dell’universo, in cui l’istinto e l’incoscienza mai si distinguono del tutto dal raziocinio e dalla coscienza: non c’è razionalità senza radici piantate nel terreno dell’inconsapevolezza né istintività prive di un qualche bagliore di intellezione. La coscienza dell’uomo è una proprietà che emerge progressivamente da uno specifico insieme di condizioni, dalle quali mai può emanciparsi e con cui deve fare i conti lo stesso libero arbitrio. Questo emergere inteso come venire alla superficie implica, cioè, un ché da cui si proviene e a cui si rimane strettamente legati giacché elemento indissolubilmente inseparabile dal nostro stare al mondo. Esso è ciò che garantisce il carattere panteistico del Tutto e che spiega perché tutti i processi della vita umana, da quelli inconsci a quelli pienamente consci, sono corrispondenti ai processi della vita universale e chi fosse in grado di scrivere la storia della propria vita, a cominciare dal suo fondamento, con ciò stesso avrebbe brevemente riassunto tutta la storia dell’universo. Ma, come detto, in vita ciò non è possibile. Motivo per cui la morte è il sigillo della perfezione:
se la pianta non crescesse fino al fiore e se non fosse limitata dall’esterno, cosa che non è assolutamente pensabile nel caso dell’universo, allora crescerebbe all’infinito. Ogni vivente può essere compiuto solo da un limite che gli doni un senso, ed è per questo che sarei pronto ad affermare che la testa, in un uomo, è l’alto, anche se non camminasse eretto, e in modo generale ammetterei sempre l’esistenza di un vero alto e di un vero basso, così come di una vera destra e di una vera sinistra, di un dritto e di un rovescio. In generale, ciò che è compiuto è migliore e più eccellente di ciò che è illimitato, anzi: nell’arte questo è il sigillo della perfezione26.
Nella condizione presente, l’autobiografia va intesa come crisi, in perenne bilico tra il compimento e la frammentarietà, dal momento che ogni accadere comincia nel buio, è destinato a finire e si può comprendere veramente solo quando l’intero corso degli avvenimenti si è compiuto. L’intreccio inestricabile di autobiografia universale e autobiografia individuale si regge sulla frammentarietà e sul senso della morte: come la fine della vita in generale permette la realizzazione della filosofia come autobiografia universale, quindi come narrazione del passato saputo, così la fine della vita individuale è quel sigillo della perfezione che rende possibile l’autobiografia del singolo individuo, un’autobiografia che riassume brevemente tutta la storia dell’assoluto. Negli studi contemporanei di psicopatologia, così come in alcune forme di psichiatria fenomenologica, si vede nella morte l’evento decisivo per completare la biografa dell’individuo: come il sipario a teatro evidenzia la fine dello spettacolo e ne fissa definitivamente le caratteristiche, così la morte è il sigillo della perfezione per l’autobiografo. La morte è ciò che definisce il tratto ultimo dell’autobiografa individuale, dunque universale.
34Quindi la vita stessa, come indeterminata e incompiuta, definisce il carattere proprio dell’Assoluto per Schelling e dell’uomo-microcosmo, nonché evidenzia l’impossibilità – di fatto – di realizzare pienamente sia l’autobiografia universale sia l’autobiografia individuale. Dimostrando, tra l’altro, il perché implicito del fallimento del progetto dei Weltalter.
Notes de bas de page
1 Ho ricostruito recentemente il pensiero filosofico di Schelling, mettendo in discussione le caratteristiche di “camaleonte” e “traghettatore” attribuitegli generalmente dalla storia della filosofia, nel fascicolo Schelling. Tra natura e malinconia, pubblicato per la collana Scoprire la filosofia Milano, Hachette Editore, 2016.
2 F.W.J. Schelling, Die Weltalter. Erstes Buch, in Sämmtliche Werke, hrsg. v. K.F.A. Schelling, Stuttgart-Augusta, Cotta, 1856-1861, Bd. viii, p. 207 [trad. it. Le età del mondo, Napoli, Guida, 2000, pp. 47-48].
3 G. Carchia, Filosofia come narrazione. Note su un paradigma schellinghiano, in Id., L’amore del pensiero, Macerata Quodlibet, 2000, p. 60.
4 Ibid.
5 F.W.J. Schelling, Die Weltalter cit., p. 199 [trad. it. Le età del mondo cit., p. 39].
6 L’uomo come eterno frammento è tratteggiato in F.W.J. Schelling, System des transzendentalen Idealismus, in Sämmtliche Werke cit., Bd. iii, p. 608 [trad. it. Sistema dell’idealismo trascendentale, Milano, Rusconi, 1997, p. 541]. A proposito rimando al mio Schelling e la narrazione post-trascendentale. La natura come radice magmatica del pensiero, «Trópos. Rivista di ermeneutica e critica filosofica», vi, (2013), 2, pp. 89-108.
7 F.W.J. Schelling, Fernere Darstellungen aus dem System der Philosophie, in Sämmtliche Werke cit., Bd. iv, p. 346 [trad. it. Ulteriori esposizioni tratte dal sistema della filosofia, in Filosofia della natura e dell’identità. Scritti del 1802, a cura di C. Tatasciore, Milano, Guerini e associati, 2002, p. 74].
8 Id.,Aphorismen zur Einleitung in die Naturphilosophie, in Sämmtliche Werke cit., Bd. vii, p. 173 rad. it. Aforismi introduttivi alla filosofia della natura, in Aforismi sulla filosofia della natura, a cura di G. Moretti e L. Rustichelli, Milano, Egea, 1992, p. 65].
9 Id., Clara oder über den Zusammenhang der Natur mit der Geisterwelt. Ein Gespräch. Fragment, in Sämmtliche Werke cit., Bd. ix, p. 74 [trad. it. Clara, Rovereto, Zandonai, 2009, p. 78].
10 P. Lejeune, Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 12.
11 Questa definizione è un arrangiamento personale della bella definizione data da M.A. Mariani nel suo libro Sull’autobiografia contemporanea, Roma, Carocci, 2011, p. 9 (l’autobiografia come «il racconto della memoria che un individuo ha di sé»). Un riassunto esplicativo, da parte dell’autrice, si può leggere qui: M.A. Mariani, Una teoria dell’autobiografia, «Le parole e le cose», 20 gennaio 2012, http://www.leparoleelecose.it/?p=2984.
12 Cfr. G. Carchia, Filosofia come narrazione. Note su un paradigma schellinghiano cit. Si veda anche il mio testo Impulso a essere di casa ovunque: la filosofia come narrazione, in L. Candiotto, F. Gambetti (a cura di), Il diritto alla filosofia. Quale filosofia per il terzo millennio?, Bologna, Diogene Multimedia, 2016, pp. 221-227.
13 F.W.J. Schelling, System des transzendentalen Idealismus cit., p. 496 [trad. it. Sistema dell’idealismo trascendentale cit., p. 339].
14 A proposito si veda il mio Narrare la morte. Dal romanticismo al post-umano,.Pisa, ETS, 2013.
15 I. Berlin, The Roots of Romanticism, Washington D.C., The Trustees of the National Gallery of Art, 1999 [trad. it. Le radici del romanticismo, Milano, Adelphi, 2001, pp. 155-156]. Corsivo nostro.
16 Cfr. G. Carchia, Filosofia come narrazione. Note su un paradigma schellinghiano cit., p. 60.
17 Ivi, p. 61.
18 F.W.J. Schelling, Die Weltalter cit., p. 199 [trad. it. Le età del mondo cit., p. 39].
19 Ivi, p. 261 [trad. it., p. 97].
20 Ivi, p. 247 [trad. it., p. 48].
21 Ibid.
22 Ivi, p. 200 [trad. it. p. 40].
23 F.W.J. Schelling, Philosophie und Religion, in Sämmtliche Werke cit., Bd. vi [trad. it. Filosofia e religione, in Id., Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Milano, Mursia, 1974, p. 44].
24 Cfr. S. Žižek, The Ticklish Subject. The Absent Centre of Political Ontology, London,Verso, 2000 [trad. it. Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Milano, Cortina, 2003, p. 159].
25 E. Morin, Le paradigme perdu: la nature humaine, Paris, édition du Seuil, 1973 [trad. it. Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 28-29].
26 F.W.J. Schelling, Clara cit. [trad. it. Clara cit., pp. 104-105, corsivo nostro].
Auteur
Università degli Studi di Torino
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