10. Il Nulla è qualcosa?
p. 72-83
Texte intégral
10.1
1Volendo ricercare le figure della personificazione della Morte nel cinema, dalla Stanca Morte di Fritz Lang alla Morte giocatrice di scacchi di Ingmar Bergman, si è colpiti prima di tutto dal fatto che i suoi interpreti siano attori, uomini, anche se qualcuno ha giustamente osservato che, almeno nel caso di Bergman, Bengt Ekerot (mantello nero che ne fascia il corpo, a eccezione del volto bianco...) ha più l’aspetto di uno spettro, senza precise connotazioni sessuali, ma subito dopo, se solo si passano a considerare alcuni precedenti teatrali, non ci si può non imbattere nell’archetipo di Thanatos, il giovane dio vestito di nero, armato di spada, dell’Alcesti di Euripide, con tutte le sue numerose riprese e varianti, anche moderne: si pensi, tanto per fare qualche esempio, a Rilke (in poesia) o ad Alcesti di Samuele di Alberto Savinio.1 Nel cinema, la storia di Alcesti non ha trovato, a mia conoscenza, alcun riferimento preciso, anche se si ha notizia d’una riduzione del 1956 (forse per la televisione) di Antonello Falqui (film di cui non so niente). Malgrado ciò, credo valga la pena di soffermarcisi un attimo, soprattutto pensando all’idea di Pasolini dell’assoluta equivalenza tra “essere morti” ed “essere vivi”, quale emerge chiaramente alla fine del medio-metraggio “comico” La terra vista dalla luna (1967).
10.2
2L’Alcesti di Euripide, come si sa, è la sposa del re Admeto, il quale, ospitando Apollo temporaneamente esiliato tra i mortali, aveva ottenuto dal dio il privilegio di non morire, quando sarebbe venuta la sua ora, se solo avesse trovato qualcuno disposto a sostituirlo nella morte. Alcesti è talmente innamorata di lui da essere l’unica ad accettare, per amore, di morire al suo posto. Verrà poi riportata in vita da Ercole, che la strapperà all’Ade, riconsegnandola ad Admeto. Una tragedia (eccezionalmente) a lieto fine, dunque, per quanto non priva di ambiguità: si ha l’impressione, infatti, che l’Alcesti rediviva somigli troppo a un malinconico fantasma taciturno, più che a una donna, come se ella fosse rimasta in qualche modo delusa dalla speranza che Admeto rinunciasse al suo privilegio. Diciamo che Admeto non fa certo bella figura ad accettare, pur mostrandosi addolorato, il sacrificio della moglie, e del resto non fa bella figura neanche a chiedere, prima, un sacrificio analogo ai vecchi genitori (che rifiutano) e al suo più caro amico (che prudentemente si eclissa).
3Il punto che interessa qui però è un altro. Per il suo sacrificio, Alcesti pone ad Admeto una sola condizione: che lui le prometta di non risposarsi mai, di fare in modo che mai i loro figli debbano cadere sotto le grinfie di una matrigna. Admeto promette piangendo, ma aggiunge una considerazione piuttosto strana: vorrà dire che si farà costruire una statua, un simulacro perfettamente somigliante ad Alcesti, e giacerà con esso nel talamo nuziale, in modo d’illudersi, magari per un attimo, di avere ancora la moglie accanto. Se vogliamo, insomma, già ad Admeto balena l’idea di una sorta di equivalenza, sia pure illusoria, tra Alcesti viva e il suo simulacro.
10.3
4A quale simulacro pensa Admeto? Probabilmente a una statua di pietra o di legno. Se fosse vissuto qualche secolo più tardi, avrebbe potuto pensare a un manichino di stoffa, di cera o di ceramica, a una bambola a grandezza naturale del tipo che si fece approntare Kokoschka, con le fattezze di Alma Mahler, oppure di quelle che l’Archibaldo De la Cruz di Ensayo de un crimen o il Julienne Davenne della Camera verde, incapaci di sopportarne l’inquietante perfezione, inesorabilmente finiscono per bruciare. Un Admeto dei nostri giorni, poi, forse avrebbe addirittura pensato a una bambola gonfiabile di plastica o al silicone. E perché no a una fotografia formato gigante o a un filmino familiare, da vedere e rivedere ogni volta prima di addormentarsi?
5Il punto è che già allora Admeto avrebbe potuto collocare nel suo letto un ritratto pittorico di Alcesti, invece che una statua: se non ci pensa, è perché ha necessità di avere accanto a sé qualcosa che, se pure privo di movimento, abbia almeno volume. Dunque la bambola di Kokoschka, eventualmente, sì, un filmino familiare no, perché avrebbe movimento, ma non volume.
10.4
6Qual è, di fatto, il ruolo della bambola come feticcio erotico? Si pensi ancora a quella di Kokoschka. Nel giugno del 1918, sebbene fosse ormai passato qualche tempo da quando Alma Mahler l’aveva lasciato, il pittore scrisse una lettera a Hermine Moos, fabbricatrice di bambole a Stoccarda, per commissionarle una bambola a grandezza naturale, che riproducesse alla perfezione i lineamenti della donna amata e perduta. Le istruzioni di Kokoschka erano minuziose, corredate da schizzi e (naturalmente) fotografie.
7Fotografie ci sono rimaste anche della bambola (ma non si capisce bene di che materiale fosse fatta): una foto ce la mostra “nuda”, adagiata su una poltrona nell’atelier della Moos, gambe accavallate, i seni generosamente esposti, assieme alla sua creatrice che, inginocchiata davanti a lei, sembra intenta a controllare gli ultimi dettagli e, assieme, a sfidare una troppo automatica distinzione tra corpo “naturale” (vivente) e corpo artificiale. Sembra, in effetti, che la bambola percepisca lo sguardo della donna e lo ricambi, con una sorta di benevola degnazione…
8Sappiamo anche che della bambola, in quanto feticcio erotico, Kokoschka rimase in qualche modo deluso, finendo per utilizzarla solo come “modella artificiale”, per alcuni quadri e disegni, tra cui il famoso Autoritratto con bambola. Finché qualche anno dopo, durante una festa “d’addio”, di fronte ad alcuni amici convocati per l’occasione, simbolicamente la uccise (“versò il suo sangue”, cospargendola di vino rosso). Alma, nel frattempo, si era sposata per la terza volta – dopo Mahler e Gropius – con Franz Werfel.
9Ma che la bambola dovesse deludere Kokoschka, era forse inevitabile. Non tanto perché tutta la bravura dell’artigiana non era ancora in grado di riprodurre realisticamente la sensazione della carne, come accade p.e. ai giorni nostri con le real dolls, le bambole al silicone per adulti, anatomicamente perfette, quanto, all’opposto, perché il massimo di realismo allora possibile poneva comunque davanti agli occhi del desiderio, per quanto accecati, la questione del ce n’est pas ça: quel “grido”, come diceva Lacan, che distingue la jouissance ottenuta da quella attesa (Seminario xx, Encore, p. 101, al cap. ix intitolato, non a caso, Du baroque).
10Allora la bambola impersonerebbe proprio la delusione ontologicamente connessa, secondo Lacan, al rapporto amoroso, si porrebbe insomma come sostituto troppo evidente, feticcio troppo poco metaforico, fantasma troppo tangibile: significante appiattito, privato di quella sbarra invisibile, ma essenziale, che costituiva il fascino dell’“originale” perduto.
11E il filmino, allora? Come feticcio erotico, servirebbe poco ad Admeto, perché l’effetto dei filmini familiari, invece di reintrodurre in qualche modo un’illusione di presenza delle persone care scomparse, in genere è quello di ribadirne dolorosamente l’ormai irrevocabile assenza. Bisognerebbe riflettere sul fatto che qui emerge in pieno quel carattere spettrale delle immagini, spesso al limite dell’insostenibile (si pensi per esempio a Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi), che nel cinema mainstream resta sempre il più possibile dissimulato; e ciò in ragione delle stesse “imperfezioni” tecniche (riprese fuori fuoco, inquadrature “sbagliate” ecc.) che il filmino familiare spesso presenta, tanto da poter sostenere, in altre parole, che l’effetto di presenza più sconvolgente è prodotto proprio dalla percezione dell’assenza, non mascherata dalle bellurie cine-fotografiche.
10.5
12In La terra vista dalla luna, Ciancicato Miao e Ciancicato Baciù, padre e figlio (Totò e Ninetto), due poveracci alla ricerca di una moglie per il genitore rimasto vedovo, a un certo punto si imbattono in una bellissima ragazza bionda, del tipo nordico. Si precipitano verso di lei, in modo che Totò possa chiederla in sposa, ma debbono rendersi conto, con rammarico, che si trattava solo di un manichino, che due operai caricano su un camion per portarlo via. Ci si può chiedere tuttavia se, senza l’intervento dei due operai, magari Ciancicato senior si sarebbe accontentato del manichino, visto che, subito dopo, non esita a chiedere in moglie una ragazza dai capelli verdi, bella ma sordo-muta, Assurdina (Silvana Mangano). Assurdina sposa Totò, si prende cura di Ninetto, sistema, rassetta e ripulisce la fatiscente bicocca in cui vivono, fino a renderla quasi accogliente. Poiché non siamo più in epoca di miti, non sarà chiamata ad alcun sacrificio, come quello richiesto ad Alcesti: morirà, ma per puro caso, per un puro scherzo del Destino, scivolando su una buccia di banana che la fa precipitare da una delle arcate più alte del Colosseo (dove avevano organizzato la scena d’un finto suicidio, per spillare soldi ai turisti compassionevoli e comprarsi una casetta un po’ più grande e bella). Eppure anche Assurdina torna dall’Aldilà, ammesso che ci sia mai stata, senza bisogno dell’intervento di alcun Ercole. Totò e Ninetto la ritrovano a casa, come nulla fosse stato, e dopo qualche attimo di terrore, comprensibile all’idea che si tratti d’un fantasma, debbono prendere atto della morale del film: «Essere morti o essere vivi è la stessa cosa».
13Ma in che senso? Qui dovremmo ricorrere alla rilettura che dell’Alcesti di Euripide fece Alberto Savinio in Alcesti di Samuele,2 pièce scritta nel 1949, in cui Alcesti è Teresa Gomez di Samuele, ebrea, sposata a Paul, funzionario in un Ministero nella Germania Nazista. Viene ingiunto a Paul di divorziare immediatamente, se ci tiene alla sua carriera, e Teresa decide di suicidarsi, annegandosi nelle acque del fiume Isar. Anche lei sarà riportata in vita, benché riluttante, non da Ercole, ma da Roosevelt, che è un altro fantasma, essendo anche lui nel frattempo (senza accorgersene) già morto. Un morto, dunque, riconduce tra i vivi una morta. I vecchi genitori di Paul, immobili, quasi mummificati, ai due angoli del palcoscenico, commentano la situazione. Il padre deplora la confusione tra i vivi e i morti, ma la madre osserva: «Vivi e morti si sono sempre confusi. Vivi che non sanno di essere morti e morti che non sanno di essere vivi».
14Essere morti ed essere vivi è la stessa cosa, nel senso, però, che solo la morte è l’evento significante, il montaggio finale che dà alla vita, come a un film, senso compiuto. Assurdina, come Alcesti rediviva, non sente e non parla. Sia lei che Alcesti, risalite dagli Inferi, ne hanno viste troppe. Troppe? Forse no, forse hanno intravisto una cosa soltanto, una verità che è meglio non rivelare, come dice ancora Totò/Jago, nelle vesti di marionetta, nell’altro cortometraggio “comico” pasolinianio (Che cosa sono le nuvole?), di cui abbiamo già parlato. Morire da un lato è facilissimo, dall’altro resta un’arte difficile, qualcosa da affrontare senza aver mai potuto provarla. Giustamente a Ninetto che, in Uccellacci e uccellini, chiede a suo padre quello che si prova a morire, Totò risponde un po’ stizzito: «E che ne so io? Che so’ morto qualche volta?».
15Della propria nascita non c’è memoria, se non oscura, della propria morte non c’è esperienza possibile, salvo quella, inadeguata, offerta dalla morte degli altri. Due fatti naturali, che il cinema può documentare fedelmente (nei documentari), risultano incomprensibili all’auto-coscienza, anzi, direi, a causa dell’auto-coscienza. Possibile sia esistito un mondo in cui non c’ero? Possibile che il mondo continui a esistere, quando io non ci sarò più? Possibile, si, anzi più che sicuro, e al tempo stesso inconcepibile, tanto è vero che Derrida ha potuto parlare della morte come della fine del mondo che si ripete ogni volta unica.
16Il mondo e la sua percezione vanno insieme. Se viene meno la percezione da parte d’un soggetto, viene meno il mondo, almeno per quel soggetto, che non c’è più neppure lui. Dunque non c’è nessuna mancanza, dopo la morte, per chi è morto: nulla manca all’assenza assoluta. Solo i vivi percepiscono l’assenza, o la sua minaccia.
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17Pochi hanno capito (tra questi certamente Dreyer) che il lavoro cui sottoporre il Corpo attoriale sul set non ha alcun senso (salvo eventualmente quello alimentare), se non mira a estrarre dal Corpo, anche “crudelmente”, la sua (quint)essenza, il che, poi, significa prefigurarne la morte.
18Da questo punto di vista, si giustifica in pieno l’accento che molti hanno posto sul tema dell’incarnazione in Dreyer. L’incarnazione, o meglio la re-incarnazione, il ritrovamento d’un corpo perduto, è precisamente il problema del cinema. Perciò in Ordet, ad esempio, la “resurrezione” di Inger, il rifluire della vita nel suo corpo a opera della Parola di Johannes il folle, per quello che sembra un miracolo, ma che Dreyer non riteneva necessario considerare tale, può porsi come il miracolo del cinema, la metafora d’ogni operazione filmica riuscita: trasportare/riportare la vita del Corpo (sublimato, ma apparente pur sempre come Corpo), dal set al film, ritrovarne lo spessore virtuale senza che necessariamente vada perduto nel passaggio.
10.7
19In Je t’aime je t’aime, di Alain Renais, il «nuovo Lazzaro» è Claude Ridder (C. Rich), che tenta il suicidio, mancandolo, e poi si lascia convincere a fare da cavia in un esperimento scientifico. Rinchiuso in una “Sfera”, una macchina del tempo dall’interno rossastro che ricorda una placenta, o una massa cerebrale, sarà rispedito nel passato a rivivere, come i personaggi della cage de verre in Locus solus, un minuto particolarmente significativo della sua vita, un incontro sulla spiaggia con Catrine (O. Georges-Picot), la donna amata (e odiata), mentre lui emerge dal mare, in tenuta da subacqueo. Solo che la macchina del tempo si inceppa: volente o nolente, Ridder comincia a viaggiare nella “memoria involontaria”, in quello che S. Arecco ha chiamato «un andirivieni osmotico» di circa sedici anni: «Il personaggio-cavia di Je t’aime je t’aime è proprio questa larva d’uomo che, sopravvissuto fortunosamente a un tentativo di suicidio, deambula, come tanti paradigmi resnaisiani, tra la vita e la morte, postumo a se stesso e agli altri, cadavre en permission libero ormai di abitare situazioni spazio-temporali affatto alternative, aleatorie, metastoriche».3 La macchina del tempo è una trappola dalla quale non si esce, o non si esce altro che morti.
20Fino al momento in cui anche Catrine muore, uccisa da una fuga di gas, e Claude, devastato dai sensi di colpa, a sua volta si ri-uccide, raggiungendo la sua seconda morte, unico modo di sfuggire all’infernale meccanismo di mondi paralleli, tra i quali, altrimenti, sarebbe condannato a rimbalzare in eterno.
10.8
21In L’amour à mort, invece, Simon Roche (P. Arditi) muore davvero, a inizio film, anche se, per tranquillizzarci, è sempre possibile dire che non si era trattato altro che di una morte apparente. Poi torna a vivere, torna da Elisabeth (S. Azéma), sua moglie, attonita, incredula, discendendo, appena un po’ stranito, i gradini della scala a chiocciola, nel loro casale di campagna.
Quel revenant che ridiscende quella spirale di scale, come se nulla fosse, tenendosi solo un po’ la testa, come avesse accusato un malore passeggero, quel “Lazzaro” che sarebbe pronto lì per lì a riprendere come se nulla fosse la vita di poco prima, se non lo trattenesse lo sbalordimento di Elisabeth, è uno dei cadavres exquis più micidiali, anzi, sicuramente il più micidiale, tra i tanti disseminati da Resnais nella sua opera, per il semplice fatto che è un vero cadavre.4
Come tale, appare via via, nel film, sempre più stremato ed esangue; se riprende a vivere (nel presente, non nel passato), vive “in tono minore”, in corrispondenza alle stimolazioni che certi segnali esterni riescono a fargli giungere: la sua è una vita che presenta soluzioni di continuità, intervalli di catatonia, proprio come quella dei personaggi “lazzariani” ipotizzati da Cayrol, che in questo senso Gruault (già sceneggiatore della Camera verde di Truffaut) qui riprende.
22Queste soluzioni di continuità sono rappresentate visivamente da intervalli neri, a volte completamente tali, più spesso solcati da una specie di pulviscolo o nevischio, uno sfarfallio di fiocchi bianchi (che si ritrovano, connotati però più realisticamente proprio come neve, anche in un altro film di Resnais, Coeurs). Sarebbe ridicolo affermare che con questi strani inserti (ce ne sono ben cinquantadue, sottolineati dagli interventi sonori di Hans Werner Henze), Resnais intenda accennare a temporanee visioni dell’aldilà, attribuibili a Simon, tanto più che la scansione continua anche dopo la sua seconda, definitiva morte. È certo, però, che la vita del morto vivente appare punteggiata da queste pause, da questi strappi, da queste intermittenze, che sottraggono anche il film alla routine della continuità.
23Se Artaud sosteneva «Niente esige di esistere, quanto un morto», il morto vivente Simon esige invece di morire, di tornare a quella condizione nella quale, all’inizio, si era trovato: come tale, se ne sta spesso sdraiato o seduto, immobile, quasi catatonico, sempre più stanco e pallido, appoggiato a un muro, disteso sul letto o sul divano, senza che il fuoco del caminetto riesca mai a scaldarlo, senza che riescano mai a rincuorarlo i discorsi edificanti della coppia di amici pastori protestanti, Judith (F. Ardant) e Jérome (A. Dussolier).
24Sul limitare della morte, già una volta varcato, la sua vita rimane in bilico, come la moneta che a un certo punto viene lanciata in aria e volteggia sospesa per lunghissimi secondi, evocando a un tempo la scommessa pascaliana e la sua impossibilità.
25Quando Simon ri-muore, forse (è l’ipotesi di Arecco) Elisabeth muore con lui, seguitando ad apparire nel film come fantasma. D’altra parte, ella apprenderà che Simon aveva già tentato il suicidio, anni prima, insieme all’amica Judith, e dunque la sua morte effettiva e definitiva sarebbe addirittura la terza.
10.9
26Se si intende revenant come fantasma, in senso stretto, allora la giornalista Marie Lelay di Hereafter non lo è. Tuttavia, essa torna, precisamente da un’esperienza di pre-morte, durante la quale ha provato inaudite sensazioni: grande serenità e quiete, assenza di gravità, visione a trecentosessanta gradi, senso di onniscienza e compresenza – e, al contrario, nessuna sensazione di tempo o di moto. Tutto questo il film, saggiamente, si limita a enunciarlo (soprattutto nel colloquio che Mary ha con la dottoressa che dirige la clinica in Svizzera), anche se non può fare a meno di visualizzare alcuni flash del preteso Aldilà, in cui figure indistinte, poco più che ombre, si muovono lentamente su uno sfondo di luce solarizzata. È uno sfondo, però, che conserva alcuni caratteri di affinità con l’universo subacqueo, in cui Marie è stata immersa. Dunque neppure qui Eastwood rinuncia a un’ambiguità generatrice di senso.
27A colpire in Hereafter non sono tanto questi flash (quelli di Marie, come quelli di George Lonegan, quando afferra le mani di soggetti che pretendono di ricorrere a prestazioni che lui vorrebbe fare a meno di fornire), quanto l’indagine sui meccanismi di ricaduta che l’esperienza di pre-morte può avere sui vivi che la hanno provata.
28Sui nuovamente vivi, possiamo dire? Ma è possibile, per loro, tornare a vivere nel senso usuale del termine, se non riconoscendosi e spalleggiandosi a vicenda, in quanto esclusi ed emarginati? Marie, in Hereafter, si trova a dover affrontare un’involontaria esperienza di morte in vita, nel senso che, come conseguenza di essa, perde il lavoro in televisione, mette a repentaglio i suoi contatti editoriali, è lasciata dal suo compagno ed è considerata quasi pazza. Tristezza, malinconia di un dono che è una condanna (alla solitudine), senso di essere fuori-posto, di Marie, di George, del giovane Marcus, fuori-posto tra i vivi, come tra i morti; senso di perdita irrevocabile che assale Marcus quando muore il gemello Jason, lasciandogli come unica eredità un berretto (sia pure dotato di qualità quasi magiche). Anche Marcus è un “morto in vita”, in quanto è morta la sua parte/Jason, e non potrà esserci lieto fine, per lui, se non prendendo atto che ormai non esiste più nessuna distinzione possibile tra i due gemelli: Jason è Marcus, Marcus è Jason. O meglio: Marcus non può essere Marcus se non è contemporaneamente anche Jason – non può essere il vivo, se non è al tempo stesso anche il morto.
10.10
29Riflettendo (in Tokyo-Ga) sul cinema di Yasujiro Ozu, Wenders ricorda che da ragazzo si chiedeva come fosse concepibile la nozione di Nulla, e poi in che modo fosse applicabile al cinema, arte del concreto, per concludere, forse, che il Nulla è irrappresentabile, ma è rappresentabile il suo incombere, il suo incidere progressivo sui corpi, l’avvicinamento alla fine, al grande Vuoto. Non per nulla, aveva seguito le ultime settimane di vita di Nicholas Ray (in Lampi sull’acqua), inaugurando quella che sarebbe poi diventata una specie di moda (filmare le ultime ore di un parente, un amico, una persona cara) e violando il famoso interdetto baziniano.
30Sulla tomba di Ozu è inciso soltanto l’ideogramma Mu (il Nulla, il Vuoto), ma già l’ideogramma stesso in questo caso fa problema, poiché deriva, a sentire gli esperti, dalla stilizzazione d’una balla di fieno sotto la quale viene acceso un fuoco. Un nulla concreto, dunque. Anche Wenders non può che inquadrare qualcosa di molto concreto e pesante, ossia la pietra tombale, così come per mostrare la Morte (in diretta) non si può farevedere che il suo concreto prodotto residuo (il Cadavere). Però non sono affatto sicuro che Mu sia traducibile indifferentemente come Vuoto o come Nulla: ci vorrebbe un esperto di buddhismo zen, per capire se la nozione di Vuoto non rappresenti invece proprio l’essenza del Pieno, o comunque nulla di negativo, secondo il famoso esempio dello spazio vuoto d’una stanza, che la rappresenta molto meglio delle pareti o della copertura. È innegabile, tuttavia, che dalle parole e dalle emozioni dell’attore Chishu Ryu e dell’operatore Yuharu Atsuta, vecchi compagni di lavoro del regista, emerge la consapevolezza d’una perdita irreparabile, d’un Vuoto che, in realtà, nulla potrà riempire. Atsuta piange, davanti alla cinepresa di Wenders, anche se si vergogna di piangere.
31I fantasmi familiari, certo, hanno sempre ossessionato Ozu (madri, padri, figli, fratelli, sorelle ecc.). Si potrebbe tentare (magari è stato già fatto) una genealogia di questi ruoli nei suoi film, ma una cosa è certa: il rapporto dei suoi personaggi a un universo familiare così configurato non può avvenire che nel segno della perdita, o del suo presentimento. In tal senso, il più grande regista di questo tipo di legami, è anche colui che ne ha mostrato spietatamente la radicale subordinazione al tocco meduseo del tempo. L’autunno eterno di tutte le stagioni mostra sempre, alla lunga, il suo inesorabile volto di pietra.
32Le inquadrature di Ozu, alla fin fine, si basano sugli stessi principi di stilizzazione del concreto sui quali si basano gli ideogrammi. Negli ideogrammi, però, non è sempre facile identificare il concreto originale sottostante alle diverse, spesso secolari stilizzazioni; nelle inquadrature di Ozu al contrario (come è del resto proprio al cinema in generale), il concreto si presenta nella sua immediatezza cine-fotografica e la stilizzazione (perseguita dall’autore/Ozu) non può mai cancellarlo del tutto: il Vuoto si cela nell’apparenza del Pieno.
Notes de bas de page
1 Seguo qui alcune suggestioni di Umberto Curi, Via di qua. Imparare a morire, Bollati-Boringhieri, Torino 2011. Per un primo, utile orientamento in proposito, cfr. anche Maria Pia Pattoni, Morte, lutto e resurrezione: riflessioni in margine all’“Alcesti” di Euripide, reperibile in rete.
2 Cfr. Gavino Piga, L’Alcesti di Euripide nell’Alcesti secondo Alberto Savinio, Accademia University Press, Torino 2016.
3 Sergio Arecco, Alain Resnais o la persistenza della memoria, Le Mani, Recco 1997, p. 107.
4 Ivi, p. 147. Sulle tematiche della morte apparente, della morte che non è morte, cfr. Jean Fallot, Cette mort qui n’en est pas une, Presses Universitaires de Lille, Lille 1993.
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La parata dei fantasmi
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