2. Attori moderni: interpreti ma non solo
p. 43-94
Texte intégral
1. Ruggero Ruggeri un attore che credette nel Verbo
1Poco dopo la morte di Ruggeri, avvenuta il 20 luglio del 1953, Silvio d’Amico scrisse in memoria dell’attore un articolo il cui titolo complessivo riassume con poche, ma eloquenti, parole le linee essenziali di un ritratto che il critico aveva disegnato nel corso di molti anni.
2A partire dal vero e proprio titolo, Credette nel Verbo, con quella maiuscola che è già da sola carica di significati, e poi da quel sottotitolo, Assiduamente ricercò un’essenza lirica in ogni testo, che specifica meglio il senso in cui intendere la frase precedente, sono qui già indicati i concetti cardine su cui si fonda tutta la riflessione di d’Amico; le poche righe di sintesi dell’articolo poste in rilievo in carattere grassetto dopo il titolo completano poi il giudizio: «Rifuggente dalle risorse dello “spettacolo” e restio persino a quella del trucco, riportò l’arte dell’attore a quella del dicitore. Verso e prosa, dette le ali a tutte le parole, anche le meno degne, che pronunciò. Di qui il suo fascino»1.
3Non è un caso che in queste poche righe facciano così spesso ritorno i riferimenti al rapporto fra l’attore e la “parola” – detta o meglio “cantata” –, così come non è un caso che, fin dal suo primo intervento critico su Ruggeri del 1915, il giovane d’Amico definisca l’attore «un finissimo dicitore. L’unico», le cui maggiori doti sono la «correttezza» e la «spontaneità» in contrapposizione alla «retorica comune alle nostre scene»2. Eppure, nonostante tali premesse, il talento di dicitore non basta a far vincere a Ruggeri la palma del perfetto interprete: la difesa del “Verbo”, infatti, e la difesa della fedeltà al testo drammatico non sempre vanno di pari passo. Ruggeri ne è l’esempio vivente, lui che «credette nel Verbo», ma non fu quasi mai (al di fuori di poche eccezioni) interprete del dramma.
4Per questo motivo l’attore, che per un lungo periodo di tempo frequenta un repertorio drammaturgicamente scadente e comunque lontano dagli interessi e dai gusti di d’Amico3, suscita nel critico più di una perplessità.
5La simpatia che d’Amico fin dal principio nutre per Ruggeri è perciò essenzialmente dovuta al fascino del suo stile liricheggiante che ben si colloca in contrapposizione al tanto odiato realismo di matrice positivistica, retorico e gretto4; ma non rientra invece pienamente all’interno della battaglia che allora il critico conduce contro lo strapotere del comico giacché, e d’Amico non può negarlo, anche Ruggeri mantiene ancora alcuni tratti tipici del grande attore.
6La sua modernità non consisterà dunque nell’essere strumento duttile a servizio del poeta; piuttosto, cantore raffinato della Poesia. Ruggeri in realtà manifesta sempre se stesso5. E se recitare sempre lo stesso tipo e «manifestare» sempre se stessi è per d’Amico un tratto caratteristico dei mattatori, Novelli e Zacconi compresi, in Ruggeri assume un valore differente: è infatti proprio nel modo di essere se stesso (ovviamente come artista e non come uomo) che quest’attore mostrerebbe la sua profonda sintonia con i tempi nuovi e, insieme, la distanza incolmabile con il tempo che lo ha preceduto.
Ha detto Emerson che il grande attore è “l’apparizione d’un uomo nuovo”: ossia d’un nuovo modo di essere; d’un nuovo ideale tipo d’umanità. Tale fu Ruggero Ruggeri: veramente “signore” della scena e nuovo nel senso che, al luogo della oratoria ritenuta inseparabile dall’arte del teatro, apportò una aristocratica discrezione, una schiva sobrietà, un lirico pudore6.
7Nel 1926 Marco Ramperti, in un articolo decisamente polemico, definirà Ruggeri attore della «decadenza», «spiritualmente anemico» e «squisitamente infermo», alla cui recitazione manca «il segno definitivo, il senso volumetrico, l’evidenza carnale, l’umore, il sangue, la vibrazione: quel fluido suggestivo, appunto, di cui ragionavamo parlando di Zacconi»7. A quell’attore che nel ricordo di Ramperti mantiene il sapore di terra e quell’odore acre di sudore, che con la sua fisicità basta a riempire tutta la scena, che, pur con stili diversi, esprime sempre tutto senza molte allusioni e che in modi differenti si fa sempre portatore sulla scena di una forma di eroismo, Ruggeri ha sostituito un altro modello. E d’Amico, che se ne rende presto conto, già nel 1918, a commento della recita dell’Amico delle donne, esprime il suo entusiasmo proprio per la «genuina eleganza [...] di composizione e di gesto» dell’attore ch’egli definisce «veramente “artista” nel senso di elaborato, di finito, di squisito, di impeccabile»8. Quanto il comico italiano era «ignorante» quanto Ruggeri è invece «colto», quanto quello riempiva la scena prepotentemente, quanto questo è «pudico», quanto quello era istintivo quanto questo è «la riprova vivente del principio che l’attore “non nasce: si fa”. Ruggeri si è fatto attraverso un noviziato e una pratica lunghissimi, con uno studio paziente e graduale, salendo adagino, con una lentezza pari alla sicurezza. Più che il migliore dei nostri nuovi attori, egli è l’unico: anche perché è l’unico che abbia studiato»9.
8Ora, se è significativo che d’Amico sottolinei la distanza dell’attore nuovo da quello della tradizione e per far questo si soffermi ancora una volta sul problema della cultura dell’artista nel senso in cui ne abbiamo parlato a proposito di Novelli, è tuttavia ancor più importante notare ciò che si cela dietro questo giudizio, che è poi ciò che rende Ruggeri tanto particolare: non la spontaneità intesa come immediatezza naturale, non la virtù di interprete docile e neppure la sensibilità nella scelta del repertorio. Si tratta di qualcosa che riguarda lo stile di recitazione, una cifra particolare che richiama da un lato quel «credette nel Verbo» e «dette le ali a tutte le parole» da cui siamo partiti e, dall’altro, l’eleganza e la raffinatezza, la disinvoltura e la spigliatezza all’interno di un gioco evidentemente artificiale che furono tratti ricordati da tutti i critici fin a partire dal primo periodo di attività dell’artista. Si tratta di due aspetti del suo stile che fanno di Ruggeri il prototipo dell’attore moderno e antiverista che, a differenza di tanti altri, sa recitare e ha uno stile proprio10 e che sulla scena esprime una “verità” di tutt’altra specie rispetto a «quella verità nuda e sia pure onesta, ma alla lunga mortificante e piccolo-borghese, che ha regnato sulle scene europee per circa quarant’anni»11.
1.1. Il repertorio dei «gentiluomini frigidi»
9A un primo intervento su Creso di diverte del 1915 segue nel 1918, come si è già detto, la prima recensione all’Amico delle donne, commedia di Dumas fils che resterà a lungo uno dei testi preferiti dall’attore e dal suo pubblico. Si tratta di un articolo non molto lungo, ma ricco di spunti di riflessione. Fra gli altri, due meritano un’attenzione particolare: da un lato, la descrizione dei tipi prediletti da Ruggeri, i «gentiluomini frigidi, sicuri, ermetici e fatali, di cui si compiace, sotto le sue scettiche apparenze, con un romanticismo di sospettabile natura», dove non è chiaro se quei tipi siano i personaggi delle commedie o più probabilmente le creazioni dell’attore; dall’altro, l’indicazione esplicita e netta dell’estraneità di Ruggeri a una poetica fondata sull’imitazione naturalistica della realtà. A differenza della più recente tradizione degli attori italiani, che hanno fatto l’errore di intendere «l’arte come semplice e immediata fotografia della realtà […] perdendosi unicamente nello sforzo di raggiungere una verità realistica, indagata nel modo più miope e frammentario», Ruggeri «non parte dalla realtà, ma da se stesso; non dalla così detta indagine della vita, ma dal proprio stile»12.
10È l’attore stesso che, in alcuni suoi appunti pervenutici senza data, sembra confermare in parte le parole di d’Amico:
Il segno caratteristico dell’attore di genio consiste in questo: portare tutto in sé, trovare in sé, trarre tutto da sé, senza ricorrere alle inchieste della voluta contemplazione esteriore13,
11tanto più che l’arte «non è verità, è bellezza». Insomma «[a]ppoggiarsi sulla vita ma non volgarizzarla; idealizzare, invece»14 è il suo proposito, in un’arte in cui «[c]hi conta è l’attore ben più che il lavoro»15 (inteso come testo drammatico), in cui »[u]na cattiva commedia affidata ad attori di prim’ordine non farà mai molta strada» mentre «la commedia mediocre avrà una carriera fortunata – gli esempi sono molti – se affidata ad attori di grande valore»16. Di qui, probabilmente, il tipo di repertorio di Ruggeri, in gran parte costituito da una drammaturgia di origine francese che, sebbene di mediocre valore artistico, offre però all’attore parti – i così detti «gentiluomini frigidi» – che rispondono, e forse in un primo periodo accentuano, un tratto fra i più caratteristici del suo stile: l’eleganza impeccabile e signorile, lieve e scintillante17. Così lo descrive d’Amico:
La sua impeccabile eleganza, eleganza non di figurino (ch’è sempre graziosamente un po’ antiquato) ma di gesto, vi è mirabilmente a posto. Le sue qualità di dicitore raffinato vi brillano in modo incomparabile. La falsità del personaggio e del suo discorso, al tòcco impercettibile della sua arte, si rianimano d’una vita leggera e scintillante. Quell’eloquio che, specie nella tradizionale goffaggine della versione, in bocca a tutti gli altri attori scopre le rigide ossature e giunture delle scene, sulle sue labbra riacquista una levità e una grazia spumosa, d’incanto18.
12I suoi pregi sarebbero dunque quelli del perfetto «dicitore» per il quale la maschera e la mimica «contan poco», così come relativamente poco contano, almeno in un primo momento, i testi recitati.
13La distinzione che d’Amico pone fra essere un grande «attore-dicitore» ed essere un grande «interprete» incomincia qui a delinearsi come distinzione essenziale. Ruggeri impone infatti al critico la necessità di impostare il problema del rapporto fra l’attore e il testo diversamente da quanto il critico avesse fatto in relazione ai due grandi attori mattatori (Novelli e Zacconi) e da quanto iniziava a fare in quegli anni prefigurando l’immagine di un interprete quale strumento duttile al servizio del poeta drammaturgo. Ruggeri è indicato fin dal principio come l’attore colto, moderno, perfetto “dicitore”19, uno dei pochi – se non l’unico – vero attore presente sui palcoscenici italiani; tutto nonostante il suo repertorio. Eppure anche in attesa che quel repertorio muti:
noi vorremmo rivolgerci a Ruggero Ruggeri […] per chiedergli di cimentare le sue forze d’attore moderno in un più vasto repertorio artistico moderno […]. Come il suo impeccabile e discreto romanticismo, che oggi s’affanna a rendere umanamente presentabili i personaggi più falsi del più manierato teatro, potrebbe esprimersi finemente sotto queste ultime forme d’arte! [il riferimento è a Pirandello e D’Annunzio]20.
1.2. Aligi
14Del complesso e dialettico rapporto fra Ruggeri e la drammaturgia da lui frequentata è testimonianza anche la spesso citata e famosissima rappresentazione della Figlia di Iorio: a lungo infatti, a partire da quel 2 marzo 1904 in cui recitò per la prima volta nei panni di Aligi a fianco di Irma Gramatica (Mila di Codra) sotto la direzione di Talli, la recitazione di Ruggeri porterà in sé le tracce di quelle recite, specie nel tono cantilenante un po’ trasognato del protagonista del dramma dannunziano. Eppure, se è vero che quelle recite influenzarono profondamente lo stile di Ruggeri, è altrettanto vero che anche in quel caso non si trattò di un condizionamento che l’attore subì passivamente, quanto piuttosto dell’occasione di sperimentarsi e, per esempio, di sperimentare le possibilità liriche e melodiche della propria voce e procedere così in quella ricerca concentrata consapevolmente innanzitutto sul proprio stile più ancora che sull’interpretazione fedele di un’opera altrui.
15E se da un lato d’Amico, come la maggioranza dei critici, riconduce ad Aligi parte dei tratti stilistici di Ruggeri (le famose nenie) e se uno degli articoli scritti in occasione della morte dell’attore nel ’53 si intitola proprio La scomparsa di Ruggeri. Aligi dorme per l’eternità; dall’altro lato però, in un articolo sempre nel ’53, dopo aver riconosciuto la comune ispirazione antipositivistica e antiverista dei due artisti, d’Amico suggerisce un’interpretazione dei fatti che intende minare la comune opinione per cui il “canto” di Ruggeri-Aligi sarebbe stato una diretta emanazione della poesia liricheggiante e decadente di D’Annunzio:
È poi vero che quel canto – al centro della ritmata musicale interpretazione diretta da Virgilio Talli – fosse suggerito, intonato, da Gabriele D’Annunzio in persona? O è vera l’opposta asserzione del poeta che molti anni più tardi, in una lettera conservata nel Museo Teatrale del Burcardo, sconfessava “lo stile erroneamente usato” in quella interpretazione?21
16È dunque possibile, sembra voler dire d’Amico, o meglio, è probabile che Ruggeri anche in questo caso abbia seguito una propria ricerca stilistica e un proprio ideale di bellezza e che in ciò sia stato guidato dall’esperta mano di Virgilio Talli piuttosto che da quella di D’Annunzio. È probabile, perciò, che quel «suo modo unico al mondo, di cantilenare l’aerea melodia dei versi più leni che la poesia nostra conosca; di riuscire a dirli senza sciuparne l’ineffabile levità»22 abbia subito l’influenza del verso di D’Annunzio e, insieme, dialetticamente, l’abbia tradito.
17In che cosa consista poi il tradimento, d’Amico non lo dice con chiarezza. Quando nel 1923 al teatro Argentina il critico ha occasione di assistere ancora, dopo 19 anni, a una rappresentazione della Figlia di Iorio recitata da Ruggeri23, commenta: «nella antica stilizzazione dell’esangue figura egli ha quasi impercettibilmente infuso un senso umano più tenero e desolato [...]. Non è pensabile che la stupefazione del pastore [...] trovi un volto più estatico di quello di Ruggero Ruggeri, dove al prim’atto il suo dramma interiore s’esprime attraverso una immobilità quasi assoluta, come e quasi più che attraverso le parole»24. Un senso umano tenero e desolato anima quelle «forme un po’ rigidette»25 dell’opera dannunziana – una di quelle che d’Amico predilige – e accresce l’incanto di quella «stilizzazione aerea»26 che nel testo, se non uccideva i personaggi, tuttavia li imbalsamava: tenerezza, desolazione e stupore sostituiscono nel linguaggio recitativo di Ruggeri quel «tòcco della sua terra», quell’«ingenuità» e quella «preziosità che ha le forme d’una dolce rozzezza»27 del testo di D’Annunzio. Ad un attore come Ruggeri, raffinato dicitore, proclive a restituire in scena la liricità del linguaggio scritto, non doveva essere poeticamente vicino quel «gusto archeologico-decorativo per la storia e la letteratura»28 proprio di D’Annunzio che nella Figlia di Iorio si fa «interesse coloristico, tinto di folclore e di esotismo»29 per la terra d’Abruzzo da un lato e mito dell’arcaico, dell’«uomo primitivo, nella natura immutabile» che «parla il linguaggio delle passioni elementari»30 dall’altro: erano necessarie le forme della tenerezza, della desolazione e dello stupore per avvicinare l’attore al personaggio e fare di Ruggeri «l’incantatore incantato»31.
Quel pallore assorto, quel guardar sperduto, quel trasecolare, allo stesso modo, della foglia che cade e della saetta che scoppia, quella stanca indifferenza, quel sospirare, quell’anelare di naufrago che già conosce, al primo toccar dell’acqua, tutta la sua sorte, quel confondere in ogni caso disperazione e rassegnazione, così che il più lieve presagio di pena sia già cadenzato come un rintocco a morte, e il grido in extremis non sia, per contro, più forte di un’accennata querela32,
18sono i tratti peculiari, i «segreti dell’arte di Ruggeri» che per un lungo periodo ne caratterizzeranno la recitazione e che a uno sguardo attento non si limitano affatto alla ricerca della musicalità della parola ma si estendono ben al di là e dicono qualcosa della sua così definita modernità.
19Anche quando nel novembre del 1918 Ruggeri si confronterà con il testo per eccellenza del teatro della tradizione grand’attorica, l’Amleto di Shakespeare, la sua recita porterà chiare le tracce di quel suo stile: «una sobrietà talvolta un poco languida, talvolta elegantemente stilizzata», uno «sguardo assonnato», «cadenze nasali ma melodiche» di una «voce lontana»33, tutto contribuisce a rendere un Amleto che qualcuno definisce «pensato e pensoso: più decadente che shakespeariano, chiuso in una coerenza di melanconia pessimistica»34, «un tipo di mistico dell’aristocrazia»35. Di qui la profonda distanza da tutti rilevata – fin dalla prima del 1915 – dalla tradizione del grande attore italiano, ma in ciò anche l’eco della raffinatezza elegante dei gentiluomini frigidi e le «risonanze mistiche»36 di Aligi.
20Ancora una volta Ruggeri fa appunto se stesso. Ma questa volta a spese di Shakespeare, elemento certo da non sottovalutare. Ed ecco infatti che il critico, che altrove si era dimostrato affascinato proprio dalla modernità stilistica di Ruggeri anche al di là del repertorio, qui non può che sottolineare con disappunto le infedeltà al testo (nella lettera e nello spirito). Ruggeri antiverista, «morbido e raffinato, riflessivo e dubbioso, commosso e sensibile»37 come lo definisce Gobetti, forse troppo attento a dar rilievo alla sua maniera per cogliere il cuore del problema del personaggio, tende a sostituire la sua modernità alla modernità del testo. Da un lato, mandata in pezzi la cornice storica con alcuni sapienti tagli, l’azione si trasferisce dal contesto della tragedia regale entro le misure più moderne e borghesi dei «fatti famigliari e personali»38. Dall’altro, ed è ciò che più colpisce d’Amico, l’impotenza all’azione che fu il nodo centrale dell’opera shakespeariana viene drammatizzata in modo tanto esteriore da capovolgersi di segno: l’irrisolutezza di Amleto, che dovrebbe arrestare l’azione ed esprimersi tutta in un’effusione lirica, si fa troppo agitata disperazione e ansia di vendetta; il suo intimo ragionare si fa quasi commento di chiarificazione della vicenda rivolto al pubblico; quell’ambiguo e conturbante ma «reale sconvolgimento del cervello del protagonista»39 diviene pazzia «chiassosa» ma insieme metodica (una pazzia tutta esteriore perché tutta calcolata); l’amore per Ofelia si risolve nella sua spettacolarizzazione (in particolare nella languida e sensuale scena al capezzale della fanciulla aggiunta dall’attore). Ruggeri avrebbe qui voluto far capire troppo, rendere troppo esplicito ciò che Shakespeare lascia invece implicito, introdursi troppo violentemente fra l’autore e noi, tanto da arrivare a drammatizzare ciò che andava lasciato nell’ombra, all’intuizione dello spettatore. In conclusione quell’insistenza nel voler far capire troppo che d’Amico sottolinea con irritazione è forse il modo con cui il critico intende restituire al lettore l’artificiosità che ha colto nella recita di Ruggeri dovuta al mancato incontro della poetica decadente, estetizzante dell’attore con il tipo di modernità espressa nell’Amleto.
21Quando, come Ruggeri stesso ricorderà nel 1951, «messe da parte le pelli di Aligi – tornai a rimettermi la marsina»40 all’abito, cioè, a lui più consono, qualcosa resterà di quel «guardare sperduto» o andare di «un naufrago che però già conosce» e di quel «confondere disperazione e rassegnazione», dove fra le due sarà sempre la rassegnazione accompagnata da un lieve distacco e «sprezzo»41 a prevalere. Lo sprezzo per l’arte verista e «borghese», innanzitutto, come giustamente sottolinea con soddisfazione d’Amico. E poi un estetismo compiaciuto più vicino a Huysmans che a Wilde; una ricerca stilistica che lambisce i limiti del virtuosismo fine a se stesso; un senso di stanchezza, un languore in cui si manifesta insieme lo smarrimento, il desiderio di fuga e il compiacimento di sentirsi diversi e dunque meno implicati nel confronto serrato con la storia e la concretezza dei fatti e, infine, anche una forma di superomismo. Sono questi tratti che, nonostante la differenza fra «il decadentismo imperiale del poeta e il decadentismo borghese, schivo, signorile dell’attore, personaggio predestinato del teatro intimista, amaramente ironico e nobilmente disgustato del presente»42, creeranno una continuità nello stile e nella poetica di Ruggeri che non subirà un radicale mutamento nel corso degli anni, quanto meno da questo punto di vista.
22Neppure quando, ripresa la marsina, incontrerà la drammaturgia di Pirandello.
23L’anno è il 1917.
1.3. Da Baldovino a Martino Lori
24Nel novembre del 1917, a Torino, Ruggeri rappresenta per la prima volta un testo, Il piacere dell’onestà, che Pirandello ha scritto pensando a lui per la parte del protagonista, Baldovino: sarà a Milano nel gennaio e a Roma nell’ottobre dell’anno successivo sempre riscotendo, come in quella prima, un buon successo di pubblico e una certa perplessità nella critica.
25Anche d’Amico è perplesso. In particolare polemizza contro quella «compiacenza irritata, quasi rabbiosa con cui talvolta Pirandello insiste e scava a forza di ragionamenti nel fondo di certe sue données arbitrarie e faticose, azzuffandosi con le parole intorno alle tortuosità d’un aggrovigliato filo logico voluto dipanare fino all’estremo, ma senza riuscire ad attingere una vena d’umanità»43 – e si notino qui la compiacenza irritata e la mancanza di umanità.
26E poi, in continuità con questo giudizio, accusa l’autore di aver creato personaggi che sono solo fantocci, compreso il protagonista, «fantoccio ragionante e soltanto ragionante» caratterizzato da una mania dialettica di cui abusa eccessivamente e che all’ultimo rivela, senza che nulla l’avesse fatto presagire, di avere un cuore. Ecco qui le ragioni principali della critica: aridità dei personaggi che mancano di umanità, incompletezza nel tratteggiare la figura del protagonista, incoerenza del finale con il resto della commedia, dialoghi contorti e incomprensibili.
27È necessario a questo punto ricordare che qualche mese prima, nel maggio dello stesso anno, d’Amico aveva già espresso il suo giudizio sul Piacere dell’onestà44 in quell’articolo dal titolo Teatro recente in cui aveva analizzato, insieme ad alcuni testi di Pirandello, anche Marionette, che passione! di Rosso di San Secondo. Quando pertanto nel novembre d’Amico vede a Roma la recita di Ruggeri, ha già avuto il tempo di leggere e meditare sull’originale e perciò ha già in mano tutti gli strumenti necessari per esprimere un giudizio che tenga conto e dell’opera e del modo in cui l’attore la recita, senza fare confusioni parlando della rappresentazione anziché del testo e viceversa. Il risultato è che nel novembre si ripresentano in sostanza le medesime critiche che avevano costituito la base dell’intervento del maggio, accresciute dei dettagli relativi alla rappresentazione: la recita dunque non ha mutato quasi in nulla il giudizio precedente.
28Nell’uno come nell’altro caso ciò da cui d’Amico, come parte della critica di allora, resta lontano e che la recitazione di Ruggeri non aiuta certamente a chiarire, è proprio la forma specifica del grottesco che Pirandello frequenta nei testi teatrali di questo periodo e che già anni prima aveva teorizzato nel saggio sull’Umorismo. Arte della crisi, espressione di un tempo che ha fatto esperienza dello sgretolamento di ogni residua certezza di ottocentesca memoria, testimone del crollo di ogni ideale di armonia, compiutezza e organicità di vita, frutto della precarietà dell’io come principio di intellegibilità del reale. Un’arte in cui si esprime con forza e senza cinismo la coscienza di quella crisi: un’arte che, se da un lato mantiene ancora ferma «la nozione ottocentesca dell’opera come forma organica e compiuta», dall’altro presenta al suo interno elementi di disorganicità, di disgregazione, di molteplicità e contraddizione45. Se il teatro di Pirandello è in questi anni espressione di tale coscienza, se qui la riflessione diventa realmente, come scriveva l’autore nel 1908, «come un demonietto che smonta il congegno d’ogni immagine, d’ogni fantasma messo su dal sentimento» tanto da «smontarlo per veder com’è fatto; scaricarne la molla»46, tuttavia – e qui è il nocciolo del problema, l’umorismo che d’Amico non comprende – quel teatro e quei personaggi, almeno nelle opere più riuscite, esprimono insieme allo smascheramento anche il dolore che lo accompagna, il segno cioè dell’impossibilità di tirarsi fuori dal gioco ed ergersi a giudici implacabili e cinici degli eventi.
29D’Amico invece nel maggio del 1918 scrive, a proposito della recente drammaturgia pirandelliana in cui è compreso anche Il piacere dell’onestà, «la vita non germina spontanea ma è rattenuta e compressa scena per scena [...] i personaggi non mostrano ma dimostrano; spesso le battute dette da uno potrebbero indifferentemente essere dette da un altro; trionfa la dialettica in sé»47, con il risultato che tutto si riduce a «meccanismi a molla di cui a un certo punto, nonostante la eccellente marca di fabbrica si scopre il segreto: così come si scopre (né all’autore dispiace) che le persone messe in moto da essi non sono uomini ma marionette»48. Certo Pirandello non aveva avuto intenzione di descrivere uomini, né marionette, ma piuttosto, come ricorda Possenti in seguito alla rappresentazione milanese del Giuoco delle parti, ombre di corpi: dell’uomo, che non è «guardato di facciata», Pirandello non vede il corpo, ma «l’ombra sbilenca che indugia ancora dove egli è passato nella sua corsa al dolore o all’amore o alla gioia»49. Le ombre certo non commuovono con l’immediatezza con cui può commuovere la rappresentazione delle passioni e dei dolori dell’uomo poiché l’ombra impedisce l’immedesimazione. L’ombra ha qualcosa di rigido, di astratto e di goffo insieme; è un distillato di ciò che resta dell’uomo; svela, oltre alla smorfia, goffa e dolorosa insieme, anche «le origini delle smorfie umane»; l’ombra ha un tempo diverso di azione, un tempo diverso di rappresentazione così come di ricezione perché include in sé anche il tempo della riflessione; infine l’ombra ha un che di astratto perché è ciò che resta dietro il corpo, nero su bianco, priva dei colori della vita, ma appunto, giacché è ombra di un corpo che segue da presso e dal quale non può svincolarsi perché gli appartiene, porta inscritte in sé le tracce di tutte le vibrazioni e i sussulti di quello.
30Senza dilungarci ancora sulla poetica pirandelliana di questo periodo, ciò che interessa qui sottolineare innanzitutto è il fatto che l’estraneità di fondo di d’Amico dalle ragioni dell’umorismo, che lo terrà lontano da una completa comprensione dei personaggi grotteschi di Pirandello – Baldovino e Leone Gala ne sono l’esempio – , non è elemento che impedisca al critico di formulare un giudizio assai positivo su Ruggeri e per motivi apparentemente opposti rispetto a quelli ricordati in precedenza a proposito del primo periodo di attività dell’attore. Allora la stima era stata concessa nonostante il repertorio scadente dei «gentiluomini frigidi», in nome dello stile particolare dell’attore. Ora, nonostante Pirandello, Ruggeri convince d’Amico, ma lo fa – oltre che per alcuni tratti del suo stile che il confronto con l’opera del drammaturgo mette in rilievo – paradossalmente proprio per ciò che il critico riconosce come fedeltà al testo.
31Indagare il percorso di riflessione di d’Amico sembra averci portato di fronte a una forma di contraddizione: Ruggeri è attore da giudicare solo in relazione al suo stile – in quanto artista che nonostante il repertorio fa sempre se stesso e lo fa in un modo che d’Amico apprezza –, o è attore da giudicare, come tanti altri, in relazione alla sua fedeltà ai testi recitati? Forse la questione non è da porsi in termini dicotomici: c’è (come si diceva nella nostra introduzione) autore e autore e la fedeltà richiesta a Pirandello non è paragonabile a quella richiesta a Bernstein o Bataille, giacché, nonostante la distanza di poetiche, d’Amico non può liquidare con facilità il valore artistico del primo come fa con i secondi; c’è poi qualcosa di particolare nello stile di Ruggeri che, nonostante Pirandello e nonostante la supposta fedeltà dell’attore alla sua drammaturgia ma in realtà non in virtù di questa, continua ad affascinare e convincere il critico. Sarà probabilmente proprio su questo punto che alla fine del nostro discorso dovremo fare ritorno; ma per il momento è necessario procedere per passi graduali.
32Innanzitutto, come si è detto, c’è testo e testo e, quindi, fedeltà e fedeltà. Quando d’Amico si occupa in questi primi anni della drammaturgia pirandelliana, la componente del testo assume nelle sue cronache l’assoluta primazia mentre all’attore viene riservata una responsabilità e un peso assai limitato, quand’anche quest’attore si chiami Ruggero Ruggeri. A differenza di tanti interventi precedenti a questi, la figura d’artista di Ruggeri sfuma dietro l’invadente presenza dello scrittore, più ancora di quanto non fosse accaduto nel caso di D’Annunzio: Pirandello, e con lui anche altri rappresentanti del così detto teatro nuovo, richiede a d’Amico oltre che la necessaria attenzione dovuta a un contemporaneo che si sta imponendo allora sui palcoscenici, anche una presa di posizione a causa della sua poetica. Non è così strano dunque che l’attenzione rivolta al comico sia circoscritta entro i margini dell’aderenza al testo, di lui interessandogli, contestualmente e non assolutamente, la corrispondenza fra attore e testo e la funzionalità dell’uno per la resa efficace del secondo50.
33D’altra parte, dialetticamente, d’Amico riconosce che i copioni di Pirandello possono offrire all’attore l’occasione per mettere in gioco e per esaltare efficacemente alcuni dei suoi talenti: in particolare nelle parti da raisonneur Ruggeri può raffinare infatti la sua qualità di «dicitore ironico e squisito»51, talento giudicato tuttavia in questo caso secondo il metro dell’efficacia interpretativa, quale capacità di condurre «l’artificiosa situazione» prevista nel testo52 e non, come altrove d’Amico sembra sostenere, come peculiarità propria dello stile del comico.
34È a questo punto opportuno occuparsi almeno brevemente delle due recite – Il piacere dell’onestà e Il giuoco delle parti – e delle reazioni che suscitarono nella critica contemporanea per poi fare ritorno in seguito a d’Amico e al “suo” ritratto di Ruggeri.
35Siamo, come si è detto, nel 1918. Le due recite vengono abbondantemente recensite sulla maggior parte dei giornali, ma le prove d’attore di Ruggeri, sia che il giudizio sull’opera di Pirandello sia positivo sia che al contrario sia negativo, sono liquidate con pochi sintetici elogi53. Accade qui un fatto abbastanza consueto nelle cronache teatrali di inizio Novecento: il critico, spesso più interessato al racconto della trama dell’opera drammatica che a quello della messa in scena, si trova poi in molti casi a descrivere la recita pur pensando di analizzare il testo. Nonostante le sue idee in proposito, egli assiste infatti a uno spettacolo in cui il testo è solo una delle componenti e giacché di quello dà testimonianza – e non della lettura dell’opera drammatica fatta da solo a solo, nella sua stanza privata – la pressione che il linguaggio della scena ineluttabilmente ha esercitato sulla sua esperienza di spettatore si rifletterà anche sulla sua cronaca. Così qui, pur concentrandosi sull’opera di Pirandello, i critici finiscono per dare testimonianza di alcuni dettagli preziosi sulla recita di Ruggeri, tanto più che, non dimentichiamolo, egli è allora anche capocomico e quindi in gran parte responsabile della recita complessiva.
36Ecco che di fronte alla rappresentazione del Piacere dell’onestà la critica appare concorde nel notare una certa cesura fra i primi due atti e l’ultimo in cui Baldovino, nell’impossibilità di sostenere più a lungo la “parte” in cui consapevolmente ha accettato di irrigidirsi, viene travolto nuovamente, malgrado sé stesso, nel vortice della vita. In tutte le cronache si sottolinea con forza quella cesura, per quanto poi i giudizi di merito al proposito siano discordanti: c’è chi parla di una «chiusa da commedia centenaria [giunta] pur attraverso tanta modernità di modi e di pensiero»54; c’è chi scrive di un «finale alla Bernstein»55, c’è chi come Gramsci parla di «uno svolto pericoloso, e un po’ confuso» in cui «[l]e reazioni sentimentali hanno il sopravvento»56; ma c’è anche chi invece parla complessivamente di un «sapore di corruzione e di acidità»57 e chi come Possenti scrive:
La soluzione della commedia è un lieto fine: ma non il lieto fine voluto, allo scopo di mandar a casa il pubblico contento e sereno. La commedia finisce così perché tale è la sua linea psicologica e deve essere. Baldovino uscito fuor della vita (paradosso) non vi può durare perché la vita lo riafferra (realtà): e tra il paradosso e la realtà ecco balzar fuori la verità di un principio che non è certo fatto per inorgoglirci58.
37Nonostante le divergenze che sarebbe qui lungo analizzare, la cesura c’è e per qualcuno è tanto netta da apparire non giustificata. Ma si tratta di una cesura – e torniamo al discorso accennato poco fa – che è propria della recita più che del testo. Ruggeri, infatti, sottolineando il susseguirsi di due momenti drammatici e insieme di due registri di recitazione, dà una lettura del Piacere dell’onestà che non coglie esattamente lo spirito del testo pirandelliano, la sua verità più intima e profonda59: il grottesco, cioè, che è impasto di tragedia e commedia e non alternanza netta dei due momenti.
38Anche a Pirandello, che assiste a una prova torinese, la recitazione di Ruggeri pare «un po’ troppo disinvolta, senza quella gravità densa e lenta che dovrebbe conciliargli fin da principio»: pare che Ruggeri «entrato bene, anzi benissimo, nella parte umana e drammatica del personaggio», non riesca poi «nella parte umoristica»: «il che è molto pericoloso, giacché tutto dipende dalla prima impressione che il pubblico riceverà del personaggio, subito, al suo entrare in scena»60. A riprova di quanto detto, ricordiamo ancora ciò che Pirandello, in una lettera inviata a Talli, aveva scritto:
Il Piacere dell’onestà [...] non è niente affatto una cosa semplice, piana [...] ma “formidabilmente” difficile, assai più “rischiosa” del Così è, una mostruosa maschera grottesca che improvvisamente al terzo atto si scompone e mostra un volto pieno di lacrime61.
39Tutto sta a comprendere che cosa Pirandello intenda scrivendo «mostruosa maschera grottesca» per contestualizzare anche l’«improvvisamente» che segue: Baldovino è una maschera grottesca fin da principio perché fin dal principio mostra i segni delle sue intime contraddizioni, la profonda consapevolezza della propria precarietà nonostante le apparenze di lucido equilibrio, del conflitto fra la ragione (l’intelligenza) e la vita (la bestia) solo temporaneamente e apparentemente sopito attraverso l’assunzione di una “parte”.
Non siamo soli! – Siamo noi e la bestia. La bestia che ci porta. – Lei ha un bel bastonarla: non si riduce mai alla ragione [...]. E dopo che lei l’ha bastonata, pestata ben bene, le guardi un po’ gli occhi addogliati: scusi, non ne sente pietà? – Dico pietà; non scusarla! – L’intelligenza che scusi la bestia, s’imbestialisce anch’essa. Ma averne pietà è un’altra cosa.
40Ruggeri, invece, signore della scena, elegante, raffinato, alterna probabilmente due registri di recitazione differenti, prima l’uno e poi l’altro, prima quello che d’Amico definisce arido (forse cinico) e insieme disinvolto e poi quello più umano (sentimentale), risultando infine «un tipo singolare e pittoresco»62, piuttosto che una «mostruosa maschera grottesca». Ruggeri è attore che non decompone, piuttosto compone63, qui anche a spese di Pirandello64; il suo linguaggio non porta inscritto in sé alcun segno di crisi, alcuna frattura, nulla della criticità che si inserisce nell’organicità dell’opera65. Compone anche attraverso la sua «correttezza» stilistica, da galantuomo o da superuomo dannunziano. E a questo proposito si possono ricordare le parole di Varaldo, citate anche da d’Amico in un articolo del 1921:
Quest’attore è una bella pagina …[...] Non è rigido, ma non venera che una sola dea: la correttezza. Le sacrifica tutto. È tanto corretto che nessuno lo afferra per almeno un difetto che lo umanizzi: è terso, è cristallino, vitreo come un blocco di ghiaccio puro: si appanna e non si discioglie. Ma si fa ammirare appunto perché non è tangibile: è il bell’oggetto della vetrina, difesa dalla barriera66.
41Correttezza, disinvoltura, impassibilità talvolta ammorbidita da accenti di stanca nobiltà, paiono distanti dall’opera umoristica, «scompost[a], interrott[a], intramezzat[a] da continue digressioni», dove la riflessione «turba e interrompe il movimento spontaneo che organa le idee e le immagini in una forma armoniosa»67.
42Se Ruggeri, che continua anche in questo caso a fare se stesso nonostante Pirandello, si allontana dalla verità (non dalla lettera) del testo, d’Amico, che dice di apprezzare l’attore in virtù della sua fedeltà al copione, non cogliendo però quale sia lo spirito del testo, probabilmente stima Ruggeri per altro, per qualcosa cioè che riguarda il suo stile personalissimo, la sua modernità, il suo consuonare con alcuni tratti della drammaturgia pirandelliana di quegli anni, ma non con la sua ispirazione di fondo68.
43Qualcosa di simile a ciò che accade con il Piacere, avviene anche nella rappresentazione del Giuoco delle parti dove il fraintendimento di Ruggeri sarà ancora più profondo.
44Qui, nel testo che viene considerato l’espressione più matura del grottesco pirandelliano, la più sottile e la più profonda, Leone Gala è veramente e compiutamente l’ombra grottesca – dell’uomo e del primo attore, come suggerisce acutamente Possenti. Proprio perché Leone patisce fino in fondo la sua condizione (la sua parte) dalla quale non può liberarsi, perché non è al di sopra degli eventi e non li domina69 ed è alla fine sconfitto nonostante le superficiali apparenze, sebbene non ci sia alcun cedimento al dramma di passioni, proprio per questo Leone è ombra grottesca.
45Ruggeri al contrario, come è già stato osservato e argomentato da Gigi Livio70, non saprà rendere né il “tono” né lo spirito di quella commedia: il non rispetto da parte dell’attore dell’ultima didascalia e probabilmente anche dell’intera scena di dialogo finale con Silia in cui il protagonista pirandelliano rivela l’impossibilità sua di stare al di fuori del giuoco come supervisore cinico e impassibile, sono già state indicate come le prove più evidenti di un fraintendimento complessivo del significato del testo71.
46È interessante aggiungere qui solo una nota.
47Sul «Giornale d’Italia» in una bella recensione alla rappresentazione romana, la stessa a cui assistette d’Amico, Tom (Checchi) coglie una sfumatura particolare nel tono con cui Ruggeri recita quel finale: sotto quell’apparenza di «placida indifferenza» e di «elegante cinismo» che dovevano prevalere nel primo atto, a partire dal secondo l’attore lasciava intravedere «il logorio di un’anima esulcerata» e «indovinare le fiere tempeste che si agitano sotto quell’apparente calma» tanto che e al termine del terzo atto Leone «siede in tragico silenzio alla tavola, dove la solitaria colazione è imbandita»72. A Genova invece le cose vanno diversamente se Tullio Carpi nel recensire lo spettacolo, duramente criticato nelle cronache di tutti gli altri giornali della città, scrive «imperturbabile – come sempre – con una lieve piega all’angolo del labbro, che non si sa se sia espressione di rammarico o di soddisfazione per la tragica fine del giuoco, ascolta silenziosamente le smanie della moglie sul cadavere dell’amante e cala la scena»73.
48Ecco che nella prima di queste recensioni l’impassibilità di Leone è quanto meno posta in dubbio da quelle «fiere tempeste» e quel «tragico silenzio», mentre nella seconda sembra che la didascalia finale venga rispettata dall’attore che, tuttavia, mantiene la sua imperturbabilità screziata, forse, solo da qualche rimorso.
49Insomma, probabilmente Ruggeri in alcune repliche fu meno distante dalla verità poetica dell’opera, forse qualche critico più sensibile alla poetica di Pirandello colse delle note più cupe anche nella recitazione dell’attore; eppure nulla fa pensare a un autentico impasto di tragico e comico, al grottesco cioè, che lo spirito del testo richiederebbe e che non può darsi nell’arte di un attore se il suo stile non ne viene radicalmente investito, destrutturato nelle più intime fibre.
50A riprova di quanto d’Amico, che sostiene di apprezzare Ruggeri in queste due rappresentazioni perché fedele a Pirandello, sia stato in realtà lontano dalla poetica del drammaturgo, ricordiamo ciò che il critico scriverà dieci anni più tardi, nel 1932, nel capitolo del suo Teatro italiano in cui tratta di Pirandello (e non delle rappresentazioni di testi del drammaturgo): dopo aver sottolineato ancora una volta l’atteggiamento cinico del protagonista del Giuoco, conclude: «quando arriva la notizia che l’amico è stato ucciso, Leone si mette tranquillamente a tavola»74. Paradossalmente d’Amico sembra peccare di disattenzione nei confronti della lettera del testo da lui nella teoria così strenuamente difesa: troppo fedele invece al proprio assunto di partenza su Pirandello (la cui arte «qui come altrove, è sempre quella che si compiace essenzialmente di tirare e inchiodare lo spasimo dei poveri uomini entro lugubri formule sofistiche, aventi l’ingrato ufficio del letto di Procuste»)75, rimuove alcuni essenziali dettagli del testo, pregni di senso, che lo costringerebbero a una revisione del giudizio e preferisce ricordare ciò che ha visto sul palcoscenico – che ha maggior consonanza con la sua prospettiva d’analisi – piuttosto che ciò che ha letto.
51Trascorso un anno dalla prima del Giuoco, Pirandello scrive a Ruggeri per proporgli un nuovo copione.
Rappresentazione d’un dramma, quand’esso è già da gran tempo finito; il benservito a un uomo, dopo che, a sua insaputa, gli si son fatte rappresentare nel miglior modo possibile e proprio per bene, tutte le parti, d’amico, di marito, di padre, di suocero, e la dimostrazione infine che peggio per lui, se egli non è quel che gli altri lo hanno creduto, cioè uno che sapeva e si stava zitto, rappresentando con molto garbo tutte quelle parti76.
52Si tratta di Tutto per bene. La vicenda, che è «rappresentazione momentanea d’una commedia e insieme d’un dramma, che non hanno più ragione d’essere, perché il dramma è passato da gran tempo e la commedia non può più seguitare»77 come volle specificare Pirandello, ha per protagonista Martino Lori che, a differenza dei due precedenti personaggi ideati per Ruggeri – Baldovino e Leone –, recita la parte che gli è stata imposta e che lui ha accettato senza averne consapevolezza, «ignaro di tutto, disarmato e disarmante» fino al giorno in cui la supposta figlia lo pone di fronte ad uno “specchio” che gli rivela la realtà e fa sgretolare tutto il suo mondo di misere certezze.
53Alla scena madre del riconoscimento, tanto criticata da Praga, segue il crollo delle illusioni, il lungo “monologo” in cui il protagonista scandaglia tutte le possibilità che gli si aprono davanti e le elimina ad una ad una fino alla presa di coscienza dell’impossibilità di uscire dalla sua parte e infine la decisione ineluttabile di continuare la recita del «tutto per bene».
54«Per la prima volta Pirandello mostra in atto la metamorfosi del personaggio, dall’incoscienza alla coscienza»78 e non è questo un mutamento di piccolo rilievo.
55Anche d’Amico coglie l’evoluzione del personaggio e in ciò non può che rilevare una nota positiva; in particolare, apprezza la maggiore attenzione alla psicologia, da cui l’evolversi della vicenda viene determinata, e il ridimensionamento dell’elemento astratto proprio invece di altri personaggi già incontrati (i così detti fantocci fra cui d’Amico aveva annoverato Baldovino, Leone e Silia, per citare i più importanti). Così fatta, la commedia perde quella «forma schematico-didascalica»79, fortemente antipsicologica e antinaturalistica che caratterizza per esempio il Giuoco e recupera al suo posto l’elemento passionale e psicologico non più tenuto a freno dall’implacabile logica né del personaggio né dell’autore.
56Proprio per questo mentre altri, fra cui il critico della «Gazzetta del popolo» di Torino ed Enrico Polese, sostengono che dopo quella agnizione al secondo atto la commedia si ferma «e non progredisce più sino alla fine del lavoro»80, «resta immobile [...] gira immutabilmente intorno al suo perno»81, d’Amico definisce l’ultimo atto della commedia «uno dei più belli di tutto il nostro teatro [...] pieno, finalmente!, di umanità»82. Lì Ruggeri fu ammirabile, laddove invece nel primo «non ci parve molto a posto: la sua dizione raffinata, la stilizzazione del suo gesto, si rivelavano un po’ false e stonate con quella parrucca grigia», come anche «un po’ sforzato e ineguale nella grande scena del second’atto».
Ma nel terz’atto egli fu ammirabile: miniò il suo strazio, la sua ricerca di vendetta, la lucida visione del suo passato, la sua finale disfatta [...] ebbe accenti profondi, note che parevano venire su dalle radici dell’essere83.
57Insomma, d’Amico ama ancora trovarsi di fronte al dramma dei sentimenti, espressi in tutte le molteplici variazioni che possono assumere in un animo distrutto perché privato improvvisamente di tutte le certezze che aveva e che – nota non irrilevante – noi possiamo conoscere e perciò ricondurre a “quella” situazione e a “quel” dramma particolare. La forza allegorica dei precedenti grotteschi, nella lettura di d’Amico, si stempera in un caso umano che poco ha di emblematico. Lo sviluppo drammatico, «umano», qui prevale sulla parabola filosofica, «cerebrale».
58Quando nel dicembre del 1932 d’Amico interverrà nuovamente su Tutto per bene in occasione di una recita di Ruggeri, non insisterà più sulle stonature iniziali: una nota allucinata (che non può non richiamare alla memoria un altro personaggio pirandelliano incontrato nel frattempo dall’attore – nel 1922 –, Enrico IV) è forse ciò che permetterà a Ruggeri di realizzare una maggior compattezza e compostezza complessiva84 – i primi due atti compresi85 – e di affrontare, senza scadere nel melodramma, la scena madre del secondo atto. Nonostante ciò, d’Amico continuerà, come già nel 1920, a prediligere la parte finale della commedia, la tragedia del terzo atto, «quel vano gioco dei tentativi di Martino per tutte le vie della liberazione della maschera [...] che a una a una, impraticabili lo respingono e lo ributtano; e gli rimettono sul volto la maschera, da cui non potrà separarsi mai più»86. La rassegnata e tragica disfatta finale del protagonista si porrà anche allora quale sigillo della vicenda e, attraverso le note liriche di Ruggeri, ne rivelerà la componente umana lasciando aperta la strada al pathos dell’identificazione87.
59Nel frattempo tuttavia qualcosa nel giudizio di d’Amico su Pirandello è profondamente mutato, qualcosa di cui si hanno le prime tracce già a partire dal 1921. Dopo la rappresentazione e l’edizione a stampa dei Sei personaggi e la nuova pubblicazione del Fu Mattia Pascal, d’Amico aveva scritto un articolo dal titolo Pirandelliana in cui, facendo ritorno su affermazioni già altrove espresse, il tono della polemica che aveva caratterizzato i suoi interventi precedenti si era evidentemente ammorbidito:
L’arte di Pirandello [...] deriva direttamente dal credo filosofico moderno. Egli è lo straziato poeta del soggettivismo e della relatività: ossia di questo nostro sciagurato tempo che ha perduto la fede in una realtà, in una verità oggettiva [...]. Occorre intender questo per rendersi conto dell’originalità e del valore dell’opera di questo scrittore di teatro88;
60parole che rivelano insieme un avvicinamento e una netta presa di distanza, come di chi coglie e apprezza l’autenticità dell’altro, ma non ne condivide la prospettiva d’analisi – il «credo filosofico moderno», lo «sciagurato tempo» privo di fede –; di chi è disposto anche ad accettare, sebbene a stento, l’amara e dolorosa espressione dello strazio, ma non è poi disposto ad accettarne la radicale verità; di chi può ammettere una forma di cupo pessimismo a patto di mantenere da esso le distanze e prefigurarne una qualche via di uscita. Di chi infine fatica a comprendere la «desolazione d’umorista atroce» – alla quale piuttosto ci si può a stento «assuefare» – perché comprenderla significherebbe assistere alla scomposizione delle certezze che non solo ci riguardano ma ci sorreggono. Anni più tardi, nelle pagine del Teatro italiano, d’Amico ribadirà la sua intepretazione di un Pirandello «soggettivista e solipsista» di cui sosterrà di apprezzare l’autenticità del grido di disperazione nera in «un’età la quale parve sul punto di sprofondare nel niente», insieme ribadendo la propria lontananza dal pessimismo e dal relativismo dello scrittore, perché
[c]on buona pace di quei filosofi che, a cominciare da Eraclito, pensano il contrario, è ben certo che, in senso assoluto, la nostra personalità è sempre identica e una, dalla nascita al Dilà: se ognuno di noi fosse “tanti”, come dice il Padre dei Sei personaggi, ciascuno di questi “tanti” non avrebbe né da godere i benefizi né da pagare i debiti degli “altri” che porta con sé; mentre l’unità della coscienza ci dice che ognuno di noi è sempre “quello” e che Paolo deve redimere le colpe di Saulo perché, anche essendo divenuto “un altro”, è sempre la stessa persona89.
1.4. Il tono
Ci voleva Pirandello perché Ruggeri si svegliasse, e rinunciasse al suo rôle di enfant gâté (sulla scena s’intende!) delle signore e dei signori, delle poltrone. Pirandello ha fatto ritrovare a Ruggeri le sue vere qualità maschie e la sua originalità di uomo riflessivo e dicitore dialettico [...]. Qui il segreto di Ruggeri è tutto interiore e la sua raffinatezza sembra sorgere da una metafisica serenità: parla studiosamente e la sua voce segue il nascere del pensiero; fra l’ambiente e il dicitore s’è creato un tono. In questo tono noi possiamo riconoscere una delle voci originali del teatro contemporaneo90.
61Il giudizio di Gobetti che nel 1924, data in cui fu scritto, trova ormai concorde gran parte dei critici compreso d’Amico, ha soprattutto il merito della chiarezza e quello di cogliere con raro acume un elemento che, sebbene sia posto alla fine dello scritto, quasi fosse sfuggito alla penna dell’autore, è di estremo interesse: il tono.
62Quando nel 1953 d’Amico scrive per il «Tempo» uno dei suoi articoli in occasione della morte dell’attore, al termine riporta il giudizio di Gobetti e lo sottoscrive in pieno. Anche a lui quel tono pare una delle voci più originali, anzi la più originale, del teatro contemporaneo.
63D’altra parte quel «temperamento pessimistico di romantico tormentato», di cui scrive Gobetti, viene, attraverso le doti di uomo riflessivo e di dicitore dialettico, come depurato: la raffinatezza d’espressione «sembra sorgere da una metafisica serenità» e il tono che ne deriva si rivela a questo punto molto distante dall’umorismo.
64In conclusione, quel tono raggiunto nella maturità artistica a contatto con la drammaturgia di Pirandello – ma per d’Amico in particolare con Tutto per bene e poi con I sei personaggi – è l’espressione di una poetica che sintetizza la raffinatezza, la magia della parola «armoniosa» pur nell’incalzare della dialettica pirandelliana, quella leggera distrazione91 che lo fa essere sempre contemporaneamente lì e altrove, il piglio un po’ allucinato (farnetico)92 di dannunziana memoria ma che si confà anche ad alcuni personaggi di Pirandello, forse anche un amaro pessimismo93. È il tono dell’attore moderno, ma non certo grottesco.
65Una modernità che, nella prospettiva critica di d’Amico, si configura innanzitutto come rottura netta con il passato (quello del comico italiano e quello della cultura positivistica)94 e recupero all’arte di una dimensione spirituale, depurata di ogni incrostazione greve con la carne e la terra e risolta nel lirismo delle parole e della voce che le canta.
66Una modernità che è sì espressione del contesto contemporaneo, con le sue ferite e le sue crisi, ma che, nello spazio privilegiato dell’arte, deve ricomporre le lacerazioni, eliminare le discontinuità e risolvere le contraddizioni. Perché, e ciò risulterà sempre più chiaro nel corso degli anni Trenta – quando finalmente si tornerà «a guardare ai valori della Vita come degnissima di essere vissuta, dono di Dio», quando sarà trasmessa «la nuova parola d’ordine “tempo di edificare”»95 – un’arte che esprime semplicemente il tragico strazio dell’uomo è assolutamente inadeguata a manifestare la verità di una rinnovata Fede.
Chi scrive per il teatro ha dei doveri inflessibili. Deve dare a profusione fortezza e fede; non disperazione. La disperazione se la deve tenere per sé […] la folla ha sete di certezza; il successo di domani sarà per chi le darà una parola di fede96.
2. Maria Melato: una voce che interpreta
67La “modernità” di Maria Melato, per alcuni aspetti lontanissima da quella di Ruggeri, si rivela talvolta nelle pagine critiche di d’Amico, della prima metà degli anni Venti soprattutto, insospettabilmente vicina a quella dell’attore: l’artista colto, controllato, che «fa sempre se stesso», da un lato, e l’attrice istintiva la cui grande dote è la «sete d’essere una interprete»97, dall’altro, indicherebbero infatti due modi in cui è possibile nella modernità frequentare ancora sulle assi del palcoscenico l’arte della recitazione. Senza volere con ciò sostenere l’esistenza di un modello ideale di attore moderno, proposito che d’Amico non avrà mai e che non sarebbe corretto volergli attribuire, tenteremo comunque di individuare alcuni di quei tratti stilistici e topoi ricorrenti in cui il critico sembra riconoscere la possibilità concreta per il teatro di esprimere ancora una forma di autentica «poesia».
2.1. L’interprete
68Maria Melato è l’attrice che «sola o quasi in Italia» fa «quel che deve: interpreta»98 e, ancora di più, ha «sete d’essere una interprete», dote così rara e così particolare specialmente per il carattere di necessità vitale (quanto vitale è l’acqua per l’uomo) che assume in lei. Non una variabile più o meno influente del suo essere attrice, bensì un elemento costitutivo e fondante che ne definisce l’identità e la stessa ragione d’essere.
Sì, Maria Melato si studia di interpretare: ossia di trasformarsi, di adattarsi alle varie persone ch’è chiamata a creare, di subordinare le sue qualità alle necessità del quadro scenico, di scoprire e di rendere le intenzioni d’ogni suo autore99,
69tanto da offrirsi come «strumento»100 dell’intenzione del poeta.
70Sono queste parole che, scritte nel 1919, vengono pubblicate nel 1921 in Maschere. Note sull’interpretazione scenica nella sezione Note minime. Sebbene queste pagine riprendano quasi alla lettera il precedente intervento di d’Amico comparso sull’«Idea nazionale» nel 1918, tuttavia qui l’atteggiamento di abnegazione dell’attrice nei confronti del testo drammatico viene posto ancor più in evidenza. Le ragioni si devono probabilmente ricercare in primo luogo nel contesto in cui il pezzo viene inserito, in un libro cioè in cui tutti i materiali concorrono a esemplificare e articolare la tesi di fondo intorno alla quale tutto ruota: l’idea che la recitazione sia interpretazione della scrittura drammatica. Il pretesto, denunciato nelle prime righe, da cui prende l’avvio la riflessione sulla Melato, è in questo senso emblematico: una parte della critica si sarebbe infatti lamentata perché lo straordinario talento dell’attrice, allora in compagnia con Virgilio Talli, sarebbe stato negli ultimi tempi troppo sacrificato in ruoli di secondaria importanza.
71Di qui la replica di d’Amico e, per opposizione, il suo elogio dell’interprete.
72«[S]trumento eccellente» dell’«intenzione» degli autori drammatici, fino al punto da farsi espressione di «una santa “passività’», Maria Melato è infatti l’attrice che più di ogni altra permette in quel momento al critico di individuare una strada possibile per dimostrare realizzata l’idea, altrimenti astratta, di fedele interpretazione e, insieme, per mettere in luce le ineluttabili contraddizioni ch’essa comporta.
73Il primo incontro con l’attrice di cui il critico ci abbia lasciato testimonianza avviene in un’occasione molto particolare: è la sera in cui si inaugura la nuova direzione dell’Argentina di Roma da parte della società «Ars Italica» che ha ottenuto quel teatro in concessione gratuita dal comune per la durata di un triennio101. È il 10 novembre 1918. La compagnia che si esibisce, di proprietà della società, è diretta da Virgilio Talli; la Melato ne è la prima attrice e Betrone il primo attore. Ha così inizio una vicenda importante per il teatro italiano che, sebbene durata solo il tempo dei tre anni previsti dal contratto, rappresenta un episodio significativo nel percorso di trasformazione della scena di quel periodo: uno dei primi frutti di un rinnovato interesse dello Stato per le questioni di teatro che di lì a poco si concretizzerà in altri importanti interventi; un tentativo per molti aspetti fallimentare di realizzare una compagnia stabile finanziata da un ente pubblico locale; infine un momento particolare di quella trasformazione della struttura tradizionale della compagnia capocomicale di giro che ormai da anni Talli sta tentando nelle sue diverse formazioni. Per quanto concerne poi il nostro discorso su Silvio d’Amico, si aggiunga il fatto che il critico, ancora piuttosto giovane ma già ben inserito nella vita politica di allora e nelle vicende che riguardano le questioni organizzative del teatro italiano, rivestirà in questa vicenda una parte importante. Si ricordi qui solo brevemente che nel febbraio di quell’anno, quando ancora non era stato firmato l’accordo con l’«Ars italica» e l’amministrazione comunale stava cercando una soluzione per gestire uno dei suoi più importanti teatri cittadini – l’Argentina appunto –, d’Amico aveva chiaramente espresso la sua posizione in un intervento sull’«Idea nazionale». Schieratosi in favore della costituzione di un teatro d’arte (espressione usata e abusata in questi e negli anni successivi per indicare soluzioni non sempre identiche), d’Amico in quell’occasione aveva innanzitutto sottolineato la necessità di un finanziamento pubblico e in secondo luogo l’esigenza di «sottrarre la direzione agli attori» per affidarla a un «uomo di cultura», capace di gestire l’impresa secondo criteri che il critico amava definire «d’arte»102 in senso assoluto, ma che sarebbe ovviamente più corretto ricondurre a una precisa poetica critica che nulla ha di universale, vivendo al contrario proprio della parzialità del suo sguardo. La «cultura» a cui d’Amico riconosce il diritto di chiamarsi tale è infatti, come si è più volte detto, cultura essenzialmente letteraria – dove la persistenza della parola scritta si fa unica garante di senso e di Verità – all’interno della quale criteri di poetica critica e di gusto distinguono ancora fra ciò che ha il diritto di appartenere alla grande tradizione dei classici e ciò che è al contrario prodotto da scartare. I criteri d’arte, che si vorrebbero in qualche modo oggettivi e assoluti, si rivelano invece – specie per la presunzione implicita a chi li utilizza di poter prescindere dal contesto storico in cui vengono utilizzati – quale precipitato del pensiero delle classe dominante ertasi a garante assoluta della Tradizione – indiscussa fonte di valore – attraverso il controllo dell’istituzione.
74Inseguendo tali criteri d’arte, nel luglio del 1918 d’Amico si era mostrato molto favorevole alla proposta dell’«Ars italica» non solo perché la società aveva garantito la presenza della compagnia Talli e quella, che poi non si costituirà mai, diretta da Chiarelli (la «Compagnia della Commedia moderna»), ma anche perché si era impegnata a stabilire stretti rapporti con la Scuola di recitazione di Santa Cecilia, aveva promesso una ricca stagione lirica e, infine, aveva presentato un progetto per il restauro del teatro103.
75La mancata corrispondenza dei fatti a quelle promesse susciterà polemiche e irritazioni tanto che quell’esperienza avrà presto termine; ma, fra le tante delusioni, una – il lavoro di direzione di Virgilio Talli – interessa in modo particolare il nostro discorso e investe, ovviamente, anche il giudizio di d’Amico su Maria Melato.
76L’incontro, come si è detto, avviene la sera del 10 novembre durante la recita della Locandiera104. Il successo dello spettacolo è pieno; ma c’è chi lamenta – e d’Amico è fra costoro – l’infedeltà al testo d’origine per i tagli di alcune scene, la soppressione dei personaggi delle due comiche che lasciano Mirandolina assoluta protagonista, un certo stile complessivo leggermente caricaturale e il ritmo disomogeneo, fatto di accelerazioni e illanguidimenti, che avrebbe tenuto la recita lontana dall’opera di Goldoni. «[S]ola donna fra tanti uomini», la Melato risulta l’unica reale protagonista della recita: dal grande attore mattatore, all’attore protagonista di uno spettacolo di complesso il passo è significativo, ma, appunto, non è ancora ciò che il critico vorrebbe, tanto che qui il direttore rischia di fare le veci del mattatore e, disattendendo i precetti della riforma goldoniana, di riproporre l’antica mentalità del commediante dell’arte.
77Quasi a fare il punto della situazione, in seguito a una fittissima serie di recite, a poco meno di un mese di distanza dalla prima, il 5 dicembre d’Amico interviene ancora sulle colonne dell’«Idea nazionale» a chiarire il suo pensiero e le sue perplessità.
Noi abbiamo grande rispetto per un capocomico eccezionale qual è il commendator Talli. Egli non è un mattatore; egli è a capo d’una compagnia d’insieme, che nella presente miseria dell’arte scenica è la migliore; egli ha una prima attrice di cui sarebbe oggi impossibile trovar l’uguale; egli arricchisce adesso la sua compagnia di giovani eccellenti. Tutto questo è molto, e, in mancanza di meglio, lo sosterremo; ma diciamolo subito: è ben lontano dal nostro ideale. I criteri che sinora il Talli ha dimostrato nella compilazione e nell’esecuzione del suo programma sono quelli di un’ottima compagnia di giro; non sono quelli che ci attendiamo da un teatro d’arte105.
78Segue l’elenco delle recite: una Locandiera «mutilata», una Gioconda «maltrattata», qualche novità interessante (si riferisce probabilmente al Così è e a Marionette che, pur nelle perplessità in lui suscitate, d’Amico riconosce degne di nota), ma anche un gran numero di pezzi scadenti (I transatlantici di Hermant, Dionisia di Dumas, la Fiamma di Kistemaeckers, La marcia nuziale di Bataille, per esempio). Insomma, Talli non si sta dimostrando l’uomo giusto per avviare un discorso di reale rinnovamento della scena e di scardinamento della tradizione capocomicale di ottocentesca memoria. Talli è, e resta, rappresentante di un teatro da superare: troppo poco rispettoso del testo per darvi il giusto rilievo «d’arte», troppo intimamente legato al lavoro con e sull’attore per poterlo rendere esclusivamente e prima di tutto funzionale all’opera recitata, troppo uomo di teatro (e in quanto tale inserito all’interno di una storia particolare, un contesto linguistico preciso) per costituire ex novo106 un’alternativa, quell’«impresa d’arte» che d’Amico vagheggia un po’ troppo astrattamente107. Se Talli ha tuttavia dei meriti, questi sono riscontrabili nella cura con cui allestisce gli spettacoli, nell’attenzione verso il repertorio italiano (sebbene non solo italiano) e, non da ultimo, nella determinazione con cui persegue il suo progetto di compagnia di complesso che lo induce, fra l’altro, a forzare spesso i suoi attori in percorsi che non rispondono immediatamente né alle loro istintive predisposizioni né alle aspettative del pubblico. È per ciò che d’Amico può vedere quanto avviene in particolare con Maria Melato che, arrivata al fianco di Talli e di Betrone all’esperienza romana nel 1918, proprio in ragione del singolare percorso d’attrice da lei compiuto fino a quel momento, suscita immediatamente in d’Amico reazioni di autentico entusiasmo.
79L’attrice, che è qui alla sua ultima esperienza con Talli, aveva incontrato il Maestro ormai 9 anni anni prima e al suo fianco si era trovata così fin da giovane a partecipare di un contesto artistico molto particolare per i tempi: non la compagnia capocomicale che caratterizzava ancora la maggior parte delle formazioni teatrali di quegli anni, bensì una compagnia di complesso a direzione esterna.
80Qui aveva maturato il suo stile d’attrice e il suo modo di concepirsi all’interno dello spettacolo teatrale; qui, per esempio, invece che con la regola dei ruoli gerarchicamente intesi, la Melato si era confrontata con un principio che prevedeva flessibilità nella distribuzione delle parti108 e nella definizione dei singoli campi di competenza109; invece che in un teatro tutto costruito intorno alle figure dei protagonisti-primi attori, si era trovata a lavorare in spettacoli che miravano a realizzare un complesso diretto dall’esterno in una forma di regia ante litteram; anziché di un costume teatrale che prevedeva lo scioglimento delle compagnie una volta l’anno, la Melato aveva fatto esperienza di continuità nella condivisione di lungo percorso con gli stessi compagni (attori e direttore); infine, come accadeva in altre formazioni, ma con criteri di lavoro diversi, si era sperimentata su un repertorio “moderno” che il suo direttore tendeva a prediligere.
81Dal punto di vista di d’Amico, che non avrà mai l’interesse a porsi il problema complessivo della riforma della compagnia attuata da Virgilio Talli agli inizi del secolo, ciò che conta innanzitutto è questo dato: sotto la direzione assolutamente inflessibile del maestro-direttore che, conosciuto da tutti per la sua durezza e il suo rigore, ha con la Melato, come ella stessa testimonia, un atteggiamento di particolare intransigenza110, l’attrice ha imparato a temperare quelli che altrimenti sarebbero i suoi istintivi eccessi e ha imparato – cosa rarissima per un comico italiano – il sacrificio. La Melato, come d’Amico fin dai suoi primi articoli tende a sottolineare, è infatti attrice istintiva. Ha un temperamento passionale e la tendenza a fare un uso poco controllato dei suoi talenti naturali, «fornita di mezzi così vasti, le è ben difficile riuscire a spogliarsene, o ad usarne con l’estrema moderazione che è necessaria»111. Talli la costringe in situazioni diverse l’una dall’altra, alcune delle quali non così affini al suo temperamento. A chi lamenta, proprio nei primi mesi di attività all’Argentina, che l’attrice è stata sacrificata in parti non principali o in cui la sua giovinezza sfiorisce, d’Amico risponde «Bravo Talli, brava Maria Melato»112. Così nella recita della Locandiera, in cui invero veste i panni di una Mirandolina assolutamente protagonista della scena113, l’attrice si trova a recitare una parte comica distante dalle sue solite, che oscillavano invece fra la corda tragica e quella comico-sentimentale, e d’Amico in quell’occasione ne apprezza la sobrietà, la diligenza, la grazia e la fedeltà114. Nel Così è (se vi pare), poi, la Melato sarà la signora Frola e sosterrà una parte che, se da un lato in virtù della sua ampiezza sembra meglio corrispondere al ruolo primario rispetto a quella della signora Ponza che Pirandello le avrebbe voluto riservare, dall’altro costringe la comica a mettere in discussione il modo d’intendere i lineamenti che tradizionalmente la definiscono come prima attrice: vestirà infatti i panni di «una vecchietta rugosa dai candidi capelli»115, altrimenti detta «maschera rugosa»116, una parte da «madre nobile» più che da «giovane e passionata»117 prima attrice quale ella è. Reciterà poi nei panni di personaggi fra loro molto diversi: Silvia nella Gioconda e Mortella nel Ferro di D’Annunzio, Anna nella Nemica e Dora nella Volata di Niccodemi, Dionisia nell’onomima opera di Dumas, Grazia nella Marcia nuziale e Lolette nella Donna nuda di Bataille, Paula nella Seconda moglie di Pinero; ma poi, nel repertorio della così detta nuova drammaturgia sarà Savinia Grazia nella Maschera e il volto, la Signora dalla volpe azzurra in Marionette, che passione!, la Contessa Anna Rovere nelle Lacrime e le stelle di Chiarelli, Anna Cordelli nell’Uccello del paradiso, Laura Bandi nell’Innesto, la protagonista nella Bella addormentata di Rosso di San Secondo, Barbara nella Fiaba dei tre maghi di Antonelli, Gabriella in Quella che t’assomiglia di Cavacchioli.
82«Col tramutarsi troppo, si arriva inevitabilmente, in troppi casi, all’artificio», commenta d’Amico, «perciò che talvolta ci è accaduto di notare in lei una maniera, una composizione di gesti e di toni, certi smorzamenti di voce, squisiti ma lievemente artefatti, in cui udivamo con compiacenza l’attrice, non sentivamo in comunione immediata la donna. Talvolta, insomma, ella recita»118. Parole queste che d’Amico riprenderà mesi dopo in un nuovo articolo dedicato esclusivamente alla Melato:
Attrice moderna, che dovremmo definire “lirica” se questa parola non fosse stata insopportabilmente abusata, Maria Melato certo non crede che l’arte s’esaurisca nella riproduzione della nuda verità. A differenza di coloro il cui sforzo costante fu ed è unicamente quello di “parlare”, Maria Melato mostra di pensare che il compito dell’artista sia quello di “recitare”119.
83E si possono riconoscere qui gli echi dei commenti espressi su Ruggeri – sia a proposito del lirismo sia a proposito della “recitazione” opposta al parlare naturalistico – e di un discorso che, per quanto mai definito con nettezza su un piano di teoria più generale, percorre trasversalmente gran parte della riflessione estetica di d’Amico.
84Si tratta di quel discorso complesso in cui entrano in gioco i rapporti non così scontati fra la convenzione (ineluttabile) e il convenzionalismo (in cui la convenzione si è svuotata di senso); fra l’artificio (che rimanda all’artificialità dell’arte, al “recitare”) e l’artificiosità (che è gioco arido); fra l’espressione di un’umanità e la riproduzione gretta della realtà. Se d’Amico rifiuta la recitazione che lui definisce del verismo fotografico, lo fa in nome di una recitazione che, da un lato, non rinneghi nella forma il suo debito ineliminabile alla convenzione e dunque la sua artificialità, e che, dall’altro, esprima proprio attraverso la sua forma “artificiale” l’umanità del personaggio (così come il testo l’ha previsto), che sembra essere in ultima istanza l’unico autentico valore di quest’arte. Tutto dunque si gioca nel rapporto fra l’umanità e la convenzione sotto la sovrintendenza del poeta, ovviamente.
85Spostando ora brevemente il discorso dall’attore al campo della drammaturgia, possono essere utili ad approfondire il discorso due esempi: uno relativo alla commedia borghese e l’altro ai personaggi di Pirandello.
86Siamo nel 1921. Un lapidario giudizio espresso da d’Amico su La porta chiusa è il pretesto iniziale di un’aspra polemica con Marco Praga sul dramma borghese di inizio secolo: una drammaturgia, sostiene il critico, che «pare esaurirsi tutta nella formula veristica, e dentro non ha che il decente luogo comune»120, una forma artistica cioè che se come ogni forma d’arte si basa su una convenzione – nel caso specifico la riproduzione naturalistica della realtà – riduce però quella convenzione necessaria a formula banale, riciclata e anacronistica.
87Sempre nel 1921, in un articolo su Luigi Pirandello d’Amico scrive: «mentre molti personaggi delle nostre opere sceniche di cui nessuno mette in dubbio l’umanità discorrevano nel solito eloquio “letterario”, questi personaggi, che viceversa erano accusati di essere fantocci, si esprimevano con un linguaggio, sgraziato quanto volete, ma faticato, sofferto, rotto, singhiozzato, parlato: ossia umano per eccellenza»121, dove il “parlato” che nega la convenzione “letteraria”, è convenzione anch’esso ma capace di esprimere un contenuto umano, nonostante il fatto che poi Pirandello comprima e stiracchi in «formule prestabilite» e macchinose questa vitalità.
88L’umanità si esprime dunque attraverso una convenzione che non può essere né quella “letteraria” né quella banale della riproduzione della tranche de vie, né, e questo è un dato che può aiutare a comprendere, quella congelata, irrigidita, prosciugata del grottesco pirandelliano in cui, se i personaggi hanno un “eloquio” liberato dalle pastoie di una retorica libresca, tuttavia non sono liberi di manifestare con immediatezza e impunemente la loro intimità più profonda.
89Il punto dunque è l’umanità122. L’umanità che d’Amico vuol vedere espressa e per la quale cerca il linguaggio appropriato è quella che appartiene al mondo dell’interiorità psicologica dell’individuo, ai sentimenti, espressi ed esprimibili nell’immediatezza, talvolta allusi per serbarne così maggiormente il mistero e la poesia; l’umanità anche inquieta, anche temporaneamente sbandata, episodicamente priva di un’identità precisa, ma sempre, in ultima istanza, propria di un uomo che non ha perduto né il senso della totalità né quello dell’organicità di sé come del mondo come del proprio linguaggio e che dunque deve e può comporre – quanto meno nello stile dell’espressione – la disorganicità, la frattura, il dolore che lo investono.
90Torniamo allora al lirismo che, se è corretto il percorso di riflessione che abbiamo tentato di individuare, rappresenta una delle chiavi in cui quell’umanità può essere espressa. Il “lirismo” della Melato non nega la convenzionalità (l’attrice si pone il problema della «recitazione» appunto), ma non è la convenzione del verismo borghese o positivistico (quello di Zacconi per esempio); talvolta scade nell’artificiosità (ossia talvolta la Melato «recita» anteponendo una maniera all’espressione schietta dell’umanità)123, ma il più delle volte è mantenuto su note schiette; è un lirismo scaldato dal temperamento passionale dell’attrice che rischia per questo di perdere la misura, ma per lo stesso motivo non perde mai d’intensità. A differenza di Ruggeri, anch’egli lirico ma di un lirismo affatto diverso, la Melato è essenzialmente attrice tragica anche quando si trovi a recitare all’interno del repertorio moderno che, come il compagno ideale, frequenta spesso e soprattutto nei suoi anni di compagnia con Talli124.
91La Melato è dunque un’attrice lirica, che si muove per lo più su un registro tragico anche in drammi moderni, che recita all’interno di una compagnia di complesso che tale resta anche quando lei ne è la protagonista indiscussa, che sa essere “interprete”, anzi che ha necessità di “interpretare” quasi che, altrimenti, lei così ricca di talenti non ben controllati, non potesse creare perché le manca chi la fecondi; che mantiene quasi sempre la sua intensità e la sua spontaneità derivatele dall’istinto più che dalla consapevolezza; che, infine, può rischiare la maniera e l’artificio se non controllata da altri (il capocomico-direttore) o se eccessivamente sollecitata da un repertorio troppo vario. Attrice moderna, dunque, ma anche interprete, con tutte le potenzialità e i limiti che ormai abbiamo inteso questo termine porta con sé nel pensiero di d’Amico.
2.2. Gli strumenti: la sua maschera e la sua voce
92È del 1920 una breve recensione alla serata d’onore della Melato all’Argentina con La falena di Bataille. Premessa una dura critica al testo definito «il peggior Bataille», privo assolutamente di dramma intimo, d’Amico si avvia alle conclusioni scrivendo:
E perciò noi, che abbiamo tante volte parlato delle caratteristiche note di Maria Melato attrice; noi che nella sua maschera e nella sua voce riconosciamo stupendi strumenti per un’interprete del teatro tragico; vorremmo vedere [...] un tale strumento posto al servizio di poeti veri, siano essi Shakespeare o Ibsen, Hebbel o D’Annunzio125.
93Non si può non ricordare a questo proposito una bella recensione di Eligio Possenti a una rappresentazione del 1915 che comprendeva Madama Butterfly, La schiavona di Pantini e Pierrot innamorato di Giuseppe Adami, in cui il critico milanese sintetizzava con la sua consueta precisione e finezza d’analisi in poche righe quelli che saranno per anni i motivi ricorrenti di lode nei giudizi espressi dalla critica sull’attrice:
Il temperamento di questa giovane attrice vibrante e mutevole, da [sic] adito a molta speranza. [...]. La voce, ora morbida, ora tagliente, ora squillante, ora accorata, ora fremente di promesse e di sensualità, ora musicale di garbo e di leggiadria, passa attraverso tutte le gradazioni della tonalità senza distacco: fluida. La maschera del volto della Melato è uno specchio per i sentimenti e per i moti dell’animo del personaggio. Prima di dire la battuta, il suo viso si spiana o si corruccia, gioisce o s’addolora quasi a fornire un degno e armonico contorno pittoresco a ciò che ella deve dire [...]. È un’attrice d’istinto: pare non riflettere a quello che dice [...]. È come una fiamma accesa che guizza, scintilla. Atteggiamenti felini e compostezza monastica si alternano[...]. Vive, realmente, sul palcoscenico126.
94Maschera e voce; istinto, temperamento passionale, forza espressiva e comunicativa: tutti tratti che fanno ritorno anche negli interventi di d’Amico, ma che, come ovvio, in un contesto critico diverso assumono sfumature differenti e si fanno veicoli di un’interpretazione complessiva che mira a restituirci un’immagine dell’attrice affatto diversa. All’ardore, all’esuberanza che, insieme all’irrequietezza e all’inquietudine, come ricorderà nel 1951 Possenti, erano le ragioni profonde del modo di essere attrice della Melato127, nel ritratto di d’Amico si sostituiscono altri temi.
95La maschera e la voce restano costanti. Più famosa e meglio documentabile la seconda, è tuttavia importante che d’Amico rilevi anche la prima che, posta così di fianco alla voce, sembra alludere proprio all’espressività del volto oppure di tutto il corpo complessivamente. Ma si noti qui una ricorrenza curiosa. Tutte le volte che d’Amico ci dà delle indicazioni sulla recitazione della Melato fornendo dei dettagli, questi riguardano quasi sempre la voce: un’intonazione, un ritmo, un modo di modulare le note e così via. Anche nel caso di Ruggeri avviene più o meno la stessa cosa.
96Eppure a proposito della Melato, tutti ricordano gli occhi e il volto non canonicamente bello ma espressivo «sempre corso da un brivido, da un colore, da un’ombra che bastano a intonare tutte le linee in un continuo e inquieto variare d’espressione»128 e il corpo «sottile», «armonico, elegante, un po’ magro, con movenze feline e scapigliate»129. D’Amico parla invece solo di maschera; ma poi non specifica quasi mai in cosa consista. Forse, ed è la prima ipotesi, il critico non specifica perché non gli interessa specificare, perché il lavoro sulla voce lo attrae molto più che il resto. Perché se il teatro è arte della Parola, Verbo del poeta – espressione in cui il primo termine in ordine di importanza è il Verbo e non il poeta, come si è visto nel paragrafo dedicato a Ruggeri –, è legittima anche la sua predilezione per l’uso della voce rispetto ad altri tratti stilistici di un attore. Inoltre se a ciò si aggiunge la necessità che d’Amico sente impellente che il teatro si distingua dal cinema che, allora ancora muto, viene indicato come lo spazio della pantomima, ne consegue che il teatro è tenuto a conservare gelosamente il campo che non può, per il momento, venirgli usurpato – la parola – e l’attore lo strumento espressivo che è solo suo – la voce. Al critico il compito di sottolinearlo.
97Resta da capire perché d’Amico indichi la maschera come uno dei due strumenti con cui la Melato interpreta. Ecco che allora è necessario fare un’altra ipotesi: quella maschera è forse il segno della capacità di «mantenere inalterata la fresca spontaneità sotto l’imposizione di maschere [caratteri] così differenti»130, «di cambiare volto ogni sera»131, ossia di “essere” una maschera più che indossarne una. L’interprete, quindi, è tale innanzi tutto perché sa farsi maschera e in quella maschera scomparire come individualità attorica autonoma: di qui la «santa passività» della Melato, ma di qui anche la necessità di una valida, sicura e ferma mano che sappia dirigerla.
98Il termine maschera infine deve anche essere messo in relazione con il temperamento da tragica dell’attrice. Avviene infatti che d’Amico lo indichi come uno dei requisiti che permetterebbero alla Melato di recitare il teatro tragico e accade anche che i rarissimi casi in cui il critico si sofferma rapidamente su qualche dettaglio del volto dell’attrice siano proprio le occasioni in cui recita in parti da tragica. Un esempio può essere l’«interpretazione» del IV atto della Gioconda di D’Annunzio «ch’ella compone perfettamente, nel volto disfatto, nello sguardo profondo nella sapiente figura, tenendo la stupenda voce pressoché immobile su una unica nota dolorosa»132: descrizione questa che definisce con maggior precisione quel «composta in una maschera tragica e in un accento desolato»133 con cui d’Amico aveva descritto tre anni prima la recitazione della Melato in quell’ultimo atto. La tragedia certo più del dramma moderno costringe dunque l’attrice a fissare i propri tratti anche fisici in forme cariche di espressività, lontane da quelle che si riscontrano nella vita, e a comporsi perciò in una maschera che si imprime nella memoria del critico in genere restio a riportare dettagli visivi.
La voce, l’occhio e il gesto: null’altro la natura ci diede per la comunicazione immediata. Ma il gesto è incompleto per un’attrice e l’occhio è troppo lontano. La voce rimane [...]. Sia che chiami a raccolta le moine di una bimba selvaggia ed istintiva, sia che spieghi la sapienza d’un’amante appassionata e carnale, sia che lo strazio ed il sacrificio di una madre dimostri, Maria Melato attinge nella voce le più palesi risorse134
99scrisse Varaldo nel 1910 e d’Amico, a modo suo, negli anni successivi conferma.
100Voce per la Melato significa essenzialmente canto, «ora torbido, ora sommesso, in un sussulto accorato»135 nella Seconda moglie di Pinero, «voce dorata»136 nella recita di Quella che t’assomiglia, voce che si eleva, si distende, s’infrange «in tutti i toni dell’amore, del terrore e dell’odio, da quelli delle grandi parole a quelli dei selvaggi suoni inarticolati»137 nella parte di Anfissa, che parla come in sogno nella Bella addormentata, che riesce a elevare il linguaggio retorico e gonfio di Rosso di San Secondo in un «ampio canto» nella Roccia e i monumenti. Dicendo «canto» d’Amico allude certamente alla melodiosità della voce della Melato che contribuisce a farne un’attrice lirica e per questo adatta a recitare anche il teatro di D’Annunzio138. Qui infatti la Melato riesce nell’arduo compito di infondere «con sforzo costante un calore di umanità»139 in quell’eloquio astratto, vuoto e retorico della prosa dannunziana (si tratta della già citata rappresentazione della Gioconda) tanto difficile da recitare che l’attore, per non risultare stucchevole, deve in qualche modo idealizzare la propria dizione. Quell’«unica nota dolorosa» in cui la Melato mantiene «pressoché immobile» per tutto l’ultimo atto la sua «stupenda voce»140 è in questo caso un modo di idealizzare il canto, costretto qui, come la maschera, a fissarsi anziché a variare.
101Infine è interessante ricordare qui un dettaglio che riguarda questa recita come la maggior parte delle recite della Melato e che anche Gobetti, citando d’Amico polemicamente, ricorderà in più di un suo intervento:
[d]efiniremmo volentieri Maria Melato “l’attrice dell’ultimo atto”. Ella non è mai così umana e profonda come quando, dopo essere stata squassata dai suoi stessi gridi nelle scene centrali d’un dramma, torna spossata ai pacati accenti conclusivi delle ultime scene, ma con un fremito e una commozione stanca nella voce sonora141.
102Dunque il fulcro dell’arte della Melato non sarebbe tanto «intuito, violenza, prepotenza, voce, fuoco di femmina»142, come scriverà Bertuetti nel 1935, quanto piuttosto la quiete ancora scossa da qualche fremito dopo la tempesta delle passioni: il ritorno all’armonia (almeno formale) dopo il disfacimento dettato dall’esplosione delle emozioni e dei sentimenti, in una specie di catarsi finale. Qui, in questa maggiore pacatezza e quiete, dovrebbero raffinarsi anche le sue facoltà d’interprete. Ora, il nodo dello scontro con Gobetti si colloca proprio qui, nel diverso modo che i due critici hanno di intendere quel raffinamento: dove d’Amico lo riconduce a un lavoro di approfondimento stilistico frutto di consapevolezza artistica, l’altro nega radicalmente all’attrice una qualsivoglia coscienza del proprio fare e del proprio “formare” e, di conseguenza, qualunque tipo di rapporto critico con ciò che fa sul palco.
103Per Gobetti invece, che rifiuta l’immedesimazione e pretende dall’attore il distacco critico, quell’istintività è ciò che impedisce alla Melato di essere una grande attrice. Eccetto un breve periodo in cui pare che Gobetti le riconosca dei meriti, l’attrice sarebbe mossa da «uno spirito di dilettantismo» per «un bisogno di uscire da se stessa, non per creare opera d’arte, ma per diventare quella creatura che per materia passionale le interessava. Recitava per bisogno passionale, pratico»143. Per questo motivo quei finali così efficaci vengono ricondotti da Gobetti a un ragione «pratica, sentimentale, esterna ad ogni esigenza estetica», la semplice stanchezza che investe l’attrice all’ultimo atto e che finalmente ne modera ciò che la sua intelligenza artistica non sa moderare: l’immediatezza sentimentale.
104L’istintività passionale della Melato è per d’Amico ciò che permette all’attrice di comunicare con il calore, l’intensità e l’immediatezza necessarie il contenuto d’umanità del testo, di aderire ai sentimenti lì presenti e dare loro una vita sulla scena.
105La notazione di d’Amico sui finali della Melato, se collocata all’interno del discorso complessivo sull’interpretazione, rivela tutto il suo significato: l’istintività poco mediata ma passionale dell’attrice che esplode nelle scene centrali, riscaldandole e rivelandone l’umanità, e che infine si sa comporre in forme d’espressione più pacate – come se i lacerti sparsi ritrovassero il perno su cui ruotare, l’ordine in cui disporsi, la calma e la serenità – è ciò che permette sia l’immediatezza della comunicazione delle emozioni sia la ricomposizione, infine, delle cose, dell’uomo e del linguaggio in un ordine e in un’unità che lo spettatore-d’Amico alle cose e all’arte richiede. Il compito necessario quanto impossibile dell’“interprete” è almeno parzialmente assolto. Tutelata da una direzione che si occupa di darle un quadro complessivo all’interno del quale inserirsi (evitandole così il pericolo di un’esibizione solitaria che ineluttabilmente l’avrebbe indotta a tradire in modo macroscopico il testo drammatico); protetta da chi (Talli) sa come arginare la sua esuberanza; chiamata a far parlare personaggi in cui la passione è spesso la nota dominante nonostante la varietà dei caratteri (le «maschere»), Maria Melato può contribuire con tutta l’intensità del suo temperamento e la ricchezza della sua espressività, innanzitutto vocale, a dare vita scenica al contenuto umano dell’opera poetica, senza tradire troppo la lettera del testo e senza travolgere gli equilibri fra i personaggi. Inoltre, attraverso un lirismo che stilisticamente si oppone al realismo positivistico, l’attrice dà voce a personaggi femminili la cui cifra caratterizzante è una passione che, attraverso il filtro degli occhi di d’Amico, si fa sempre «spirituale».
106Così avviene anche nel caso di Anfissa, la protagonista del dramma di Andreev. Qui, all’interno della cornice preparata da Talli che inscena l’opera «con vera arte», «[d]alla cura dei piccoli dettagli veristici, dalla distribuzione delle luci, dalla suggestione degli scenari, dalla composizione dei quadri d’insieme, dalla estrema violenza delle scene salienti»144, la Melato recita con «un impeto, con un abbandono, con una veemenza, di cui sul teatro vedemmo di rado gli uguali». Anche qui tuttavia il critico rileva che, se il suo volto è trasfigurato, lo è da una «bellezza tutta spirituale», una «bellezza ben più alta e più pura» di quella comune, e la sua persona «nervosa e fremente», che vibra, si torce ed è squassata dai brividi è comunque «composta in atteggiamenti di indicibile armonia». «Fu un incubo e un delirio»145, conclude d’Amico: di quegli incubi che si sa già che appartengono ai sogni e che possono suscitare il delirio entusiastico del pubblico scosso emotivamente e niente più. Ma a Maria Melato, in qualità di interprete e di donna, non si può chiedere qualcosa di diverso.
107Non è dunque un caso che, resasi autonoma da Talli prima ancora della fine del triennio pattuito con la Società dell’Ars Italica146, la Melato manifesterà agli occhi di d’Amico le sue fragilità147. È forse questo uno dei motivi per cui il critico perderà via via l’interesse per lei. Ma non è il solo. Non bisogna infatti dimenticare che proprio in quel periodo – fra il 1920 e il 1921 – due eventi importanti sono intervenuti a trasformare profondamente lo scenario teatrale italiano.
108Il 1° luglio 1920 si riunisce la neocostituita «Commissione straordinaria per le arti musicale e drammatica» che, come la precedente costituitasi nel 1915 ma mai realmente attiva, si propone di attuare una serie di provvedimenti in favore del teatro: fra i suoi membri, per la sezione drammatica, ricordiamo Praga, Benelli, Niccodemi, Pirandello, Augusto Novelli e Virgilio Talli. D’Amico è il segretario. Durante quella prima seduta viene dichiarato fra l’altro che, al fine di iniziare «un’opera di risanamento spirituale nella vita» del teatro nazionale, lo Stato non potrà «più oltre disinteressarsi dell’antico sogno di costituire un grande Teatro d’Arte drammatica a Roma» e che, a tale scopo, lo stato assegnerà «un adeguato sussidio annuo a una grande Compagnia drammatica degnamente diretta, e vigilata da delegati del Sottosegrariato, la quale agisca per cinque o sei mesi in un Teatro di Roma»148. Scaduti i termini del contratto che impegnava l’«Ars italica» nella direzione dell’Argentina, come era ormai previsto da tempo, nel 1921 la società si scioglie. Il 30 giugno viene deliberato sempre dalla «Commissione straordinaria»149che 120.000 lire delle 140.000 del fondo per l’incremento del teatro drammatico vengano destinate per «la costituzione di una buona compagnia capace di interpretare decorosamente un buon repertorio, in modo da dimostrare che, se una soluzione della crisi è possibile, ciò non può avvenire se non ritornando sulle vie maestre dell’arte»150. Quindici giorni prima l’«Argante» aveva dato l’annuncio dello scioglimento della Compagnia Talli. Il direttore, liberato da ogni impegno, può unirsi così a Ruggero Ruggeri e Alda Borelli in una compagnia d’eccezione che ha tutte le carte in regola per ottenere, come avverrà, l’ambito finanziamento. I riflettori, che per due anni si erano concentrati sull’attività della compagnia Talli-Melato-Betrone, si spostano ora ineluttabilmente su altro.
109E così fa anche d’Amico. Tanto più che, il 5 maggio di quell’anno, un altro evento straordinario ha attratto l’attenzione di tutta la critica: Eleonora Duse è tornata a recitare. D’Amico la vede per la prima volta su un palcoscenico e non c’è dubbio che questo incontro incida profondamente sul suo sguardo di critico del teatro.
110Accade così che, per molte e diverse ragioni, all’attrice alla quale aveva riservato una serie di primati (di interprete, di tragica, di voce lirica) fino alla metà del 1920, d’Amico non dedicherà neppure una pagina del suo Tramonto del grande attore nel 1929.
Notes de bas de page
1 .S. d’Amico, Credette nel verbo, in «Teatro-scenario», 1-15 agosto 1953, p. 4.
2 .s. d’a. [S. d’Amico], Ruggeri al Valle in «Creso si diverte», in «L’Idea nazionale», 15 dicembre 1915. Il dicembre del 1915 è anche la data delle prime rappresentazioni romane dell’Amleto e del Piccolo Santo che Ruggeri aveva già recitato a Milano nell’aprile dello stesso anno. D’Amico certamente vi assiste ma, a causa del suo ruolo di vice nella rubrica teatrale, non è compito suo il recensirle. Questo accadrà più tardi, nel 1918 per l’Amleto e nel 1921 per il testo di Bracco.
3 .I testi più frequentemente rappresentati dalle prime compagnie in cui è primo attore, la Gramatica-Ruggeri (1906-1909) e la Ruggeri-Borelli (1909-1912), sono: L’amico delle donne di Dumas, Divorziamo! di Sardou l’Istruttore di Henriot, la Raffica di Bernstein, Il bosco sacro di De Flers e Caillavet, L’avventuriero di Capus, Il brutto e le belle di Lopez, il Tribuno di Bourget, a cui aggiungeranno negli anni successivi, con le nuove compagnie, Il piccolo santo di Bracco, Macbeth e Amleto.
4 .«[Q]uando la “verità” ci ebbe definitivamente seccato e gli attori che recitano come “si parla nella vita” ci parvero, a torto o a ragione, fastidiosi, allora nacque Ruggeri»: S. d’Amico Il ritorno di Ruggeri, in «Comoedia», aprile-maggio 1929, p. 5; concetto che d’Amico riprenderà anche nell’articolo scritto in occasione della morte dell’attore: «[i]l Ruggeri, poco più che trentenne, si faceva infatti notare per qualità del tutto opposte, e cioè una sorta di pallore, un ripudio degli effetti calcati, un orrore di quanto sapesse di istrionesco o semplicemente mimico» (S. d’Amico, La scomparsa di Ruggeri. Aligi dorme per l’eternità, in «Il Tempo», 21 luglio 1953).
5 .«Anche se è vero che sovente Ruggero Ruggeri non tanto si profuse nella generosa illusione, mettiamo, dell’ultima Duse, tutta tesa ad “interpretare”, quanto si effuse nella programmatica ricerca e manifestazione, in primo piano, di sé stesso; rimane il fatto che questo suo “se stesso” era, nella nostra scena alcunché di inaudito»: S. d’Amico, Credette nel verbo cit., p. 6.
6 .Ibid.
7 .M. Ramperti, Galleria dei comici italiani. III – Ruggero Ruggeri, in «Comoedia» 20 agosto 1926, pp. 10-11.
8 .Si tratta della recensione all’Amico delle donne di Dumas del 1923 che è una ripresa quasi letterale dell’articolo del 1918, La serata di Ruggero Ruggeri: Il trovarobe [S. d’Amico], Ruggeri amico delle donne, in «L’Idea nazionale» 1 maggio 1923.
9 .s. d’a [S. d’Amico], Ruggeri al Valle in «Creso si diverte» cit.
10 .«Prima ancora che la cosiddétta verità si domanda alla scena, e ai suoi artisti, uno stile; e, prima d’ogni altra qualità, si chiede all’attore di saper recitare»: s. d’a. [S. d’Amico], Madame Simone, al Valle, in «La Tribuna», 27 novembre 1926.
11 .Ibid.
12 .Il trovarobe [S. d’Amico], Ruggeri amico delle donne cit., il corsivo è nostro.
13 .R. Ruggeri, Taccuino, in L. Bragaglia, «Taccuino segreto» di Ruggero Ruggeri, Palermo-São Paulo, R. Mazzone ed., 1973, p. 55.
14 .Ivi, p. 52. E poi ancora: «Nessun’arte si può comprendere senza una scelta illuminata: è inutile essere brutalmente naturale»: ivi, p. 50
15 .Ivi, p. 55.
16 .Ivi, p. 51.
17 .Ricordiamo qui in nota che nei suoi appunti Ruggeri scrisse: «Dare l’impressione del galantuomo anche nel modo di recitare»: ivi, p. 59.
18 .Si tratta della recensione all’Amico delle donne di Dumas fils del 1923 che è una ripresa quasi letterale dell’articolo del 1918, La serata di Ruggero Ruggeri, già citato: Il trovarobe [S. d’Amico], Ruggeri amico delle donne cit.
19 .Fra le poche eccezioni a questo stile elegante e raffinato fu la recita di Samson dal critico ricordata in occasione della rappresentazione dello stesso testo da parte di Lucien Guitry: «[Ruggeri] ci parve penetrasse molto più esattamente nell’anima – fittizia poco importa – del personaggio, dimenticando la propria consueta eleganza per comporne un tipo di cruda volontà, rossi i capelli e il viso, aspro conquistatore e vincitore»: [s. d’a.], Guitry in «Samson» al Teatro Nazionale, in «L’Idea nazionale», 25 dicembre 1915.
20 .Ibid.
21 .S. d’Amico, Credette nel verbo cit., p. 5.
22 .Id., Il ritorno di Ruggeri cit., p. 6.
23 .In quella recita Betrone fu Lazzaro, la Vergani fu Mila.
24 .Il trovarobe [S. d’Amico], Ringraziamento, in «L’Idea nazionale» 13 maggio 1923.
25 .S. d’Amico, Il teatro italiano, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932, p. 44.
26 .Ivi, p. 40.
27 .Ivi, p. 43.
28 .G. Getto, Tre studi sul teatro, Caltanisetta-Roma, S. Sciascia editore, 1976, p. 167.
29 .Ibid.
30 .G. D’Annunzio, Lettera a Francesco Paolo Michetti, 31 agosto 1903, ora in V. Valentini, La tragedia moderna e mediterranea, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 192.
31 .M. Ramperti, Galleria dei comici italiani. III – Ruggero Ruggeri cit., p. 9.
32 .Ibid.
33 .s. d’a. [S. d’Amico], «Amleto» al Quirino, in «L’Idea nazionale», 21 novembre 1918.
34 .P. Gobetti, Ruggero Ruggeri, in «Il Contemporaneo», 15 gennaio 1924, ora in P. Gobetti, Scritti di critica teatrale cit., p. 637.
35 .Ibid.
36 .s. d’a. [S. d’Amico], «Amleto» al Quirino cit.
37 .P. Gobetti, Ruggero Ruggeri, in «Il Contemporaneo», 15 gennaio 1924 cit., ora in Id., Scritti di critica teatrale cit., p. 638.
38 .Id., Ruggero Ruggeri, in «Il Lavoro», 3 gennaio 1924, ora in Id., Scritti di critica teatrale cit., p. 621.
39 .s. d’a. [S. d’Amico], «Amleto» al Quirino cit.
40 .R. Ruggeri, Da Aligi a Corrado Brando. Rievocazione dannunziana di Ruggero Ruggeri, in «Il Dramma», 1 dicembre 1951, p. 36.
41 .A. Varaldo, Fra viso e belletto. Profili d’attrici e d’attori, Milano, Dott. R. Quinteri ed., 1910, p. 193.
42 .G. Prosperi, Pirandello-Ruggeri, in «Il Dramma», agosto-settembre 1955, p. 71.
43 .s. d’a. [S. d’Amico], «Il piacere dell’onestà» di L. Pirandello al Quirino, in «L’Idea nazionale», 17 ottobre 1918.
44 .Il piacere dell’onestà viene pubblicato per la prima volta sul mensile romano «Noi e il Mondo» nel febbraio (l’atto primo) e nel marzo (atti secondo e terzo) del 1918 e poi sempre nello stesso anno nel primo volume della raccolta Maschere nude (Milano, Flli. Treves editori) dedicato «All’amico Ruggero Ruggeri, maestro d’ogni composto ardire sulla scena». È proprio quest’ultima edizione che fornisce a d’Amico l’occasione del suo intervento.
45 .C. Vicentini, Pirandello e il disagio del teatro, Venezia, Marsilio, 1993, p. 45.
46 .L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, poesie e scritti varii, Milano, Mondadori, 1965, p. 154.
47 .S. d’Amico, Teatro recente, in «L’idea Nazionale», 3 maggio 1918.
48 .Ibid.
49 .e. p. [E. Possenti], Rassegna drammatica. A proposito de «Il giuoco delle parti» di Pirandello (Teatro Manzoni-Compagnia Ruggeri), in «La Perseveranza», 13 maggio 1918.
50 .È ovvio che l’Amleto di Shakespeare rappresenta ancora un caso diverso: in quanto “classico”, il testo si impone di per sé senza che il critico si senta in dovere di sottolinearne un valore che già la storia ha affermato in modo assoluto; ma come “classico” della tradizione recitativa, richiede di essere guardato anche per il modo in cui il singolo attore lo porta sulla scena. Lo stile del comico diviene allora protagonista della cronaca che, liberata dall’urgenza di garantire alla scrittura drammatica la primazia, può occuparsi con maggior agio e con minore rigidità – un classico, si sa, nel corso della storia è stato oggetto di più e diversificate interpretazioni – delle peculiarità del linguaggio della scena.
51 .s. d’a. [S. d’Amico], «Il piacere dell’onestà» di L. Pirandello al Quirino cit.
52 .Ibid.
53 .«Ruggeri ha recitato con misura ed ha composto il tipo del protagonista con talento ammirevole» (e. p. [E. Possenti], Teatri. Il piacere dell’onestà, in «La Perseveranza» 3 gennaio 1918); «interpretazione superba ironica e dolorosa» (en. c. [E. Cavacchioli], I teatri di Milano. Olympia. «Il piacere dell’onestà». Commedia in 3 atti di L. Pirandello, in «Il Secolo», 3 gennaio 1918); «commedia recitata con molta espressione dal Ruggeri, che sa colorire di pause sapienti anche le fatiche del suggeritore» (s.i.a. [E. Albini], Teatri. Olimpia, in «Avanti!», 3 gennaio 1918). Insomma, per tutti la recitazione di Ruggeri non si scosta né tradisce lo spirito del testo di Pirandello e, in tutti i casi, sembra non essere motivo di grande interesse.
54 .[s.i.a.], Corriere teatrale. Olimpia. «Il piacere dell’onestà» di L. Pirandello, in «Corriere della Sera», 3 gennaio 1918.
55 .V. Cardarelli, Il piacere dell’onestà di L. Pirandello al Quirino, in «Il Tempo», 16 ottobre 1918. Ma si veda più ampiamente la durezza del giudizio di Cardarelli: «Presentandoci un burattino ha voluto pian piano sovraccaricarlo di umanità e di psicologia con dei fondacci di tragicità insospettata. Non ha saputo stare allo scherzo, all’umorismo che sprizzava inevitabile da questa figura soltanto ad averne avuto un senso un poco più nitido».
56 .A. Gramsci, «Il piacere dell’onestà» di Pirandello al Carignano, in «Avanti!», 29 novembre 1917, ora in A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Editori riuniti, 1971, p. 377.
57 .en. c. [E. Cavacchioli], I teatri di Milano. Olympia. «Il piacere dell’onestà». Commedia in 3 atti di L. Pirandello cit.
58 .e. p. [E. Possenti], Rassegna drammatica. A proposito de «Il giuoco delle parti» di Pirandello (Teatro Manzoni-Compagnia Ruggeri) cit.
59 .Intendiamo qui spirito del testo nell’accezione usata e articolata da Gigi Livio nel già citato saggio Letteratura e teatro alle pp. 58-63.
60 .Sono parole che Pirandello scrive a Martoglio dopo aver assistito a Torino alla prima prova:»: L. Pirandello, Lettera a Nino Martoglio, Torino, 23 novembre 1917, in L. Pirandello, Pirandello Martoglio. Carteggio inedito, a.c. di S. Zappulla Muscarà, Milano, Pan editrice, 1980, p. 104.
61 .L. Pirandello, Lettera a Virgilio Talli, 1917, riportata in S. Lopez, Dal Carteggio di Virgilio Talli, Milano, F.lli Treves editori, 1931, p. 153.
62 .[s.i.a.], Corriere teatrale. Olimpia. «Il piacere dell’onestà» di L. Pirandello cit.
63 .In questo senso possono essere interpretate anche le parole di Gramsci sul virtuosismo tecnico di Ruggeri scritte nel 1917: «Ruggeri è l’attore dell’indistinto: conguaglia tutto: il bello e il brutto diventano uguali attraverso la sua persona, e il bello ne soffre, ne viene diminuito, non è più lui»; la tecnica pura crea in Ruggeri «il conguagliamento, l’indistinto», mentre l’arte dovrebbe essere «sempre diversità, distinzione, individuazione»: A. Gramsci, Ruggero Ruggeri, in «L’Avanti!», 28 novembre 1917.
64 .« “L’uomo è un animale vestito, – dice il Carlyle nel suo Sartor Resartus, – la società ha per base il vestiario”. E il vestiario compone anch’esso, compone e nasconde: due cose che l’umorismo non può soffrire»: L. Pirandello, L’umorismo cit., p. 158.
65 .Traggo questa espressione da Claudio Vicentini e dal suo studio sull’Estetica di Pirandello (Milano, Mursia, 1985) che, in particolare nei capitoli dedicati all’umorismo, è stata un importante punto di riferimento critico e teorico per queste riflessioni.
66 .A. Varaldo, Fra viso e belletto. Profili d’attrici e d’attori cit., p. 192.
67 .L. Pirandello, L’umorismo cit., pp. 132-133.
68 .È importante sottolineare almeno in nota un dato che riguarda la responsabilità di un attore nella scelta del testo. Scegliere di recitare un certo tipo di drammaturgia e non un’altra non è mai elemento indifferente e, in ogni caso, esige una qualche forma di responsabilità da parte del comico: certo è che nei confronti di testi contemporanei la responsabilità si fa maggiore, si fa urgenza di comprensione, di confronto serrato con la verità che lì viene espressa e che a modo suo dice il tempo in cui vive anche l’attore che la recita; un confronto che può significare anche rifiuto consapevole e di conseguenza infedeltà, parodia, stravolgimento. Comprendere e confrontarsi con la poetica dell’umorismo pirandelliano implicita nel testo qui preso in esame dovrebbe essere responsabilità e dell’attore, che sceglie di recitarlo, e del critico, che si trova a recensirne la prima rappresentazione. Questa vicenda testimonia invece quanto critico e attore manchino l’incontro con la poetica dello scrittore e si incontrino invece su un altro terreno.
69 .E invece Gramsci, che non aveva ancora letto il testo prima di vedere lo spettacolo, nella sua cronaca alla recita di Ruggeri scrive: «La vita è per lui concetto puro, un giuoco meccanico, di cui prevede e dispone a priori le parti, facendo sempre scacco matto»: A. Gramsci, «Il giuoco delle parti» di Pirandello al Carignano, in «Avanti!», 6 febbraio 1919, ora in A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale cit., p. 424.
70 .G. Livio, La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento cit., pp. 198-216.
71 .Si vedano a proposito della recita di Ruggeri e più in generale sulle rappresentazioni del Giuoco il volume Aa. Vv., Pirandello fra penombre e porte socchiuse. La tradizione scenica del «Giuoco delle parti», Torino, Rosenberg & Sellier, 1991 e, in particolare, R. Alonge, «Il giuoco delle parti», atto primo: un atto tabù.
72 .Tutte le citazioni sono tratte da: Tom [E. Checchi], «Il gioco delle parti» di L. Pirandello al Quirino, in «Il Giornale d’Italia», 8 dicembre 1918.
73 .T. C. [T. Carpi], «Il giuoco delle parti» di L. Pirandello al «Margherita», in «Il Lavoro», 3 gennaio 1919.
74 .S. d’Amico, Il teatro italiano cit., p. 116. La frase compariva nella cronaca allo spettacolo del 1918 quasi uguale.
75 .s. d’a. [S. d’Amico], «Il giuoco delle parti» di Pirandello al Quirino, in «L’Idea nazionale», 8 dicembre 1918.
76 .L. Pirandello, Lettera a Ruggero Ruggeri, Roma, 7 dicembre 1919, riportata in «Il Dramma», agosto-settembre 1955, p. 85.
77 .Si tratta di un’intervista a Pirandello pubblicata sul «Corriere della Sera», 28 febbraio 1920 (Cronache teatrali. Pirandello e lo specchio).
78 .A. d’Amico, Nota a «Tutto per bene», in L. Pirandello, Maschere nude cit., vol. II, p. 398.
79 .Per un’analisi approfondita di questo aspetto del Giuoco delle parti, rimandiamo ancora a G. Livio, La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento cit., pp. 202-203.
80 .E. Polese, Di una nuova interpretazione di Ruggeri, in «L’Arte drammatica», 8 maggio 1920, p. 2.
81 .m.s., Ultime teatrali. «Tutto per bene». Commedia di Pirandello al Carignano, in «Gazzetta del popolo», 7 luglio 1920.
82 .S. d’Amico, «Tutto per bene» di Pirandello, in «L’Idea nazionale», 4 marzo 1920.
83 .Ibid.
84 .Fin dalla sua apparizione, l’attore risulterà «perfettamente composto nella sua maschera allucinata»: s. d’a. [S. d’Amico], Addio di Ruggeri, in «La Tribuna», 24 dicembre 1932.
85 .A ciò si aggiunga la probabile eliminazione della parrucca che aveva tanto infastidito sia d’Amico che Praga e che aveva reso il personaggio una macchietta ridicola al suo apparire.
86 .S. d’Amico, «Tutto per bene» di Pirandello cit.
87 .«Tutto per bene, dunque. Altro da fare non c’è. Riprendere e continuare, almeno in pubblico, l’antica commedia: quella ch’egli ingenuo ha recitato per tutta la vita. Non c’è altra strada da percorrere. A braccio di Palma, Martino si riavvia, disfatto, per questa»: Ibid. Il secondo corsivo è nostro.
88 .S. d’Amico, Pirandelliana, in «L’Idea nazionale», 11 ottobre 1921.
89 .Id., Il teatro italiano cit., p. 130.
90 .P. Gobetti, Ruggero Ruggeri, in «Il Contemporaneo» cit., ora in P. Gobetti, Scritti di critica teatrale cit., p. 639.
91 .A proposito della recita del Piccolo santo di Roberto Bracco, uno dei maggiori successi di Ruggeri, d’Amico nel 1921 commenta: «Ruggeri recita questa parte con la sua consueta levità, e con frequenti distrazioni di uomo assorto altrove, di dicitore che (conforme l’intento dell’autore) enuncia alcune cose ma pensando a ben altre, o addirittura pensando a queste altre senza neppure rendersene conto»: s. d’a. [S. d’Amico], Ruggeri e «Il piccolo santo», in «L’Idea nazionale», 10 dicembre 1921. Il teatro dell’inespresso di Bracco dovette certamente incentivare questa che fu comunque una caratteristica della recitazione di Ruggeri e che già Varaldo aveva notato nel 1910: «Ha la tendenza alla distrazione: ciò ammorbidisce, femminilizza, smussa la sua correttezza» (A. Varaldo, Fra viso e belletto. Profili d’attrici e d’attori cit., p. 193).
92 .È Eugenio Bertuetti che in un suo lucidissimo e molto stimolante intervento su Ruggeri individua in quello «spirito farnetico» la nota più autentica e originale dell’attore: il presentimento d’esplosione e non già l’esplosione vera e propria, la vibrazione potenziale con cui Ruggeri «lievita senza volerlo ogni sua interpretazione»: E. Bertuetti, Ritratti quasi veri, Torino, Stabilimento grafico Avezzano, 1937, p. 153.
93 .E qui, su questo ultimo punto, può venire in nostro soccorso una testimonianza tarda (siamo nel 1955) che ci ha lasciato Giorgio Prosperi a proposito dell’incontro poetico fra Ruggeri – l’uomo di gusto, scettico, gelido, distaccato – e la drammaturgia di Pirandello – l’uomo colto nel vortice della contraddizione: «Tra le maglie della dialettica pirandelliana, vediamo la gelida sicurezza di Ruggeri oscillare, impigliarsi, innervosirsi, fino a scoprire intero, non più velato dalla maschera di una superiore ironia, quel pessimismo amaro e addolorato che è alle radici della personalità di Ruggeri e che così da vicino corrisponde all’amaro pessimismo pirandelliano. Direi che nell’intricato ed arrovellato dialogo pirandelliano, non certo facile da mandare a memoria irto com’è di incisi, di ritorni, di scoppi drammatici tra le volute dei sofismi, persino le incertezze e i vuoti di Ruggeri hanno qualche cosa di estremamente patetico, come è sempre l’autorità quando scopre il suo limite e trasalisce della scoperta, perché oltre il limite scorge, nudo, il dolore, che tanto studiosamente aveva tenuto lontano, e che ora la rapisce e la confonde, umanizzandola, con il resto dei mortali»: G. Prosperi, Pirandello-Ruggeri cit., p. 72.
94 .Ricordiamo ancora il finale dell’articolo del 1953 (S. d’Amico, Credette nel verbo cit.) «Nella grande reazione indetta e perseguita dal Novecento, in orme della poesia, contro le ottocentesche secche del verismo, noi annoveriamo l’eterna giovinezza del “signor Ruggeri” fra le vittorie dello spirito» (p. 6).
95 .S. d’Amico, Tendenze nuove del dramma italiano, in «Scenario», n. III, 1932, p. 34.
96 .Id., Il teatro italiano cit., pp. 295-296. È opportuno sottolineare qui la linea di continuità del pensiero di d’Amico che, se negli anni Trenta si tinge di note che spiccano per la loro sintonia con i tempi, hanno tuttavia una radice molto lontana. L’idea di una rinascita, l’avvento dell’uomo nuovo, l’esigenza di una rinnovata fede che unisca le folle in un sentire comune, come si è più volte sottolineato, sono temi che percorrono la riflessione del critico fin dall’inizio, segno questo fra gli altri della continuità senza fratture nei confronti della precedente epoca giolittiana che caratterizza la politica culturale del fascismo. Ma qui, a sottolineare poi la specificità del percorso di d’Amico, bisogna ricordare anche che il critico, fedele a se stesso e coerente con una matrice di pensiero in parte debitrice all’idealismo e in parte al cattolicesimo, manterrà costante il suo apprezzamento per l’arte recitativa di Ruggeri da qualcuno, al contrario e proprio in sintonia con i tempi nuovi, accusato di essere «uno sfiaccolato, presuntuoso, infingardo, nemico del suo paese», «uno sbadigliante nauseato», «trasguasto per pigrizia», «un miope glabro e ingeneroso». Sono queste parole che Enrico Rocca – cronista del «Popolo d’Italia» organo del PNF – scrive a d’Amico nel 1932 per giustificare il suo rifiuto a scrivere un pezzo sull’attore per la neonata rivista «Scenario»: E. Rocca, Lettera a d’Amico, Milano, sabato 30 aprile 1932, conservata nel Fondo d’Amico del MBA, Sezione «Corrispondenza».
97 .s. d’a. [S. d’Amico], Maria Melato, in «L’Idea nazionale», 16 dicembre 1918.
98 .Ibid.
99 .S. d’Amico, Maschere. Note su l’interpretazione scenica cit., pp. 165-166.
100 .Ibid.
101 .A questo proposito rimando al saggio D. Orecchia, Aspetti d’organizzazione e percorsi di poetica sulla scena: Virgilio Talli e la Compagnia del Teatro Argentina di Roma, in «L’Asino di B.», n. 6. 2002.
102 .Id., La sorte dell’Argentina, in «L’Idea nazionale», 21 febbraio 1918.
103 .s. d’a. [S. d’Amico], La resurrezione dell’«Argentina», in «L’Idea nazionale», 17 luglio 1918.
104 .Id., La riapertura dell’Argentina. «La locandiera», in «L’Idea nazionale», 11 novembre 1918.
105 .[S. d’Amico], Una grande e unica compagnia Talli all’Argentina, in «L’Idea nazionale», 5 dicembre 1918.
106 .Ibid.
107 .In realtà fin dal principio d’Amico aveva individuato in Chiarelli e nella sua «Compagnia della Commedia moderna» piuttosto che in Talli il possibile promotore di una riforma in senso moderno della scena, rivelando anche in questo caso quanto il punto di vista del “letterato” condizionasse la sua visione del linguaggio della scena teatrale.
108 .Una compagnia «dove tutti gli artisti accettino di fare oggi il protagonista nel lavoro di A. domani il generico nel lavoro di B.»: Pes [E. Polese Santarnecchi], Del progetto di Talli!!, in «L’Arte drammatica», 19 dicembre 1903, p. 1.
109 .Per quanto riguarda la questione relativa alla riforma dei ruoli di Virgilio Talli e più in generale alla sua attività in quegli anni si veda D. Orecchia, Aspetti d’organizzazione e percorsi di poetica sulla scena: Virgilio Talli e la Compagnia del Teatro Argentina di Roma cit.
110 .Manlio Pierotti, in un diario in cui narra alcune vicende della vita della Melato nel periodo in cui lavorò in compagnia con Talli, scrive che l’attrice «vide Giovannini piangere più volte sotto le sfuriate di Talli che si lasciava acciuffare dall’ira fino al parossismo. Vide Betrone battere i pugni nel muro, fino a farli sanguinare, per non ribellarsi al maestro che lo redarguiva e lo offendeva senza pietà […]. Durante una prova, [Talli] le [Melato] aveva fatto ripetere per circa venti volte una battuta che lei doveva recitare in ginocchio e con grande drammaticità. Mano a mano però, che la scena si ripeteva, la Signora Melato diventava sempre più stanca e quindi meno efficace. Talli sempre più si “inferociva” (parola usata dalla Signora), finché non si controllò più. La afferrò per i capelli e la gettò sul palcoscenico, gridando invettive e contumelie. A salvare la situazione venne il suono del campanello, che annunziava la mezz’ora di riposo, e tutti gli attori si rifugiarono nei camerini dove, in quel breve riposo, consumavano un modesto spuntino». L’episodio termina con la Melato che scaglia una sedia addosso a Talli che finalmente si calma: Manlio Pierotti parla della grande attrice Maria Melato, s.d., diario manoscritto con pagine numerate conservato presso la Biblioteca Panizza di Reggio Emilia, fondo «Maria Melato», 27/1, pp. 221-223.
111 .S. d’Amico, Maschere. Note su l’interpretazione scenica cit., p. 166.
112 .s. d’a. [S. d’Amico], Maria Melato, in «L’Idea nazionale», 16 dicembre 1918.
113 .Betrone è il Cavaliere di Ripafratta, Paoli il marchese di Forlimpopoli, De Benedetti il conte d’Albafiorita, la Melato, ovviamente, Mirandolina, Marcacci è Fabrizio e Viarisio il servitore del cavaliere.
114 .s. d’a. [S. d’Amico], La riapertura dell’Argentina. «La locandiera» cit. Altri ne avevano apprezzato anche l’arguzia, la vivacità e perfino una sfumatura quasi caricaturale (s.i.a., L’inaugurazione del Teatro Argentina, in «La Tribuna», 11 novembre 1918)
115 .m.c., «Così è (se vi pare), di L.Pirandello all’Argentina, in «La Tribuna», 16 novembre 1918.
116 .Sp., «Così è (se vi pare), di L. Pirandello all’Argentina, in «Avanti!», 16 novembre 1918.
117 .C. Casella, Teatri di Torino, in «L’Arte drammatica», 6 ottobre 1917, p. 1.
118 .s. d’a. [S. d’Amico], Maria Melato, in «L’Idea nazionale», 16 dicembre 1918 cit.
119 .[S. d’Amico], Maria Melato, in «L’Idea nazionale», 13 giugno 1919.
120 .s. d’a. [S. d’Amico], «Tristi amori» e la Compagnia Talli all’Argentina, in «L’Idea nazionale», 5 novembre 1921. Il corsivo è nostro.
121 .S. d’Amico, Pirandelliana, in «L’Idea nazionale», 11 ottobre 1921.
122 .Così, per fare ritorno al sopra citato articolo su Maria Melato del 1918, d’Amico dopo aver manifestato la sua perplessità per i momenti in cui l’attrice mostra troppo di recitare, commenta «Tuttavia bisogna aggiungere subito ch’ella è pronta a liberarsene con un colpo d’ala improvviso, non appena trovi uno sbocco donde aprire il varco alla sua umanità»: s. d’a. [S. d’Amico], Maria Melato, in «L’Idea nazionale», 16 dicembre 1918 cit.
123 .«Col tramutarsi molto, si arriva inevitabilmente, in troppi casi all’artificio: Maria Melato lotta con eroismo contro questo artificio. La vince sempre? Non può vincerla sempre. È perciò che talvolta ci è accaduto di notare in lei una maniera, una composizione di gesti e di toni, certi smorzamenti di voce, squisiti ma lievemente artefatti, in cui udivamo con compiacenza l’attrice, non sentivamo in comunione immediata la donna»: Ibid.
124 .Il rammarico di d’Amico in questi anni è ancora una volta, come anche nel caso di Ruggeri, per un repertorio dal suo punto di vista poco convincente e poco adatto al temperamento di attrice tragica della Melato: in particolare lamenta l’assenza di Shakespeare, Ibsen, Hebbel e D’Annunzio (eccetto la Gioconda): [S. d’Amico], «La falena» in onore di M. Melato, in «L’Idea nazionale», 6 giugno 1920.
125 .Ibid. I corsivi sono nostri.
126 .e.p. [E. Possenti], Due novità al Manzoni per la serata di Maria Melato, in «La Perseveranza», 16 febbraio 1915.
127 .«Ella recitava perché era assetata di vita, perché non poteva [sic] a meno di prodigare il meglio di se stessa agli altri, perché comunicare, espandersi, prorompere con tutte le sue forze a scuotere, a esaltare, a travolgere in un unico sentimento centinaia di spettatori era il solo modo di placare il suo ardore di donna»: E. Possenti, Commemorazione di Maria Melato e Dina Galli, Milano, Accademia dei filodrammatici, 1951, pp. 3-4.
128 .M. Bontempelli, Maria Melato, Milano, «Modernissima» casa editrice, 1919, p. 19: qui Bontempelli sta citando se stesso in un articolo, di cui non conosciamo gli estremi, scritto cinque anni prima.
129 .A. Varaldo, Fra viso e belletto. Profili d’attrici e d’attori cit., p. 161.
130 .s. d’a. [S. d’Amico], Maria Melato, in «L’Idea nazionale», 16 dicembre 1918 cit.
131 .Ibid.
132 .[S. d’Amico], La «Gioconda» al Valle in onore di M. Melato, in «L’Idea nazionale», 27 febbraio 1921.
133 .s. d’a.. [S. d’Amico], Le recite all’Argentina. «La Gioconda», in «L’Idea nazionale», 13 novembre 1918.
134 .A. Varaldo, Fra viso e belletto. Profili d’attrici e d’attori cit., p. 164.
135 .s. d’a. [S. d’Amico], Maria Melato, in «L’Idea nazionale», 16 dicembre 1918 cit.
136 .s. d’a. [S. d’Amico], «Quella che t’assomiglia» di Cavacchioli all’Argentina, in «L’Idea nazionale», 9 aprile 1920.
137 .Id., «Anfissa» di Andreev all’Argentina, in «L’Idea nazionale», 9 ottobre1919.
138 .«Maria Melato è una dei due o tre attori italiani che oggi possano dire la prosa di D’Annunzio»: [S. d’Amico], La «Gioconda» al Valle in onore di M. Melato cit.
139 .s. d’a. [S. d’Amico], Le recite all’Argentina. «La Gioconda» cit.
140 .[S. d’Amico], La «Gioconda» al Valle in onore di M. Melato cit.
141 .s. d’a. [S. d’Amico], Maria Melato, in «L’Idea nazionale», 16 dicembre 1918.
142 .E. Bertuetti, Ritratti quasi veri. Melato, in «Il Dramma», 1 agosto 1935, p. 30.
143 .p. g. [P. Gobetti], Maria Melato, in «L’Ordine nuovo», 30 giugno 1921, ora anche in P. Gobetti, Scritti di critica teatrale cit., p. 313.
144 .s. d’a. [S. d’Amico], «Anfissa» di Andreev all’Argentina, in «L’Idea nazionale», 9 ottobre 1919. Anche Polese sull’«Arte drammatica» ha parole di elogio per Talli «una fusione, un affiatamento, una tale cura nei dettagli che solo un maestro può ottenere»: Pes [E. Polese Santarnecchi], Cronaca dei teatri milanesi. Anfissa all’Olimpia, in «L’Arte drammatica», 2 agosto 1919, p. 1. Nel 1921 poi, in occasione della recita di Anfissa da parte della compagnia Talli in cui la Melato è ormai sostituita da Maria Letizia Celli, ricorda ancora il successo dell’anno precedente e conferma l’abilità e la cura della direzione di Talli il cui gusto «per i caratteri di eccezione, per le macchiette aspramente marcate, per le note grottesche» danno allo spettacolo «una sorta di fascino» , una «strana poesia»: [S. d’Amico], «Anfissa» all’Argentina, in «L’Idea nazionale», 7 aprile 1921.
145 .s. d’a. [S. d’Amico], «Anfissa» di Andreev all’Argentina cit.
146 .Già nel 1920 la Melato inizia a prendere le distanze dalla compagnia: nel giugno chiede e ottiene tre mesi di riposo e Talli decide di proseguire la stagione di spettacoli anche senza la sua prima attrice. La Melato da allora non tornerà più a recitare fino al marzo dell’anno successivo quando esordirà con la sua nuova compagnia al fianco di Piperno.
147 .Posizione questa forse stimolata, e certo confermata, dalle parole della stessa Melato che per esempio in una lettera inviata al critico poco prima di lasciare il maestro Talli scrive: «dovendo perdere disgraziatamente fra pochi mesi il mio maestro, il signor Talli, avrò bisogno di persone amiche che mi sorveglino con la loro intelligenza, col loro buon gusto, con la loro profonda osservazione e mi diano, sia nella lode che nel biasimo gli incoraggiamenti e gli ammaestramenti di cui noi, che non possiamo avere sempre l’esatto controllo sulle nostre facoltà, abbiamo estremo bisogno», Lettera a Silvio d’Amico, 9 maggio, conservata al MBA, Fondo d’Amico, sezione «Corrispondenza».
148 .Relazione della Commissione straordinaria per le arti musicale e drammatica a S.E. il Sottosegretario di Stato per le antichità e belle arti, estratto del «Bollettino ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione» n. 7 del 1° luglio 1920, p. 3.
149 .Ibid.
150 .Relazione della Commissione permanente per le Arti Musicale e Drammatica a S.E. il Sottosegretario per le Belle Arti on. Rosadi, Estratto del «Bollettino ufficiale» del 24 luglio 1921, p. 2.

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