Introduzione
p. 3-27
Texte intégral
1. La ferita dell’anima, la Bildung mancata e il romanzo antropologico
1«In poesia nulla lascia più freddi delle ferite fisiche»1 scrive Jean Paul nel settembre del 1794 in una nuova serie di ricerche, in forma aforistica, che portano il titolo di Ästhetische Untersuchungen e hanno come tema le belle arti e le scienze del bello. Già dal 1790 Jean Paul raccoglieva, sotto il titolo di Philosophische Untersuchungen, una vastissima serie di appunti riguardanti le questioni più dibattute dalla filosofia illuministica2, tanto in ambito estetico, quanto in campo morale, ontologico e metafisico, tra le quali il rapporto virtù-passioni, l’immortalità dell’anima, il commercium mentis et corporis e l’essenza del divino. Con l’abbandono del genere satirico in favore di quello romanzesco e la pubblicazione, nel 1793, del suo primo romanzo, la Unsichtbare Loge, si fa però strada in lui l’esigenza di dedicare all’estetica una raccolta a se stante, le Ästhetische Untersuchungen appunto: esse contengono in nuce i temi che lo scrittore riproporrà, più in esteso, nella Vorschule der Ästhetik3 (1804), ma costituiscono, nelle sue intenzioni, soprattutto il luogo in cui confrontarsi con i propri recensori e lettori e riflettere sul proprio fare poetico.
2Appare quindi legittimo leggere il sopraccitato aforisma come quello sguardo che l’autore, a sua volta impegnato nell’analisi ermeneutica delle proprie opere, spesso perfino ironico autorecensore di esse, getta sul suo primo romanzo, enunciandone temi e motivi, e suggerendo possibili strade interpretative.
3Se, dunque, la ferita fisica è destinata a lasciare freddi, è la «lebendige Wunde»4, la «ferita viva» dell’anima, a costitui-re invece il vero oggetto di interesse del romanziere. Con questa espressione Jean Paul definisce, nella Unsichtbare Loge, la fissazione ossessiva e l’esasperata sensibilità nervosa di cui soffre Amandus, uno dei giovani protagonisti del romanzo; questi disturbi si faranno progressivamente tanto accentuati da isolarlo completamente dai suoi amici più cari e da condurlo infine alla morte. La «lebendige Wunde» è dunque la frattura che si genera nel personaggio e determina la sua inadeguatezza al mondo circostante.
4Essa testimonia però anche, ma ciò sarà particolarmente evidente in Gustav, il protagonista del romanzo, l’inadeguatezza del mondo ai bisogni più intimi dell’uomo: quest’ultimo, infatti, proprio perché sistematicamente privato della propria individualità da una società che tende a plasmarlo in vista di una felicità e di un utile collettivi che non sempre corrispondono alle aspettative del singolo, sviluppa una serie di disturbi della psiche, che Jean Paul pone al centro della propria rappresentazione.
5Gustav trascorre, come era desiderio della nonna, fervente pietista, otto anni in una grotta, con la sola compagnia di un giovane maestro, denominato il Genius, e di un cane: il bambino così, nel suo «Pädagogium sotterraneo», viene cresciuto «per il cielo». L’uscita dalla caverna, vissuta su indicazione del Genius come morte e rinascita a una nuova vita, svela a Gustav bellezze e brutture del mondo reale: splendore della natura, della campagna e del cielo stellato, che il bambino non aveva mai visto, e dolcezza del sentimento amicale, ma, nel contempo, crudeltà e corruzione degli uomini. Di fronte a queste due real-tà il fanciullo è parimenti impreparato. La sua indole sensibile e sognatrice, che lo rende diverso dagli altri bambini e lo fa apparire da subito quasi un po’ folle, lo spinge a isolarsi e la sua ingenuità ne farà facile preda di mille inganni alla corte del principato di Scheerau, fino a essere sedotto dalla governatrice von Bouse, già amante del sovrano del piccolissimo regno.
6Se l’amicizia con Amandus, incontrato proprio durante il viaggio con la famiglia verso Scheerau, non fa altro che potenziare la sensibilità di Gustav, l’ingresso nella società di corte, seconda tappa del suo distacco dalla solitudine della caverna, si rivela dunque come un vero trauma. Egli sembra così incarnare, nel primo romanzo jeanpauliano, l’anima bella su cui, di lì a qualche anno, ironizzerà Hegel, «l’infelice anima bella» che «vive nell’ansia di macchiare con l’azione e con l’esserci la gloria del suo interno; e, per conservare la purezza del suo cuore, fugge il contatto dell’effettualità […] il suo operare è l’anelare che non fa se non perdersi nel suo farsi oggetto privo di essenza»5. In real-tà, lo vedremo, il rapporto di Gustav con il mondo sociale andrà via via configurandosi quale dissidio tra una prassi tutta rivolta all’interiorità e la percezione dei propri obblighi nei confronti di un’umanità sofferente.
7Nei riguardi della spiccata tendenza all’introspezione manifestata da Gustav e della sua chiara ascendenza pietistica si riscontra in Jean Paul un’attitudine ambigua: da un lato essa è sicuramente oggetto di satira, così come oggetto di satira è l’educazione pietistica che a Gustav è impartita; d’altro lato il ripiegamento su se stessi e la riflessione rappresentano anche l’ultimo baluardo che l’uomo può contrapporre alla pressione della società prima di esserne totalmente schiacciato.
8In questi atteggiamenti e stati d’animo Gustav mostra una chiara inclinazione verso la malinconia, che, come si avrà modo di spiegare, era una delle patologie più discusse e amate nel tardo Settecento tedesco soprattutto per la sua eziologia incerta che la rendeva luogo privilegiato in cui saggiare le teorie medico-antropologiche sull’unitarietà psico-fisica dell’uomo e sul rapporto tra anima e corpo.
9La Jean-Paul-Forschung ha presto riconosciuto l’influenza che la discussione scientifica del tempo ha esercitato sulla riflessione e sulla produzione poetica jeanpauliana; soprattutto a partire dagli anni Settanta del Novecento perciò molti saggi6 sono stati dedicati a più o meno dettagliate ricostruzioni dell’orizzonte culturale in cui lo scrittore si muove e delle teorie che egli ha recepito. Tuttavia alcune difficoltà critico-editoriali, soprattutto relative alla straordinaria mole degli inediti jeanpauliani (raccolte di citazioni, lavori preparatori ai romanzi ecc.), hanno a lungo ostacolato questo approccio7.
10Particolarmente rimarchevole è in questo quadro la scarsa attenzione tributata dalla Jean-Paul-Forschung al campo della medicina; mancanza grave se si considera che, come sottolineava Götz Müller nel suo celebre studio dedicato al problema del commercium mentis et corporis nella Vorschule der Ästhetik, non vi è forse altra produzione poetica in cui vengano discusse ed esibite così tante cure e terapie come in quella jeanpauliana8 e che nota è la fascinazione di Jean Paul nei confronti della medicina e, in particolare, della allora nascente psichiatria9.
11La Unsichtbare Loge e il commento jeanpauliano nelle Ästhetische Untersuchungen rappresentano l’antefatto di questo complesso sistema dove l’interesse per la psiche del personaggio, per lo sviluppo delle sue facoltà e ancor di più per i suoi malesseri e disturbi psicologici è primario e dove quindi la dimensione fisica e le disfunzioni corporee, laddove presenti, permangono solo nella funzione di metafora della sofferenza psichica10, o come tramite, come spiraglio che consente di guardare nell’interiorità, nell’anima che dal corpo è avvolta11.
12Nel descrivere la mancata formazione psicologica e sociale del suo protagonista e i perversi modelli pedagogici che determinano questo esito, la Unsichtbare Loge si presenta come uno degli esempi più maturi e meglio riusciti di quella corrente della narrativa tedesca diffusasi a partire dagli anni Settanta del Settecento e che è stata spesso analizzata a partire dai concetti di “crisi” e di “dialettica dell’Illuminismo”. Soprattutto con riferimento ai romanzi di Wezel e di Moritz la critica ha sviluppato il concetto di “romanzo antropologico”12, intendendo con esso l’ultima delle tre tappe che idealmente segnano lo sviluppo del romanzo tedesco settecentesco13: al romanzo barocco dai chiari intenti moraleggianti, teso a presentare una storia eticamente esemplare, segue infatti il romanzo cosiddetto “pragmatico”, il romanzo che privilegia gli eventi, non però semplicemente enumerati e giustapposti, bensì inseriti in una precisa concatenazione causale che renda evidenti i nessi tra essi sussistenti; è questo il romanzo prospettato da Friedrich von Blanckenburg, il primo teorizzatore di lingua tedesca del romanzo settecentesco, nel Versuch über den Roman del 1774. Rispetto al romanzo pragmatico, tuttavia, Blanckenburg introduce un elemento di differenziazione, privilegiando, sempre nel quadro di una narrazione attenta ai nessi di causa ed effetto, non più gli eventi esteriori, quanto quelli interiori. Per questo Blanckenburg già conferisce al romanzo di cui parla l’attributo di ‘psicologico’ e gli assegna come compito la descrizione del processo di crescita che porta il personaggio a raggiungere la forma finale, armonica e perfettamente compiuta della propria personalità individuale e identità sociale.
13In questa insistenza da parte di Blanckenburg sul concetto di formazione la critica rintraccia l’origine di quello che da lì a pochi decenni sarà il Bildungsroman14, ma anche, paradossalmente, del romanzo antropologico che ne è la forma alternativa15 e il rovesciamento: in entrambi i casi, infatti, oggetto della narrazione è la storia della formazione della soggettività dell’individuo. Il romanzo antropologico, tuttavia, si discosta dalle premesse del discorso blanckenburghiano e ne rifiuta le certezze gnoseologiche, che ormai sono state messe in crisi dalla nascita di una nuova disciplina: l’antropologia.
14L’antropologia, nella forma in cui è stata teorizzata nel 1772 dal medico e filosofo Ernst Platner nella sua Anthropologie für Ärzte und Weltweise16, definisce un nuovo tipo di studio dell’uomo, che tenta di risolvere il problema della sua doppia natura, corporea e spirituale, e delle relazioni tra queste due componenti attraverso un metodo interdisciplinare che congiunge filosofia e medicina, fisiologia e psicologia. Se la disciplina, nella sua dimensione teorica, potrebbe ancora fornire la base per un discorso ottimisticamente fiducioso sulle possibilità della pedagogia di contribuire alla formazione di un uomo a tutto tondo, un ganzer Mensch17 interamente e perfettamente armonizzato nelle sue componenti psico-fisiche, la sua manifestazione pratica, volta a descrivere e proporre modelli terapeutici per le patologie che affliggono l’umanità, svela i caratteri più problematici e più ambigui della natura umana, quelli più lontani dall’immagine rassicurante e autocelebrativa dell’uomo settecentesco.
15Il romanzo antropologico, che non a caso alla nuova disciplina deve il suo nome, è animato da questa consapevolezza e sceglie intenzionalmente di descrive il fallimento dello sforzo di formazione e di esibire, al suo posto, il disgregarsi dell’individualità, soggetta per propria tendenza o per influenza esterna a manifestare nel corso del proprio sviluppo tutta una serie di malattie che ne minano la stabilità e la coerenza.
16Quella parabola discendente del Bildungsroman che Moretti nel suo saggio sul Romanzo di formazione colloca attorno alla metà del XIX secolo18 si avvia dunque, in real-tà, molto prima, andando paradossalmente a coincidere con la nascita stessa del genere, perfino anticipandola. Il romanzo antropologico è, nella struttura come nei contenuti, animato da quella dialettica che segna la storia dell’Illuminismo, ne è una manifestazione e nel contempo un puntuale commento: esso da un lato descrive con impietosa acribia il malessere psicologico dei propri protagonisti, malinconici, ipocondriaci, Schwärmer, o semplicemente stravaganti,19 mostrandone la sostanziale inadeguatezza rispetto alle aspettative della società in cui essi si trovano, spesso loro malgrado, a vivere e ad agire; in tal senso sembra abbracciare la posizione critica e apertamente ostile che contraddistingue gli scritti di pedagogia e di psicologia empirica del XVIII secolo, nei quali i malinconici, cui sono assimilati anche i fanatici e gli esaltati religiosi, sono giudicati individui politicamente e socialmente inaffidabili, portatori di un atteggiamento oscurantista, anti-illuministico e antisociale. Dall’altro lato, però, i sistemi pedagogici dell’Illuminismo sono sottoposti a una critica non meno aspra, che ne sottolinea i molteplici e in parte contraddittori aspetti: ne è esempio l’enorme differenza che intercorre tra il progetto pedagogico roussoviano, indirizzato a formare l’uomo moralmente irreprensibile, e le concezioni di un Voltaire o di un Galiani, interessati più che altro alla formazione del buon suddito, ubbidiente e produttivo20.
17La disparità tra queste differenti impostazioni del discorso pedagogico è in prima istanza riconducibile a un fenomeno centrale nella società settecentesca, cioè alla progressiva moltiplicazione dei soggetti ai quali l’attività pedagogica è rivolta: fruitori dell’educazione e dell’istruzione che ne sta alla base non sono più soltanto i chierici, dediti alla vita contemplativa, o gli aristocratici oziosi, ma anche altri strati della popolazione e in particolar modo i borghesi, che, conducendo una vita attiva all’interno della società, manifestano esigenze nuove nel campo della formazione21.
18La ragione di queste grandi differenze all’interno del discorso pedagogico settecentesco e quindi del suo sospetto fallimento, cui il romanzo antropologico presta la sua voce, è però ancor più profonda, legata alla “complicità” tra le classi intellettuali, evidentemente un’élite, e il potere. Lo evidenziava già Schneider quando, ricostruendo le origini dell’Illuminismo nella cultura libertina del Seicento, sottolineava la sopravvivenza di motivi scettico-libertini negli ideali di rischiaramento settecentesco22. Il carattere eminentemente elitario degli illuministi, non disgiunto dal pessimismo antropologico che almeno una parte di loro deriva dal libertinismo francese (ma che, soprattutto in Italia, va sicuramente fatto risalire anche alla lettura delle opere di Machiavelli), ne limita fortemente la portata emancipatrice: a un’educazione che rischiari le coscienze, che guidi gli uomini a sviluppare la capacità di autodeterminarsi, se ne sovrappone un’altra, subdolamente opprimente, che stabilisce a priori fini conformi alla società e alla struttura dello Stato e orienta verso di essi i propri interventi sui singoli soggetti, impedendone dunque la piena autonomizzazione e circoscrivendone l’autonomia: l’individuo è plasmato e resta eterodiretto. Quanto ciò avvenga con piena consapevolezza intenzionale e quanto, invece, derivi da un meccanismo autoperpetuantesi in modo involontario (un’eccessiva progettazione del percorso educativo necessariamente svilisce l’individuo) è naturalmente problema pressoché irrisolvibile: la coincidenza tra la realizzazione di sé da parte di un singolo e il suo pieno adempimento ai doveri sociali che l’appartenenza a una piuttosto che a un’altra classe sociale impone, infatti, è pensata spesso come garanzia per la felicità tanto dell’individuo quanto della collettività e quindi non, o almeno non sempre, come atto di prevaricazione.
19Resta comunque la difficoltà di conciliare la piena affermazione di sé, che l’individuo spesso intravvede nel perseguimento di ideali troppo elevati per poter trovare una realizzazione storica, con i principi razionalistici che soli, poiché più stabili degli entusiasmi, risultano socialmente utili. Da qui nasce la critica illuministica nei confronti della passionalità, del sentimento, dell’entusiasmo e perfino del suo apparente opposto, la malinconia, che induce alla riflessione e quindi all’inattività ed è perciò parimenti pericolosa.
20Il romanzo antropologico rovescia questi assunti e trasforma la rappresentazione della malinconia e di altre malattie dell’anima in strumento di critica dell’Illuminismo razionalistico. Lo fa in prima istanza mostrando come tali “devianze” siano l’esito perverso della stessa educazione razionalistica, che insegna la virtù ma reprime ogni entusiasmo per essa, che plaude alla formazione della persona ma in fondo ne respinge la presa di coscienza autonoma. A un livello ulteriore del discorso, quasi che il veleno si trasformi dialetticamente nel proprio stesso antidoto, la devianza stessa perde quel carattere negativo che la critica razionalista le attribuiva e si tramuta in elemento positivo, capace di portare cambiamento e scardinare le strutture del discorso illuminista.
21La Unsichtbare Loge compie, come si cercherà di dimostrare, esattamente questo percorso, consegnando un’immagine dell’uomo malinconico in cui si concentrano e coesistono le diverse prospettive settecentesche (e non solo) sulla malinconia.
22Jean Paul riconosce, in analogia con la concezione razionalistica, i pericoli della malinconia (l’auto-osservazione portata all’estremo, la passività, l’incapacità di rapportarsi adeguatamente con il mondo esterno), ma nel contempo denuncia i pericoli che derivano da un’educazione autoritaria e falsamente autonomizzante, o, meglio, di molteplici ed eterogenee forme di educazione: il loro accumularsi, che rappresenta il leitmotiv del romanzo, unito alla contraddittorietà implicita già in ciascuna di esse, lungi dal rafforzare la tesi di una Loge come Bildungsroman, ne dimostra piuttosto l’inconsistenza; è anzi il primo segnale di una presa di distanza, poiché, laddove è sostenuto tutto e il suo contrario, nessuna concezione può più essere realmente affermata, ma solo introdotta in un gioco destinato a perpetuarsi all’infinito.
23A questo momento segue quello dell’incontro tra il discorso medico, quello pedagogico e la riflessione poetologica e meta-narrativa. Jean Paul introduce, infatti, nella Unsichtbare Loge un proprio alter ego, che svolge il doppio ruolo di biografo e di educatore di Gustav. Attraverso la figura di questo narratore omodiegetico, calato all’interno della narrazione e costretto quindi a condividere la prospettiva limitata degli altri personaggi, Jean Paul si confronta per la prima volta con gli assunti di Blancken-burg. Al narratore onnisciente che questi postulava, egli contrappone un narratore imperfetto che si scontra dolorosamente con i limiti della conoscenza: con l’opacità dell’anima umana che si mostra come un oggetto impenetrabile, con una totalità che non potrà mai essere colta e con una struttura del reale fondata su nessi causali che non saranno mai riconosciuti. Evidentissima è qui, come si metterà in luce, l’adesione di Jean Paul a posizioni scettiche che egli matura a seguito di un serrato confronto con la filosofia di Hume e con le riletture che di essa hanno dato Jacobi e Kant.
24Tutti questi limiti si precisano, con l’approfondirsi della narrazione, come conseguenze di una patologia, di eziologia e sintomatologia incerta, che viene infine identificata da Fenk, il primo dei tanti medici che costellano la narrativa jeanpauliana, come ipocondria, la malattia immaginaria e dell’immaginazione che a lungo, come a Jean Paul era ben noto, è stata considerata una forma particolare di malinconia; una patologia di cui lo stesso Jean Paul soffrì in gioventù e che dunque accresce la confusione già sempre esistente tra la voce autoriale e quella del suo alter ego, fino ad abolire la differenza tra autobiografia e biografia fittizia23.
25Nella figura del pedagogo-biografo il momento tematico e quello formale della frammentarietà e dell’incompiutezza del personaggio e della scrittura si sovrappongono; esse sono infatti apertamente presentate come conseguenza (strutturale) della patologia del biografo che, ossessionato dalla paura di soffrire di un numero impressionantemente grande di disturbi, modifica il proprio stile alla comparsa di ogni nuovo sintomo e si dichiara infine impossibilitato a scrivere.
26La malinconia/ipocondria si fa così malinconia del testo stesso, patologia della letteratura: l’introspezione della scrittura in se stessa, la ricerca dei propri fondamenti e l’esame dei propri esiti, è infatti lo sguardo sprofondato in un’autocontemplazione narcisistica che impedisce ogni ulteriore atto narrativo. Nel contempo però questa forma patologizzata di scrittura si rivelerà l’unica ormai praticabile in una real-tà segnata dalla crisi della coscienza moderna, dall’eclissi delle certezze del razionalismo illuministico o, più precisamente, dal riemergere di quegli orientamenti scettici che dell’Illuminismo sono componente ineliminabile.
27Da questo intersecarsi di piani nasce la necessità di una lettura duplice, che si sforzi di rendere conto delle due istanze, sempre compresenti e intersecantisi tra loro, della narrazione e della riflessione poetologica; in ciò sembra di seguire, del resto, l’invito dello stesso Jean Paul, che nel suo sdoppiarsi in un narratore fittizio e nel fare quindi dell’atto narrativo il tema stesso della propria narrazione suggerisce implicitamente l’opportunità di una lettura appunto sdoppiata, che da un lato esamini temi e stili del romanzo considerandolo come unità in sé conchiusa, e dall’altro, trascendendo il piano della narrazione, legga quegli stessi motivi come indizi di un progressivo spostamento verso il discorso meta-narrativo: in tale ottica particolare attenzione sarà rivolta agli intertesti, spesso anche autoreferenziali, e alle frequenti invocazioni al lettore, tutti segnali, questi, di una apertura del testo a orizzonti non più circoscrivibili nei limiti della narrazione.
28Muovendo da tali presupposti è possibile considerare la struttura stessa della Unsichtbare Loge quale manifestazione di quella malinconia che ne costituisce al contempo il tema principale. Il romanzo infatti nasce già come rovina24 e tale forma conserva, nella sua frammentarietà, lungo tutto il suo sviluppo, rinviando con ciò chiaramente alla tradizione iconografica della malinconia: la suddivisione del romanzo in Sektoren o Ausschnitten, termini suggerenti entrambi l’idea del taglio25, dello squarcio che si produce come ferita del testo stesso, a sua volta assimilabile nelle sue strutture all’anima umana, trasforma, infatti, quest’ultimo in un oggetto analogo «alle colonne spezzate disseminate in molte allegorie classiche della malinconia, intorno al personaggio pensieroso»26.
29La frammentarietà, d’altro canto, è però l’unica forma ormai possibile per il romanzo, rispecchiamento di una real-tà che a sua volta può essere percepita solo in maniera frammentaria e incompleta.
30Si conferma con ciò l’andamento eminentemente dialettico del rapporto che la malinconia intrattiene con l’opera letteraria: essa, infatti, non è solamente l’ostacolo di fronte al quale la voce narrante ammutolisce, confine che paralizza e imprigiona; è anche, e in maniera peculiare, la condizione di possibilità del fare poetico, scaturigine di una scrittura che dall’autoriflessione desuma le ragioni per una sua nuova forma d’essere, trasformandosi in Poesie der Poesie. Del resto la medesima dialettica è implicita nel riflessivo sich hintersinnen che, come sottolinea Roland Lambrecht esaminando la malinconia come tema filosofico27, dell’espressione “essere malinconico” è sinonimo: il malinconico è cioè colui che non è più presso di sé ed è ancora lontano dal recupero del sé, è colui che penetra dietro il proprio io e cerca di “pensarsi da dietro”; nel far ciò egli mina le fondamenta dell’io, ne minaccia l’unità nell’esperienza della perdita di un sé che diviene altro da sé, ma fonda nel contempo una nuova categoria, quella della relazione al sé.
31L’incomprensione che l’opera jeanpauliana ha spesso incontrato da parte della critica è probabilmente l’esito di una più particolare incomprensione proprio di questo meccanismo dialettico che a un tempo nega e afferma l’unità del soggetto narrante e quindi del romanzo stesso.
32Lo stile di Jean Paul è indubbiamente caratterizzato da una esasperata «moltiplicazione, a tratti vertiginosa, di piani e di voci, per mezzo di mille interpolazioni, digressioni, dissolvimenti, note, fogli aggiuntivi»28, che rendono quasi impossibile comprendere e ricostruire la trama dei suoi romanzi; ciò ha indotto molti critici a tacciare la narrativa jeanpauliana di assoluta inconsistenza29 e di una quasi totale indifferenza nei confronti dello sviluppo dell’azione30, oppure, al fine di giustificarne lo stile, a voler riconoscere in Jean Paul l’intento di dimostrare, attraverso la disintegrazione della trama, l’inadeguatezza del linguaggio all’espressione e la sua conseguente condanna al silenzio31.
33Tuttavia, come cercheremo di dimostrare, la dissoluzione della trama non implica affatto dissoluzione del linguaggio, non vi è rinuncia alla parola e alla sua funzione significante, ma suo spostamento in un’altra sfera, quella, appunto, dell’autointerpretazione letteraria. Se, infatti, con l’introduzione del motivo dell’ipocondria la narrazione si interrompe, se la biografia (di Gustav) lascia il posto alla auto-patografia (del narratore), è proprio in questo momento che il romanzo assume pienamente il suo carattere di meta-romanzo, dove descritta è la riflessione stessa dell’autore sul proprio fare poetico, sui generi letterari32, sui fini della letteratura, sul suo valore epistemologico e sulla sua ricezione da parte dei lettori; essi sono invitati o forse costretti ad acquisire consapevolezza dei processi della scrittura di cui sono fatti spettatori mentre partecipano emotivamente alle sofferenze dei personaggi33.
34L’ultimo sguardo, ma forse per certi aspetti il primo, quello che dà il la alla scrittura, Jean Paul lo rivolge al cosmo, immaginato a sua volta come un libro la cui ferita, rappresentata graficamente con un trattino, come cita l’aforisma che fa da motto all’intero romanzo – «Der Mensch ist der große Gedankenstrich im Buche der Natur» –, è l’uomo stesso, che scoprendo l’autocoscienza avvia la riflessione di sé e del mondo e fa di quest’ultimo un universo malinconico.
2. Malinconia e ipocondria: metamorfosi di un concetto tra medicina e letteratura
35L’interesse di Jean Paul per le malattie della psiche in genere, e particolarmente per la malinconia e l’ipocondria, ha innanzitutto ragioni biografiche. Come ampiamente documentato dall’epistolario, infatti, Jean Paul stesso soffre di ipocondria ed è appunto a partire da considerazioni privatissime sulla propria vita e la propria salute che lo scrittore avvia il dibattito sulla natura e le cause dell’ipocondria con i propri corrispondenti. Tra gli amici sollecitati a condividere le loro esperienze e a mettere in campo le loro competenze sulla questione posto di particolare rilievo occupa la figura di Johann Bernhard Hermann, che ha frequentato con Jean Paul il ginnasio di Hof e in seguito l’università di Lipsia, dove compie studi di medicina e scienze naturali. È nella corrispondenza con Hermann, che si fa particolarmente intensa a partire dal 1788 con il trasferimento di quest’ultimo a Erlangen e che prosegue fino alla prematura morte del giovane nel 1790, che si raccoglie il maggior numero di osservazioni relative all’ipocondria e ai suoi sintomi, che entrambi i giovani riconoscono prima di tutto in se stessi.
36Sull’influenza esercitata da Hermann nei confronti di Jean Paul, che proprio grazie all’amico modifica la propria concezione dell’ipocondria, riconoscendone la matrice nervosa, si tornerà in seguito. Importante ora è invece osservare come la loro discussione si inserisca, soprattutto a opera di Hermann, nel contesto del coevo dibattito sul rapporto tra anima e corpo. L’ipocondria, ma pure la malinconia che di essa rappresenta una sovracategoria, si caratterizza infatti per una molteplicità di sintomi e di cause, reali o presunte, che oscillano costantemente tra sfera fisica e sfera psichica e che la collocano perciò in una zona di confine tra corpo e anima, tra esterno e interno, mettendone a tratti perfino in forse lo statuto stesso di patologia.
37Tale ambiguità, ancor più del dato biografico, spiega la fascinazione provata nei confronti di queste malattie da Jean Paul, che in ciò incarna peraltro la tendenza dominante del suo secolo. L’indeterminatezza, la polivocità semantica ha garantito infatti al concetto di malinconia/ipocondria una vasta diffusione nella discussione medica, fisiologica, sociologica e psicologica, e di riflesso nella rappresentazione artistica del Settecento. Anzi, le continue variazioni che l’immagine di queste patologie ha vissuto nella letteratura settecentesca e soprattutto il sempre mutevole atteggiamento degli scrittori nei confronti dei loro personaggi malinconici e ipocondriaci rispecchiano fedelmente gli orientamenti delle scienze nei riguardi della malinconia. La storia dei diversi tentativi di chiarificazione della malinconia da parte delle scienze settecentesche, a loro volta debitrici di una plurimillenaria tradizione, potrà e dovrà essere letta in controluce nello sviluppo del romanzo. Solo muovendo da tali presupposti sarà possibile valutare la posizione che Jean Paul e il suo primo romanzo occupano nella cultura e nella storia letteraria del tardo Settecento.
2.1. Il discorso medico: l’ipocondria dallo spirito della malinconia
38Gli antichi non conoscevano l’ipocondria, la cui eziologia e i cui sintomi erano costantemente confusi con quelli della malinconia. Nel quadro della dottrina dei quattro umori, infatti, la malinconia risultava da un eccesso di bile nera prodotta dalla milza, che ha sede negli ipocondri. Tale spiegazione ha determinato una sovrapposizione lessicale e semantica che ha, per lungo tempo, informato di sé la storia di questi due concetti.
39Di malinconia si parla per la prima volta nello scritto Sulla natura dell’uomo, appartenente al Corpus Hippocraticum34, ma il cui autore fu probabilmente il genero di Ippocrate Polibo, dove essa è appunto identificata con uno dei quattro umori del corpo, cioè la bile nera. Va comunque osservato che la bile nera a differenza degli altri tre umori, bile gialla, sangue e flegma, manca di fondamenti somatici e si pone invece come semplice immagine ipotetica35. Tale manchevolezza, che avvicina il concetto della malinconia a una metafora, ne sancisce fin dalla sua nascita quell’inafferrabilità che contraddistinguerà per sempre la storia e accrescerà la fortuna di questa patologia, facendone nel Rinascimento un indizio della nobiltà e della profondità d’animo dell’intellettuale e dell’artista.
40Il legame tra malinconia e genialità era peraltro stato teorizzato già molto prima dell’epoca rinascimentale, e precisamente nei Problemata (XXX, 1), di dubbia paternità aristotelica, dove si indagano le ragioni per le quali tutti gli uomini particolarmente eccellenti nella filosofia, nella politica, nella poesia o nelle arti, sono sempre malinconici36. Per fornire una risposta a tale quesito (lo pseudo-)Aristotele ricorre ad alcune nozioni base, come quella del caldo quale principio regolatore delle funzioni dell’organismo37 e dell’aria quale elemento caratteristico dell’umore malinconico. Muovendo da tali nozioni egli si sofferma sugli stati di esaltazione o di abbattimento passeggeri, che possono essere determinati per esempio dal vino, e quelli permanenti, causati dal temperamento atrabiliare, ossia appunto malinconico: in entrambi è proprio l’aria, presente in misura maggiore o minore, a risultare determinante.
41Il sistema ippocratico, sebbene conduca un discorso sulla malinconia che si approssima a quello metaforico e sebbene assimili dottrine esterne alla medicina quali la numerologia pitagorica e la filosofia della natura empedoclea, rappresenta il primo tentativo di respingere superstizioni e spiegazioni soprannaturali e di ricercare le cause naturali delle diverse malattie e quindi anche della malinconia. Galeno, approfondendo le teorie ippocratiche, distingue tre tipi di malinconia in base alla diversa distribuzione del sangue bilioso, a seconda cioè che esso si diffonda in tutto il corpo, oppure si concentri nel cervello o nello stomaco: in quest’ultimo caso Galeno parla, coniando egli stesso il termine, di ipocondria, che appare quindi, evidentemente, quale sottospecie della malinconia. Egli inoltre accosta ai tradizionali sintomi fisici, flatulenze, acidità, dolori di stomaco ecc., sintomi psichici, ossia la paura e la tristezza38.
42Se il metodo inaugurato con la medicina da Ippocrate39 e gli esiti da esso conseguiti raggiungeranno pressoché inalterati il pensiero rinascimentale, agli albori della medicina scientifica, interessante è invece osservare come nella medicina medievale si assista alla nascita di un diverso modello interpretativo, ispirato alla teologia cristiana, che accentua ulteriormente l’importanza di quei sintomi psichici già osservati da Galeno per l’ipocondria, della tristezza in particolar modo, e se ne serve per fornire un’interpretazione teologizzante della malinconia.
43Nel Medioevo infatti la malinconia, senza che con ciò le sia negato lo statuto di patologia, si vede arricchita di un nuovo significato, diviene cioè un peccato capitale: essa è infatti ripensata nei termini di acedia o tristitia, con una evidente inclusione del discorso religioso in quello medico.
44Già San Paolo, nella seconda lettera ai Corinzi40, distingueva tra una tristezza utile, che è riconoscimento da parte dell’uomo della propria debolezza e imperfezione, e una mortale, l’inconsolabile sospetto che questa stessa imperfezione coinvolga l’intera creazione divina e lo stesso Creatore, il dubbio che l’umanità non sarà mai redenta.
45Accogliendo il pensiero paolino, Hildegard, badessa di Bingen del dodicesimo secolo, teologa, mistica, compositrice e autrice di opere di medicina41, per prima teorizza il nesso tra colpa e malinconia, considerando quest’ultima, al pari delle altre malattie, come connaturata all’uomo poiché conseguenza del peccato originale; peccato che il malinconico ribadisce nel suo abbandonarsi alla disperazione, che è negazione della redenzione divina. E ancora Lutero condannerà il malinconico, che, perdurando in uno stato d’animo cupo e in una disperante inerzia, si predispone ad accogliere in sé il diavolo.
46Considerazioni di tal sorta sembrano eludere totalmente dal discorso medico e inscriversi piuttosto nella preoccupazione pastorale della cura delle anime. L’insistenza sugli aspetti psicologici della malinconia denota tuttavia un non trascurabile mutamento di paradigma, che si esplicherà pienamente nella psicologia empirica del xviii secolo, dove la malinconia diverrà, pur nelle sue costanti implicazioni fisiologiche, patologia dell’anima; la psicologia empirica inoltre rielaborerà in termini laici alcune delle problematiche religiose sollevate dalla teologia cristiana medievale42 e svilupperà, in parte anche sulla scia del movimento pietista, l’indagine del conteso sociale, considerato come uno dei fattori scatenanti della malinconia e dell’ipocondria.
47Anticipazioni di questa tendenza si riscontrano già nell’Anatomy of Melancholy pubblicata da Robert Burton nel 1621, testo che si situa in una sorta di confine ideale tra le discipline e tra le diverse interpretazioni e che merita perciò di essere affrontato tanto dal punto di vista delle teorie mediche in esso esibite, quanto da quello di una storia letteraria e sociologica della malinconia. Lo studio di Burton mira infatti certamente a far conoscere le cause della malinconia e a esercitare così sui lettori un effetto terapeutico, a essere cioè un manuale ad usum dei malinconici, tra i quali l’autore stesso si include. Tuttavia, l’abbondanza di citazioni43 desunte non solo dall’ambito medico, ma pure dall’etica, dalla religione e dalla tradizione poetica (greco-latina e inglese in particolare), trasferisce presto il concetto della malinconia dal piano più strettamente scientifico a quello storico-culturale, fino a fare della malinconia un fenomeno politico-sociale.
48Burton, a conferma della lunga sopravvivenza della tripartizione proposta da Galeno, considera ancora l’ipocondria come una sottospecie della malinconia (concezione che però, come presto vedremo, proprio nel suo secolo entrerà in crisi) e parla di una «malinconia ipocondriaca» come della più diffusa e più grave forma di malinconia, cui vanno affiancate la malinconia della testa e quella dell’intero corpo. Nella prefazione satirica che introduce il testo Burton estende la malinconia dalla sfera privata allo Stato, in preda al disordine e alla prepotenza, in una interessante riformulazione delle teorie di Ficino riguardo alle analogie tra microcosmo e macrocosmo. La prefazione può apparire a prima vista estranea agli intenti terapeutici che animano il libro; sennonché anche in essa Burton, sotto la maschera del filosofo Democrito, ridente e tuttavia, a sua volta, descritto come malinconico, propone una terapia, rivolta però non più al singolo ma alla società, un progetto utopico destinato tuttavia a restare inattuato in quanto frutto di un circolo vizioso: se infatti in esso sussiste un implicito divieto alla malinconia, che è frutto di una società disorganizzata e permissiva nei confronti dell’ozio, è altresì vero che solo la condizione di malinconico consente al Democrito di Burton di cogliere i mali della società e di contrapporre a essi il modello utopico. La malinconia dunque favorisce non tanto l’ingegno e la creatività, quanto piuttosto il senso morale nell’uomo. Essa assume quindi nell’opera di Burton una duplice e contraddittoria valenza, sintomo di un malessere della società, ma nel contempo anche indizio di una superiorità spirituale ed etica dell’uomo da essa affetto rispetto alla corruzione della real-tà sociale.
49Entrambi i significati godranno di una certa fortuna anche nei secoli successivi, seppure alternativamente accentuati e variati in direzione di una progressiva ma sempre problematica divaricazione dei concetti di malinconia e di ipocondria.
50È indubbio che sia proprio il processo di emancipazione dell’ipocondria dalla malinconia a portare nel Settecento a una netta preferenza per la prima: solo essa viene infatti accolta e legittimata. In ciò è da scorgere l’influenza esercitata dalla trasformazione in senso sperimentale della scienza che ha avuto luogo nel secolo precedente: la nuova scienza mostra, infatti, come a livello di una verifica empirica sia impossibile sostenere l’esistenza della bile nera, cioè del sostrato fisico della malinconia, e induce al quasi completo abbandono di ogni ricerca eziologica in favore di studi sintomatologici. Questi ultimi conducono a loro volta a un riesame dei sintomi classici della malinconia e all’esclusione di un certo numero di essi, che va allora a confluire nell’ipocondria. L’ipocondria conquista così, per la prima volta, una dimensione autonoma rispetto alla malinconia; autonomia che si accresce con l’introduzione tra le sue cause di un elemento totalmente nuovo, cioè i disturbi alle fibre nervose.
51In verità, qualunque teoria si accolga per spiegare la genesi dell’ipocondria, si tratti cioè della teoria umorale o di quella nervosa, restano comunque inspiegati i meccanismi che ingenerano nel malato ipocondriaco disturbi quali mal di testa, paralisi, difficoltà respiratorie, sintomi per i quali non è possibile individuare cause fisiche precise. È Robert Whytt44, ma siamo già oltre la metà del Settecento, a fornire un’interessante soluzione del problema ipotizzando l’esistenza di una simpatia dei nervi che creerebbe dipendenze reciproche particolarmente forti tra alcune parti del corpo e giustificherebbe quindi, per esempio, l’insorgenza di disturbi al capo a seguito di disfunzioni dello stomaco e così via.
52Ciò che preme sottolineare, prescindendo dai più o meno fruttuosi o fallimentari tentativi di fornire una spiegazione definitiva della malinconia e dell’ipocondria, è come sia la pazzia a costituire un discrimine gradualmente sempre più netto tra le due patologie e a segnare una delle tappe fondamentali della loro storia.
53Come spiega Esther Fischer-Homberger in quello che va considerato probabilmente il migliore studio sulla storia dell’ipocondria45, è in questo contesto che nasce una nuova definizione della malinconia come «pazzia accompagnata da un’idea fissa e da tristezza». Vincenzo Chiarugi nel 179446 propone addirittura di sostituire il termine malinconia, ormai giudicato insoddisfacente, con quello di fissazione, essendo la malinconia una pazzia concentrata permanentemente su uno o pochi oggetti.
54È questo, appunto, il momento in cui l’ipocondria guadagna in popolarità rispetto alla malinconia. Se infatti quest’ultima è intesa come forma di pazzia, quindi come disturbo a livello delle facoltà cognitive, delle capacità raziocinanti, l’ipocondria invece evidenzia sempre un disturbo, questa volta però della sfera emozionale dell’uomo, che lascia quindi impregiudicato il normale funzionamento dell’intelletto. Questo aspetto dell’ipocondria la rende più facilmente accettabile in un secolo, quale il diciottesimo, che, mentre esalta la ragione, riconosce l’importanza delle emozioni e porta in primo piano l’Empfindsamkeit. L’ipocondria è interpretata ora come la reazione di un animo sensibile a un mondo percepito come ingiusto, è dolore per il mondo, per l’insufficienza della real-tà. Hamann, con suggestioni pietistiche, parla addirittura di una «ipocondria sacra» che protegge chi ne è affetto da una rinunciataria accettazione del mondo47 e preserva in lui la nostalgia per l’ideale. Anche prescindendo da questi afflati religiosi, l’ipocondria gode di un consenso sempre crescente, testimoniato dall’ingente quantità di pubblicazioni sul tema, in forma di riviste mediche o di manuali, che si rivolgono adesso non solo e non tanto agli specialisti, quanto piuttosto all’intero pubblico dei lettori48. L’ipocondria è ora percepita come segno distintivo di una società ormai progredita, malattia dell’uomo altamente civilizzato: in ciò si ha un evidente capovolgimento della prospettiva che vedeva nella genesi sociale della malattia mentale una conferma della corruzione e della forza corruttrice della società.
55La critica sociale implicita nella teoria sociogenetica dei disturbi mentali non si esaurisce comunque del tutto con la nuova concezione dell’ipocondria; non si può misconoscere, per esempio, il potenziale polemico latente nel Magazin zur Erfahrungsseelenkunde di Moritz; tuttavia è certamente la legittimazione dell’ipocondria a essere più feconda di conseguenze, soprattutto se ci si sposta sul terreno della rappresentazione letteraria.
2.2. «L’ipocondria come forma diminutiva della malinconia» e la letteratura settecentesca
56La trasformazione della malinconia e dell’ipocondria e del loro rapporto avvenuta nella discussione medica settecentesca e la nuova conseguente legittimazione dell’ipocondria si riflettono sul piano letterario in un progressivo ampliamento degli spazi dedicati a figure di ipocondriaci, guardati con sempre crescente simpatia o almeno con comprensione, mentre va via via riducendosi il numero dei malinconici.
57Se i primi decenni del diciottesimo secolo sono ancora contrassegnati dalla paura che la propria condizione di ipocondriaco incontri derisione, la consapevolezza della diffusione dell’ipocondria spinge molti scrittori a raccontare del proprio male: la figura dell’ipocondriaco fa così il suo ingresso nel panorama letterario settecentesco attraverso il genere dell’autobiografia; un’autobiografia peraltro che già al suo nascere si attende di trovare tra i propri lettori altri ipocondriaci e che si vede così assicurata almeno una parziale comprensione49.
58Il riso, peraltro, accompagna realmente gli ipocondriaci nella letteratura tedesca della prima metà del Settecento, in quanto essi sono oggetto privilegiato delle commedie50. Tra esse spicca Der Hypochondrist scritta nel 1745 da Theodor Johann Quistorp51 che risulta per molti aspetti esemplare della sua epoca. L’ipocondria del suo protagonista Ernst Gotthart è infatti guardata con grande comprensione, ma nel contempo dipinta con tonalità decisamente ridicole; ridicoli però sono nel contempo, e forse ancor di più, i medici che, legati ancora a una concezione fisiologica dell’ipocondria, sono incapaci di comprendere la natura psicologica del male di Gotthart e quindi di curarlo. La serietà della malattia, che pure consiste esattamente nel credersi affetti da malattie delle quali invece non si soffre, è così salvaguardata. Gotthart, inoltre, è in fondo perfettamente consapevole della responsabilità che la fantasia ha nel suo male, seppure resti di fronte a tale constatazione del tutto impotente. Ciò dimostra, conformemente anche a quanto si diceva in precedenza sull’utilizzo del concetto di pazzia per la definizione e classificazione delle patologie mentali, che l’ipocondriaco Gotthart dispone ancora pienamente delle proprie facoltà intellettuali. Neppure così tuttavia l’ipocondria può essere ancora pienamente accolta in società e la commedia si conclude con la guarigione di Gotthart e con il suo matrimonio, segnale di una riconquistata normalità che è riconquista del proprio spazio sociale.
59Vera ragione della fortuna dell’ipocondriaco nella letteratura illuministica risiede nel fatto che in essa i protagonisti si sono da tempo trasformati da artisti geniali in cittadini borghesi.
60L’ipocondriaco, che secondo la definizione di Schings52 non è altro che un malinconico in forma ridotta, che del malinconico possiede ancora alcuni tratti, ma che da esso si distingue per la totale mancanza di quella creatività e genialità che aveva dominato l’immagine classica e rinascimentale della malinconia, non può allora che essere preferito al malinconico quale rappresentante della società e della mentalità borghesi.
61Momento culminante di questa tendenza si ha nella doppia diagnosi della malattia del giovane Anton Reiser nell’omonimo romanzo di Moritz53. Se Anton, oppresso e sofferente, descrive se stesso come un eroe malinconico, il narratore Moritz si affretta subito a correggere tale diagnosi: se Anton fosse malinconico, infatti, la sua malinconia sarebbe in verità assai banale, riducibile a un malcontento per questioni in real-tà abbastanza meschine; nulla vi è in lui della nobiltà che contrapponeva il malinconico a un mondo sentito come essenzialmente ingiusto a prescindere da qualunque riferimento alla propria condizione di vita; Anton è piuttosto un ipocondriaco, spiega Moritz, che negli anni di composizione e pubblicazione del romanzo pubblicava anche il Magazin zur Erfahrungsseelenkunde e ha quindi alle spalle un bagaglio di conoscenze e di esempi cui attingere ormai molto vasto.
62È questo l’esito più maturo di quella divaricazione tra i concetti di malinconia e ipocondria di cui si parlava nel precedente paragrafo e che si fa qui divaricazione tra modello letterario e modello scientifico: se infatti alla base della caratterizzazione della malattia di Reiser quale ipocondria vi sono categorie psicologiche, alla base dell’autodiagnosi del giovane quale malinconico vi è un mal compreso e patetico convenzionalismo letterario che alla rappresentazione non offre altro che metafore ormai svuotate di qualunque significato.
Notes de bas de page
1 HkA, vol. 7: Philosophische, ästhetische und politische Untersuchungen, p. 238: «Nichts lässet in der Dichtung kälter als physische Wunden».
2 L’interesse di Jean Paul per la filosofia va già fatto risalire agli studi ginnasiali a Hof, a quelle Übungen im Denken scritte da uno Jean Paul appena diciassettenne. Sui suoi anni di formazione si confronti Weigl E., Aufklärung und Skeptizismus. Untersuchungen zu Jean Pauls Frühwerk, Gerstenberg, Hildesheim 1980, pp. 26-86, nella cui ricostruzione risultano centrali la figura del parroco Vogel, che lo spinge a mettere in discussione i fondamenti dell’ortodossia, e la lettura della Teodicea di Leibniz: dominanti, anzi dalla lettura di Weigl si direbbe esclusivi, sono quindi gli interessi religiosi (dal confronto ortodossia-eterodossia alla storia della Chiesa) che porteranno Jean Paul a iscriversi alla facoltà di teologia dell’università di Lipsia nel maggio del 1781. Se Weigl ha ragione nel mostrare come la formazione ricevuta, accompagnata dal fatto che Jean Paul era figlio di un predicatore, rendesse la scelta di dedicarsi a studi teologici pressoché scontata, più problematica risulta la quasi totale indifferenza dello studioso nei confronti della matrice scettico-libertina dell’Illuminismo, che pure ben gioverebbe all’analisi delle prime satire jeanpauliane cui è dedicata l’ultima parte del saggio. Più completo appare il lavoro di Köpke W., Erfolglosigkeit: zum Frühwerk Jean Pauls, Fink, München 1977, che ripercorre lo sviluppo del pensiero jeanpauliano dalle Übungen im Denken alla Unsichtbare Loge, mettendo in luce la molteplicità di temi e problemi che occupano il giovane Jean Paul nel suo confrontarsi sì con la filosofia leibniziana, ma anche, intensamente, con il pensiero di Herder, Kant e Jacobi.
3 Delle Ästhetische Untersuchungen entra a far parte nel 1806 anche un secondo volume, dal titolo Ästhetik, pensato come raccolta di materiale per le seconda edizione della Vorschule, che infatti sarà pubblicata nel 1812. Saranno riprese infine altre 182 annotazioni che confluiranno nella Nachschule zur ästhetischen Vorschule del 1825.
4 H, I, 1, p. 183.
5 Phänomenologie des Geistes, a cura di H.-F. Wessels, Meiner, Hamburg 1988; Hegel G.W.F., Fenomenologia dello spirito, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1963, pp. 183-184.
6 Tra gli studi più significativi – a volte vere monografie sul tema, a volte studi nei quali al problema sono dedicati alcuni capitoli nell’ambito di una trattazione più ampia – vanno annoverati Proß W., Jean Pauls geschichtliche Stellung, Niemeyer, Tübingen 1975; Schmidt-Biggemann W., Maschine und Teufel. Jean Pauls Jugendsatiren nach ihrer Modellgeschichte, Alber, Freiburg - München 1975; Müller G., Jean Pauls Ästhetik und Naturphilosophie, Niemeyer, Tübingen 1983; Rankl M., Jean Paul und die Naturwissenschaft, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1987; Gerabek W., Naturphilosophie und Dichtung bei Jean Paul: das Problem des commercium mentis et corporis, Heinz Akad. Verl., Stuttgart 1988; Esselborn H., Das Universum der Bilder. Die Naturwissenschaft in den Schriften Jean Pauls, Niemeyer, Tübingen 1989; Bergengruen M., Schöne Seelen, groteske Körper. Jean Pauls ästhetische Dynamisierung der Anthropologie, Meiner, Hamburg 2003; Eickenrodt S., Augen-Spiel. Jean Pauls optische Metaphorik der Unsterblichkeit, Wallstein, Göttingen 2006.
7 Si vedano al riguardo Müller G., Jean Pauls Exzerpte, Königshausen & Neumann, Würzburg 1988, e Goebel R., Der handschriftliche Nachlass Jean Pauls und die Jean-Paul-Bestände der Staatsbibliothek zu Berlin Preußischer Kulturbesitz, Harrassowitz, Wiesbaden 2002.
8 Müller G., Jean Pauls Ästhetik und Naturphilosophie, cit., p. 15.
9 Müller si sofferma, in alcune pagine, sul rapporto sussistente tra Jean Paul e la psichiatria del suo tempo, svelando uno Jean Paul lettore di Thomas Arnold, Johann Christopher Reil e Vincenzo Chiarugi, i cui trattati sui disturbi mentali, in particolare su pazzia e idee fisse, Jean Paul riprende nei propri romanzi. Tuttavia, scegliendo di consacrare il suo saggio all’estetica jeanpauliana, Müller sospinge programmaticamente in secondo piano l’analisi dei testi poetici, pur dedicando alcuni paragrafi al Quintus Fixlein e alla Dr. Katzenbergers Badereise.
10 Wöbkemeier R., Erzählte Krankheit. Medizinische und literarische Phantasien um 1800, Metzler, Stuttgart 1990, p. 205.
11 Ivi, p. 215.
12 Si veda in particolare il saggio ormai classico di Schings H.-J., Der anthropologische Roman. Seine Entstehung und Krise im Zeitalter der Spätaufklärung, in B. Fabian - W. Schmidt-Biggemann - R. Vierhaus (a cura di), Deutschlands kulturelle Entfaltung. Die neue Bestimmung des Menschen, Meiner, München 1980, pp. 247-275.
13 Cfr. Fulda D., Wissenschaft aus Kunst: Die Entstehung der modernen deutschen Geschichtsschreibung 1760-1860, de Gruyter, Berlin - New York 1996, pp. 100-109.
14 Cfr. Kiehl R., Das Experiment des aufgeklärten Bildungsromans, Königshausen & Neumann, Würzburg 2008.
15 Così ne delinea il rapporto Esselborn H., Der anthropologische Roman als Alternative zum Bildungsroman am Beispiel von Wielands “Agathon”, in J.-M. Paul (a cura di), L’image de l’homme dans le roman de formation ou Bildungsroman, Centre de Recherches Germaniques et Scandinaves de l’Univ. de Nancy II, Nancy 1996, p. 89-102.
16 Platner E., Anthropologie für Ärzte und Weltweise, Weidmann, Hildesheim 2000.
17 Cfr. Schings H.-J. (a cura di), Der ganze Mensch. Anthropologie und Literatur im 18. Jahrhundert, Metzler, Stuttgart 1994
18 Moretti F., Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino 1999, p. xi.
19 La figura del Sonderling godette di grande fortuna nella letteratura tedesca già a partire dal Cinquecento, come ben dimostra lo studio di Meyer H., Der Sonderling in der deutschen Dichtung, Ullstein, Frankfurt a.M. - Berlin 19842. Meyer, infatti, riconosce già nei folli della Nave dei folli di Sebastian Brandt i predecessori del Sonderling settecentesco e da lì ricostruisce la storia letteraria di tale figura fino al Novecento, ricorrendo anche a esempi tratti dalle letterature di paesi non di lingua tedesca come Cervantes e Sterne. Un intero capitolo del saggio è dedicato all’opera di Jean Paul, che dall’immagine del personaggio Sonderling è attraversata in tutto il suo sviluppo e riassume quindi in sé la storia delle progressive trasformazioni del personaggio dall’influsso sterniano al confronto con il Romanticismo.
20 Cfr. Gusdorf G., Les principes de la pensée au siècle des lumières, Payot, Paris 1971, pp. 466-477 e, limitatamente però all’area francese, Chisick H., The Limits of Reform in the Enlightenment. Attitudes towards the Education of the Lower Classes in Eighteenth-Century France, Princeton University Press, Princeton 1981.
21 Per una visione d’insieme del problema dell’educazione nel XVIII secolo si confronti Hazard P., La pensée européenne au XVIIIe siècle de Montesquieu à Lessing, Fayard, Paris 1963.
22 Schneider G., Der Libertin: zur Geistes- und Sozialgeschichte des Burgertums im 16. und 17. Jahrhundert, Metzler, Stuttgart 1970; trad. it., Il libertino. Per una storia sociale della cultura borghese nel XVI e XVII secolo, il Mulino, Bologna 1974, pp. 200-201.
23 Si veda Wilke C.-H., Der Romanautor Jean Paul Friedrich Richter und sein “Biograf” Jean Paul, «JbJPG», 5 (1970), pp. 85-104, in particolare alle pp. 95-96.
24 H, I, 1, p. 13.
25 Cfr. Eickenrodt S., Augen-Spiel. Jean Pauls optische Metaphorik der Unsterblichkeit, Wallstein, Göttingen 2006, p. 55.
26 Cfr. Starobinski J., La Mélancholie au miroir, Julliard, Paris 1989; trad. it., La malinconia allo specchio, Garzanti, Milano 1990, p. 58.
27 Lambrecht R., Der Geist der Melancholie: eine Herausforderung philosophischer Reflexion, Fink, München 1996, p. 11.
28 Kemp F. - Miller N. - Philipp G., Vorschule zu Jean Paul, Piper, München 19862, p. 57.
29 Cfr. Planck K.C., Jean Paul’s Dichtung im Lichte unserer nationalen Entwicklung, G. Reimer, Berlin 1867, che per primo sottolinea il netto primato dei personaggi rispetto alla trama, e Kommerell M., Jean Paul, Klostermann, Frankfurt a.M. 19664, che, riconoscendo a sua volta questo stesso primato, tende però a relativizzare anche il significato dei personaggi. Per una visione d’insieme della problematica si confronti Köpke W., Erfolglosigkeit, cit., pp. 249 sgg.
30 Kemp F. - Miller N. - Philipp G., Vorschule zu Jean Paul, cit., p. 57.
31 Cfr. Michelsen P., Laurence Sterne und der deutsche Roman des achtzehnten Jahrhunderts, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 19722.
32 Jean Paul si sforza costantemente di definire, dall’interno delle opere stesse, il genere cui esse appartengono, di volta in volta romanzo, biografia e pseudo-biografia, racconto e resoconto. Su queste categorie e la storia del loro sviluppo si confronti Lehmann J., Bekennen, Erzählen, Berichten. Studien zur Theorie und Geschichte der Autobiographie, Niemeyer, Tübingen 1988.
33 Cfr. Profitlich U., Der selige Leser. Untersuchung zur Dichtungstheorie Jean Pauls, Bouvier, Bonn 1968, pp. 58-71, che, proponendo una lettura dell’estetica jeanpauliana come Wirkungsästhetik, dedica un capitolo al problema della partecipazione emotiva del lettore alle sofferenze del personaggio, senza però discutere le osservazioni di Jean Paul riguardo alle condizioni di possibilità e ai limiti dell’intersoggettività, sia essa Mitfühlen (nelle sue due varianti Mitleiden e Mitfreude) o “prestito umoristico”, e senza fare riferimento, nella sua analisi, alla discussione inglese (Smith, Hutcheson e Shaftesbury) sul problema della simpatia ben presente a Jean Paul. Su di essa si sofferma invece Spedicato E., Teodicea del riso, in Jean Paul, Il comico, l’umorismo e l’arguzia, Il poligrafo, Padova 1994, pp. 9-104, in particolare alle pagine 35-6, dove lo studioso si richiama a sua volta a Hörhammer D., Die Formation des literarischen Humors. Ein psychoanalytischer Beitrag zur bürgerlichen Subjektivität, Fink, München 1984, pp. 198 sgg.
34 Ippocrate, La natura dell’uomo, in Id., Opere, Utet, Torino 1976, pp. 429-451.
35 Cfr. Lambrecht R., Der Geist der Melancholie, cit., p. 32.
36 Cfr. Aristotele, La “melanconia” dell’uomo di genio, Il Melangolo, Genova 1981, p. 10.
37 Ivi, p. 15.
38 Cfr. Fischer-Homberger E., Hypochondrie. Melancholie bis Neurose: Krankheiten und Zustandsbilder, Hans Huber, Bern - Stuttgart - Wien 1970, p. 15.
39 Cfr. Pohlenz M., Hippocrates und die Begründung der wissenschaftlichen Medizin, De Gruyter, Berlin 1938, che evidenzia come Ippocrate, con il suo costante sforzo di rintracciare le cause naturali delle malattie (e Pohlenz considera in particolar modo gli scritti ippocratici sull’epilessia) e il suo rifiuto di spiegazioni soprannaturali, inauguri il metodo scientifico. Ippocrate polemizza infatti contro maghi, ciarlatani e impostori, che hanno attribuito all’epilessia un alone di sacralità per mascherare la loro ignoranza delle cause reali di essa, cause invece assolutamente naturali e razionalmente comprensibili, solo che si valutino fattori contingenti quali l’ereditarietà o il clima in cui il malato viva. Si confronti per questo la scelta di testi ippocratici raccolta in Cambiano G., Filosofia e scienza nel mondo antico, Loescher, Torino 19885, pp. 176-191.
40 Paolo, Seconda lettera ai Corinzi, 7, 8-10.
41 Hildegardis <Bingensis>, Heilkunde: das Buch von dem Grund und Wesen und der Heilung der Krankheiten, edizione e traduzione a cura di H. Schipperges, Müller, Salzburg 1957.
42 Si confronti su questo punto Schings H.-J., Melancholie und Aufklärung: Melancholiker und ihre Kritiker in Erfahrungsseelenkunde und Literatur des 18. Jahrhunderts, Metzler, Stuttgart 1977, pp. 234-246, che descrive i tentativi moritziani di spiegare, nel Magazin zur Erfahrungsseelenkunde, l’interazione di accidia e malinconia.
43 Si confronti a tal proposito quanto affermato da Jean Starobinski nella sua introduzione a Burton R., The Anatomy of Melancholy, Tudor, New York; trad. it. Anatomia della malinconia, Marsilio, Venezia 1983, p. 11: «Questo libro ci fornisce uno dei più bei esempi di intarsio di citazioni; lo sviluppo della sua inventio è inseparabile da quello della tesaurizzazione […] Questo libro, per sua stessa ammissione, è nato da un vasto caos e confusione di libri». Sulle analogie esistenti tra questo procedimento e quello di selezione delle fonti che caratterizza la scrittura jeanpauliana, sul fare digressivo e sull’autoannullamento dell’autore, nonché sull’ambiguità che accomuna i due scrittori nel loro rapporto con la malinconia e con il nesso malinconia-satira torneremo in seguito.
44 Whytt R., Observations on the Nature, Causes and Cure of Those Disorders Which Have Been Commonly Called Nervous, Hypochondriac or Hysteric, Edinburgh 1767.
45 Fischer-Homberger E., Hypochondrie Edinburgh, cit., pp. 18-19.
46 Chiarugi V., Trattato della pazzia in genere e in ispecie, Firenze 1794 (ristampa anastatica Vecchiarelli, Roma 1991).
47 Lettera a Herder del 3 giugno 1781 citata in Lambrecht R., Der Geist der Melancholie, cit., p. 62.
48 Esemplare è a tal proposito il titolo del testo pubblicato nel 1767 da Bilguer J.U. presso l’editore Rothe di Kopenhagen che recita Nachrichten an das Publikum in Absicht der Hyponchondrie. Oder Sammlung verschiedener, und nicht sowohl für die Ärzte als vielmehr für das ganze Publicum gehörige die Hypochondrie, ihre Ursachen und Folgen betreffende medicinische Schriftstellen, und daraus gezogener Beweis, dass die Hypochondrie heutiges Tages eine fast allgemeine Krankheit ist, und dass sie eine Ursache der Entvölkerung abgehen kann o ancora quello del saggio di Kämpf J. Für Ärzte und Kranken bestimmte Abhandlung von einer Methode, die hartnäckigsten Krankheiten, die ihren Sitz im Unterleibe haben, besonders die Hypochondrie, sicher und gründlich zu heilen, M. G. Weidmanns Erben und Reich, Leipzig 1786.
49 Si confrontino l’autobiografia di Bernd A., Eigene Lebensbeschreibung del 1738 (Winkler, München 1973) o le opere di Cheyne e Revillon, che, nati come trattati sull’ipocondria, lasciano presto il posto al resoconto delle personali esperienze di ipocondriaci dei due autori.
50 Wöbkemeier R., Erzählte Krankheit, cit., p. 140 sgg.
51 Quistorp T.J., Der Hypochondrist, in «Deutsche Schaubühne», vol. 6, herausgegeben von J.C. Gottsched, 1745.
52 Schings H.-J., Melancholie und Aufklärung, cit., p. 49.
53 Müller L., Die kranke Seele und das Licht der Erkenntnis: Karl Philipp Moritz’ Anton Reiser, Athenäum, Frankfurt a. M. 1987, pp. 88-92.
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La malattia dell’anima e il romanzo antropologico
Medicina e pedagogia nella Unsichtbare Loge di Jean Paul e nelle sue fonti
Elisa Leonzio
2017