Lazare Carnot e la Metafisica del calcolo infinitesimanle
p. 3-23
Texte intégral
1. Il Settecento e l’infinito
1Si può concordare con Felix Klein che i matematici settecenteschi, in quanto troppo “creativi”, furono scarsamente critici e quindi poco propensi a porsi domande sul calcolo infinitesimale? Klein aveva sollevato la questione del rapporto tra matematica e immaginazione creativa, proiettandola sul Settecento e sulla questione dell’infinito1. Di opposto parere Adolph P. Youschkevitch dell’Istituto di Storia delle scienze e della tecnica di Mosca, per il quale invece i matematici settecenteschi, ben consci dell’ambiguità dei concetti implicanti l’infinito (“infinitamente grande/infinitamente piccolo”) seguitavano a interrogarsi sulla “metafisica del calcolo infinitesimale”, cioè sui fondamenti del calcolo, pur senza raggiungere alcun accordo. Un principio più o meno tacitamente accolto lasciava però intendere che si potessero trascurare i termini infinitamente piccoli, o più precisamente che fosse possibile «the omission of all higher order terms from expressions and relationships containing infinitely small quantities of various orders»2.
2Secondo un topos che si trova di frequente nella storia della matematica dell’infinito, a differenza del Seicento, “secolo della ragione”, il Settecento ripiegava sul “pratico”, e l’infinito veniva considerato con diffidenza. Nel Dictionnaire philosophique, Voltaire sosteneva che si potesse avere soltanto «une idée très confuse» dell’infinito: «Qui me donnera une idée nette de l’infini?»3. Per non parlare poi dell’infinito aritmetico:
Nous avons beau désigner l’infini arithmétique par un lacs d’amour en cette façon ∞, nous n’aurons pas une idée plus claire de cet infini numéraire. Cet infini n’est, comme les autres, que l’impuissance de trouver le bout. Nous appelons l’infini en grand un nombre quelconque qui surpassera quelque nombre que nous puissions supposer4.
In genere, per Voltaire, si trattava del problema di far quadrare le curve: o per mezzo delle tangenti (come intendeva Cartesio) o con la regola de maximis et minimis (secondo Pierre de Fermat). Con il calcolo differenziale e il calcolo integrale Newton aveva cercato di assoggettare l’infinito all’algebra, ambiti già rivendicati rispettivamente da Leibniz e da Bernoulli. Ma trattando l’infinito con il calcolo, si ammisero infiniti più grandi degli altri, definiti da Leibniz incomparables, e organizzati da Bernard Le Bovier de Fontenelle in différens ordres «sans aucun ménagement»5. Nell’Éloge de M. le Marquis de l’Hôpital (1704) Fontenelle ammetteva che «jusque-là, la Géometrie des Infinement petits n’étoit encore qu’une espece de Mystere, &, pour ainsi-dire, una Science Cabalistique renfermée entre cinq, ou six personnes»6. Con L’analyse des infiniment petits (1696) Guillaume de L’Hôpital aveva svelato i segreti dell’infinito geometrico, cioè di quegli ordini differenti di infinito che si innalzano gli uni sugli altri, formando l’edificio più ardito e stupefacente che lo spirito umano potesse mai immaginare.
3In realtà, più che dell’infinito, sembra che il Settecento sia stato il secolo della “metafisica” dell’infinito. D’Alembert aveva compilato la voce Infini in geometria per l’Encyclopédie, e in vari luoghi era intervenuto sul tema. Nell’Éclaircissement sui principi metafisici del calcolo infinitesimale e negli Éléments de Philosophie (1759) aveva messo in guardia sull’«usage et l’abus de la métaphysique»7, che facevano confondere l’infinito con l’indefinito. Fontenelle, invece, si era proposto «de donner la métaphysique de cette géometrie, et de déduire de cette métaphysique, sans employer presque aucun calcul, la plupart des propriétés des courbes»8, e già qui si ravvisavano gli elementi discordanti insiti in questo concetto, poiché se la grandezza infinita («celle qui est plus grande que toute grandeur assignable») non esiste in natura, allora essa «n’est proprement que dans notre esprit», in virtù di una sorta di astrazione: quindi l’idea che ce ne formiamo è assolutamente negativa. Nell’xi Éclaircissement d’Alembert lamentava che la maggior parte dei filosofi aveva trascurato i principi fondamentali o li aveva presentati in maniera très-fausse9, e così quella metafisica era diventata ténébreuse, «obscure et contentieuse»10.
4Si capisce allora che le questioni spinose derivavano non solo da lacune e/o imprecisioni in merito alle definizioni, ma anche dagli effetti della tensione irrisolta tra Leibniz e Newton, una querelle amplificata tra i loro seguaci, circa la questione della priorità della scoperta del calcolo, nonché della superiorità dell’uno sull’altro11.
2. Una difficile eredità
5Per i matematici tra Sei e Settecento si trattava di trovare un metodo uniforme al fine di determinare la tangente a una qualunque curva, e lo stesso valeva per la quadratura, giacché si doveva trovare una procedura per “quadrare” una figura delimitata da una qualsiasi curva. La Nova Methodus di Leibniz consisteva nel calcolare “i massimi e i minimi”, come pure le tangenti (cioè le distanze minime e massime tra curve e tangenti) per mezzo dei differenziali che andavano intesi non tanto come una differenza nelle quantità, quanto piuttosto come proporzionali alle differenze, e consistevano dunque in incrementi infinitamente piccoli dei valori di variabili che cambiavano continuamente12. L’eccellenza del nuovo calcolo consentiva di trovare la tangente: «modo teneatur in genere, tangentem invenire, esse rectam ducere, quae duo curvae puncta distantiam infinite parvam habentia jungat, seu latus productum polygoni infinitanguli, quod nobis curvae aequivalet»13, dove «tangentem invenire» significa tracciare una retta che congiunga due punti con distanza infinitamente piccola, o prolungare il lato del poligono infinitangolo, con un numero infinito di lati, ciascuno infinitesimo, i quali – tramite gli angoli tra essi formati – determinano la curvatura della linea, e pertanto equivalgono a una curva. Con Leibniz si entrava così «nel mondo degli infinitesimi»14, una scelta che non fu del tutto compresa nel secolo successivo, con un lungo strascico fino al Novecento.
6In effetti, il nuovo e potente metodo eliminava i calcoli lunghi e tortuosi, sgraditi a Leibniz («les calculs m’incommodent, quand même ils sont assez petits»)15, e che tra l’altro non si potevano applicare a “tutte’’ le curve. Ora le equazioni risultavano purgées e il nuovo algoritmo, di mirabile comodità, si serviva dell’algebra, liberando l’immaginazione dall’osservazione delle figure geometriche. In questo modo Leibniz interveniva a gamba tesa nella discussione sulla “metafisica” del calcolo. Non occorreva una metafisica per giustificare quel calcolo, né si ponevano problemi circa l’esistenza degli infinitesimi o se il loro uso fosse affidabile16. Quando sosteneva che «au lieu de l’infini ou de l’infiniment petit, on prend des quantités aussi grandes et aussi petites qu’il faut pour que l’erreur soit moindre que l’erreur donnée» faceva intendere che «on n’a pas besoin de prendre ici l’infini à la rigueur»17, bensì solo come avviene in ottica, quando si dice che i raggi solari provengono da un punto infinitamente lontano. Non era necessario fondare l’analisi su assunzioni metafisiche e, ancorché non reali, le quantità infinitesimali potevano essere ammesse almeno come entità fittizie ben fondate18.
7Le novità introdotte dal nuovo calcolo furono apprezzate e applicate dai suoi divulgatori. Per Guillaume de L’Hôpital, nel 1696, solo ora con la scoperta dell’analisi si erano capite l’estensione e la fecondità dell’idea di trattare le curve come poligoni. Non furono da meno i fratelli Bernoulli, i quali, temendo all’inizio di non aver perfettamente compreso il verbo leibniziano, non volevano passare per falsi evangelisti. Newton si accostò a questi problemi, ma con un’impostazione totalmente differente. Con i concetti di motus, fluxus continuus, rotationes egli aveva in mente una concezione “meccanica” della geometria. Le variabili erano grandezze, le quantità matematiche «ut moto continuo descriptas»19, le linee ottenute «non per appositionem partium», bensì «per motum continuum Punctorum», le superfici generate dal movimento delle linee, i solidi dalle superfici, gli angoli dalla rotazione dei lati, i tempi da un flusso continuo. Trattando le curve come quantità variabili nel tempo, le variabili diventavano fluenti, quantità che crescono continuamente e indefinitamente («fluens est quod continua mutatione augetur vel diminuitur»), e flussioni erano le velocità con cui ogni fluente è aumentata dal moto che la genera20. Newton non aveva alcuna idea delle quantità infinitamente piccole, e le flussioni consentivano di procedere quanto più possibile per quantità finite, poiché la natura stessa genera quantità per un flusso o aumento continuo.
8Frattanto, nel quadro sempre più articolato del dibattito a cavallo dei due secoli, l’uso delle serie infinite secondo l’impostazione newtoniana sfociò in una crisi della matematica in Inghilterra21. La situazione appariva invece più vivace in Francia, dove i matematici crescevano non tanto nelle università, quanto piuttosto nelle accademie e nella scuola del genio militare. Nondimeno, in seno all’Académie des Sciences, all’inizio del secolo, si sviluppò una forte opposizione nei confronti del calcolo differenziale da parte di un gruppo di matematici, tra cui spiccavano Michel Rolle e padre Thomas Gouye22.
9A chiudere la discussione provvide (per il momento) George Berkeley, il quale con il suo The Analyst; or, a Discourse to an Infidel Mathematician (che forse era l’astronomo Edmund Halley) (1734) riservò critiche agli uni e agli altri. Al calcolo delle flussioni, come era stato concepito da Newton. E al concetto stesso di infinitesimo e ai suoi fondamenti. Ai leibniziani Berkeley rimproverava di applicare la regola di cancellazione degli infinitesimi (x+dx=x), che poteva esser valida solo ammettendo dx uguale a 023. Le sue osservazioni furono recepite come le ovvie critiche di un empirista, il quale non poteva ammettere un’espressione priva di riferimento oggettivo qual era l’infinitesimo, un concetto ritenuto contradittorio, poiché – si diceva – una grandezza non può essere diversa da 0 e, al tempo stesso più piccola di qualsiasi grandezza finita. Ma per Berkeley non esistevano cose o entità, bensì soltanto spiriti, tanti spiriti finiti e uno infinito “parlante” a quelli finiti, non già per rivelare entità, che non esistono, bensì per lanciare messaggi. Per gli empiristi molte idee andavano interpretate pragmaticamente, secondo l’uso che se ne poteva fare; e questo valeva soprattutto per le entità fittizie. Per concludere, la critica di Berkeley contribuì a stimolare il dibattito tra i matematici, facendo emergere vieppiù le debolezze del calcolo costruito sull’uso di quantità infinitamente piccole.
3. La “nuova” metafisica
10Se pure la fine della crisi era di là da venire, nella seconda metà del Settecento la metafisica del calcolo infinitesimale assunse un diverso significato. Non si trattava più della questione ontologica che contrapponeva accademici realisti e leibniziani. Quella disputa, che all’Académie des sciences era stata vinta, secondo Morris Kline, dai leibniziani «with vigor but without rigor»24, ora riguardava il rigore delle regole del calcolo stesso. A questo cambiamento fondazionale avevano contribuito personaggi del calibro di Condorcet, Laplace, Lagrange e Gaspard Monge, che fu tra i fondatori dell’École polytéchnique. Joseph-Louis Lagrange aveva pubblicato lezioni per i diversi livelli dei corsi, e il suo testo per l’insegnamento nella scuola polytéchnique, Théorie des fonctions analytiques, fu una delle opere più studiate da intere generazioni di allievi, il più preciso tentativo di sistemazione dell’analisi prima di Augustin Cauchy. Il 1797, data della sua pubblicazione, fu definito l’anno “de la rigueur”, poiché coincise anche con la pubblicazione delle Réflexions sur la métaphysique du calcul infinitésimal di Lazare Carnot. Nel nuovo secolo non si studiavano più soltanto le curve, bensì le superfici, con la nascita della geometria analitica solida. Monge aveva introdotto la geometria descrittiva, che mirava a dare una risoluzione grafica ai problemi di intersezione tra volume e superfici25.
11Nel 1748, anche Eulero aveva dato il proprio contributo al calcolo infinitesimale, affinché non si formassero idee false sull’infinito. Al tal fine, intendeva liberarlo da ogni rappresentazione geometrica, fondandolo su una ben stabilita teoria delle funzioni26. Tra gli enciclopedisti, d’Alembert aveva descritto lo stato dell’arte dell’analisi infinitesimale, ripercorrendone la storia. Nella voce dedicata al Calcul différentiel (1754) dell’Encyclopédie, si leggeva che «c’est la manière de différentier les quantités, c’est-à-dire de trouver la différence infiniment petite d’une quantité finie variable». Mentre Leibniz aveva considerato «les grandeurs infiniment petites comme les différences des quantités finies», Newton con la sua méthode des fluxions assumeva «les quantités infiniment petites pour des fluxions ou des accroissements momentanés». D’Alembert aveva intuito che la metafisica del calcolo differenziale era persino più difficile da sviluppare che non le regole del calcolo stesso. Embarassé dalle obiezioni che potevano derivargli dalle quantità infinitamente piccole, Leibniz le aveva ridotte a incomparables, una strategia che però aveva finito con il danneggiare l’esattezza geometrica dei calcoli. Newton invece ricorreva a une méthode des premières et des dernières raisons per trovare i limiti dei rapporti. Ora per d’Alembert, l’infinitesimo non era più una quantità assoluta e attuale, e poteva esser considerato un numero tanto piccolo quanto si voleva. Ma, alla fine, flussioni e differenziali erano solo abbreviazioni per evitare gli impicci delle espressioni che derivavano dall’impiego del concetto di limite («pour abréger et simplifier les raisonnements»), il quale era ben lungi dall’esser definito in maniera rigorosa. Difatti il linguaggio di d’Alembert restava geometrico: il cerchio è il limite dei poligoni inscritti e circoscritti, ma non si confonde mai con essi, per quanto questi possano avvicinarsi al cerchio infinitamente:
On dit qu’une grandeur est la limite d’une autre grandeur, quand la seconde peut approcher de la première plus près que d’une grandeur donnée, si petite qu’on la puisse supposer, sans pourtant que la grandeur qui approche, puisse jamais surpasser la grandeur dont elle approche; en sorte que la différence d’une pareille quantité à sa limite est absolument inassignable27.
Eppure, questa primitiva teoria dei limiti costituiva «la base de la vraie métaphysique du calcul differenciel».
12Al di là di tutte queste difficoltà, dal calcolo infinitesimale derivavano applicazioni ormai indispensabili per misurare con precisione la natura. Ancorché imperfetti, questi strumenti erano applicati con successo in meccanica, in ottica e astronomia, in artiglieria, dinamica e idrodinamica. Si consolidò l’idea, già presente nel mondo greco, che la natura fosse regolata da principi di minimo. Per Eulero, la natura era stata costruita nel modo più perfetto possibile da un Creatore infinitamente saggio («Cum enim Mundi universi fabrica sit perfectissima, atque a Creatore sapientissimo absoluta, nihil omnino in mundo contingit, in quo non maximi minimive quaepiam eluceat»)28. Il movimento nella natura diventava calcolabile ; l’universo non appariva più stabile in sé stesso, ma diventava “afferrabile” nella sua mobilità ed estensibilità. Ciononostante, i problemi fondazionali della metafisica dell’infinito non avevano mai smesso di far discutere, e le regole dell’analisi infinitesimale erano soltanto “intuitivamente” sicure, al punto che d’Alembert, nella conclusione del suo saggio sui numeri negativi apparso nell’Encyclopédie, sottolineava che le regole algebriche delle operazioni con quei numeri erano soltanto generalmente ammesse e approvate come esatte («reçues généralement comme exactes»).
13Ai matematici della “rivoluzione” sarebbe toccato il compito di trovare nuove soluzioni.
4. Il concorso dell’Accademia di Berlino
14È noto che, al di là dei variegati interessi nell’algebra, nella teoria dei numeri e in meccanica, Lagrange continuasse a essere affascinato dalla metafisica del calcolo infinitesimale. Accogliendo una sua proposta, la sezione di matematica dell’Accademia Reale di Scienze e Belle Lettere di Berlino (della quale Lagrange fu presidente tra il 1766 e il 1787) in una pubblica riunione del 3 giugno 1784, formulò un quesito circa il concetto di infinito in matematica, il cui impiego, quantunque utilissimo nelle scienze, restava controverso.
15Stabilito che: «L’utilité qu’on retire des Mathématiques, l’estime qu’on a pour elles, & l’honorable dénomination de Sciences exactes par excellence qu’on leur donne à juste titre, sont dues à la clarté de leurs principes, à la rigueur de leurs démonstrations, & à la précision de leurs théorèmes», gli accademici intendevano assicurare «la continuation de ces précieux avantages», e pertanto la Classe de Mathématique richiedeva: une théorie claire & précise de ce qu’on appelle Infini en Mathématique. A tal fine occorreva «un principe sûr, clair, en un mot: vraiement mathématique»29. Il concorso, il cui terme venne fissato per il I gennaio 1786, si rivolgeva ai Savants de tout pays, esclusi i membri dell’Accademia, e il premio consisteva in una medaglia d’oro del valore di 50 ducati. I contributi dovevano essere anonimi, contrassegnati però da une devise, accompagnata da un biglietto sigillato con i dati personali.
16Alla commissione giunsero 23 memorie (delle quali 21 sono tuttora conservate negli Archivi centrali dell’Accademia delle scienze di Berlino – tranne la settima e la diciottesima, che andarono perdute), che furono esaminate dalla sezione dei matematici capeggiata da Lagrange. La decisione finale unanime, presentata in una seduta pubblica dell’Accademia il I giugno 1786, stabilì che nessuno aveva ottemperato alle succitate regole di chiarezza, semplicità e rigore. Difatti, a giudizio della commissione, la maggior parte dei partecipanti aveva trattato unicamente il calcolo infinitesimale, laddove il principio richiesto doveva potersi applicare anche all’algebra e alla geometria. Il quesito era rimasto insoluto, e soltanto uno dei partecipanti sembrava essersi avvicinato più degli altri ai desiderata del bando: era il ginevrino Simon L’Huilier, autore di un saggio in francese recante il motto L’infini est le gouffre où s’absorbent nos pensées (tratto dall’Histoire de l’astronomie moderne di Jean Sylvain Bailly)30. Pubblicato dall’Accademia nello stesso anno, fu giudicato da Lagrange «le meilleur d’un mauvais lot»31.
17Quantunque corretto il parere che il contributo di L’Huiler non fosse particolarmente originale, stupisce però il giudizio tranchant, secondo il quale nessuno dei partecipanti era riuscito a spiegare il principio dell’analisi infinitesimale, cioè come da una supposizione contradittoria si potessero derivare teoremi validi. A giudizio degli storici della matematica contemporanei, il lavoro di Lazare Carnot si distingueva nettamente tra gli altri nel soddisfare i desiderata del bando. Fin dal Sommaire, Carnot dimostrava infatti di aver colto il nocciolo della questione, laddove osservava che i risultati dell’analisi infinitesimale erano della più perfetta esattezza: gli errori commessi nell’espressione delle condizioni di un problema si annullavano «par une suite nécessaire et infallible des opérations du calcul»32.
5. Il “mystère” Carnot
18A leggere tra le righe, sullo sfondo di questa vicenda, si annida ben più di un mistero. Innanzitutto, come si è arrivati a scoprire che Carnot era autore di “quel” manoscritto? Merito del matematico Youschkevitch, appassionato cultore del fisico-matematico francese. Fin dagli anni Venti, un suo insegnante nell’Università di Mosca raccomandava a lezione le Réflexions di Carnot33. Youschkevitch seguì le tracce di una correlazione tra le Réflexions e la Dissertation dell’Accademia di Berlino. Ma già nel 1908 Giulio Vivanti, a quel tempo professore nell’Università di Messina, aveva intuito che le Réflexions di Carnot potessero essere una versione del saggio inviato al concorso34. A Carnot e alle sue avventure si interessò poi il grande storico della scienza Charles Coulston Gillispie, ammiratore di tutta la famiglia Carnot, che si era distinta in un’epoca di grandi trasformazioni scientifiche, e soprattutto nella meccanica. In particolare Lazare, padre di Sadi uno dei fondatori della termodinamica, era stato allievo di Monge, ufficiale del genio e teorizzatore della guerra difensiva, nonché collega di Robespierre all’Académie d’Arras. Nel 1783 aveva pubblicato un Essai sur les machines en général, nel quale enunciava alcuni principi basilari della meccanica, tra cui quello della conservazione della forza viva e quello della continuità nella trasmissione dell’energia.
19Grazie alla collaborazione dei discendenti di Carnot, durante un soggiorno nel 1964 nella casa natale a Nolay nella Côte d’Or35, Gillispie poté consultare una lettera non pubblicata inviata al traduttore tedesco, Johann Karl Friedrich Hauff36, nella quale il matematico francese rivelava che le Réflexions erano il seguito del saggio sottoposto all’Accademia. Gillispie nel 1968 ne parlò con Youschkevitch, il quale proseguì le ricerche nella DDR. Esaminando i manoscritti conservati nell’archivio centrale dell’accademia berlinese, fu individuato quello che «without any doubt» risaliva a Carnot (catalogato AAW:1261-62, Preisschrift N 5 für das Jahr 1786). Al manoscritto era allegata la lettera (anonima, dell’8 settembre 1785, proveniente da Arras, residenza di Carnot) indirizzata al segretario permanente dell’Accademia, Johann Heinrich S. Formey, nella quale Carnot illustrava il proprio lavoro37.
20La Dissertation sur la théorie de l’infini mathématique, di 90 pagine, recava il motto: «Celui-là seul peut juger sainement des choses, qui sait éviter l’abus des mots», ed è più ampia delle successive Réflexions. Nei primi 36 paragrafi, sono introdotte le nozioni fondamentali dell’analisi infinitesimale, la più efficace «pour pénétrer dans la connaissance de loix de la nature»38, scomponendo i corpi e le quantità nei loro elementi. Siccome tutto ciò che è estremo «échape aux sens et à l’imagination», di quegli elementi si avrà solo un’idea imperfetta. Ora si tratta di véritables quantités, ora – in quanto absolument nuls – sembrano tenir le milieu entre la grandeur et le zéro, tra l’essere e il nulla. I geometri ne avevano fatto le plus heureux usage, pur senza approfondire il concetto, mentre i filosofi si sforzavano di risalire ai principi. Ma che cos’è una quantità infinitamente piccola? È la differenza di due grandezze aventi per limite una terza grandezza, che è sempre una quantità effettiva, quindi né 0 né 1/0. Ogni volta che due quantità qualsiasi hanno per limite o dernière valeur una raison d’égalité, si nota che esse differiscono infiniment peu. Infinitesimali invece sono quelle quantità i cui limiti o dernières valeurs sono 0 o 1/0: le prime infinitamente piccole, le seconde infinitamente grandi. L’esattezza del calcolo deriva dal fatto che gli errori «se détruisent d’elles-mêmes par une compensation, qui est une suite necessaire et infallible des opérations du calcul»39. E questa compensazione avverrebbe in ogni caso, qualunque valore si attribuisca alle quantità denominate infinitamente piccole. Per Carnot due sono i modi di affrontare la questione dell’infinito. Il primo si basa sull’attribuzione di valori realmente effettivi alle variabili infinitamente piccole e l’analisi infinitesimale è allora «une calcul des erreurs compensées». Il secondo modo consiste invece nell’attribuire alle variabili valore 0, nel qual caso l’analisi è un calcolo esatto, ma avente come oggetto delle quantità évanouissantes che sono êtres de raison. Siccome entrambi i metodi hanno vantaggi e svantaggi (e risultati identici) Carnot mirava a una loro réunion in uno stesso calcolo, che costituiva l’analisi infinitesimale propriamente detta.
6. La compensazione degli errori
21A monte della teoria di Carnot era il concetto di limite, per la definizione del quale si doveva partire dal confronto tra due sistemi di quantità comparabili, uno fissato (désigné) e l’altro ausiliario (auxiliaire) impiegato come moyen de comparaison, in maniera tale che le quantità dei due sistemi possano cambiare per gradi insensibili, avvicinandosi il più possibile, fino a confondersi. Il sistema designé sarà allora il limite dell’auxiliaire, cioè il suo ultimo stato, quello a cui «on le rapporte» facendolo avvicinare sempre più.
22Nel corpo centrale della dissertazione (§§ 39-50) Carnot spiegava come “compensare” gli errori. Forse non si trattava un approccio del tutto originale, e a questo riguardo Youschkevitch ha sostenuto che, se pure non gli era noto l’Analyst di Berkeley, Carnot doveva certamente conoscere la Note sur la Métaphysique du calcul infinitésimal, nella quale Lagrange, a proposito del calcolo infinitesimale, osservava che «Il en est ici comme dans la méthode des infiniment petits, où le calcul redresse aussi de lui-même les fausses hypothèses que l’on y fait»40. Nel caso della curva e del poligono inscritto, è evidente che ciascuno dei lati prolungati è una secante, anche se l’errore di considerarla tangente è détruit da un altro, che si introduce nel calcolo, trascurando come nulle le quantità infinitamente piccole. Questo era il senso della metafisica del calcolo infinitesimale per Leibniz. Ben più rigoroso – per Lagrange – il metodo di Newton, secondo il quale una secante diventa tangente solo quando i punti di intersezione cadono esattamente gli uni sugli altri, e che esige che si considerino come evanescenti (cioè nulle) tutte le quantità di cui si cercano le prime o le ultime ragioni, cosa che però renderebbe le dimostrazioni lunghe e complicate. Al contrario, l’idea degli “infinitamente piccoli” aiutava ad abbreviare e a facilitare quelle dimostrazioni. E alla fine, l’errore è sempre corretto «par la manière dont on manie le calcul», il che consente di considerare gli infinitamente piccoli come realtà da impiegarsi nella soluzione dei problemi41.
23Vent’anni dopo Carnot avrebbe formulato uno schema originale, con il quale dimostrava che gli errori si compensano nel procedimento del calcolo. Questo era possibile, se si consentiva di introdurre nel calcolo quantità indeterminate per facilitare l’espressione delle condizioni del problema. Anche «s’il faut quelques erreurs», basta che si possa «constament se réserver la faculté de les atténuer autant que se voudra», diminuendo sempre più il valore di queste indeterminate, fino a eliminarle con la compensazione degli errori42.
24L’idea di Carnot è che ci sarà sempre modo di compensare l’errore, trascurando nel calcolo la quantità infinitesimale, che era stata introdotta. Siffatto négliger non solo è permesso, ma «est nécessaire» per esprimere esattamente le condizioni del problema. Quando la compensazione è avvenuta, ne è prova l’assenza delle quantità arbitrarie nelle equazioni finali. Allora la differenza tra le due quantità «depend de ma volonté, et que je sois maître de la rendre aussi petite que je le voudrai». E in ogni caso l’errore non sarà mai particolarmente insidioso, poiché quand’anche non lo si possa distruggere completamente, «il dependera toujours de moi, et la modérer autant que je le jugerai à propos» diminuendo sempre più la quantità arbitraria che ne è la causa43. Nell’esempio del cerchio/poligono inscritto, il primo è il sistema designé, mentre il secondo è l’auxiliaire, che si avvicina sempre più al primo fino a che le quantità infinitamente piccole introdotte diminuiscono al punto che il loro limite è 0, oppure si preferisce lasciarle «assez petites». Espressioni quali très-grand et très-petit perdono l’antico carattere di termini vaghi e imprecisi44, poiché le quantità infinitesimali sono i differenziali dei termini x, y che indicano l’ascissa e l’ordinata della curva di cui si deve trovare la tangente, e quindi si possono scrivere dx e dy, e saranno veri o sensibili qualora vi si attribuiscano valori effettivi, evanescenti o assoluti, se si suppongono eguali a 0.
25Tuttavia non bisogna pensare che l’analisi infinitesimale sia da intendersi come un metodo per ridurre gli errori «to tolerable insignificance»45, o a scopo di mera approssimazione («simple méthode d’approximation») dei lati del poligono inscritto nella curva. Il calcolo consiste in un processo rigoroso («un calcul exacte et rigoureux»)46: se, in luogo di una quantità, se ne impiega un’altra non uguale, è ovvio che risulterà un errore; ma se la differenza tra le due è piccola a piacere, l’errore non sarà importante, compensandosi gli errori a vicenda, e alla fine il risultato sarà corretto. Nell’equazione della tangente, è chiaro che un cerchio non sarà mai uguale a un poligono con un numero infinito di lati, ma l’operazione di trascurare le quantità infinitamente piccole è «de façon délibérée» e compensa (e quindi elimina) l’errore che era stato deliberatamente introdotto nell’enunciazione del problema al fine di facilitarne la soluzione. La mutua compensazione degli errori, che sono quantità inappréciables, farà sì che il cerchio possa essere considerato come una curva, e non come un poligono47.
7. Due tipi di infinito
26Carnot riconosceva che Leibniz era stato il primo a stabilire il principio, secondo il quale si può prendere «à volonté l’une pour l’autre» due grandezze finite che differiscano tra loro solo per una quantità infinitamente piccola48. Era un principio di estrema utilità, semplicità e facilità, proficuamente applicato da L’Hôpital, Bernouilli, Varignon ecc. Ma nonostante la correttezza nei risultati, restava il problema della fondazione del calcolo, e le critiche non tardarono. Leibniz non si era preoccupato di definire il concetto di quantités infiniment petites, né di precisare se il suo calcolo dovesse essere considerato come perfettamente rigoroso o come semplice approssimazione. Eppure Carnot non nascondeva la propria simpatia per il filosofo: «je suis intimement persuadé que c’est à Leibnitz seul, qu’on doit cette brillante découverte. Newton a trouvé la méthode des premières et dernières raisons mais il y a loin de la subtile synthèse employée par ce grand homme»49. Ma ora si trattava di changer il metodo di approssimazione in un calcolo perfettamente esatto e rigoroso, e questo era l’oggetto dell’analisi infinitesimale50.
27Le quantità infinitesimali sono semplici variabili, il cui limite è 0 o 1/0, e quindi non sono esseri chimerici51. Pur configurandosi due tipi di infinito matematico, uno sensibile o assegnabile, l’altro assoluto o metafisico (che è il limite del primo), non si tratta mai di esseri metafisici o astratti, bensì di quantità reali, arbitrarie e suscettibili di sviluppo. A chi invece considerava le quantità infinitamente piccole come assolutamente nulle, Carnot domandava che cosa ci fosse da guadagnare nel limitarsi a trattare soltanto quantità evanescenti, puri zero. Forse che gli 0 erano più facili da concepire e maneggiare?
28Gli storici della matematica hanno definito il contesto storico in cui Carnot sviluppò la sua teoria la «Rénaissance» del metodo sintetico nella scuola polytéchnique52, che dava avvio a una nuova metafisica degli infinitesimali, basata su algoritmi effettivi, che impiegano unicamente l’infinito potenziale53. La dottrina della compensazione implicava un doppio errore: il primo di idealizzazione metafisica, il secondo un ritorno al reale. Quindi dx, la variabile ausiliaria vòlta a semplificare la soluzione del problema, è destinata a sparire per ottenere un’uguaglianza perfetta. In questo modo Carnot spogliava l’infinitamente piccolo da ogni residuo metafisico, vincolandolo alla realtà. Da calcul sublime, qual era per Maupertuis quando alludeva all’«analyse sublime & rigoureuse» di Eulero54, l’analisi infinitesimale si era trasformata in una tecnica di calcolo (potente) per indagare la realtà. Eppure, per questo motivo, più che un vero e proprio manuale sui fondamenti, l’opera di Carnot fu giudicata da non pochi esperti alla stregua di un libro culturale (o “da salotto”) con scarni esempi di calcolo.
8. Altri misteri
29I matematici non possono fare a meno di rilevare la sostanziale affinità tra la teoria di Carnot e la spiegazione che già Berkeley aveva dato nel 1734, allorquando si interrogava come, da principi precari quali erano i fondamenti del calcolo, potessero derivare risultati inspiegabilmente sorprendenti. Si è visto che anche per Berkeley, quando nel quoziente dy/dx si pone dx = 0, questo secondo errore compensa il primo, consentendo di pervenire al risultato esatto: «we shall find there is even here a double mistake, and that one compensates or rectifies the other»55. Berkeley era convinto di «how Error may bring forth Truth, though it cannot bring forth Science»56. Questo suppergiù sarebbe stato il ragionamento di Carnot cinquant’anni più tardi. A questo punto, resta da domandarsi come mai Youschkevitch abbia messo in dubbio che Carnot conoscesse l’Analyst57.
30Ancora più intrigante l’enigma del mancato apprezzamento da parte di Lagrange (e dell’intera commissione accademica berlinese) della dissertazione di Carnot. Eppure, per Lagrange la teoria della compensazione era la «motive force» alla base del calcolo di Leibniz; nella nuova edizione (del 1813) della sua Théorie des fonctions analytiques58, egli aveva elencato i primi geometri, Leibniz, i Bernouilli, L’Hôpital ecc., i quali avevano fondato il calcolo differenziale sulla considerazione di quantità infinitamente piccole, trattandole come uguali. Successivamente Eulero, d’Alembert ecc. avevano cercato di supplire a questo difetto, dimostrando che le differenze infinitamente piccole dovevano esser nulle. Però Lagrange osservava che, per quanto chiara, questa idea non potesse far da principio a una scienza, la cui certezza doveva essere fondata sull’evidenza59, e concludeva:
la véritable métaphysique de ce Calcul consiste en ce que l’erreur résultante de cette fausse supposition est redressée ou compensée par celle qui nait des procédés du même calcul, suivant lesquels on ne retient dans la différentiation que les quantités infiniment petites du même ordre60.
Ed è chiaro che considerare il poligono infinitangolo come un cerchio è una supposizione erronea, anche se l’errore si corregge nel calcolo con l’omissione «qu’on y fait des quantités infiniment petites», un’operazione che si ottiene facilmente con gli esempi, «mais dont il serait peut-être difficile de donner une démonstration générale»61. Lagrange concludeva che ben poco nei decenni era cambiato. Per questo insieme di ragioni, (forse) nel 1785 aveva giudicato insoddisfacente la dissertazione di Carnot. Del resto, la dice lunga il titolo completo della sua opera sulla teoria delle funzioni: Théorie des fonctions analytiques, contenant les principes du calcul différentiel, dégagés de toute considération d’infiniment petits ou d’évanouissans, de limites ou de fluxions, et réduite à l’analyse algébrique des quantités finies, che dimostra la sua preferenza per una “base algebrica” per il calcolo, senza riferimento a quantità infinitamente piccole o a nozioni meccaniche e geometriche intuitive62. Pertanto Youschkevitch ritenne destituita da ogni fondamento la notizia, secondo la quale, dopo aver letto le Réflexions, Lagrange avrebbe scritto a Carnot che, se avesse avuto l’opportunità di leggere prima il suo libro, non avrebbe sviluppato la sua teoria delle funzioni63.
31Nel primo Ottocento Cauchy attuerà su nuove basi il programma di rifondazione algebrica. La sua riforma sarà completata cinquant’anni più tardi da Weierstrass e Dedekind, i quali formularono una teoria ben più rigorosa dei numeri irrazionali e reali. Ma la scena finale dell’intera storia vede protagonista Bertrand Russell, il quale commenterà icasticamente che, con la rigorizzazione, gli infinitesimali («unnecessary, erroneous, and self-contradictory») furono “messi al bando” dalla matematica rispettabile64. Irrisi da Berkeley, che si domandava che cosa mai fossero le flussioni (velocità di incrementi evanescenti? E questi che cosa sono? «They are neither finite Quantities nor Quantities infinitely small, nor yet nothing. May we not call them the Ghosts of departed Quantities?»)65; liquidati come esistenze autonome di sapore “mistico” da Marx, il quale nei Manoscritti matematici faceva notare come fosse una “chimera” la consolazione dei matematici razionalizzanti (Leibniz e Newton) che il rapporto tra gli “infinitamente piccoli” dx e dy fosse solo approssimativamente 0/066; aborriti da Cantor, che con fastidio alludeva agli «infinitären Cholera Bacillus der Mathematik»67, gli infinitesimali avrebbero goduto di nuova linfa vitale nel Novecento, in fisica e ingegneria, e specialmente nell’analisi non-standard introdotta da Abraham Robinson negli anni Sessanta68.
32Nella prefazione alla seconda edizione della Logik, Hegel lamentava che nessuno si occupava più della vera metafisica, delle cause finali, dei massimi problemi. Hegel si era interessato all’infinito matematico, l’infinito “genuino”, importante anche da un punto di vista filosofico, e superiore a quello metafisico, sul quale erano fondate le obiezioni a quello matematico69. Da quelle obiezioni, però, la matematica non era capace di liberarsi, lasciandone la competenza alla metafisica. Ma a sua volta, la metafisica non era in grado di vanificare i brillanti risultati dell’uso dell’infinito in matematica. Nondimeno si trattava di una “cattiva infinità”, un continuo “sorpassare il termine”, che è l’impotenza a eliminarlo e una continua ricaduta in esso, un tratto che – lungi dall’essere “sublime” – contrassegnava il concetto stesso del progresso infinito quantitativo70. Ironicamente, Lenin avrebbe commentato che Hegel, nonostante tutto, doveva essere alquanto sensibile allo “svanire” delle grandezze infinitamente piccole. E a proposito del titolo dell’opera di Carnot, lo giudicò perlomeno “caratteristico” (con ben tre punti esclamativi) facendo intendere che, più che alla “metafisica”, le Riflessioni si sarebbero dovute intitolare ai “principi” del calcolo71.
33Infine, tornando al contesto del concorso berlinese, non va trascurato che l’anno successivo, il 1787, Lagrange lasciò Berlino per fare ritorno in Francia, un paese all’epoca politicamente instabile. Come mai? Certamente dovette essere lusingato dall’offerta di Luigi xvi di un posto di membro straniero all’Académie des Sciences, nonché di una pensione annua tale da assicurargli una vecchiaia serena72. Ma potrebbero esserci state anche altre ragioni. Forse a Berlino sapeva di non poter più contare sul suo protettore Federico ii, scomparso nell’agosto dell’anno precedente? Era nuovamente assalito dalla depressione intellettuale che lo aveva tormentato già in passato, rendendolo indifferente alla matematica? O forse fu per il timore che, alla morte del re, le cose potessero cambiare anche in Accademia, con non pochi avvicendamenti? Mentre sono note le ragioni che lo avevano condotto, vent’anni prima, da Torino a Berlino, questo suo ultimo trasferimento resta avvolto nel mistero, tanto più che per tutto il 1787 non vi sono tracce salienti della sua attività in seno all’Accademia reale delle scienze parigina. L’anno prima, all’Accademia di Berlino, Lagrange era intervenuto nella classe di matematica in due sole occasioni, di cui una era stata la proclamazione – il I giugno – del vincitore al concorso sull’infinito in matematica: «un sujet qui l’a toujours préoccupé»73.
34Prima di svanire nell’Ottocento, la metafisica dell’infinito sferrava ancora qualche colpo di coda…
Notes de bas de page
1 F. Klein, Vorlesungen über die Entwicklung der Mathematik im 19. Jahrhundert, Berlin, Springer, 1926, p. 52.
2 A.P. Youschkevitch, Lazare Carnot and the Competition of the Berlin Academy in 1786 on the Mathematical Theory of the Infinite, in C.C. Gillispie, Lazare Carnot Savant, Princeton, University Press, 1971, p. 151.
3 Voltaire, Infini (1746), in Œuvres complètes, t. vi, Paris, Baudouin, 1826, p. 186.
4 Ivi, p. 189.
5 Ivi, p. 199.
6 B. Fontenelle, Éloge de M. le Marquis de l’Hôpital, Histoire de l’Académie Royale des Sciences (Méchanique), Paris, Martin, Coignard, Guerin, 1704, pp. 125-36, p. 131.
7 J. Le Rond d’Alembert, Essai sur les éléments de philosophie, Hildesheim-Zürich-New York, Olms, 2003, p. 363.
8 Id., Infini (Géometrie), in Encyclopédie, ou, Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, t. viii, 1765, p. 703.
9 Id., Élements cit., p. 321.
10 Ivi, p. 322.
11 Cfr. A.R. Hall, Philosophers at War. The Quarrel between Newton and Leibniz, Cambridge, University Press, 1980.
12 P. Dupont e C.S. Roero, Leibniz 84. Il decollo enigmatico del calcolo differenziale, Rende, Mediterranean, 1991, p. 100.
13 G.W. Leibniz, Nova Methodus pro maximis et minimis, «Acta Eruditorum», III, 1684, pp. 467-73, p. 470.
14 Dupont e Roero, Leibniz 84 cit., p. 62.
15 Così in una lettera a L’Hôpital nel dicembre 1696, ivi, p. 103, nota 81.
16 H.J.M. Bos, Differentials, higher-order differentials and the derivative in the Leibnizian calculus, «Archive for History of Exact Sciences», XIV, 1974, pp. 1-90; Id., Newton, Leibniz, and the Leibnizian Tradition, in I. Grattan-Guinness (ed.), From the calculus to set theory, 1630-1910: An introductory history, London, Duckworth, 1980, pp. 49-93.
17 Leibniz, Mémoire de Mr. G.G. Leibniz touchant son sentiment sur le calcul différentiel, «Journal de Trévoux», 1701, pp. 270-2, pp. 270-1. Su questo punto, cfr. N.B. Goethe, F. Beeley, D. Rabouin (eds.), G.W. Leibniz, Interrelations between Mathematics and Philosophy, Dordrecht, Springer, 2015, p. 43 e R.S. Woolhouse, R. Francks (eds.), Leibniz’s “New System” and Associated Contemporary Texts, Oxford, Clarendon Press, 2006, p. 124.
18 P. Mancosu, The Metaphysics of the Calculus: the Foundational Debate in the Paris Academy of Sciences, 1700-1706, «Historia Mathematica», XVI, 1989, pp. 224-48, p. 236.
19 I. Newton, Opuscula Mathematica, philosophica et philologica, Lausannae et Genevae, Bousquet & soc., 1744, t. I, p. 203.
20 Id., Methodus fluxionum et serierum infinitarum, in Opuscula cit., p. 54.
21 Cfr. N. Guicciardini, L’età dei Lumi. Sviluppi del calcolo in Gran Bretagna (2002), www.treccani.it/enciclopedia/l-eta-dei-lumi-matematica-gli-sviluppi-del-calcolo-in-gran-bretagna_(Storia-della-Scienza)/
22 Queste vicende sono mirabilmente ricostruite in P. Mancosu, The Metaphysics of the Calculus cit., e in Id., Philosophy of Mathematics & Mathematical Practice in the Seventeenth Century, Oxford, University Press, 1996.
23 Cfr. M. Blay, Deux moments de la critique du calcul infinitésimal: Michel Rolle et George Berkeley, «Revue d’Histoire des Sciences», 1986, XXXIX (3), pp. 223-253.
24 M. Kline, Mathematics. The Loss of Certainty, Oxford, University Press, 1980, p. 140.
25 G. Monge, Géométrie descriptive, Leçons données aux écoles normales, Paris, Baudouin, an vii, p. 2.
26 L. Euler, Introduction à l’analyse infinitésimale, Paris, Barrois, 1796, t. I, p. v.
27 J. De la Chapelle, d’Alembert, «Limite», Encyclopédie cit., vol. ix, 1765, p. 542.
28 L. Euler, Methodus inveniendi lineas curvas…, Additamentum I, Lausanne, Bousquet, 1774, p. 245.
29 Prix proposés par l’Académie Royale des Sciences & Belles-Lettres pour l’année 1787, «Histoire de l’Académie Royale des Sciences et Belles Lettres», 1875, Berlin, Decker, p. 12.
30 J.-S. Bailly, Histoire de l’astronomie moderne depuis la fondation de l’école d’Alexandrie, t. I, Paris, Bure, 1779, p. 26.
31 Venne segnalato anche un secondo contributo, contraddistinto dal motto Peritia fit mihi amor, a cui fu accordato l’accessit, una menzione onorevole, ma il cui autore rimase sconosciuto. Cfr. A.P. Youschkevitch, Lazare Carnot and the Competition of the Berlin Academy in 1786 cit., p. 156 sgg.
32 L. Carnot, Dissertation sur la théorie de l’infini mathématique, in C.C. Gillispie e A.P. Youskchvitch, Lazare Carnot Savant et sa contribution à la théorie de l’infini mathématique, Paris, Vrin, 1979, Appendice C, p. 176.
33 A.P. Youschkvitch, Lazare Carnot and the Competition of the Berlin Academy in 1786 cit., p. 149.
34 G. Vivanti, Infinitesimalrechnung 1759-1799, in M. Cantor (ed.), Vorlesungen über Geschichte der Mathematik, vol. iv, Leipzig, Teubner, 1908, pp. 639-869.
35 C.C. Gillispie e A.P. Youschkvitch, Lazare Carnot Savant cit., pp. 7-8.
36 Cfr. L. Carnot, Betrachtungen über die Theorie der Infinitesimalrechnung, Frankfurt am Main, Jäger, 1800.
37 A.P. Youschkevitch, Lazare Carnot and the Competition of the Berlin Academy in 1786 cit., p. 150.
38 Ivi, p. 174.
39 Ivi, p. 175.
40 J.-L. Lagrange, Note sur la Métaphysique du calcul infinitésimal, «Miscellanea Taurinensia», ii, 1760-61, pp. 597-99, p. 598.
41 Ivi, p. 599.
42 L. Carnot, Dissertation cit., §48, p. 211, e cfr. Id., Réflexions sur la métaphysique du calcul infinitésimal, Paris, Duprat 1797, pp. 17 e 22.
43 L. Carnot, Dissertation cit., § 49, p. 212; Id., Réflexions cit., p. 18.
44 L. Carnot, Dissertation cit., § 43, pp. 206-207.
45 C.C. Gillispie e R. Pisano, Lazare and Sadi Carnot, A Scientific and Filial Relationship, Dordrecht, Springer, 20142, p. 124.
46 L. Carnot, Réflexions cit., p. 14.
47 Ivi, p. 15.
48 Ivi, p. 32.
49 L. Carnot, Dissertation cit., § 37, pp. 200-201, nota.
50 Id., Réflexions cit., p. 14.
51 A proposito del concetto di “chimerico” inteso come “non-reale” – laddove per Carnot gli infinitesimi sono esseri reali – si veda A. Drago, There exist two models of organization of a scientific theory, «Atti della Fondazione Giorgio Ronchi», lxii, 2007, pp. 839-56, p. 848.
52 G. Schubring, Conflict between Generalization, Rigor, and Intuition. Number Concepts Underlying the Development of Analysis in 17-19th Century in France and Germany, Pasadena, Springer, 2005, pp. 295-308; P. Iacono, M. Mellone, R. Pisano, Riflessioni sul calcolo infinitesimale in Newton e Cauchy, Gruppo S.I.C.S.I., I anno, corso di SM1, Università degli Studi di Napoli “Federico ii”, p. 7.
53 Cfr. Gillispie, Pisano, Lazare and Sadi Carnot cit., p. 272.
54 P. -L. Maupertuis, Examen philosophique de la preuve de l’existence de dieu employée dans l’essai de cosmologie, «Histoire de l’Académie Royale des Sciences et Belles Lettres» [de Berlin], xii, 1756, pp. 389–424, lix; cfr. N. Fuss, Éloge de Euleur, prononcé en français, in L. Euler, Œuvres complètes en français, t. I, Bruxelles, Établissement près de la Porte de Flandre, 1839, pp. v-xliv, p. xxvi.
55 G. Berkeley, The Analyst, London-Dublin, Tonson, 1734, xxiv, p. 12.
56 Ibid., xx, p. 9.
57 «[…] if Carnot did not know Berkeley’s Analyst, at least he had read the note […] that Lagrange published in Miscellanea Taurinensia» in A.P. Youschkevitch, Lazare Carnot and the Competition of the Berlin Academy in 1786 cit., p. 160.
58 J.-L. Lagrange, Théorie des fonctions analytiques contenant les principes du calcul différentiel…, Paris, Courcier, 1813.
59 Ivi, p. 5.
60 Ivi, p. 17.
61 Questo passo sarà riportato da Carnot a ulteriore prova che anche per l’«illustre auteur» la vera metafisica dell’analisi infinitesimale «n’en est pas moins […] le principe de compensations d’erreurs», cfr. Carnot, Réflexions cit., §37, p. 41.
62 C.G. Fraser, Joseph-Louis Lagrange, Théorie des fonctions analytiques, First edition (1797), in I. Grattan-Guinness (ed.), Landmark Writings in Western Mathematics 1640-1940, Amsterdam, Elsevier, 2005, pp. 258-76, p. 261.
63 «Si j’avais connu votre ouvrage, je n’aurais pas entrepris le mien», in H. Carnot, Mémoires sur Carnot, Paris, Pagnerre, 1861, t. I, p. 14.
64 B. Russell, Recent Works on the Principles of Mathematics, «International Monthly», iv, 1901, pp. 83-101, p. 88 e p. 90; Id., Principles of Mathematics, Cambridge, University Press, 1903, p. 336 e 19372, p. 368.
65 G. Berkeley, Analyst cit., xxxv, p. 18.
66 K. Marx, Manoscritti matematici, Milano, Spirali, 2005, p. 51.
67 G. Cantor, lettera a Vivanti del 13 dicembre 1893, in H. Meschkowski, Aus den Briefbüchern Georg Cantor, «Archive for History of Exact Sciences», II, 1965, pp. 503–519, p. 505; cfr. H. Meschkowski, W. Nilson (eds.), Georg Cantor Briefe, Berlin, Heidelberg, New York, Springer-Verlag, 1991 e H. Meschkowski, Werke und Leben Georg Cantors, Probleme des Unendlichen, Braunschweig, Springer, 1967, p. 142.
68 Cfr. P. Ehrlich, The Rise of Non-Archimedean Mathematics and the Roots of a Misconception I: The Emergence of non-Archimedean Systems of Magnitudes, «Archive for History of Exact Sciences», lx, 2006, pp. 1-121.
69 G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik (18312), trad. it. con il titolo La scienza della logica, I vol., Bari, Laterza, 1925, p. 286. Sulla questione del rapporto tra Hegel e la matematica dell’infinito, cfr. A. Moretto, Hegel e la “matematica dell’infinito”, Trento, Verifiche, 1984; si veda inoltre F. Rebuffo, Hegel e il pensiero matematico della sua epoca, Firenze, La Nuova Italia, 1989, spec. p. 147 sgg. Non va dimenticato che Hegel dedicò l’edizione del 1812 a l’Huilier, il vincitore del Preisaufgabe nel 1784.
70 Hegel, La scienza della logica cit., p. 270.
71 V. Lenin, Quaderni filosofici, in Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1969, vol. 38, p. 114.
72 A. conte, Joseph Louis Lagrange a duecento anni dalla morte, «La Fisica nella scuola», xliv, 2013, pp. 99-102, p. 100.
73 R. Taton, Le départ de Lagrange de Berlin et son installation à Paris en 1787, «Revue d’histoire des sciences», xli, 1988, pp. 39-74, p. 43.
Auteur
Università degli Studi di Torino
Le texte seul est utilisable sous licence Creative Commons - Attribution - Pas d'Utilisation Commerciale - Pas de Modification 4.0 International - CC BY-NC-ND 4.0. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
La malattia dell’anima e il romanzo antropologico
Medicina e pedagogia nella Unsichtbare Loge di Jean Paul e nelle sue fonti
Elisa Leonzio
2017