Umiliati e offesi
La rappresentazione del mutilato prima e dopo Caporetto
p. 253-278
Texte intégral
La guerra è bella, anche se fa male
1Nelle immagini che mostrano dei militari prima del disastro di Caporetto – che si tratti di pubblicità, copertine di libri e riviste, cartoline o altro – sembra che esistano anche i feriti, ma solo quelli leggeri, che hanno riportato poco più di qualche ammaccatura facilmente curabile. Benché la propaganda e la retorica dell’eroe che cade al fronte siano presenti fin dai primi giorni di guerra, in Italia si assiste ad un fenomeno particolare: chi muore per la Patria è idolatrato, ammirato, praticamente beatificato. Cerimonie, medaglie d’oro alla memoria, progetti di tombe e monumenti faraonici, discorsi, messe solenni, fotografie e necrologi che riempiono intere pagine di giornali. La morte è gloriosa, bella e pulita, almeno nelle immagini mostrate al pubblico e nei discorsi. Muore giovane chi è caro agli dei, e muore sempre bene, senza indegnità, dolori, paure, agonie interminabili, mutilazioni atroci. Si può celebrare il suo sacrificio senza remore additandolo come esempio a militari, civili ed a chi verrà presto o tardi arruolato.
2Il ferito, invece, è guardato da subito con sospetto, in parte giustificabile: impera infatti la psicosi, abilmente alimentata dallo Stato Maggiore e dalla propaganda, della ferita autoinferta, abietta scappatoia per non andare al fronte o per tornarsene vigliaccamente a casa. Beninteso, l’autolesionismo esisteva, ed esisteva fin dai primi mesi di guerra, anche se è difficile sapere se fosse così diffuso come la propaganda contro disertori ed imboscati voleva far credere. Forse no, dato che era punito con pene molto severe: decine d’anni di carcere, per arrivare, dopo Caporetto, fino a quella di morte. Ma la prima sentenza per autolesionismo viene pronunciata già il 26 luglio 1915, e riguarda ben 46 imputati. Di questi, 27 vennero condannati ciascuno a vent’anni di reclusione, per gli altri non si poté provare che la ferita era stata autoinferta. Secondo Lorenzo Del Boca1, nei primi mesi di guerra sul Carso, sull’insieme dei feriti, quelli che venivano definiti “leggeri” (e quindi, secondo l’autore, i più sospettabili di autolesionismo) non superavano il 10%, ma già verso la fine dell’anno la percentuale superava largamente l’80%. A dire il vero, queste cifre non dimostrano affatto che i soldati cercassero sistematicamente di ferirsi da soli, come sostengono anche altre fonti: il numero di ferite leggere che aumenta vertiginosamente verso la fine dell’anno poteva essere legato a molti altri fattori. È un fatto che d’inverno sono molto più frequenti le lesioni accidentali leggere come congelamenti o ferite causate da attività necessarie e potenzialmente rischiose, come per esempio tagliar legna per il fuoco. Inoltre, nei primi mesi di guerra, in diverse zone del Carso non si combatteva ancora, quindi era ovviamente eccezionale restare feriti. Nel frattempo, le tecniche di autolesionismo, che aumenta in modo sensibile dopo il 1916, diventano sempre più raffinate ed è sempre più difficile provare che si tratta di ferita autoinferta. Il problema principale per chi non voleva partire o tentava di farsi mandare definitivamente a casa, era che una ferita leggera, non mutilante o invalidante non sarebbe servita allo scopo, a meno di non avere in mente, una volta inviati negli ospedali da campo delle retrovie o in convalescenza, di approfittarne per disertare2.
3Dunque, nella retorica e nell’immaginario del periodo 1915-1917, se si ha la disgrazia di venir colpiti, o si muore, o si guarisce. Questa affermazione può sembrare eccessiva, ma basta considerare le immagini che riguardano i feriti per convincersi che l’idea generale, quella che si voleva trasmettere sia ai civili che ai militari, era appunto questa. Le rappresentazioni dei feriti sono numerose, in particolare su manifesti, calendari e cartoline della Croce Rossa; ma sono molto presenti anche nelle pubblicità classiche. Esemplare è quella per le caffettiere Santini, dove il ferito, assistito da due crocerossine, si gode in poltrona la sua tazza di caffè. L’uomo ha apparentemente riportato una ferita leggera, ha il braccio sinistro sostenuto da una fascia appesa al collo, e porta la divisa: convalescente, ma praticamente già pronto a ritornare al fronte. Non vi è mai nessun elemento, in queste immagini, che indichi la volontà o anche solo l’idea del ritorno definitivo a casa, e tanto meno in quelle che mostrano dei feriti medicati sul campo. In queste generalmente si vedono delle crocerossine, talvolta assistite dal medico militare, che bendano un braccio, una gamba o la testa di soldati coscienti, più spesso seduti che sdraiati, e che di norma sembrano impazienti di rialzarsi. Mai nessuna traccia di sangue, nemmeno sulle bende, nessuna mutilazione, nessuna ferita sporca o spaventosa. In qualche raro caso si può supporre che la faccenda sia più grave, quando per esempio il soldato ferito, incosciente, viene portato via in barella o, peggio, quando dietro le figure dei sanitari appare quella del cappellano militare. Ma queste immagini sono più rare e più tardive, appaiono quasi tutte nell’ultimo anno di guerra. La figura della crocerossina, angelo delle trincee, è onnipresente e meriterebbe un discorso a parte. È comunque importante sottolineare che la sua presenza non ha valenza erotica, benché quelle che appaiono in tutte le illustrazioni e fotografie siano quasi sempre giovani e graziose. Vi è costantemente una certa ambiguità nel rapporto col ferito, lo vediamo anche nell’immagine del caffè: la dama più anziana e meno attraente è dietro a un tavolo, ad una certa distanza dal soldato, mentre quella più giovane, carina e sorridente, gli sta vicinissima. Ciò che si intendeva mettere in valore, almeno nelle intenzioni dichiarate dalle autorità, era un rapporto sorella-fratello o madre-figlio, ma le belle giovani in uniforme attillata fanno irresistibilmente pensare a rapporti d’altro tipo3. È eccezionale che un militare ferito o convalescente venisse raffigurato accanto a una donna che non fosse una dama della Croce Rossa. Un esempio lo si vede nella pubblicità del Proton, noto ricostituente, in cui un militare si rivolge ad una elegante giovane signora in un salotto, evocando il suo prossimo «ritorno alla fronte». Il fatto che fosse stato mandato in convalescenza a casa fa capire che doveva essere stato ferito in modo serio, eppure, per essere pronto ad affrontare di nuovo la trincea, gli sono bastati un po’di riposo e qualche cucchiaiata di sciroppo che lo ha «ricostituito prontamente». Questa pubblicità è un modello esemplare di quanto abbiamo affermato sull’i-dea che circolava a proposito dei feriti di guerra: se dovesse succedere, ci si curi e si ritorni a combattere senza fare tante storie, altrimenti vuol dire che si è vigliacchi o autolesionisti.
4Nel periodo che precede Caporetto, le mutilazioni vengono fatte passare sotto un vergognoso silenzio. Con questo non intendiamo solo dire che si sottovalutava il fenomeno o che non se ne parlava, ma anche che il sentimento che circondava le vittime, e che esse stesse provavano, era in genere la vergogna. Un mutilato era degno di pietà, ma era anche un disgraziato, un invalido che non sarebbe più stato d’aiuto alla patria e che diventava un peso per la società e la famiglia. In questi anni, infatti, le immagini del mutilato praticamente non esistono. Si trovano solo rari manifesti, volantini o biglietti, mai illustrati, che chiedono contributi, o pubblicizzano attività benefiche (concerti, spettacoli, fiere) allo scopo di raccogliere fondi per aiutare i mutilati. Iniziative create esclusivamente a livello locale, non nazionale. Questa sordina, e il fatto che fossero delle associazioni private a doversi occupare delle vittime, la dice lunga sulla situazione dei reduci e sull’atteggiamento del governo e dello Stato Maggiore. Un esempio che vale per tutti è questo manifesto, affisso ad Acqui nel 1916:
Appello ai generosi!
NESSUNO può rifiutare il suo obolo.
I mutilati abbandonati e meschinamente trattati lascierebbero [sic] rimorso e onta nel paese.
Ai prodi che si sono ridotti dimezzati, incompleti, monchi si deve non solo l’aiuto, ma quell’onda di amoroso entusiasmo che valga a far dimenticare la loro sventura e renderli fieri e contenti del sacrificio fatto.
Dirigere le offerte al COMITATO di PREPARAZIONE CIVI-LE – ACQUI – Palazzo Municipale, piano terreno.
5Si fa dunque appello alla generosità dei singoli per un obolo pro mutilati di guerra, cioè si invita a far loro la carità. Probabile che il denaro non potesse far nessuno «contento del sacrificio fatto», ma certamente avrebbe reso la condizione del mutilato meno pesante ed umiliante, per lui come per la sua famiglia.
Mutilati di guerra vs Mutilati in guerra
6La propaganda insisteva pesantemente sul fatto che tutti avevano il dovere di combattere, in qualsiasi condizione fossero. Questo era forse anche un modo per invogliare o per reclutare chi, secondo i criteri prebellici, non era considerato idoneo al servizio militare. Vista la miseria e le condizioni igienico-sanitarie catastrofiche di gran parte dell’Italia, non stupisce che alla visita di leva venisse scartata una quantità impressionante di uomini, e che fosse necessario rivedere i criteri e renderli meno severi4, in particolare per adibire ai servizi sedentari i riformati e mandare al fronte chiunque fosse anche a malapena in grado di andarvi. I volontari erano quasi sempre ben accetti, anche quando non erano in condizioni fisiche brillanti, e venivano considerati come esempi da additare agli scettici, ai riluttati ed ai renitenti. Per dimostrare che difendere la Patria (la maiuscola era d’obbligo) era solo una questione di buona volontà, cosa poteva esserci di meglio di un volontario mutilato? E, visto che il soggetto ideale esisteva ed era impaziente di andare a combattere, la propaganda non esitò a servirsene. Fin dai primi mesi di guerra, infatti, si parla in termini entusiastici di Enrico Toti, ferroviere privo di una gamba e bersagliere volontario5. L’a-poteosi viene raggiunta alla sua morte, nel 1916, e continua per decenni. La sua figura campeggia nel Pantheon dei martiri di guerra italiani, e si continua ad onorarne la memoria con un subisso di articoli, libri, statue, cartoline, francobolli, monumenti6, placche, vie, piazze e perfino due sommergibili a lui intitolati. Toti era effettivamente un personaggio fuori dal comune, che si prestava particolarmente bene ad incarnare l’eroica figura del mutilato in guerra, il «mutilato combattente». Benché la sua domanda di arruolamento fosse stata respinta per tre volte, alla fine riuscì a entrare nella 3a Armata, dove fu il Duca d’Aosta in persona a permettergli di svolgere mansioni di portaordini. Nel gennaio del 1916 venne accettato come effettivo nel 3 ° Battaglione Bersaglieri Ciclisti. Con sua morte durante la VI battaglia dell’Isonzo, preceduta dal celebre lancio della stampella, l’iconografia dell’eroe mutilato ha trovato la figura perfetta. La sua immagine più famosa è sicuramente quella di Beltrame7 sulla copertina della «Domenica del Corriere» del 24 settembre 1916, e la maggior parte di quelle successive riprendono il tema e lo sviluppano a modo loro.
7L’episodio del lancio della stampella appare nel bollettino ufficiale per l’attribuzione della medaglia d’oro al Valor Militare8, e si basa sulla testimonianza di alcuni compagni di battaglia. Altri non la menzionano, limitandosi a ricordare come Toti, benché gravemente ferito, avesse continuato a combattere, rialzandosi più volte, finché non venne colpito in fronte da una pallottola nemica. Che il lancio sia avvenuto o meno, è comunque certo che Toti è vissuto e morto da coraggioso. La propaganda adotterà entusiasticamente questa insolita figura, facendone il simbolo del soldato italiano, che muore ma non si arrende, e che combatte anche quando non sarebbe in condizione di farlo. Di conseguenza, la sua immagine viene idealizzata, e la somiglianza fisica tra originale e ritratti passa in secondo piano rispetto al modello che si vuole proporre. Prendiamo per esempio il celebre monumento di Villa Borghese9, che ritrae una montagna di muscoli, un colosso che del vero Toti conserva solo la gamba mutilata e la stampella. L’irsuto bersagliere trentacinquenne diventa qui un giovane Ercole nudo, glabro e sprezzante, un vero eroe epico. Gli aggettivi con cui viene qualificato, specie durante il conflitto e nell’immediato dopoguerra, sono iperbolici: «sublime», «indomito», «glorioso», «martire», «beato» (forse anticipando un’eventuale e mai ventilata canonizzazione). Senza nulla togliere al valore dell’uomo, vediamo che il discorso subliminale che sta dietro questa propaganda è ambiguo e particolarmente disonesto. Si sottintende, e senza nemmeno molta sottigliezza, che se un mutilato può e vuole essere un combattente, persino un eroe, perché chi è in buone condizioni fisiche non dovrebbe fare altrettanto? E non si vergogna chi, essendo in buona salute, non si precipita a combattere con entusiasmo, soprattutto davanti a questo sublime esempio di patriottismo?
8Si arriva anche, abbastanza spesso, a fare paragoni sconcertanti tra Toti e altri mutilati. Ne vediamo un esempio in una cartolina in cui Toti viene messo in parallelo con un altro «glorioso mutilato dell’Indipendenza italiana», cioè Nicola Scatoli10. Ora, costui perse la gamba durante una battaglia a cui sopravvisse, e non combatté mai più dopo la mutilazione, come succedeva normalmente in questi casi. Scatoli avrebbe quindi potuto, semmai, diventare il simbolo delle decine di migliaia di uomini che, partiti al fronte in perfette condizioni, subivano mutilazioni terribili, e che non avevano nemmeno un tranquillo lavoro d’ufficio ad attenderli, ma dei campi che non avrebbero più potuto coltivare o un’officina in cui non ci sarebbe più stato bisogno di un disabile come loro.
Caporetto: la mutilazione protagonista
9Al momento del disastro di Caporetto, la percezione del fronte e del campo di battaglia cambiano, in modo improvviso ed irreversibile. Abbiamo visto che, prima di questa data, la morte e le ferite “sporche” o le mutilazioni non venivano nemmeno lontanamente evocate, né dalla stampa, né dalla propaganda, né dalla pubblicità. La ragione principale del silenzio era forse quella di cui parla Frescura nell’immediato dopoguerra:
La gente sa che i mutilati, i deformati, gli sfigurati, le maschere orribili e i pietosi moncherini di uomini che la guerra produce ogni giorno, sono tenuti lontano, per ora, non circolano. Appariranno dopo, essi sarebbero ora una terribile propaganda contro la guerra, una terribile reazione avrebbe nella folla che urlerebbe: basta!11
10Non è però così sicuro che la gente sapesse, o che sapesse nei dettagli. Cosa davvero si sa, quando qualcosa viene taciuto così ostinatamente, quando giornali, pubblicità, manifesti, mostrano la guerra come una tenzone cavalleresca che si affronta cantando e da cui si ritorna sereni e orgogliosi, quando a tutti fa comodo non crucciarsi più del dovuto e non vedere la realtà? Senza contare che nessuno aveva ancora davvero capito cosa poteva succedere in una guerra moderna, combattuta con armi capaci di devastare in modo fino ad allora inconcepibile. Caporetto, in tutto ciò, rappresenta la linea di frattura, il crollo dell’ipocrisia, la sconfitta brutale, lo choc da cui non ci si riprende, la consapevolezza che nulla potrà mai più essere come prima. Per decenni, parlare di Caporetto sarà quasi tabù: lo si evocava rapidamente, saltando subito alla eroica resistenza italiana sul Piave e al trionfo di Vittorio Veneto. Su Caporetto cala un silenzio significativo, forse nel tentativo di rimuovere il ricordo dell’umiliazione subita. Pure, come ben sappiamo, il termine entra immediatamente nel lessico come metafora di catastrofe totale. Funesto, irrimediabile, insanabile, Caporetto non è una ferita: è una mutilazione.
11Uno dei primi segni del cambiamento di rotta nei confronti dei mutilati è la copertina che la «Domenica del Corriere», il settimanale più venduto e più letto, dedica loro. Fino ad allora, pur consacrando la stragrande maggioranza delle prime e delle quarte di copertina alla guerra12, non aveva mai mostrato nessun mutilato, se escludiamo Toti che lanciava la stampella. Poco se ne parlava anche nelle pagine interne, e non si vedevano praticamente mai fotografie a riguardo. Le truppe italiane si sono appena assestate sul Piave quando la rivista13 esce con una copertina dove in primo piano vediamo un militare senza un braccio e tre senza una gamba, appoggiati alle grucce e accompagnati dall’inevitabile crocerossina. Grazie al loro cappello, sappiamo che due sono fanti, uno è bersagliere e l’altro alpino: tutti salutano e indicano un gruppo di combattenti che partono all’assalto, abbozzati sullo sfondo galleggianti su una nube e come avvolti nella nebbia. La didascalia dice:
I mutilati di guerra ai difensori del sacro suolo della Patria: «Pel nostro popolo, per i fratelli caduti, per noi stessi che portiamo orgogliosi i segni del dovere compiuto, compagni d’arme, in alto i cuori: in una sola volontà si schierino i vostri petti contro l’oltracotanza nemica».
12Ecco quindi che, di colpo, i mutilati non solo appaiono, ma hanno anche il compito di incoraggiare ed esortare i commilitoni a non avere paura e a continuare a combattere. Vedremo tra breve come questo ruolo sarà indossato da alcuni di loro. Per ora limitiamoci a constatare che i mutilati sono usciti dall’ombra. Certo, alla lunga sarebbe stato difficile continuare a fingere di ignorare la loro esistenza, dato che il loro numero stava aumentando in modo vertiginoso. Alla fine della guerra, 75.000 uomini hanno perso uno o più arti o estremità e 12.000 sono paraplegici o tetraplegici. Le mutilazioni sensoriali sono anch’esse altissime: più di 23.000 uomini hanno perso la vista e quasi 7000 l’udito; i muti da trauma o da lesioni sono circa 4000. A questi vanno aggiunti i quasi 6000 «mutilati del viso», pudica locuzione che indica le orrende devastazioni assai meglio definite dalla prosaica e cruda espressione francese «gueules cassées» (musi sfasciati); circa 25.000 sono affetti in modo permanente da disturbi nervosi più o meno gravi, e sono i meno rispettati tra tutti i feriti ed i traumatizzati della Grande Guerra: prova ne sia il fatto che vengono spesso brutalmente definiti come «scemi di guerra»14, espressione tanto ingiusta e crudele quanto canzonatoria. In questi numeri non erano stati presi in considerazione coloro che avevano riportato danni permanenti ai polmoni o ad altri organi interni per via dei gas, di ferite profonde o di traumi15.
13I settimanali e i quotidiani cominciano a pubblicare articoli e pubblicità che riguardano la vita quotidiana dei mutilati, e continueranno a farlo fino almeno alla metà degli anni Venti. Vi vengono descritte o reclamizzate le novità e le iniziative volte ad aiutarli e a semplificare loro la vita. Vi sono, ad esempio, pubblicità di protesi, come quella degli «Arti Artificiali Automatici “Alphar. B.” I più Belli – Semplici – Pratici – Solidi – Economici», accompagnata dall’indirizzo della ditta produttrice a cui chiedere, eventualmente, «listini illustrati e schiarimenti gratis». Alcuni articoli parlano delle lodevoli iniziative di associazioni e comitati, come l’accordo tra l’Ente Autonomo Case Popolari di Milano e l’Istituto dei Ciechi, che si impegna a pagare un terzo dell’affitto, per l’assegnazione di case ai ciechi di guerra16. Vi sono anche esempi situabili tra l’articolo e la pubblicità, come quello, accompagnato da due fotografie, che descrive «una utile invenzione pei grandi mutilati di guerra» ideata da un «giovane smobilitato che ha ripreso il suo mestiere di meccanico», Leone Ronchi, che ha brevettato una carrozzella che può essere spinta da una bicicletta, sul principio del risciò, facile da montare e smontare «togliendo una vite». Secondo l’articolo, l’invenzione permetterebbe «uno spostamento [...] funzionale e rapidissimo, comodo ed anche economico» dei mutilati. L’incipit dell’articolo merita di essere riprodotto per intero:
Della schiera gloriosa dei mutilati di guerra, i più disgraziati, oltre i ciechi, sono indubbiamente gli affetti da lesioni spinali, con paralisi parziali o totali degli arti inferiori. Questi infelici per muoversi e trasportarsi hanno bisogno di una persona che trascini il loro carrozzino, operazione faticosa e lentissima che non consente spostamenti molto lunghi.17
14Riparleremo tra breve dei ciechi di guerra, ma intanto possiamo sottolineare che è subito stata stabilita una sorta di classifica dal più al meno disgraziato, come il brano qui riprodotto lascia capire. In coda troviamo dei mutilati che pure hanno subito lesioni gravissime ed estremamente handicappanti, come quelle del viso, spesso con perdita di parte dell’apparato masticatorio e fonatorio, oppure chi ha perso in parte o totalmente l’udito. Le mutilazioni degli arti superiori, che rendono quasi impossibili molti gesti della vita quotidiana, nell’ideale classifica della gravità passano dietro a quelle degli arti inferiori e delle paraplegie. In testa, l’abbiamo visto, c’è la perdita della vista, la mutilazione che suscita più orrore e compassione, da parte di tutti. Potremmo chiederci se, come alcuni fanno, bisogna includere o meno nella classifica i già citati «scemi di guerra», coloro che hanno perso la ragione o sono stati colpiti da gravi malattie nervose. Pur riconoscendo che si tratta della perdita di qualcosa d’essenziale, è però difficile considerarle come vere e proprie mutilazioni, dato che il più delle volte non erano conseguenza diretta di lesioni fisiche. Basti quindi ricordare che venivano spesso considerati come personaggi che si compiacevano nel vittimismo, oppure come simulatori o, nel migliore dei casi, come persone già “disturbate” in partenza, che sarebbero finite in manicomio anche se non fossero andate in trincea. La malattia mentale o nervosa, quando non sfociava in una profonda ed innegabile forma di follia, era vista come una scusa per non prendersi le proprie responsabilità o per non lavorare, e questo anche da parte di molti medici.
15In ogni modo, quasi improvvisamente l’immagine del mutilato cambia, la percezione della sua situazione cambia, il linguaggio che lo riguarda cambia, e dalla sordina si passa alla fanfara. Non si tratta più di nascondersi o di vergognarsi, al contrario: il mutilato deve andare orgoglioso delle conseguenze, morali e materiali, del suo eroico sacrificio. Anche la scuola comincia ad adeguarsi alla nuova immagine, presentando protagonisti mutilati nelle storie dei libri di lettura per le elementari, oltre agli inevitabili brani lirici su Toti nei libri di storia. Ma la scuola farà anche qualcosa di concreto: offrirà ai mutilati lezioni gratuite e facilitazioni per un ottenere titolo di studio col quale concorrere a lavori d’ufficio, meglio pagati e più adatti alla loro condizione fisica che il lavoro manuale. Per esempio, il 29, 30 e 31 marzo del 1920 il Ministero della Pubblica Istruzione concede l’autorizzazione a una sessione straordinaria degli esami di licenza elementare per i mutilati, a Padova. Si presentarono tre candidati per il compimento, cioè la licenza di III; quattro per la IV e undici per la licenza di VI18. Interessante vedere quali furono i temi assegnati per la prova di componimento: per la III, «Narrate un disgraziato accidente»; per la IV: «Raccontate la storia della vostra onorata mutilazione e la vita che avete trascorso da quel momento in poi»; per la licenza di VI: «Temevo d’essere inutile, anzi peso alla mia famiglia; oggi invece mi sento contento e posso guardare fiducioso all’avvenire (Lettera ad una persona cara)». Riassumendo, si direbbe che il disgraziato incidente che ha causato l’onorata mutilazione sia stato una sventura, ma che alla fine il mutilato guarda fiduciosamente all’avvenire, contento del sacrificio compiuto. A parte la facile ironia che può suscitare questa prosa, bisogna sottolineare che definire «onorata» la mutilazione non è una scelta casuale, e che non si tratta solo di un riconoscimento o di un onore reso ai mutilati. È invece un modo per sottolineare una differenza importantissima: se la mutilazione è onorata significa che non si è trattato di un pretesto per tornare a casa, è stato davvero un «disgraziato accidente» e non un’automutilazione, supremo disonore come la diserzione, a cui veniva del resto equiparata.
16Il mutilato è dunque uscito dall’ombra per diventare protagonista, l’eroe simbolo dell’Italia che non si arrende. La pubblicità non esita a servirsi di questa immagine, e durante le ultime due campagne per il Prestito Nazionale19 si vedono dei manifesti che sarebbero stati impensabili solo un anno prima. Ne abbiamo uno molto efficace di Bonzagni20, che ritrae un bersagliere mutilato di una gamba, che, alzando una delle sue grucce, sembra gridare rivolto al cielo: «ed ora, a voi. Sottoscrivete!». Messaggio di una chiarezza cristallina, tanto più che viene supportato da una figura che, sia pur vagamente, ricorda Toti: è un bersagliere come lui, anche se quello di Bonzagni indossa il fez, mentre nell’iconologia Toti porta sempre il cappello piumato; sempre come Toti, è bruno e ha la pelle scura; porta i baffi, anche se non sono altrettanto folti; gli manca la gamba sinistra. Ma il manifesto più impressionante è sicuramente quello, famosissimo, di Ortelli21 che ritrae un giovane soldato con gli occhi e la testa fasciati da bende sporche di sangue, aitante, dritto e fiero, la cui figura si staglia drammaticamente su uno sfondo ocra su cui campeggia la scritta «Per la Patria i miei occhi! Per la Pace, il vostro denaro». Anche la punteggiatura dei due manifesti, con l’enfasi del punto esclamativo contrapposto al pacato punto fermo, sottolinea che il sacrificio dei mutilati è incommensurabilmente più importante rispetto ad una richiesta di denaro. E nessuno, evidentemente, potrebbe sostenere il contrario.
«I più disgraziati, oltre i ciechi...»
17Ricorderemo che, nell’articolo che riguardava l’invenzione della carrozzella spinta da una bicicletta, i paralitici venivano definiti «i più disgraziati, oltre i ciechi». La cecità è considerata la mutilazione più grave, quella che viene maggiormente evocata e che diventa il simbolo di tutte quelle subite dai soldati italiani. Specifichiamo che si tratta degli italiani perché in altri paesi il mutilato-simbolo della Grande Guerra può essere un altro. In Francia, per esempio, è la già evocata «gueule cassée» a rappresentare il reduce più disgraziato, che suscita più empatia. In Italia il cieco di guerra è compianto, compatito, amato, ammirato e anche sfruttato: a differenza degli altri mutilati, ce n’è quasi sempre uno come ospite d’o-nore nelle varie cerimonie ufficiali, dove viene trionfalmente esibito. Anche il fascismo si servirà di loro, mettendoli spesso in primo piano durante i raduni, le sfilate, le manifestazioni, le commemorazioni. Eppure, ai nostri giorni, difficilmente si pensa alla cecità come a una mutilazione: verrebbero prima in mente gambe e braccia amputate, o magari le paralisi. Per pensare alle mutilazioni sensoriali occorrerebbe una certa riflessione, forse perché di norma oggi si associa la mutilazione alla perdita materiale di una parte del corpo o all’impossibilità motoria, cosa che non necessariamente avviene in quelle sensoriali. Si può benissimo aver perso la vista ed avere ancora gli occhi, per esempio: pensiamo alle conseguenze delle lesioni del nervo ottico o di certi traumi cranici. Ma, tra l’inizio della Prima guerra mondiale e quello della Seconda, non appena si parlava di mutilazione di guerra, si evocavano i ciechi.
18La cecità è diventata così importante come simbolo della mutilazione probabilmente a causa di diversi fattori, tra cui l’alone romantico che circondava il non vedente, e che aveva radici nella letteratura strappalacrime dell’Ottocento. Ma non si tratta solo di questo. La mutilazione sensoriale, lo abbiamo sottolineato, lasciava sovente il mutilato intatto dal punto di vista fisico, e dunque più accettabile, meno ‘brutto’, più presentabile. E, se gli occhi erano stati lesi o persi, un paio di occhiali scuri bastavano a dissimulare la mutilazione. A ciò si aggiunga il sincero orrore che l’idea della cecità suscita in quasi tutte le persone dotate della vista, e il quadro è perfetto: ecco l’eroe più disgraziato e più seducente, il martire ideale. Non stiamo affermando che si tratti di una mutilazione leggera, beninteso. Ma anche la perdita delle mani o delle gambe era altrettanto pesante dal punto di vista della vita quotidiana, creando difficoltà spesso insormontabili per i mutilati, soprattutto per chi non poteva avere a disposizione qualcuno che l’assistesse. Tuttavia, di costoro si parlava meno, e si tendeva anche a pensare che, grazie alle protesi (rudimentali e spesso impossibili da adattare a certe grandi mutilazioni) e alla rieducazione, la vita poteva tornare quasi normale per loro22, mentre alla cecità non v’era il minimo rimedio, nulla che potesse attenuarne i danni o facilitare l’esistenza delle vittime.
19Anche la cecità parziale o la perdita di un solo occhio erano molto compatite e temute. D’Annunzio, come ferito di questo genere23, fu uno dei quasi mutilati più popolari e seguiti. Non si trattava di una mutilazione totale, anche se era una lesione molto seria, e la celebrità del Vate gli permise non solo di non nasconderla, ma di metterla fieramente in mostra, e questo ben prima che parlare delle mutilazioni fosse comunemente ammesso. D’Annunzio si mostrò spesso e volentieri in pubblico con vistose fasciature, si fece fotografare in più pose con la benda sull’occhio ed inviò decine di queste fotografie ad amici, conoscenti e giornalisti, con dediche più o meno elaborate, firmandosi «l’Orbo Veggente». La teatralità del Vate non si smentisce nemmeno in queste circostanze, ma il suo esibizionismo privo di ogni remora e pudore fu forse d’aiuto a chi della sua mutilazione si vergognava, anche se si trattava di una mutilazione parziale, una patologia curabile che non gli impedì di tornare a combattere una volta guarito, a differenza di chi aveva subito quelle più invalidanti. Un quasi mutilato che fu per qualche tempo considerato un quasi Toti. Poi, della sua mutilazione ci si dimenticò, e lo stesso D’Annunzio non vi accennò più.
20I giornali, le riviste e i galatei si preoccuparono molto della vita quotidiana dei mutilati dopo Caporetto, ma avevano idee eccessivamente ottimistiche o, al contrario, troppo caute e spaventate, e sempre mancanti di senso pratico. Se confrontiamo due galatei usciti nell’immediato dopoguerra, uno francese e uno italiano, vediamo che in quello francese le pagine dedicate alla vita con un mutilato, pur non mancando di idealismo, sono eminentemente pratiche. Si danno utili consigli su come evitargli difficoltà, tanto nei rapporti sociali che nella vita casalinga. Si suggerisce, ad esempio, di scegliere un appartamento al pianterreno con un giardino dove prendere aria senza stancanti uscite, se il reduce ha perso una gamba; se è cieco, si consiglia di evitare di mettere oggetti fragili all’altezza della sua canna e di non modificare la disposizione di alcun oggetto senza prima avvertirlo e valutare con lui se la novità non gli sia d’impiccio24. In quello italiano, il capitolo che riguarda i mutilati si riduce a due inutili paginette di considerazioni pseudofilosofiche e di lamenti inorriditi. È interessante notare a che punto la cecità ossessioni anche questa autrice, che in due pagine vi ritorna sopra per ben tre volte, con toni sgomenti: «Quante fra voi, spose e madri, avrete dovuto assistere al triste spettacolo di giovani valorosi, che tornavano dalla fronte feriti, malconci, mutilati e, straziante a dirsi, forse anche ciechi!...»; «Infine, il marito, vi fu reso; guarito, forse, forse per sempre malfermo in salute, forse mutilato, forse anche... cieco!»; «È certamente difficile e grave il compito della moglie di un prode, che torna dalla guerra rovinato nella salute, mutilato o, peggio, cieco!...»25. L’orrore è tale che l’evocazione della cecità, pur essendo ossessiva, è anche esitante, accompagnata da puntini di sospensione che sembrano voler censurare il termine.
21Parliamo ora di un personaggio che attualmente è sconosciuto al grande pubblico, mentre tra le due guerre fu più popolare perfino di Toti, come simbolo ed esempio del coraggio dei grandi mutilati, Carlo Delcroix26. Convinto interventista, frequenta la Scuola Allievi Ufficiali di Modena, dalla quale esce nel febbraio del 1916 e viene assegnato al 3° Reggimento Bersaglieri, con il grado di aspirante ufficiale. Prende parte a diverse battaglie, poi è promosso tenente e incaricato di istruire gli Arditi delle Fiamme Verdi al lancio delle bombe a mano, in un reggimento di Alpini di stanza a Malga Ciapela, sotto la Marmolada. La sera del 12 marzo 1917 avviene la disgrazia, che Delcroix stesso racconta in questo modo stranamente impersonale:
Informato che un bersagliere, avventuratosi nel poligono di tiro era saltato in aria urtando in una bomba inesplosa, mentre gli stessi portaferiti esitavano ad arrischiarsi nella zona pericolosa, egli accorreva da solo nella speranza di salvare il bersagliere e, constatatane la morte, provvedeva, con i soldati e con gli ufficiali sopravvenuti, a trasportarne il cadavere. Poi dovendosi procedere allo sgombero del poligono dalle granate inesplose, il tenente C. Delcroix dispensò la squadra di servizio per non esporla al rischio grave e, fatti allontanare tutti i presenti, rimase solo a provvedere alla bisogna: una bomba, nascosta sotto la neve, esplodendo gli troncò le braccia spengendogli gli occhi per sempre.27
22Durante gli anni Venti e Trenta circolarono diverse altre versioni dell’incidente, alcune relativamente simili alla descrizione fornita dalla vittima, alcune molto meno lusinghiere: vi fu chi addirittura raccontò che la bomba gli esplose in mano mentre la stava usando per pescare di frodo in un corso d’acqua. Forse ricalcata sull’episodio che riguardava Farinacci28, è una versione non attendibile e nemmeno credibile, che non è mai stata confermata da testimonianze degne di fiducia. Naturalmente, anche la versione fornita da Delcroix non è da prendersi per oro colato, dato che tende ad attenuare le sue gravi responsabilità. Anche ammettendo che le cose siano andate esattamente nel modo in cui le ha raccontate, lo si può comunque accusare, come minimo, di essersi comportato da incosciente. Nessun militare poteva ignorare che non bisogna mai toccare un ordigno inesploso, a meno di non essere un artificiere, e ancor meno lo poteva ignorare un ufficiale incaricato di istruire altri soldati nel lancio delle bombe a mano.
23Le ferite riportate da Delcroix sono devastanti, ed i commilitoni che si precipitano a soccorrerlo pensano che non ci sia più nulla da fare. Il tenente Minghetti, suo amico, ricordò in molte lettere e interviste la scena, sempre più o meno in questi termini:
Delcroix era sulla neve, in una pozza di sangue. Aveva perduto le mani e gli occhi ed appariva ferito in molte altre parti del corpo. [...] Gli occhi afflosciati e senza vita erano imbevuti di sangue nero, il viso e le labbra gonfie erano come bruciati dalla vampa dell’esplosione. Centinaia di schegge gli si erano conficcate in tutto il corpo, specialmente nell’addome e nel torace, con ferite profonde [...] I moncherini delle braccia mostravano un impasto sanguinolento di muscoli, tendini, nervi e ossa violentemente spezzate.
24Il tenente medico Ravazzoni fu il primo a prendersi cura di lui. Dopo avergli liberato la gola dall’agglomerato di denti spezzati, brandelli di gengive e terra che lo stava soffocando, riuscì a fermare l’emorragia suturando le profonde ferite al torace e all’addome. Non sembrava comunque possibile salvarlo, ma Delcroix era giovane e robusto e, sorprendentemente, resistette. Secondo la testimonianza di Ravazzoni, Delcroix gli disse più volte di non stare a perdere tempo, perché tanto capiva che sarebbe morto. Dopo le prime ore, quando fu parzialmente stabilizzato, fu trasportato all’ospedale da campo di Caprile, dove arrivò febbricitante e quasi completamente dissanguato. Venne in seguito traferito a Milano e poi a Torino, in ospedali attrezzati. La degenza fu lunghissima, e per mesi Delcroix non fu nemmeno in grado di camminare, diventando una sorta di angosciante riassunto vivente di tutte – o quasi – le mutilazioni possibili: obbligato a muoversi in carrozzella, anche se non per sempre. Sfigurato e privo di gran parte dei denti, e anche se le ferite facciali non gli avevano devastato completamente il volto, gli lasciarono grosse cicatrici e delle lesioni permanenti al cavo orale. Monco, e nel più terribile dei modi: avendo perso entrambe le mani, avrebbe dovuto sempre essere assistito da qualcuno anche per le più banali necessità quotidiane come vestirsi, lavarsi, mangiare. Cieco, e doppiamente cieco perché, avendo perso le mani oltre alla vista, non avrebbe potuto servirsi del tatto per leggere, di una canna per camminare, delle dita per guidarsi. Ce n’era sicuramente abbastanza per fare impazzire di disperazione chiunque, specialmente un giovane di soli ventun anni. Quale che sia il giudizio storico su Delcroix, non si può che ammirare la sua forza di carattere, la sua incredibile reazione e la sua volontà. Non appena cominciò a sentirsi meglio, nel mese di settembre, decise di darsi all’oratoria, arte che padroneggiò da maestro. L’accaduto non aveva cambiato le sue convinzioni interventiste, per cui si impegnò in una tournée di comizi bellicisti. Caporetto fu un’occasione per intensificare la sua azione propagandistica, ed esortare i feriti e i mutilati a non abbattersi. Tra il settembre 1917 e la fine della guerra tenne 35 comizi in tutta Italia, spostandosi senza sosta in condizioni logistiche e fisiche molto difficili. Nel dopoguerra, insieme ad altri, aiutò la creazione delle Case del Mutilato e collaborò con molte sezioni regionali dell’ANMIG (Associazione Nazionale Mutilati Italiani di Guerra). Deputato a partire dal 1924, fu un giornalista radiofonico di successo e attivo collaboratore di testate prestigiose («Corriere della Sera», «Popolo d’Italia», «La Nazione», «L’illustrazione Italiana»), continuò a fare comizi e pubblicò una decina di libri. Libri e articoli venivano dettati a sua moglie, Cesara Rosso di San Secondo, che aveva incontrato in ospedale, e che gli fece da segretaria e da infermiera per tutta la vita. Dopo la Seconda guerra mondiale continuò la carriera politica, nel partito monarchico, e fu di nuovo eletto al Parlamento.
25Come Toti, Delcroix era sicuramente un personaggio fuori dal comune, ma, a differenza del primo, di lui ci si è quasi dimenticati. Eppure, per due decenni anche a Delcroix vennero tributati onori continui: statue, decorazioni29, libri a lui dedicati, citazioni, inviti. Non si può negare che l’oblio faccia sospettare una sorta di epurazione legata alle sue convinzioni politiche e alla sua militanza fascista. Toti morì nel 1916, e non è stato possibile attribuirgli seriamente simpatie per partiti che ancora non esistevano, anche se, durante il ventennio, si parlava di lui come di un concentrato di «virtù tipicamente fasciste». Ma, se Toti fosse sopravvissuto, sarebbe davvero stato fascista? È possibile, e magari anche probabile, ma non è sicuro. Delcroix invece lo fu, anche se un po’sui generis, tant’è che si cercò poi di farlo sembrare un ribelle e un quasi antifascista. In realtà, era semplicemente contrario all’alleanza con la Germania, come la maggior parte dei reduci, e non alla politica fascista in generale. La sua militanza nel partito monarchico e il suo carattere difficile non aiutarono la sua immagine, soprattutto quella postuma.
26L’importanza di Delcroix sulla scena della Grande Guerra è soprattutto quella di essere stato un testimone attivo e non un’icona. Toti e i caduti potevano essere mitizzati, ma il loro esempio non aveva il peso di un discorso bellicista tenuto da chi aveva pagato un prezzo così alto, eppure continuava a credere nella guerra. Dopo Caporetto, i suoi seguitissimi comizi convinsero molti a partire volontari, stando a quanto si diceva. Ma è anche probabile che, se non ci fosse stato Caporetto, non ci sarebbe stato bisogno di lui o, almeno, non tanto bisogno. Le autorità militari avrebbero continuato a non vedere di buon occhio che un mutilato, e colpito in modo così devastante, si mostrasse a delle platee stracolme, fosse pure per ottenere aiuti, denaro e arruolamenti. Delcroix e Caporetto sono una coppia inscindibile, legati da un destino tragico e da un violento desiderio di rivincita. Benché non fosse possibile guarire da certe ferite, si poteva cercare di sopravvivere e di adattarsi al mondo nuovo, lasciandosi il passato dietro le spalle.
Dalla Vittoria alata alla Vittoria mutilata
27Dopo Vittorio Veneto, l’euforia dura giusto qualche mese, quando le illusioni e le speranze si infrangono alla Conferenza di Versailles. La Vittoria alata che accompagna le immagini trionfalistiche tra queste due date diverrà una Vittoria senza più ali, ferita, umiliata e offesa come le decine di migliaia di reduci, mutilata come coloro che ne diventano simbolo, i suoi figli, le vittime doppiamente ingannate. L’espressione, com’è noto, fu coniata da D’Annunzio, che ne sarà il principale propagandista. È in parte condivisibile l’opinione che, in questo caso, il Vate fu «l’esempio memorabile di quanto danno possa arrecare ad un paese un intellettuale esaltato e irresponsabile», che trasformerà una delusione più o meno legittima in una sconsiderata «epopea garibaldina» con l’impresa fiumana30. Ma, al di là del giudizio storico su D’Annunzio e le sue imprese post-belliche, non bisogna dimenticare che l’espressione venne coniata ben prima della Conferenza di Versailles, addirittura prima di Vittorio Veneto. Compare infatti nel titolo di suo articolo di fondo sul «Corriere della Sera» del 24 ottobre 1918: Vittoria nostra, non sarai mutilata. D’Annunzio, lo ricordiamo, aveva subito una ferita parzialmente mutilante, e poteva mostrarsi e sentirsi come facente legittimamente parte della schiera dei mutilati di guerra e usare questo tipo di riferimenti senza rischiare contestazioni. La definizione, immediatamente adottata dal pubblico, farà poi parte di molti miti fascisti, e non solo di quelli, tant’è che viene ancora usata come simbolo dell’ingiustizia e dell’onta subite dall’Italia e dai suoi combattenti. Questo significa che l’immagine è davvero potente, azzeccata, e che rinvia a qualcosa di fondamentale nella cultura italiana. Se così non fosse, non avrebbe potuto sopravvivere fino ad oggi, soprattutto dopo che era stata talmente sfruttata dal fascismo31: ben poche sono le eredità del ventennio che non si siano screditate, e che sono rimaste intatte nell’immaginario collettivo.
28Concludiamo con la terribile vignetta di Scalarini32, realizzata nel 1919 e intitolata Il carro della Vittoria. La Vittoria mutilata è in carrozzina, con degli occhiali neri da cieco, le braccia e le gambe sostituite da protesi, le ali rimpiazzate da due raggere di grucce. Le cifre delle mutilazioni, morti, ferite e invalidità permanenti allora conosciute (come la TBC, in parte legata alle lesioni polmonari da gas) sono riportate con precisione matematica. L’inutilità e la tragicità di quanto avvenuto appaiono chiaramente ormai a tutti, reduci, civili e politici, ma non si può tornare indietro né rimediare a nulla. Comincia così il biennio rosso, a cui seguirà il Ventennio nero e, di nuovo, guerre e tragedie. La lezione non sarà servita a nulla, il sacrificio nemmeno.
Notes de bas de page
1 Lorenzo Del Boca, Grande guerra, piccoli generali. Una cronaca feroce della Prima guerra mondiale, Torino, UTET, 2007.
2 La forma di autolesionismo più classica era quella di spararsi nella mano o nel piede, prima avvolti in strati di tessuto o protetti da una pagnotta su cui appoggiare la bocca della canna, onde evitare ustioni e tracce che avrebbero subito denunciato il colpo ravvicinato. Ma dato che qualsiasi ferita a mani e piedi era considerata con molto sospetto dai medici militari, in particolare quelle della mano in cui il colpo andava in direzione palmo-dorso, si cercarono altri metodi. In montagna e d’inverno, era facile procurarsi un congelamento che avrebbe richiesto un’amputazione non troppo grave: si avvolgevano alcune dita in un pezzo di tessuto bagnato e le si esponeva al gelo per qualche ora, cercando di non farsi sorprendere da un ufficiale o dai commilitoni. O ancora, a condizione di trovare un cavadenti compiacente o un complice che avesse il coraggio di usare le tenaglie, un sistema per farsi riformare era quello di farsi strappare il più denti possibile, naturalmente senza anestesia. Le automutilazioni, del resto, sono spesso state incredibilmente atroci, il che prova a che punto di disperazione erano arrivati alcuni soldati. Vi fu chi si accecò volontariamente con sostanze caustiche, e chi si amputò una mano o un piede con asce o coltelli, per tacere di altre stomachevoli tecniche e lesioni.
3 I rapporti sentimentali tra le Dame della Croce Rossa e i pazienti erano vietati dal regolamento, ma si tendeva a chiudere un occhio se si limitavano a un flirt innocente o se sfociavano direttamente in un fidanzamento ufficiale. Nei paesi in cui la maggior parte delle infermiere erano laiche, come in Francia e in Gran Bretagna, (in Italia, oltre alle crocerossine, negli ospedali lavoravano soprattutto delle monache) molti mutilati sposarono un’infermiera. In proposito, è interessante vedere come viene profondamente analizzato questo rapporto e le sue conseguenze in alcune opere della grande scrittrice Doris Lessing, che era appunto figlia di un mutilato di guerra e dell’infermiera che lo aveva assistito per più di un anno (Martha Quest; Alfred and Emily).
4 «Alla Grande Guerra parteciparono gli italiani di sesso maschile nati tra il 1874 e il 1899. In forza di un complesso ordinamento [...] si poteva essere:
– abile di 1a categoria: buona salute, genitori viventi, un fratello con più di 12 anni di età al momento della chiamata
– abile di 2a categoria: buona salute, figlio unico con padre non ancora entrato nel 65° anno di età, oppure figlio primogenito con fratello di età inferiore ai 12 anni
– abile di 3a categoria: buona salute, figlio unico orfano di un genitore, oppure un riformato fatto abile per necessità e adibito a lavori sedentari
– rivedibile: con una malattia in corso o con uno stato di debilitazione risolvibile nel tempo
– riformato: con una malattia dichiarata cronica e inabilitante, oppure con deformazioni che impedivano qualsiasi forma di attività militare.» (Dal sito dell’Esercito Italiano).
5 Nato a Roma nel 1882, Toti perse la gamba sinistra in un incidente sul lavoro nel 1908, durante l’agganciamento di due vagoni. Divenne famoso negli anni Dieci per una straordinaria impresa sportiva, la traversata dell’Europa in bicicletta da sud a nord, fino in Lapponia, poi da ovest a est fino in Russia (1911-1912), in solitaria. Fu anche campione di nuoto, vincendo diverse gare sul Tevere, sempre dopo aver subito la mutilazione.
6 L’ultimo monumento a Toti, ad opera di Mario Montemurro, è stato eretto a Gorizia nel 1958.
7 Achille Beltrame, pittore ed illustratore (1871-1945) è l’autore di 4462 copertine della Domenica del Corriere.
8 «Volontario, quantunque privo della gamba sinistra, dopo aver reso importanti servizi nei fatti d’arme dell’aprile a quota 70 (est di Selz), il 6 agosto, nel combattimento che condusse all’occupazione di quota 85 (est di Monfalcone). Lanciavasi arditamente sulla trincea nemica, continuando a combattere con ardore, quantunque già due volte ferito. Colpito a morte da un terzo proiettile, con esaltazione eroica lanciava al nemico la gruccia e spirava baciando il piumetto, con stoicismo degno di quell’anima altamente italiana.»
9 Il monumento di Arturo Dazzi è il primo a lui dedicato. Eretto nel 1922, aveva cominciato ad essere abbozzato già nel gennaio del 1919.
10 Niccolò (e non Nicola) Scatoli (1845-1935), è il bersagliere che suonò la carica alla breccia di Porta Pia. Perse la gamba sinistra durante questa battaglia: colpito da una pallottola alla coscia, l’arto gli venne amputato per una minaccia di cancrena. Dopo la convalescenza tornò a lavorare all’Archivio di Stato di Siena, sua città natale.
11 Attilio Frescura, Diario di un imboscato, Vicenza, Tipografia Galla, 1919, p. 157.
12 Nessuna copertina verrà mai consacrata a Caporetto, nemmeno in seguito.
13 11 novembre 1917.
14 Molti testi storici e divulgativi sono stati dedicati al problema, oltre all’eccellente documentario di Enrico Verra Scemi di guerra. La follia nelle trincee, Italia, 2008, 48’.
15 Diamo qui un breve elenco delle principali cause di mutilazione, in ordine di frequen- za:
– Ferite da esplosione, da scheggia o da proiettile, mutilanti o richiedenti amputazione
– Congelamento
– Infezioni di ferite non mutilanti che rendevano in seguito necessaria l’amputazione. A queste si aggiungevano gli errori di terapia: lacci emostatici posizionati troppo a lungo, fratture male immobilizzate, mancata asepsi
– Cecità causata da ferite, da ustioni o da gas
– Sordità causata da esplosioni o da infezioni e ferite
– Autolesionismo.
16 Questo è solo uno dei numerosi esempi che mostrano la scarsissima attenzione del Governo ai bisogni dei reduci mutilati, di cui si fanno carico associazioni e comitati. I mutilati verranno sfruttati per pubblicità, discorsi cerimonie pubbliche nell’ultimo anno di guerra e nell’immediato dopoguerra, ma sarà in gran parte fumo negli occhi che contribuisce allo scontento generale. Anche la costruzione e la gestione delle Case del Mutilato, che sorgeranno nel dopoguerra, sarà lasciata in mano ai privati, e resa complicatissima da una burocrazia ottusa e incompetente.
17 «Domenica del Corriere» del 25 luglio 1920.
18 Ricordiamo che negli anni Venti una licenza di VI elementare bastava ampiamente per ottenere un lavoro d’impiegato di banca.
19 Per finanziare la guerra, lo Stato Italiano puntò sul debito pubblico, con i prestiti di guerra. Il Ministero del Tesoro si avvalse principalmente della collaborazione della Banca d’Italia, ma molti istituti bancari emisero i loro buoni. Il primo è del gennaio del 1915, quando l’Italia era ancora neutrale, allo scopo dichiarato di rinforzare l’esercito. Durante il conflitto ne vennero emessi cinque, con tassi variabili dal 4,50% del primo al 5,50% del quinto, a cui va aggiunto il sesto, nell’immediato dopoguerra, per finanziare la ricostruzione. Con quello del gennaio 1915 il governo raggiunge rapidamente il suo obiettivo, incassare un miliardo di lire. Il secondo è del giugno 1915, e frutterà più di un miliardo. Il terzo, emesso nel dicembre del 1916, permette di incassare oltre tre miliardi. Il quarto è emesso nel gennaio 1917 e porterà altri tre miliardi nelle casse dello Stato. Il quinto è del gennaio 1918, subito dopo Caporetto, e anch’esso permette d’incassare oltre tre miliardi, nonostante la difficile situazione della popolazione italiana, impoverita dall’inflazione e da altri problemi legati al conflitto.
20 Aroldo Bonzagni (1887-1918), pittore ed illustratore.
21 Alfredo Ortelli (1889-1963). Qualche storico (Maria Alessandra Corticelli Guarmani, L’oro e il piombo-I prestiti nazionali in Italia nella Grande Guerra, Bollettino del Museo del Risorgimento. Bologna, anno XXXVI, 1991) sostiene che questo manifesto ritragga Carlo Delcroix, di cui parleremo nel prossimo capitolo, ma si tratta di un’affermazione non basata sui fatti, perché le mutilazioni di Delcroix non riguardavano solo gli occhi, e sono incompatibili con quelle della figura ritratta da Ortelli.
22 La lodevole iniziativa di creare le Case del Mutilato per provvedere alla rieducazione di chi aveva perso gli arti era in parte responsabile di questo modo di pensare. Chi non era quotidianamente in contatto con un grande mutilato poteva illudersi, grazie alle fotografie e alla propaganda fatta da e per le Case, che tutti potessero farcela a vivere normalmente. Ancora una volta, si faceva dipendere dalla buona o dalla cattiva volontà qualcosa che non dipendeva, o dipendeva solo in parte, da quello che ci si voleva impegnare a fare. Allo stesso modo, molti giornali pubblicano fotografie e illustrazioni che tendono a sdrammatizzare la situazione dei mutilati: per esempio, la quarta di copertina di Beltrame, del 1° dicembre 1919, raffigura una gara a chi si veste più in fretta tra ex-militari americani monchi, con tanto di spettatori plaudenti. L’intenzione era buona, ma l’immagine che ne risultava non lo era altrettanto.
23 D’Annunzio (1863-1938) rimase ferito all’occhio destro durante un atterraggio d’e-mergenza col suo aereo, nel gennaio del 1916, in seguito ad un’azione che gli valse la medaglia d’argento al Valor Militare. La ferita non era grave, ma venne trascurata e si infettò, causandogli intense sofferenze per parecchi mesi, durante i quali scrisse il Notturno, che racconta appunto la sua esperienza di ferito.
24 Liselotte, Le Guide des Convenances, Paris, Société Anonyme du Petit Écho de la Mode, 1919, pp. 89-92.
25 Anna Vertua Gentile, Come devo comportarmi? Milano, Hoepli, 1922, pp. 32-33.
26 Nato a Firenze nel 1896 e morto a Roma nel 1977.
27 In «La Nazione» del 24 agosto 1921.
28 Roberto Farinacci (1892-1945), il «Ras di Cremona», durante la guerra d’Africa perse la mano destra a causa di una bomba. All’inizio si parlò di un’onorata mutilazione, avvenuta durante un’esercitazione militare, ma poi si venne a sapere l’incidente era avvenuto mentre pescava con le bombe a mano in un laghetto. La versione ufficiale rimase quella della ferita onorata, e Farinacci ottenne anche la pensione di mutilato di guerra, ma si dice che Mussolini, una volta saputo com’erano andate veramente le cose, lo avesse costretto a devolverla alle Case del Mutilato.
29 Oltre alla medaglia d’argento al Valor Militare, fu decorato dell’Ordine Civile dei Savoia, del Gran Cordone della Corona d’Italia, dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro e della Legion d’Onore francese.
30 Giovanni Sabbatucci, La vittoria mutilata, in Giovanni Belardelli, Luciano Cafagna, Ernesto Galli della Loggia, Giovanni Sabbatucci, Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 101-106.
31 Molti storici ritengono che la Vittoria Mutilata sia il fenomeno-chiave alla base della nascita del fascismo. Si può pensare che ce ne fossero anche altri di pari peso, ma è indubbio che questo mito vi contribuì, e ne fu uno dei grandi cavalli di battaglia.
32 Giuseppe Scalarini (1873-1948), illustratore satirico e caricaturista di genio, collaboratore dell’«Avanti!» e fondatore di diverse altre testate, fu praticamente perseguitato da tutti i governi con cui ebbe a che fare, da quello liberale a quello fascista. Continuamente minacciato di processi e pene detentive, venne mandato per cinque anni al confino a Ustica dal regime, e passò molti anni all’estero per evitare la prigione.
Auteur
Maître de conférences all’Università di Lille. Lavora sull’immagine e sul problema dell’identità/alterità. Ha pubblicato: Les enfants, Rome et la latinité: un endoctrinement identitaire, in Les racines de la culture fasciste entre latinité et méditerranéité (Cahiers de la Méditerranée, 2018); Amore cannibale: chi mangia chi? Identità femminile e ricatto affettivo, in Curiosa di Mestiere (ETS, 2017). Con Gabriele Proglio ha tradotto: La rivoluzione algerina e la liberazione dell’Africa. Scritti politici (1957-1960) di Frantz Fanon (Edizioni Ombre Corte, 2017).
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